TORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA diretto da ACHILLE NERI e FASC. 1-2 Gennaio-Febbraio ANNO III. 1902 SOMMARIO G. ObercineR : I Liguri antichi e i loro commerci. Introduz. - Capo I: La Liguria anuca. (pag. j)* _ U. Mazzini: Un Malaspina di Villafranca omicida, (pag. 28) -t. .Sforza: Cronaclietta di Massa del Secolo XVI. (pag. 44) — Aneddoti: U. M.: Λ uovi documenti intorno a Caterina de’’ Medici e a Clemente VII. (pag. 61) — Bollettino bibliografico: Si parla di: Caffaro (A. N.) - S. Monaci (È. Donaver), PaK· 3 Annunzi analitici : Si parla di : G. Cogo, G. Jachino, A. Redaelli. J. Lanczy, (,. Boffito, C. Merkel, G. Cogo, M, Lonardo, A. Pellegrini, pag. 70 spigolature e notizie, pag. 75 — Cesare Paoli, necrologia (G. Biconi) pag. 78 Appunti di bibliografia ligure, pag. 79. DIREZIONE Genova - Corso Mentana 43-12 LA SPEZIA Società d’Incoraggiamento editrice AMMINISTRAZIONE La Spezia - Amministrazion* Γιρ. ni l·rancesco Zappa del Giornale · AVVERTENZE Il giornale si pubblica in fascicoli bimensili di 80 pagine. Il prezzo dell’ associazione annua è di L. 10 — Per Γ estero fr. 11. — I soci della Società Ligure di Storia Patria di Genova, e quelli della Società- d’ Incoraggiamento della Spezia godono di uno speciale abbonamento di favore a Lire SEI. La Direzione concede ai propri collaboratori 25 estratti gratuiti dei loro scritti. Coloro che desiderassero un numero maggiore di esemplari potranno trattare direttamente col tipografo. N.B. - In Genova il recapito dell’ Amministrazione è presso il Negozio librario del Sig. Stefano Chiappori di Bartolomeo, Via XX Settembre N. 16. PREZZO DEL PRESENTE FASCICOLO: L. 2,00 c GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA v Giornale storico e letterario DELLA LIGURIA DIRETTO DA ACHILLE NERI e UBALDO MAZZINI VOLUME III LA SPEZIA SOCIETÀ d’ incoraggiamento editrice MDCCCCII I LIGURI ANTICHI E I LORO COMMERCI INTRODUZIONE. La grande importanza commerciale di quel mare ligustico, che è guardato da Marsiglia ad occidente, dal golfo della Spezia ad oriente e da Genova nel centro, attirò per tempo l’attenzione dei dotti, alcuni de’ quali consacrarono tutt’intera la loro attività ad illustrarne lo sviluppo. Se però non è punto della storia medievale, riferentesi all’incremento commerciale di queste regioni, che non sia stato ampiamente studiato e discusso, altrettanto non può dirsi per ciò che riguarda 1' epoca antica. Pare che la febbrile attività di queste spiaggie, al tempo delle crociate e ne’ secoli che seguirono, abbia assorbito tutta intiera l’energia degli studiosi, che poco o punto si curarono di rintracciarne le origini, che si protraggono a’ tempi più remoti. Ma appunto perchè i commerci de’ Liguri ne’ tempi antichi non sono che i primi anelli di quella catena, che ci conduce alle battaglie della Meloria e delle Curzolari e all’attività marinara dei Genovesi nei più lontani porti del Mediterraneo e del mar Nero, e poi, di secolo in secolo, fino all’attuale movimento marittimo, credo di far utile cosa studiando i rapporti commerciali dei Li- ) 6 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA guri antichi con gli altri popoli, che costeggiavano il Mediterraneo, specialmente coi Fenici e coi Greci. Se non che la storia stessa degli antichi Liguri, storia che dovrebbe servir di piedistallo alle nostre ricerche, è frammentaria e poco conosciuta. Non è già che chiari ingegni non abbiano posto il loro studio ad illustrarne qualche singolo punto oppure le vicende di qualche speciale città, e che da queste indagini non sia derivato vantaggio grande alla scienza; ma un lavoro organico e completo sulla storia di tutti nell’ antichità, per quel ch’io sappia, non fu tentato ancora da alcuno. Per raggiungere quindi il nostro intento ci conviene costruire, per dir così, pietra a pietra tutto 1’ edifìcio storico fin dalle sue fondamenta, associando ad esso le ricerche sul sorgere, svilupparsi ed estendersi dei commerci presso i Liguri nell’antichità. Per nostra buona ventura i prodigiosi risultati paletnologici ed archeologici ci mettono in grado di studiare i primi abitatori della Liguria fin da quando essi mossero i primi passi nella civiltà, e di ravvisarne i rudimentali loro commerci, e di seguirne poi, coll’aiuto anche della tradizione, il rapido cammino fin che raggiunsero quel grado di civiltà, eh’ è segnato dal dominio romano, così che quello che avrebbe per sè un solo interesse regionale, ne offre invece uno generale, che ha attinenza colla storia dello svolgersi della umana civiltà. La circostanza poi che i popoli, coi quali i Liguri vennero prima a contatto, cioè i Fenici, i Greci, gli Etruschi, tengono un posto primario nella storia dell’antichità, servirà certo non poco ad ampliare la cerchia di queste modeste ricerche, e nel tempo stesso l’interesse per tutte quelle vicende, che si esplicarono, ne’ primi secoli, lungo queste spiaggie. Avendo nel mio lavoro sulle Guerre di Augusto contro i popoli alpini, trattando delle guerre dei Liguri alpini all’ epoca augustea, discusso tutte le fonti che si riferiscono alla storia antica di queste regioni, e parlato delle principali memorie moderne sul medesimo argomento, mi credo esonerato dal farne qui speciale menzione, riservandomi di citare nel corso di questo lavoro quelle opere, meritevoli di nota, che fossero uscite dopo la pubblicazione di quel mio lavoro, o che allora fossero sfuggite alla mia attenzione. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA / Capitolo primo. LA LIGURIA ANTICA. All’epoca di Augusto, per comune consentimento degli scrittori antichi, chiamavasi, sotto 1’ aspetto politico, Liguria, (Liguria (i), Liguris (2), Αιγουρία (3), Λιγυρία (4)) quella regione, che, per lo spazio di dugento e undici mila passi (5), si stendeva lungo il litorale, dal Varo aila Magra. Essa formava la nona regione italica. A questa, oltre al territorio marittimo ed al crinale dell’Alpi e dell’Apennino Ligure, che costituiscono 1’ attuale Liguria, era ascritta, in quel tempo, la regione piemontese fino al Po, nonché parte del territorio pavese, piacentino, parmense e della provincia di Massa e Carrara. Per cui solevasi dividere da’ geografi in due parti nettamente distinte. Strabone infatti parla separatamente di una Liguria mediterranea o cispadana (6), e d’una marittima (7); Plinio fa chiara distinzione de’ Liguri, eh’ erano di là dall’ Alpi e dall’ Apen-nino (8), da quelli che abitavano lungo la proxima ora marittima (9), e Tolomeo enumera a parte le città della Liguria δποκειμένη τοΧς Άπεννίνοις δρεσι (io), e quelle eh’erano παρά τον Λιγυστικόν πέλαγον (il). Non questi però erano i veri confini etnografici della Liguria, nè quelli che le erano assegnati dalle più antiche testimonianze, secondo le quali il popolo ligure avrebbe occupato un ben più esteso territorio. Di tutti i popoli del bacino orientale del Mediterraneo ad Esiodo sono noti soltanto i Liguri, se pure quei Ligi (Λίγυες), (1) PlIN., n. h., 3, 5, 7; II, 42, 97; 17, 2, 2; SUET., Claud., 17; Flor., 2, 3. (2) Tac., Hist., 2, 15; Agr., - (3) Tolom., 3, 1, 3. (4) Dioscor., i, 7. — (5) Plin., 3, 5, 7. (6) 10 p. 216. — (7) 2, 5, p. 128. — (81 3. 5, 7. — (9ì 3, 5, r. (10) 3, i, 45. — (ii) 3, i, 1, 3. 8 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA che, come afferma Eratostene (i), egli nomina insieme cogli Etiopi, e cogli Sciti, mungitori di cavalli, sono, come credesi generalmente, i Liguri. Però devesi, io credo, ascrivere in gran parte alla maggiore notorietà che i Liguri aveano sopra tutti gli altri popoli del bacino occidentale del Mediterraneo, se ne’ tempi più antichi era fatta di loro mezione più speciale che non d’ altri anche più illustri popoli, che contemporaneamente occupavano l’Italia e le regioni vicine ed erano essi presi a designare tutte le famiglie a loro affini per origine e simili per costumi, ma differenti certo di nome. Non v’ ha dubbio infatti che la posizione stessa de’ Liguri, di preferenza lungo le coste marittime, la tradizionale loro valentia nell’ arte del navigare e la loro speciale attitudine a’ commerci, che, maggiormente sviluppata in seguito, dovea di loro formare uno de’ più famosi e ricchi popoli navigatori dell’Europa, li abbiano per tempo resi noti alle altre nazioni più intraprendenti e che visitarono prima i porti del Mediterraneo occidentale, specialmente ai Fenici, e siano stati da loro considerati come i dominatori del medesimo. Non possono quindi che derivare da fonti fenicie le notizie che da alcuni geografi e storici greci ci furono conservate intorno alla estensione prodigiosa che questo popolo avrebbe avuto nella più remota antichità. Poiché certamente nè Euripide (2), che dà a Circe l’appellativo di Ligustica, nè Filisto Siracusano (3), nè Tucidide (4), che parlano di Liguri nella regione laziale e nella Sicilia, possono aver attinto direttamente tale notizia dalla tradizione orale, nè da fonti a loro vicine, se il movimento di popoli, al quale accennano, è avvenuto, secondo Filisto stesso, ot-tant’ anni prima della guerra troiana. E, nonostante tutti gli errori ed inesattezze, che Strabone (5) rimprovera ad Eratostene, deve avere avuto un sicuro fondamento nella grande estensione e potenza riconosciuta ai Liguri, in tempi remotissimi, l’asserzione di lui, che delle tre penisole, che si protendono nel Me- (1) In Strab., 6, p. 300. Esiod., (Ed. Lchrs), fr. 132, ΑΙίΚοπας, Λί-γυας τε 15s Σκύθ-ας ίππεμολγούς. (2) Strabone (i, 20, p. 2; ecc.) in più luoghi dà ad Euripide la taccia di pessimo geografo. (3) FH(1I., fr. 2. In Dionis. D’Altc., A. R„ 1, 22. (4) 6, 2. — (5) 2, i, p. 92. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA Ç diterraneo, e dalle quali sono rinchiusi i mari Adriatico e Tirreno, quella che segue, procedendo verso occidente, alla Peloponnesiaca e all’italica, cioè l’iberica, era denominata Ligustica (i), poiché non è certo alcuno, che voglia ritenere, che tale nome fosse conservato alla penisola ancora al tempo del geografo. In corrispondenza coll’ affermazione d’Eratostene sta quella di alcuni autorevoli scrittori greci e latini (2), che riterrebbero i Sicani diramati dai Liguri, oriundi dall’Iberia; quella di Avieno, che dai libri punici e dal Periplo d’Imilcone ricava, che il Guada-quivir usciva da un lago Ligustico, nonché quella di Stefano Bizantino, che ricorda una città Ligustina nel bacino del Guadalquivir, ed in rapporto colla grande estensione, ascritta ne’ tempi primitivi ai Liguri, starebbe pure 1’ affermazione di Artemidoro (3) e di Eustazio (4), che il loro nome derivi da un fiume Λίγυρος, ο Αίγυος. Dove fosse questo fiume essi non dicono, però non trovandosi alcun altro il cui nome più s’ avvicini a quello riferito da’ due autori, quanto quello del Liger (5), parrebbe che, nel loro concetto, i Liguri avessero anche abitato, in epoca remotissima, tutta la Gallia centrale. Così che par veramente che, quando i Fenici aveano l’incontestato dominio commerciale su tutto il 'Mediterraneo, tenessero i Liguri la preminenza su tutta l’Europa occidentale, e come tali fossero riconosciuti dai navigatori orientali, dai quali sarebbero derivate le notizie dei primi geografi greci, trasfuse e conservate confusamente in que’ scarsi frammenti posteriori di cui dianzi abbiamo fatto menzione. A quest’ èra primitiva, che appare dalle fonti sopracitate, una seconda si manifesta, nella quale i Liguri, ancorché estesi su più vasto territorio che non sia la Liguria dell’ epoca augustea, pure aveano perduto quel completo dominio su tutto 1’ Occi- (1) In Strajb., 2, p. 92, τρίτην Ss τήν Λιγυστικήν. (2) Tucii)., 6, i; Dior»., 5, 6; Dionis. d’Al., i, 22;Silio, 14, 34 seg. (3) In St. Biz., p. 422. (4) Negli scogli a Dionis. Perierg., 76. (5) La Loire ossia il Liger dei Romani (Caes., b. g., 3, 9; 7, 5; Lucan., i, 4, 39 ecc.) è detto Λείγηρ da Strabone (4. p. 189, 191, 193), Αίγειρ da Tolomeo (2, 7, 2) e Λίγρος da Dione Cassio (39, 40; 44, 42), onde pare che con esso vada identificato il Λΐγυος e il Λίγυρος di Artemidoro e di Eustazio. IO GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA dente. Liguri sono ancora ampiamente sparsi in tutto il sistema alpino, dove sopravvivono, col nome di Lebui (i), di Stoeni (2), di Taurisci (3), alle invasioni italiche, celtiche ed illiriche, che aveano occupato la pianura padana e gran parte della penisola italica. Liguri sono ancora, e si conservano fino a tarda età, su tutti e due i versanti delle Alpi Occidentali (4) e nella pianura taurinese (5). Lungo il litorale Mediterraneo, dalla parte d’ oriente, si fanno ancor giungere i Liguri fino all’ Arno, e da quella d’occidente fino al Rodano. Difatti Polibio (6) e-stende la Liguria, che non ha ancora ne’ greci autori la forma latina Liguria, ma chiamasi tuttavia Ligustica o Ligustina (ή Λιγυστική (7), ή Λιγυστίνη (8)), fino all’Arno, comprendendovi le città di Pisa e d’Arezzo. Di là dall’ Alpi, fino al Rodano, erano i Liguri transalpini (9), o ultra Alpes (io), distinti dai Liguri cisalpini (il), o citra Alpes (12). Siamo debitori all’essersi stabilite nel seno di quel dominio ligure, lungo la costa, le fiorenti colonie focesi di Massilia, Olbia, Antipoli e Nicea ed altre, delle notizie, che i principali storici e geografi greci ci lasciarono della Liguria. Dopo che connazionali greci aveano donato una nuova corrente di vita e di civiltà a quelle spiaggie, e s’ allacciano strette relazioni fra le colonie e la madre patria, ad esse rivolgesi più attentamente l’osservazione dei dotti. Onde a questo secondo periodo dell’ attività ligure, ristretta entro limiti più angusti, si riferisce, a mio credere, una seconda serie di fonti, non più, come le prime, di derivazione fenicia, ma bensì greche fin dall’ origine. E com’ è naturale, a quella parte del territorio ligure, dove s’ era insediata la fiorente colonia focese, Massilia, si rivolge di preferenza l’attenzione degli scrittori greci più antichi. Le loro notizie sono scarse e frammentarie, non tanto però da non (I) Liv., 5, 35 — (2) Liv., ep., 62. Strab., 4, p. 204 — 1 3) Plin., 3, 2,134. (4) Plin., 3, 7. Cf. Oberziner, Le guerre d’ Aug., p. 149 segg. (5) Strab., 4, 6, p. 204. (6) 2, 31, 4. In conformità a questa asserzione anche Giustino, 20, 1, scrive: Sed et Pisae in Liguribus graecos auctores habent. (7) Ecat., FHG., fr. 22; Sofocle in Dion. n’ Al., i, 12; Polib., 2, 31, 4; 3, 41, 4; Strab., 2, p. 128; 5, p. 203 ecc. (8) Polib., 7, 9, 6. — (9) Ltv., ep. 60. (10) Plin., 3, 5. (II) Liv., ep. 60. — (12) Plin., I. c. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA potersi far un chiaro concetto dei veri limiti del dominio ligure alla loro epoca. É già per sè abbastanza manifesto che, se Ecateo chiama Massilia (i), Monaco (2), Antipoli (3), città liguri, intende con ciò unicamente indicare che esse furono costruite dai Greci nel cuore del territorio ligure ; non lascia infatti dubbio che egli riteneva focesi gli abitatori della prima di queste città. Ma un frammento del geografo milesio è degno della massima attenzione, poiché da esso mi sembra dover arguire che, a’ suoi tempi, si ritenevano ancora per Liguri, oltre che gli abitatori del territorio gallico inchiuso fra il Rodano e le Alpi, anche quelli di tutta lAquitania. Egli mette di fatti fra i Liguri un popolo che egli chiama degli Elisici (Έλισύκοι) (4). Non credo d’ esser lontano dal vero nel ritenere che essi altro non siano che gli Elusates (5), che attorno alla loro città Elusa (6), ch’era a metà della via romana da Tolosa a Burdigala, si stendevano dalla Garonna ai Pirenei. In affinità con questi potrebbero ancor essere gli Elvi (Iielvii) (7) denominati Έλούϊοι, o Έλουοί da Strabone (8), che si stendevano dalle Cevenne al Rodano. Il nome della loro capitale Alba Helvorum (9) o Alba Iielvia (io), che corrisponde all’ odierna Alps, nelle vicinanze di Viviers, trovando riscontro nelle molte Albe liguri, mi sembra che tolga ogni dubbio che questa non sia, come ere-desi, una popolazione celtica, ma bensì ligure. Ciò sembrami maggiormente confermato da Erodoto (11), che, parlando d’una (1) FHG., I, p. 2, fr. 22. Ecateo, se chiama Marsiglia città della Liguria, nota però che gli abitanti sono Focesi. (2) FHG., I, p. 2, fr. 23. (3) FHG., I, P· 2’ fr. 24. Io ritengo che 1’ "Αμπελο;, πάλι; τής Λιγουστικής di Ecateo, in Stefano Bizantino, città ignota affatto non possa che essere, una scorrezione in luogo di Άντίπολt;. (4) FHG., I, p. 2, fr. 20; St. B. Έλισύκο'., 19-νος Α’.γύων. (5) Ces., b. g., 3, 27; Plin., 4, 19, 33. (6) Ci.aui)., in Rufin. 1, 537; Amm. Marc., 15, 11 ; Sin. Apoll., Ep , 7, 6; Tab. Peut.·, lt. Hieros., p. 550; CIL., XII, 3361 e XIII, 1, p. 72. Si trovarono le rovine dell’ antica città a dotai presso Eauze. Cf. d’AN-VILLE, Not, p. 289. (7) Ces., b. g., 7, 8., 64, 65 ; Plin., 3, 36. cf. CIL., XII. p. 336. (8) 4. 2. p. 190. — (9) Plin., 3, 4, 5. (10) PLIN., 14, 3. 4. Nella Noi. Imp. è detta Civitas Albensium. (h) “1 '75· 12 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA impresa di Terillo, tiranno d’Imera, contro Gelone, fra i combattenti in suo favore enumera i Fenici, i Libi, gli Iberi, i Liguri, gli Elisici, i Sardi ed i Corsi. Avieno (i) infatti dice esplicitamente che gli Elisici abitavano la Narbonese, gens Elesycum prius loca haec tenebant atqne Narbo civitas erat ferocis maximum regni caput. Ma che unicamente a questa regione non riferisse Ecateo 1’ abitazione degli Elisici, ce lo mostra il fatto che precisamente chiama Narbona έμπόριον και πόλις Κελτική (2), mentre gli Elisici egli denomina popolo ligure, onde pare che tutto il territorio racchiuso fra la Garonna e i Pirenei, cioè l’Aquitania e la Narbonese, egli ritenesse come dominio ligure. Del resto sebbene al dominio ligure non s’ascrivesse più quell’ estensione primitiva, di cui dianzi abbiamo parlato, denominandosi ormai col nome speciale d’Iberici gli abitatori della penisola Iberica, e di Celti quelli della Gallia centrale, e si ritenesse in generale il Rodano come confine occidentale dell’ elemento ligure, pur si riconosceva che nell’Aquitania esso era ancora predominante, ponendo lo Pseudo Aristotele (3) i Liguri fra i Tirreni e gl’ Iberi, e affermando lo Pseudo Scillace (4) che il litorale fra i Pirenei e il Rodano era abitato da Liguri misti ad Iberi, ed eran questi probabilmente gli Elisici de’ due surriferiti scrittori, e quello fra il Rodano e la Tirrenia da Liguri puri, perciò anch’ egli dice Marsiglia città dei Focesi àv τή Λιγυστίν^. Nessuno infatti fin da quei remoti tempi ignorava che il contado della colonia focese era sempre occupato dagli indigeni liguri, i quali in grazia della vicinanza alla greca città e-rano più chiaramente noti agli storici antichi. Erodoto (5) conosce qualche particolare della loro lingua, Soiocle (6) della loro posizione, ed Eschilo (7) spiega la formazione dei campi lapidei, fra il Rodano e Marsiglia, colla pioggia di pietre fatte (1) Ora mar., v. 584 segg. Intorno agli E/isyci cf. Herzoo., G. Ar., p. 4 e CIL., XII p. 521. (2) FHG., I, Ec., fr. 19. (3) Mirab., 92. — (4) Peripl., p. 2. — (5) 5, 9. (6) In Dionis. ij'Al., i, 12. — (γ) In Strab., 4, 1, p. 1S3. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA ere a Giove, in aiuto del figlio Ercole, che trovavasi a mal , °’ cornbattendo contro le invitte schiere dei Liguri, Λιγόων S N στΡατ°νι che gli contendevano il passaggio. otizie più precise, e sfrondate d’ ogni veste poetica e mi-° ogica, s ebbero di questi popoli, quando i Romani si misero iretti rapporti d amicizia con Marsiglia, e iniziarono una se-ne^i otte coi Liguri vicini; lotte il cui principio risale al 517 • · (-37 a. C.) e che poi, con varie interruzioni e vicende °gni genere, continuarono sino alla completa sottomissione tutti i Liguri a Roma (1). In seguito ad esse la regione ligure mutò, politicamente parlando, considerevolmente d’aspetto. 1 territorio fra 1 Arno e la Magra era già, staccato dall’ agro igure, considerato come parte integrale della regione etrusca ; nell Aquitania, e in tutto il territorio compreso fra la Garonna, i Pirenei ed il Rodano, era divenuto predominante 1’ elemento celto-gallico, il greco lungo la riviera fra il Rodano e le Alpi ; 1 Liguri della riviera, divisi in due parti distinte, Alpini e Montani, subirono sorti differenti ; la regione ligure, compresa fra l’Alpi e il Rodano, quella a ridosso delle Alpi e degli A-pennini, su tutte e due le sponde dell’alto Po, ebbero vicende e sorti politiche del tutto distinte, come già altre volte abbiamo avuto occasione di notare (2), e più chiaramente vedremo nel corso di questo lavoro. Insieme colle imprese romane e cartaginesi si venivano di pari passo svelando, ed erano esposte ne’ libri, le notizie più circostanziate intorno a queste regioni, dianzi conosciute solo superficialmente, e più per ciò che riguarda la costa che la parte continentale. Fabio Pittore prese egli stesso parte alle guerre contro i Liguri (3); egli ebbe quindi campo di esami- 1; Cf., a tale proposito, Oberziner, Le guerre di Augusto, n. 117 SC'™ ! \ S\ * (2) U. c., p. 112 segg., cf. W. H. (Bulloch) Hall, The Romans on the Riviera and thè Rhonc, p. 57 segg. (3) Deduco questa circostanza, non avvertita per lo innanzi da alcuno, da un passo di Plinio, n. h., 10, 20, passo che per la sua importanza credo opportuno riprodurre integralmente: Tradit Fabius Pictor in annali-bus suis, quum obsideretur praesidium Romanorum a Ligustinis, hirundinem a pullis ad se allatam, ut lino ad pedem eius alligato, nodis significaret, quoto dic advenienti auxilio eruptio fieri deberet. La forma Ligustini, anziché quella di Ligures comunemente usata da Plinio, oltre che GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA nare, col suo sguardo penetrante, il loro territorio e riportarne ne’ suoi annali la descrizione. Polibio seguì attentamente la marcia di Annibaie attraverso la regione del Rodano e delle Alpi, notandone le particolarità più degne di nota (i). Un nuovo campo di osservazione si aperse quindi agli eruditi. Monti, fiumi, torrenti, popoli, città, vie, porti, spiaggie ed isole, prima ignoti, o conosciuti solo confusamente, meglio si delineano nella mente dei dotti. Le Alpi (Alpes, ai "Αλπεις'), prima note solo come monti altissimi, quasi insuperabili, si cominciano a conoscere nel loro insieme e nelle loro più caratteristiche particolarità (2). Già si sa, o meglio si discute, dov’ esse abbiano principio, se cioè sopra Monaco, alla Turbia, come ritiene Polibio (3), o non piuttosto sopra Vada Sabatia, come vuole Strabone (4); si parla della derivazione del loro nome, delle vie che le attraversano, si conoscono le varie loro suddivisioni, le cime più elevate : nelle Alpi Marittime il Vesulus mons (Monviso) colla sua altissima punta piramidale, celsissimum cacumen (5; superantissimum ingum (6) e co’ suoi fianchi coperti di fitte boscaglie di pini (pinifer) (7) e dimora prediletta dei cignali (8) e colle fonti del rex flu-riorum(9); e il mons Cerna (la Caillole), donde scaturisce il Varo (10), confine d’Italia; l’Alpe Summa o Maritima (la Turbia), dove torreggiava, in seguito, il monumento della vittoria di Augusto sui popoli Alpini; nelle Alpi Cozie il Matrona mons (m. Génèvre) col- 1’ insieme della narrazione, mi fa ritenere che questo passo sia levato sen-z’ altro dagli annali stessi di Fabio. È quindi anche verosimile che da quest’annalista sia in gran parte dedotta la narrazione che fa Livio delle guerre contro i Liguri. (1) Quanto alle cognizioni che Polibio aveva, oltre che della regione massalioti ed alpestre, anche della riviera genovese cf. Grassi, Importante frammento di Polibio conservatoci in lezione alterata da Snida e mostrato relativo a Genova (in Atti della Società ligure di st. patria, vol. IV pag. LXXVI-LXXIX, e 471-490). (2) Per notizie più diffuse intorno alle Alpi in genere e alla geogralia di quella parte della regione ligure posta alle Alpi Marittime cf. Oberziner, o. c., pag. I, 5 e pag. 112, 121. (3) 2, 14, 16. — (4) 5, p. 211. — (5) Vekg., Aen., 10, v. 708. (6) Solin., 2, 8. — (7) Aen., 10, v. 709. — (8) Plin., 3, 16, 29. (9) Vero., georg., 1, v. 481. — (10) Plin., 3, 4, 5. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 15 1 ara alle matrone, e colle fonti della Durance (Druentia) e della Dora Riparia (Durìa minor) e reso famoso dal passaggio di Annibaie; nelle Alpi Graie 1 'Alpis Graia, o Piccolo S. Bernardo, e nellAlpi Pennine il Summus Poeninus o Gran S. Bernardo. Anche 1’ Apennino (Apenninus (1) ó Άπέννινος (2), τά Άπέννινα δρη (j)), come già da lungo tempo era noto nella sua parte centrale e meridionale, così ora è argomento di osservazione in quella parte, che, come un arco svolgentesi intorno al golfo di Genova, attraversa tutta la Liguria. Ivi esso ha principio, o al confine occidentale, come alcuni ritengono con Polibio (4), o presso Genova come crede Strabone (5). Si diffonde fin da’ suoi principi, nota Polibio (6), in varie diramazioni ; però nessuno de principali monti della Liguria è nominato dagli scrittori antichi. Solo le tavole itinerarie notano YAlpis Pennina o Apennina (7), che vuoisi identificare coll’ attuale Bracco (8), e la famosa tavola della Polcevera (9), che, come avremo in seguito occasione di notare più diffusamente, riporta la sentenza emessa a Roma, per definire le contese fra i Genuates e i Veiturii, nello stabilire il confine dei rispettivi confini, nomina parecchi monti emergenti lungo il corso della Polcevera, come i Lemu-rini montes, cioè quella catena di monti, che si stende sopra Isoverde, Cravasco e Pietra Lavezzara, ΐinfimus Lemorinus, le falde dei monti, ed il Lemurinus summus, il m. Luco (10) ; il (1) Mela, 2, 4, 1; Cic., Or., 3, 19; Phil., 12, 12; Cor. Nep., Hann,, 4; Viìrg., Aen. 12, 703; Liv., 21, 58; Plin., 3, 5, 7; Silio, 2, 314, 333. CIL., 5, 2, 886, — (2) Polib., 2, 14, 16, (3) Strab., 4, 6, p. 201, 211 ; Toi.om., 13, 1, 44, 45, xò Άπέννινον 5, 4, p. 231. — (4) 2, 14, 16. — (5) 4, 6, p. 201 — (6) 2, 14, 16. (7> La tav. Petit., in Alfe Pennino; GeogR. Rav., Apennina; in Alpe Pennino. (8) Cf. Celesia, Porti e vie strate dell’ ani. Liguria (in Riv. Contemporanea, vol. XXXI p. 197), Mannert., p. 283, e Forbiger, III, p. 554, identificano quest’ Alpi Peunine coll’ erta salita di Pauzono (forse Panzone), nel riferire il quale nome è certamente incorso errore. (9) CIL., 5, 2, 886. ( 10) Mi pare preferibile la spiegazione, eh’ io seguo in questo punto, di G. POGGI, (Genoa/i e Veiturii pag. 286) attento indagatore di tutta la topografia della tavola della Polcevera. Il Desimoni, La tav. di Polcevera (in Atti della soc. lig. di st. patria, voi. 3 p. 541) pone i Montes Lemuri ni nei colli di Langasco, l6 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA mons Procavus (m. Tacon); il mons Ioventio (la cima di Montaldo o il m. Giovo) (i) ; il mons Poblo, che trovasi, dice la tavola, sul sommo giogo degli Apennini (in montem Apeninum) (2) (m. Pesalovo); il m. Tnledo (m. Carmo); il mons Berigiema (Costiera delle Cassine); il mons Prenicus (pizzo di Pernecco); il iugus Blustiemelus (la costa di Pedemonte) ed il mons Claxelus (m. Croxevia). Solo il caso della controversia ira le due contermini comunità, e la successiva sentenza dei Minuci, nonché la fortuna d’esser venuta in luce la preziosissima tavola, che la riporta, ci fa conoscere il nome di monti, che non tengono che un posto del tutto secondario nella orografia ligure, mentre degli altri più elevati gioghi e passi dell’Apennino non ci fu tramandato il più piccolo ricordo. Dei fiumi, lungo la riviera ligure, pochi e di piccolo corso si riscontrano. Due di essi però ebbero fama nell’ antichità per aver successivamente formato il confine d’Italia, la Magra e il Varo. La Magra (Macra (3), Μάκρα (4), Μακράλλα (5)), fu confine fra l’Italia e la Gallia Cisalpina fino al tempo di Cesare, e confine poi fra la Liguria e 1’ Etruria, onde ancora Dante ebbe a dire : (1) Il Poggi, o. c., p. 242 segg. identifica il mons Iorventio col giogo o passo presso la cima di Montaldo, il Desimoni, o. c., p. 541, coll’odierno Giovo. (2) Mi scosto in questo particolare dal Poggi (o. c., p. 295 seg.) clic nel mons Apeninus vede un monte speciale, clic egli identifica col monte Capellino, poiché a questa spiegazione non si presta 1’ iscrizione che fa del Poblo e del mons Apent'mts un solo monte : in montem Apeninum quei vocatur Poblo. (3) Liv., 39, 32; 40, 41; Plin., 3, 5, 7; Flok., 2, 3; Lucah., 2, 4, 26; It. Ani., p. 501 ; Vibio SEQUENTE, p. 14, lo chiama Meiera o Megera, Liguriae secundum Lunam urbem. (41 Strah., 5, p. 222, confondendo il fiume con un territorio, scrive μεταξύ ìà Λούνης καί Πίσης ó Μάκρης έστ'ί χωρίον ; pare tuttavia che il greco geografo avesse ragione nel porre la Magra a mezzodì della città di Limi, essendo geologicamente provalo che quel fiume si gettava anticamente nel mare, dove oggi sbocca l’Avenza. Cf. a tale proposito, U. Mazzini, Uno scritto inedito di Gerolamo Guidoni circa il corso della Magra rispetto a Limi. (in Giornale storico e lett. della Liguria, num. 11-12 nov.-dic. 1900); ma il passo è corrotto. (5) Tolom., 3, i, 3. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 17 ..... Macra, che, per cammin corto, Lo Genovese parte dal Toscano. Poco prima del suo sbocco riceve la Vara, fiume noto agli antichi. Tolomeo^(i) lo chiama Βοάκττ,ς, gli Itinerari antichi Baron (2). È opinione de’ geologi che dai detriti della Magra siasi formata la spiaggia, che stendesi a mezzodì della sua foce, la quale col correr del tempo avrebbe leggermente cambiato di posto (3). Oltre che dall’esser stato il confine d’Italia, la notorietà di questo fiume era aumentata dall’importanza della città di Luni e del porto lunese che le erano da presso. Ma dell’una e dell’altra avremo fra poco occasione di parlare più diffusamente. Appena degni di menzione, sia per il breve loro corso, sia per la nessuna importanza storica, com’erano anticamente, così lo sono tuttora i fiumi che seguono, come 1’ Entella, la Έντέλλα (4) di Tolomeo, che suol identificarsi col fiume Lavagna, ed il Feritor di Plinio (5), il Plieriton dell’ itinerario antoniniano (6), che ritienesi comunemente per il Bisagno (7). Non così dobbiamo dire della Polcevera, la Porcifera di Plinio (8), la Procobera (9) della già citata tavola enea, e la Porsena dell’itinerario d’Antonino (io), la quale ebbe una speciale nomea, non solo perchè lungo il suo corso era tracciata la via Postumia, ma altresì perchè fu, quale parte di confine, 1' oggetto di controversia fra due tribù vicine, e di speciale osservazione da parte di chi fu chiamato a comporre le lotte eternate dal più importante monumento epigrafico antico di questa regione. Fra i suoi affluenti della sponda destra sono ricordati il flovms Ede, che tutti gli illustratori della tavola identificano col Verde. Esso riceveva un rivo (rivus infimus), che scaturiva dal fonte in Mattinicelo, nei piani ora detti di Marsen. Pare che oggi, per un avvallamento, il fonte sia disceso più in basso, dove ritrovasi un’ abbondante fonte detta Enicen, ed il rivo sia stato riempito (I) 3, I, 3. — (2 1 Ci. Celesia, Porti e vie strate ecc., pag. 197. 13) Cf. C. PROMIS, Dell’ aut. città ili Limi, pag. 28 segg. (4) 3. 1. 3· — (5) 3> 5. 7· — (6) J*ramni, pag. 531. (7) 11 suo nome si sarebbe tramutato in Bisagno, secondo il Celesia, Della topo*, prirnit. di Genova (in Giorn. della soc. di letture e convers. scientif. A. II, fase. 2, pag. 552) in causa dei due torrentelli che in esso si immettono. (8; 3. 5» 7· — (9) C!L- K 2> 886. — (10) Framm. p. 531. iS GIORNALE STORICO lì LETTERARIO DELLA LIGURIA dai detriti del monte (i). Più in su Γ Ede riceveva, e riceve tuttora, un altro affluente, il flovius Lemur, l’odierno rio d’Iso, nel quale sboccava il rivus Comberanea, cioè il rio Creùsa, risalendo il quale si giunge alla convalle Caeptiema (risque ad convalem Caeptiemam), cioè a Pietra Lavezzara, insellatura che ha il monte Cao a sinistra, il monte Bastia a destra, la valle della Creùsa a ponente e la valle di Pavèi a levante. Pare, contrariamente all’opinione generale, che conduce la via Postumia costantemente lungo la Polcevera, che per un piccolo tratto, facendo un percorso più comodo, abbandonasse la via diritta e passasse di qui (ibi termina duo stant circum viam Postumiani), per guadagnare alla Scrivia, presso Busalla, la linea comunemente ascritta a questa via. Al di là dalla convalle Caeptiema scorre il rivus Vindupale, il rio de Pavèi, che- mette nella Neviasca (in flovium Nevia-scam), cioè nel rio di Costagiutta, che alla sua volta entra nella Polcevera (in flovio Procoberam). Un terzo affluente della Polcevera, sulla sponda destra, è ricordato dalla tavola, cioè il rivus Vinelasca, il rio di Langen, vicino a Pontedecimo, alla cui confluenza, uno di qua, uno di là dalla via Postumia, che attraversava il rio, erano stati segnati due termini di confine fra i Genuati ed i Langensi. Degli affluenti della Polcevera sulla sponda sinistra sono ricordati dalla tavola il rivus Emseca, cioè il piccolo rivo della Madonna, che, uscendo dalla fontana d'Axi, il fonte Lebremelo della tavola, mette capo nel Ricò, come oggi è denominato dai conterranei il corso superiore della Polcevera. Il quale parecchio più sotto, non lungi da Morigallo, riceveva e riceve il flovius Tutelasca, che è 1’ odierna Secca, che nasce al monte I i) Paiecchi scrittori stranieri, come il Wolf e il Rudorf, e locali, come il Grassi e il Desimoni, hanno esercitato la loro erudizione intorno alla topografia della valle della Polcevera in rapporto colla famosa tavola di bronzo, che risale al 117 a. C. Ultimamente 1’ avv. G. Poggi, o. c., ne fece speciale argomento de’ suoi studi. Se non posso aderire alle sue conclusioni glottologiche e filologiche, devo invece sottoscrivere alle sue deduzioni topografiche, delle quali ho dovuto maggiormente convincermi in una visita fatta a tutti i luoghi citati nella tavola, in compagnia del sopralodato avvocato, al quale esprimo qui i miei ringraziamenti. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA ig Carmo, 1’ antico monte Tuledone e che riceve nel suo seno il flovius Veraglasca, cioè il torrente di Voie, che nasce e scorre dal versante opposto del medesimo monte. Procedendo verso occidente, lungo la Riviera di Ponente, gli scrittori e gli itinerari antichi segnano soltanto il Merula (i) od Aroscia, che, presso Albenga, sbocca nel mare, il Lucus (2), torrente di poca importanza e non ben conosciuto, la Tavia (3), o Taggia, la Rutuba (4) o Roia, il Paulo (5) o Paglione ed il Varo (Virus (6), Varum (7), Ούάρος (8)), riconosciuto dagli scrittori dell’epoca augustea come il confine d’Italia e più particolarmente della Liguria propriamente detta e della Gallia Narbonese (9). Esso discende dal m. Cerna (10), di cui precedentemente ho fatto cenno, seco portando gran copia di acqua nell’ inverno, e poca invece nella state; si getta nel mare presso Nizza alla distanza, secondo Strabone, di duemila e seicento stadi dal tempio di Venere Pirenea (11). Sebbene, come fu notato, questo fiume segni il confine della Liguria, quale provincia italica, ad esso non possono fermarsi le nostre indagini, poiché nell’epoca, nella quale maggiormente fiorirono i commerci dei Liguri antichi, non esistevano ancora queste così nette barriere, che dividessero i Liguri del golfo genovese e dell’ alto Po, dai loro connazionali d' oltr’ Alpe e d’ oltre Varo, poiché, sebbene lungo la costa si fossero stabilite le città greche, il territorio circostante rimase sempre predominantemente ligure, tanto più che non si può parlare del commercio del contado, che era certo animato dalle città litoranee, comunque d’ origine diversa, la cui influenza ampiamente si sentì anche lungo il litorale della Liguria di qua dal-l’Alpi, senza riferirsi all’originaria popolazione ligure. (I) Plin., 3, 5, ;. — (2) Tav. Peut. — (3) It. Aut., p. 503. (4) Plin., 3, 5. 7; Lucan., 2, 422; Vib. Seq., p. 11. Questi dice che la Rutuba sbocca in Tiberim. Dagli editori fu giustamente corretto in Tirrhcnum. (5) Mela, 2, 4, 72. — (6) Ces., b. e., 2 ; Plin., 3, 4, 5. (7) Mela, 2, 4, 72 e la Tav. Peut. (8; Strab., 4, p. 178, 184; Appian., b. c., 3, 61. (9) Strab., 4, 6, p. 204 e 205. — (io) Plin., 3, 5, 7. (ii) Strab., 4, 1, p. 179. 20 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Dalle foci del Varo fino a Marsiglia gli antichi notano soltanto il Vulpis (i), ora Loup; Γ Apron ("Απρον) (2), che alcuni identificano collo Sciagne, 1’ Argens ( Argenteum flumen (3), amnis Argenteus (4), Άργέντιος (5) ), ch’ entra nel mare un po’ ad occidente di Fortini Iuli, e che Tolomeo segna fra questa città ed Olbia, 1’ Haveaune (Ubelca) (6) nelle vicinanze di Marsiglia, e, dopo questa città, la Touloubre (Καινός (η)) ed infine il Rodano. Come ora, questo fiume (Rhodanus (8), ο 'Ροδανός (9)) anche nell’ antichità era considerato uno de’ più notevoli corsi d'acqua dell’ Europa. Alcuni scrittori notano solo che scaturisce dalle Alpi: Ammiano Marcellino (10), specializzando la cosa, Io fa nascere erroneamente nelle Alpi Pennine, e, non più esatto di lui, Tolomeo (11), mette la sua sorgente fra il Dubis e l’Isara. Apollonio Rodio (12) e Avieno (13) sbizzarriscono il loro estro poetico, circondando di immaginarie circostanze il suo corso. Per quest’ ultimo il fiume nasce da una profonda ed oscura caverna, posta ad una montana sommità, Columna Solis, donde le sue acque escono con tanta abbondanza da rendere il fiume navigabile fin dall’ origine. Strabone (14), come al solito più esatto, pone le sue scaturigini non lungi da quelle del Reno al monte Adula, lo fa scorrere ad occidente ed entrare nel lago Lemano. Scorre, per seguire la sua narrazione, con impeto e maestoso (πολύς καί σφοδρός) (15), . ed allorché esce dal lago ha già un alveo di sorprendente larghezza. Passa per le terre degli Allobrogi e de’ Segusiani, ed a Lione riceve 1’ Arare, volgendo con esso verso Vienna, dopo I I) Tav. Peut. — (2) Polib., 33, 8, 2. — (3) Cic., ad div., 10, 3.). (4) Plin., 3, 4, 5. — <5) Tolom., 2, io, 8. — (6) CIL. XI, p. 520. (7) Tolom., 2, io, 8. Tra il Caentis e 1’ Ubelca, il Desjakdins, (,'eogr. de la datile Romaine, I, p. 173, nota anche il Sequanus di Stefano Bizantino, che sarebbe 1’ Are. Altri invece identificano questo fiume col Connus. (8) 2, 5, 5; Silio, 3, 447; Ammian., 15, 11; Tav. Peut.; Plin., 3, 4, 5; Solin., c. 2.; TlBULL., i, 7, li; Claud. in Rii fui., 2, 112; Al’sON., de clar. urb., 7, 4; Vib. Seq., p. 17. (9) Polib., 3. 47; Diod., 5, 25: Strab., 4, p. 204. (10) 1. c. Cosi pure la tavola Peutigeriana. (11) 2, IO, 3. — (12) 4, 627. — (13Ì Ora mar., 623-690. (14) 4, 6, ]). 204. — (15) 4, 1, p. 185. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 21 aver ricevuto sulla sua sinistra sponda fiumi di primaria importanza e partitamente descritti dagli scrittori, come 1’ Isara, la Druna, la Druentia (i). Quello che più di tutto attirava 1’ attenzione degli antichi, come veramente attira quella de’ moderni studiosi, è lo sbocco del fiume, le famose bocche del Rodano. I decantati campi lapidei (2) (Πεδίον λιθ-ώδες) (3) e le fossae Marianae aggiungevano ad esse, già rimarchevoli per le molte diramazioni, e, come osserva Strabone (4), per i pesci fossili di quella spiaggia, un’ importanza mitologica e storica. Quanto ai primi, che oggi in lingua provenzale sono denominati la Crau piaine (5), erano noti anticamente per la loro abbondanza di sassi della grossezza d’ un pugno, che occupavano un territorio del diametro di cento stadi. Fra i sassi nasceva un’erba abbondante e di speciale bontà (6) per pascolare le pecore, e nel mezzo erano sorgenti d’acque saline e abbondante sale. La regione sovrapposta era perciò esposta al vento, με-λαμβόρειον, violento e terribile, dal quale erano trasportati e avvoltolati i sassi nella pianura, gli uomini cacciati giù dai loro veicoli, e denudati delle vesti e delle armi. Gli antichi cercarono anche di spiegare 1’ origine di questo fenomeno : Aristotele, come attesta Strabone, dice quelle pietre ivi portate da forze di terremoto; Posidonio crede che quello fosse originariamente un lago, e che le pietre fossero dalle ondulazioni e confricazioni ridotte ad egual misura, come s’arrotondano i ciottoli nel letto d’un fiume. Strabone ritiene che o l’una ο l’altra ipotesi sia la vera, non potendo essersi formate da sè le pietre in quella forma e misura. Altri, per spiegarne più facilmente 1’ origine, ricorsero alla mitologia, e perciò Eschilo a- (iì Credo inutile dilungarmi nella descrizione di ciascuno di questi fiumi, perché non corrono in territorio, sebbene ligure in origine, direttamente da me preso in esame, e perdi è ne ho già parlato altrove 1 Le guerre (/'/Ing., lib. 5) con diffusione. (2) Plin., 3, 5, 5. — (3) Strar., 4, 1, p. 182. (4) 4, i, p. 182. (5) Desjardins, o. c., I, p. 173. cf. Hall., o. c., p. 12. (6) Plin., 21, 31, 2, dice queste pietre coperte di timo. Il Desjardins, o. c. II, p. 195, dice elio tali erbe sono il mv-grass, cioè il provenzale iinrgaoii, e che ancor o»gi vi si alimentano 400,000 bestie da lana. ' 1 J £λΛ â&'Jf ιτιΧ 22 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA scrive, come già altrove notammo, quel fenomeno a forze sovrannaturali, essendo state quelle pietre bianche e rotonde mandate da Giove al figlio Ercole, al quale erano venuti meno gli strali per difendersi contro i Liguri, che gli impedivano il passaggio. Posidonio, con vero spirito di scetticismo, trovava puerile questa narrazione, poiché egli osservava, che se Ercole era privo di armi, anziché mandargli il padre Giove quelle pietre in loro sostituzione, poteva benissimo colle medesime uccidere e seppellire i Liguri; ma a Strabone queste sembrano osservazioni fuori di posto, perchè, egli dice, quando vogliasi disputare intorno alla provvidenza e al fato, in tutte le vicende umane si troverebbero cose che a noi sembrano poco ragionevoli, come ad esempio, egli osserva, sarebbe stato meglio che l’Egitto fosse reso fertile direttamente dalle pioggie, che non dal-l’acque che scendono dall’Etiopia, e che Paride fosse morto durante il tragitto, pittosto che giungere a rapire Elena, causa di tante stragi, delle quali Euripide fa colpa a Giove (i). Quanto aUefossae Marianae si conoscono le circostanze, nelle quali furono esse costruite dal generale romano. Mario, mandato nel 650 d. R. (104 a. C.) in Gallia, per riparare a’continui disastri recati dai Cimbri e dai Teutoni, mentre questi barbari, passati i Pirenei, erano intenti a devastare la Spagna, non solo diede opera ad organizzare 1’ esercito, e ad esercitare i soldati alla fatica, obbligandoli a lunghe marcie e a portare sulle spalle il loro bagaglio, guadagnandosi il titolo poco lusinghiero di muli Mariani (2), ma altresì facendo loro costruire alla foce del Rodano quel canale, che porta il suo nome. Osserva Plutarco (3) che, ricevendo le foci del Rodano molta materia sospintavi dalle onde del mare, rendendo così malagevole la navigazione e l’introdurre nel porto le necessarie provvigioni per 1’ esercito, tenne occupati i suoi soldati nel far scavare una (1) Strab., 4, 1, p. 183. (2) Plut., Mar., 13; Pseudo Frontino, 4, 1, 7. (3) Mar., 15; Cf. Solino, 2, 54 ; Mela, 2, 5; Plin.. 3, 5, 4; Tolomeo, 2, 10, 2, porta le fossae Marianae più ad occidente. Sulle varie <>-pinioni e la vera posizione delle fosse e del portus cf. Dksjakdi.ns. p. r.. II. p. 199 segg. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA protenda fossa, dove potessero navigare le barche di maggior grandezza, la quale congiungeva il fiume col lido del mare, dove meno imperversavano le correnti, rendendo per tal modo molto facile la navigazione alla foce del fiume. Questo canale fu in seguito da Mario donato ai Marsigliesi, in premio della proficua opera da loro prestata nel combattimento contro i Teutoni, ed osserva Strabone (i), che da esso ricavarono grandi ricchezze, più il dazio che facevano pagare alle navi che o salivano o scendevano nel mare per detto canale. Essendo esso sempre torbido per 1’ affluirvi del limo, ed il luogo nebbioso per la sua bassezza, i Marsigliesi, come in loro proprio territorio, vi costruirono, a richiamo de’ naviganti, delle torri, e nell’ isola, che stava in faccia allo sbocco, eressero un tempio ad Artemide Efesia. Di queste fossae rimarrebbero, secondo i geografi moderni, le traccie nel Canal d'Arles, col braccio orientale che volge verso Fos, che, allo sbocco, formava il fossae Marianae portus o le Στομαλίμνη di Strabone (2), 1’ odierno Estan de Γ Estonia, già in antico abbondante d’ ostriche e di pesci prelibati. Ora tutta la spiaggia alle foci del Rodano e il numero de’ suoi bracci furono dalle vicende fisiche considerevolmente mutati dall’ antico, non tanto però da non riconoscervi le traccie del primitivo loro stato. Ma a tale proposito gli scrittori antichi non andavano d’ accordo. Infatti Timeo (3), e come lui Diodoro (4), Tolomeo (5) e Avieno (6), annoverava cinque bocche del Rodano, di che lo riprende Polibio (7), che ne riscontrava solamente due. Artemidoro (8) ne contava tre, e con lui con-formavasi Plinio (9), il quale denomina Libyca ora le tre bocche in genere, la più occidentale Os Hispaniense, e Os Metapinum la più orientale. Strabone (10), ch“ alle cinque di Timeo aggiunge anche le fossae Marianae, ne conta sei, Apollodoro Rodio (11) sette, e infine Silio Italico (12) una sola. La diversità di questa enumerazione deriva evidentemente da ciò che alcuni notavano solo i rami principali, che si staccano dal corpo (1) 4, i, 8. —'(2^ L. c. — (3) In Strab., 4, 1, 8. 14) 5, 25. — (5) 2, IO, 2. — (6) Ora mar., v. 678. (7) In Strab., 1. c. — (8) In Strab. 1. c. — 19') 3, 4, $. (ιοί 1. c. — (11) 4. 643. — (12) 3. 450. 24 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA del fiume, ed altri anche tutte le loro diramazioni secondarie. La regione ligure mediterranea cisalpina era attraversata dal Po, (Padus (i), ó Πάδος (2)) 1’Eridano, Ήριδανός (3), dei Greci, il Bodincus (4), 6 Βόδεγκος (5), dei Liguri. De’ suoi numerosi ed importanti affluenti, quelli che bagnavano il territorio ligure erano, sulla sponda destra, i! Tanaro (Tanarus) (6), che, dopo aver ricevuto la Stura (Stura) (7), il Belbo (Fevos) (8), l’Orba (Urbs) (9), gettavasi nel fiume maggiore. Quindi la Scrivia (Olubria) (io) e la Staffora (Irid) (11), la Trebbia (Trebia (12) ò Τρεβίας (13)), famosa per la battaglia d’Annibale, e denominata da Plinio (14) Placentinus, perchè entra nel Po presso Piacenza, il Nure (Nura) (15), la Chiavenna (Clenna) (16), l’Arda (Hadra) (17), il Taro (Tarus (18) Taron) (19), la Parma (Panna), (1) Mela, 2, 4, 4, 5; Verg., Aen., 9, 680; Ovid., Am., 2, 17, 32; Liv., 5, 38; 33, 36; Plin., 3, 57; 15, 20; 16, 20; 17. 21; Tac., Hist., 2, 40; Flor., i, 13; 2, 6; Lttcan., 4, 134. (2) Polib., 2, 17; 34, 3; Strab., 4, p. 203, 204; 5, p. 209, 213; Plut., Caes., 20; Dioi)., 5, 23. (3) Pseudo Scil., p. 6; Diod., 5, 23; ZOSÌMO, 5, 37, e dietro l’esempio dei Greci lo chiamavano Eridanus, Vero., Geor., 1, 481; 4, 371; Prop., i, 12, 4; Martial., 3, 67, 2; Plin., 3, 16, 20. (4) Plin., 3, 16, 20, che lo spiega fundo carens. (5) Polib., 2, 16, 12. (6) Plin., 3, 16, 20; It. Aut., p. 109; Paolo Diac., 6, 58. (7) Plin., 3, 16, 20. Pare però che qui lo scrittore intenda parlare dell’ altra Stura, che entra nel Po sulla sponda sinistra. 18) Tav. Petit., la quale però fa sboccare il Fevos nel Po, anziché nel Tanaro. (9) Claud., b. g., 554. (10) La tav. Peut, pone 1’ Odubria presso Ina, perciò si identifica da alcuni col fiume fria di Giorn., b. g., 45. Altri invece ritengono che 1Ό-dubria od Olubria sia la Scrivia, e 1’ Irta la Staffora. (11) Giorn., b. g., 45. (12) Corn. Nep., Hann., 4; Liv., zi, 48, 51, 54, 56; Plin., 3, 16, 20; Sil., i, 47; 3, 575, 650; Lucan., 2, 64. 113) Polib., 3, 68; Strab., 5, p. 217. — (14) 3, 16, 20. (15) Geogr. Rav., 4, 36. — (16) Gf.ogr. Rav.’ 4, 36. (17) Tav. Peut. Nella tavola segue all' Arda un fiume Nigella, che alcuni identificano coll’ odierno Ongino. Ne! dubbio ho preferito lasciarlo. 11 Hi Plin.. 3, 16, 20. — (19) Geogk. Rav., 4, 36. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 25 (1) 1 Enza (Nicia) (2), la Secchia (Gabellus (3) Secies (4)), il Panaro (Scultenna (5), Σκουτάνας (6)), i quali ultimi, sebbene abbiano la maggior parte del loro corso nella Gallia cispadana, scorrendo da prima nell’ Apennino, fra i Friniates, appartengono perciò in parte al territorio ligure. Al medesimo, benché in senso largo, appartengono gli affluenti del Po sulla sua sponda sinistra, come il Chisone (Clisius) (7), là Dora Riparia (Duria minor) (8), la Stura (Stura), (9) l’Orco (Orgus) (10), la Dora Baltea (Duria Maior (11), (Δουρίας (12)), Duria Bantica (13)), la Sesia (Sessites (14), Sisido (!5))» 1’ Agogna (Agunia (16), Novaria (17) ), il Terdoppio (Victium) (18) e finalmente il Ticino (Ticinus (19) ó Τίκινος (2θ)), dopo il quale si entra nel campo prettamente gallico della Gallia transpadana. Non mi dilungo nel fare più estese descrizioni di ciascuno di essi, essendomene occupato di proposito in altro mio lavoro (21), al quale rimando quei lettori, che desiderassero avere più speciali notizie a questo proposito. (1) Geogr. Rav., 4, 36. La tav. Peut, nota un fiume Patita presso Parma, che certo è la Parma. (2) Plin., 3, 16, 20. Il Formger, Handb., III, p. 508, la identifica coll’ Enza; il Mannert, p. 1 10, col Crostalo. (3) Plin., 3, 16, 20. (4) L It. Hnos., p. 616, nota un Ponte Secies. Alcuni distinguono il Gabellus, che sarebbe il Gavecello, dalla Secies che sarebbe la Secchia. Così ad es. il Forbiger., o. c. III, p. 503. Altri invece ne fanno un solo fiume. (5) Plin., 3, 16, 20; Liv., 41, 12, 18; Paolo Diac., 4, 47, lo chiama Cultenna. (6J Strab., 5, p. 218. — (7, Tav. Peut. (8) Plin., 3, 16 20; Geogr. Rav., 4, 36. (9) Plin., 3, 16 20; Geogr. Rav., 4, 36. (10) lav. Peut.; Plin., 3, 16, 20; Geogr. Rav., 4, 36. (11) Plin., 3» 16, 20. — (I2) Strab., 4, p. 203. (13) Geogr. Rav., 4, 36. — (14) Pi.in., 3, 16, 20. (15) Geogr. Rav., 4, 36. — (16) Geogr. Rav., 4, 36. (17) Tav. Peut. — (181 Tav. Peut. (19) Liv., j, 34; 21, 39, 45, 47; Plin., 3, 16. 20; Silio, 4, 41, 82: 7> 31; CLATTI)., VI Cons Non., 195. (20Ï Polib., 34, 10; Strab,, 5, p. 209, 217. (21) Le guerre ii' Aug,, p. 115 segg. 26 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Il suolo della Liguria agli antichi (i) appariva per sè aspro ed infruttuoso, tanto che Livio (2) chiama questa regione montana et aspera et inops. I monti erano allora copeiti di densissime selve, con alberi di sterminata grossezza. Tutto ciò naturalmente si riferisce alla vera regione ligure, che è attorno al golfo di Genova; poiché il territorio posto di là dal-l’Alpi fu trovato sì fertile dai Focesi da piantarvi una colonia, e Strabone (3) stesso dice quel suolo ferace e ricco d oli-veti e vigneti, sebbene non atto alla coltura del grano. La spiaggia da Monaco all’ Etruria, secondo Strabone (4), era poco intersecata e priva di porti (προσεχής τέ έστι καί αλίμενος), ο possedeva solo porti atti ad ancorare navi di piccola portata. Sopra, egli dice, stanno monti alti e dirupati, che lasciano appena il passaggio lungo la spiaggia. Però non conviene prendere 1’ asserzione del geografo greco alla lettera, poiché è noto che anche nell’ antichità Luni, Genova, Savona, Albenga e Monaco possedevano porti abbastanza comodi e atti all’ ancoraggio delle navi. Quanto a Monaco, Io attesta lo stesso Strabone ("5), sebbene non fosse e non sia quel porto di grande importanza, ad Album Ingannimi trovò Magone porto adatto per ancorare le sue navi da guerra (6), ed a Vada Sabatia per custodirvi le navi, che avea catturato ai Romani (7) ; Genova era anche allora 1’ emporio di queste spiaggie, τό έμπόριον (8), e Luni era porto comodissimo e noto ai Romani fin da epoca remota (9), come in seguito avremo occasione di mostrare più chiaramente. Più propizie ancora erano le condizioni della spiaggia dal Varo al Rodano, ricca di buoni porti (10), dove trovarono ricetto colonie popolose, ricche e commerciali. Isole lungo la costa ligure non sono frequenti. Due erano all’imboccatura del Rodano, in Rhodam ostio (11), Metina (12) e lì/ascon (1) Strab., 4, 6, p. 202, (2) 39, i; Flor., 2, 19. — (3) 4, i, p. 180, (4) 4, 6, p. 202. — (5' 4, 6, 3, p. 202. — (6) Liv., 38, 46. (7) Liv. 29, 5. — (8) Strab., 4, b, p. 202. (9) Si sa infatti clic Ennio richiamava 1’ attenzione dei suoi concittadini sul porto di Luni. (10) Strab., 4, 1, p. 185. (11) Plin., 3, 5, 11. Anche Marziano Capella, 6 p. 206, scrive in Rhodani ostio Metina, qua e J’Iesconim vocatur. i 1 2 ) l'i.iv., 3, ή. li. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 2J (i). (Βλασκίον) (2). Esse sono ancor segnate nei portolani del secolo XVI col nome di Tmyas e Spigai (3) ; ora sono unite al continente, essendo stato dai detriti del Rodano riempito lo spazio, che le divideva dalla terraferma. Lo stesso dicasi del- 1 isola Agatha (Άγαθ-ή) (4), che era di rimpetto alla città del medesimo nome, cioè all’ odierna Agde. Procedendo verso oriente seguivano le Stoechades (5) (ai 2τοιχάδες νήσοι) (6) dette anche Ligustidi (Λιγοστίδες) (7), cioè le isole d’ Hyères, che, essendo nel tener di Marsiglia, erano chiamate Massiliensium insulae (8); infatti afferma Strabone (9) che erano abitate da Marsigliesi. Il greco geografo ne annovera cinque, tre grandi, che da Plinio (10) sono denominate Prote, Mese o Pomponiana e Hypaea, le odierne Porquerolles, Port eros e Isle du Levante, e due piccole, delle quaii non è riportato il nome, ma che forse erano due delle altre isole nominate da Plinio, cioè Sturium, Phoenice e Phila (Ratoneau e Promègne). Ivi era posto un presidio contro le invasioni dei corsari, erano fornite di buoni porti, e producevano rinomate erbe medicinali (11). Note erano anche le isole de Lérins, delle quali nominasi la Planasia (Πλανασ-α) (ι2), e Leron (13) (Λήρον) (14), ricche di villaggi, e in quest’ ultima era anche un sacello all’eroe Lerone; quindi altre di minor importanza. Lungo la spiaggia della Liguria italica sono isolette di poca importanza: la Gallinaria, presso Albenga, nota agli antichi per la quantità di gallinelle selvatiche, che alimentava (15), Γ isolotto di Bergeggi fra Noli e Vado, dove ancor oggi esistono i ruderi (1) Plin., 3, 5, 1 r ; Avien., Ora Afarii., 600. (2) Strajb., 2, p. 181; Tolom., 2, 10. 21. (3) Così p. e. nel portolano di Bartolomeo Oliva del 1584. Cf. Desiar-dins., o. c., II, p. 213. (4) Tolom., 2. 10, 21. — (5) Mela, 2, 7, 20; Plin., 3. 5, u. (6) Strab., 4, p. 184; St. Biz., p. 617. (7) Apoll. Rod., 4, 553; St. Biz., p. 617. (8) Tac., Hist., 3, 43. — (9) 4, t0) p_ ,j (11) Queste erbe erano dal nome delle isole chiamate στοιχάς o stacci,as. Cf. Plin., 27, 12, 107; Dioscor., 3, 38 e Galen. (,14) Strab., 4, p. 184; Tolom., 2, 10. 21. (15 Varrone, R. A’., 3; Coixmella, 8. 28 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA d’ un fortilizio romano, Γ isola della Palmaria, di fronte a Porto Venere, all’ estrema punta occidentale del golfo della Spezia, dove credesi esistesse un fortini Veneris, distrutto dal cartaginese Magone nel 549 di Roma, e presso ad essa 1’ isoletta detta del Tino (Tyrus major). Fra queste due estremità, Marsiglia ad occidente, Luni ad oriente, si stende sereno e tranquillo, come in una conca ai-tifìciale il mare ligure, così chiamato già dagli antichi, mai e Ligusticum, Ligurum aequor, Αιγυστικόν πέλαγος, Αιγυστιάς &λμη, nel quale fin da’ più remoti tempi vediamo svilupparsi i gei mi di quell’attività commerciale, che doveva, molto più lardi, innalzare alla più grande ricchezza e potenza marittima quella citta che, come regina di questo seno del mar Tirreno, vi rifulge nel mezzo. (contìnua) GIOVANNI OBERZINER. UN MALASPINA DI VILLAFRANCA OMICIDA i. Un’ azione criminosa commessa nel 1416 da un marchese Malaspina di Villafranca fu occasione alla conquista a mano armata di un numero considerevole di castelli della Lunigiana, in Val di Magra e Val di Vara, per parte della Repubblica di Genova. Tutti gli storici accennano a questo fatto di singolare importanza sulla storia della Liguria e della Lunigiana in ispccial modo; ma è facile avvedersi come la fonte della notizia sia una sola; un passo cioè degli annali di Giovanni Stella (1). Il Vicario della Spezia (2) — così racconta 1' annalista genovese — dovendo per certe faccende recarsi a Genova, lasciò (1) Annales Genuenses in RR. II. SS. XVII, 1267. Erra il Branchi (Storia d. Lunigiana feudale, II, 51) dicendo che il Giustiniani ό 1 istoria) genovese che ci ha serbato la prima memoria del fatto. Il Giustiniani compendiò lo Stella, e gli altri trassero poi la notizia dal suo libro, scritto in volgare, e divulgato per le stampe fino dal 1537. (2) La Spezia era governata da 1111 officiale del Comune di Genova, che aveva il titolo di ficarius Ripperiae orientis a l'etra Cotice crtra, usque ad Corvum et Spedine potestas, I.a sua giurisdizioni· era assai ampia, spe- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 2Ç in sua vece uno del paese, de’ maggiori sudditi di Genova. Questo luogotenente essendo un giorno uscito dalla Spezia per inquisire circa il fatto di certi pellegrini depredati, un giovane dei marchesi di Villafranca, attesolo ai confini del dominio genovese, mentre egli non sognava nemmeno di poter essere offeso da quei marchesi, proditoriamente lo ammazzò. Per un tal fatto grandemente sdegnato il doge Tommaso Campofregoso, mandò il 23 di febbraio a far vendetta di quella uccisione con molta gente armata il fratello Battista, capitano generale della Repubblica. Il quale, trovata poca resistenza in quei marchesi, facilmente s’impadronì di quindici de’ loro castelli, che furono Bru-gnato, Villafranca, Beverone, Stadomelli, Suvero, la Rocchetta, Castello, Virgoletta, Panicale, Santa Caterina, Licciana, Terra Rossa, Monte Vignale, Calice e Madrignano. L’ omicida potè fuggire e non fu preso; ma Battista ne sbandeggiò la madre e i fratelli tutti, che spogliò dei loro beni, e rase al suolo le fortezze conquistate, eccetto quelle di Brugnato, Stadomelli, Beverone e Villafranca; e tornato ai 15 di maggio in Genova, ebbe assai lodi da' suoi concittadini per quell’ impresa (1). cialmente nel criminale. Cfr. Giustiniani, Ann. G en. 1537, ctc. XXI: « la Republica la gouerna (la Spezia) per mano di vn Capitano, la iurisdition del quale massimamente sul criminale e larga & ampia, per che si stende su tutte le Podestarie circonstanti. Kt e questo vfficio vno de i tre vicariati principali di Genoa.» Giacomo Bracelli nell’epistola del primo aprile 144^ a Mavio Biondo, Descriptio orae hgusticae: «ea (Spedia) presidi sede constituta est ; ad quem quicquid litium oritur, a remotioribus etiam populis defertur. » (i) « Dum Vicarius Dominii Januensis Spediae residens pro quibusdam pei isputn agendis Januam accessisset, vice sui unum demisit incolarum Spe-diac ex Majoribus Ianuae subditis eas habitantibus partes. Sed quum extra Spediam ipse locumtenes V icarii ad scrutameli, qui peregrinos quosdam praedati fuerant, penexissct, juvenis unus ex Marchionibus Malaspinis Dominis Villae l· 1 ancae insana cogitatione deductus apud contines terminos Ianuensis Reipu-blicae praemissum Locum tenentem, qui ab ipsis Marchionibus nequaquam laedi spei abat, gladii peicussione mactavit. Arduum profecto scelus id asseritur Ianuae, quum Ianuensem, imo pro ipsius Urbis Dominio Rectorem occiderit, cuius occisor novissime Ducalis praetorii se familiarem ostenderat. Potente igitur appaiatu se prudens Ianuensis Dux accingit, inferre decernens ex eo formidinem delinquentibus, & dispendii ac poenarum exemplum. Fratrem ergo destinat ciica diem XXII b ebruarii, Baptistam videlicet Capi lancum generalem cum 30 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Ma Γ annalista 11011 ci ha conservato alcuna memoria del nome dell' ucciso nè dell' uccisore; del luogo e del modo del delitto, nè delle cause che lo determinarono. Ond' è che gli storici particolari dei Malaspina si studiarono di ricercare quale o quali fossero di quei marchesi gli autori dell’ omicidio; e di trovare il movente che li spinse a quell’eccesso. Primo il Por-cacchi, il quale incolpò dal misfatto i fratelli Anfrone e Spinetta figli del marchese Federico II, i quali, secondo lui, « haueuano crudel inimicitia, et mortale contro un Luogotenente del Vicario della Spetie: et procurauano molto di vendicarsi di alcune offese riceuute; et per questo con molti mezzi faceuano diligentemente spiare tutti gli andamenti di lui. » (1) L’ errore gros- Urbis belligeris stipendio (ruentibus, multisque juvenibus Civibus probis ad arma per eumdem Capitaneum postulatis. Et appellentibus ad ipsorum Mar-chionum Oppida non resistunt ejusdem Ianuensis exercitus fortitudine nota ; unde patent illorum oppidorum introitus, & eorum dominium quindecim numero per eumdem Baptistam assumitur, quorum ista nomina sunt : Brugnate, Villa-Franca, Beveronum, Stadamelium, Suvezum [leggasi Suverum], Rocheta, Castellum, Virgoleta, Panigalium, Sancta Catharina, Lizana, Terra Rubea, Mons Vignalis, Calix et Madrognanum. Priùs fugerat homicida, qui suae culpae occasionem dicebat, quum sibi foret aemulus ipse peremtus. Relegatur ideo mater ipsius delinquentis cum aliis natis omnibus, & oppidis privantur eisdem, quorum omnium dirutae sunt arces, nisi Brugnatis, Villae-I1 ranchae, Beveroni, Stadamelii. Hoc ergo talibus homicidis in speculum cedat. Rediens ergo praemissus Baptista Innuam die Dominico XV. Martii cum sua gente laudatus ingreditur, severa castigatione peracta, & cujus spes aderat, percepto triumpho. » (i) Historia dell’origine et successione dell’Hlustrissima famiglia Malaspina descritta da Thomaso Porcacchi da Castiglione Aretino, et mandata in luce da Aurora Bianca d’Este sua consorte. In Verona, mdlxxxv, presso Gir. Discepolo e fratelli, in-4, pag. 189. Il racconto dei Porcacchi seguita così: « Auenne, che l’anno 1416. essendo Doge di Genova Thomaso Fregoso, detto Luogotenente vscì vn giorno fuora della Spetie, per far vna esecutione contra alcuni delinquenti : onde andato vno di questi dve fratelli co ’l consentimento dell’altro con molti armati à quella volta, su i confini del territorio de’ Genovesi lo condusse à morte: il che tanto dispiacque al Doge di Genoua, che subito vi mandò Battista suo fratello con molta gente per vendicar quest’offesa. Andò egli à campo à Villafranca ; ma 11011 tremando luogo [forse lungtjX, nè possente contrasto facilmente si fece padron delle Terre de’ Marchesi: a’ quali tolse quindeci castella; cioè Villafranca, Brignallo [lìrugnatd], GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA L1GUUIA 3' • solano di cronologia in cui cadde il Porcacchi, e quelle sue vaghe parole sul movente dell’ assassinio, che evidentemente gli furon suggerite da quest’altre dello Stella: Prius Jugerai homicida, qui suae culpae occasionem dicebat, quum sibi foret aemulus peremtus, ci fanno persuasi che egli non ne sapesse nulla di nulla, e che si sia dato assai poco pensiero di rintracciare la verità. Altri dopo di lui, e sulla sua autorità, affermarono le stesse cose; come il Campi (i), Bonaventura De Rossi (2), e modernamente anche il Litta (3). Ma il Branchi (4) rilevò giustamente 1’ errore osservando che all’ epoca di che si tratta i fratelli Spinetta ed Anfrone eran morti ; che, fossero pure stati ancora in vita, nessuno di loro poteva essere sospettato di quell’ omicidio, perchè non satebbeio stati giovani come afferma l’annalista genovese del marchese omicida, nè avrebbero potuto, se non molto difficilmente, aver viva la madre, nè avevano fratelli da essere banditi dal Fregoso. Ma il Branchi, dopo aver esonerato dalla incolpazione di un delitto chi ne era innocente, a sua volta ne incolpò altri innocenti; perchè, riconoscendo nel Porcacchi « una certa accuratezza da questo scrittore dimostrata nell’insieme del suo lavoro », e sentendosi autorizzato « a prestargli quella fede che altronde in altri fatti si è meritato », non credette di dover distruggere in tutto l’asserto di lui; e riducendo l’errore ad un semplice scambio del nome della madre dei due marchesi, attribuì quel misfatto, anzi che a Spinetta e ad Anfrone, figli di· l'ederico II e di Elisabetta, agli omonimi pronipoti, figli di Fe- Beuerone, Stadamiglio, Suuerone, la Rocchetta, Castiglione, Virgoletta, Pani-caglio, Santa Catlierina, Lizzami, Terrarossa, Monuignale, Calice & Madrignano: & lu dato bando al micidiale, alla madre, & al fratello, & furon minate quasi tutte quelle Castella da quattro in Inora, eli’erano fortezze, Villafranca, Bri-gnallo, Beuerone e Stadimiglio. » (1) Successi memorabili ,/ì Lunigiana ctc. di B. Campi, MS. della Bibl. d. Miss. Urb. di Genova. (2 ) Annali di Lunigiana e suoi memorabili successi, MS. della Bibl. Palatina di Firenze,* 253, 254. (3) Famìglia Malaspina. Tav. IV. (4) Iìugenio Branchi, Storia (iella Lunigiana feudale, Pistoia, Beggi, •897, vol. II, pag. 51. \ 32 GIORNALE STORICO E LETTERARIO UKJLLA LIGURIA derico figlio di Spinetta (i). La variante si accorda con la cronologia, perché infatti nel 1416 que’ due marchesi potevan essere vivi ; ma forse eran troppo giovani ancora per meditare una crudele vendetta e compiere un assassinio. Il fatto sarebbe forse sempre stato avvolto nel mistero, ed erroneamente acquisito dalla storia, senza il documento che ora viene alla luce. Da esso ricaviamo in primo luogo che il luogotenente ucciso fu Oderico o Alderico Biassa, di nobile e cospicua famiglia della Spezia, affine dei Fregosi, che diede nel secolo XV e nella prima metà del XVI molti distinti capitani di terra e di mare. Oderico fu padre di Antonio, generale delle milizie liguri spedite al Duca di Milano, ammiraglio di Pio II, commissario nelle Cinque Terre per la Repubblica; avo del famoso Baldassare Biassa generale dell' armata pontificia sotto Giulio II, e di Gaspare pure ammiraglio di Innocenzo Vili, suo consanguineo, e tesoriere della Camera Apostolica in Perugia; proavo di Giovanni e Antonio, figli di Baldassare, il primo col padre al servizio di Giulio II e poscia di Leon X, il secondo al comando di galee pontificie di Leon X e poi capitano di molte insegne di Carlo V alla giornata di Pavia (2). Giovanni Stella con ragione disse adunque che il luogotenente del Vicario era uno incolarum Spediae ex Majoribus Ianuae subditis eas habitantibus partes. Ci resulta poi dal documento in parola che il Malaspina uccisore fu Gabriele, marchese di Villafranca e signore di Bru-gnato, discendente in linea diretta da Corrado l’antico, quintogenito di quello Spinetta cui il Porcacchi attribuì il misfatto, e fratello di quel Federico sopra i figli del quale, Anfrone e Spinetta, fu dal Branchi ultimamente riversata la triste responsabilità di quel crimine (3). (1) Op. cit. pag. 55, (2) Cfr. U. MAZZINI, Caterina de’ Medici e Clemente VII atta Spezia nel 1533, Appendice I, Della famiglia. Biassa, in Giorn. Star, e Lett. d. Liguria, Anno II, 1901, pp. 438 e segg. (3) Gabriele, sposatosi con Maddalena ili Giovali Iacopo Malaspina marchese di Lusuolo, continuò la discendenza de’ marchesi di Villafranca, e morì nel 1437. Sua madre Costanza, di famiglia rimasta ignota, era anche viva, secondo i genealogisti, nel 1412; ma viveva ancora nel 1416, se il Fregoso la metteva al bando insieme con i tìgli. I quali furono, oltre Ga- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 33 In un giorno del febbraio 1416 Oderico Biassa, luogotenente del Vicario Alerame Grimaldi, si recava a Zignago, terra del Vicariato in Val di Vara; per quali ragioni non appare dal documento. Giunto presso Brugnato, al di là del fiume fu assalito e ucciso dal marchese Gabriello con quattordici scherani, i quali già da parecchi giorni stavano in Brugnato in attesa del momento opportuno, mantenuti di alloggio all’osteria e di ogni cosa a spese del marchese il quale, nel frattempo, li andava utilizzando in altri servigi. I quattordici sicari pare che fossero tutti presi, forse dalle milizie di Battista Fregoso; e dieci di essi furono morti, ma gli altri quattro riuscirono ad evadere. briele : Ludovica, sposata ad Iacopo Appiani, Isabella sposata al conte Gabriele della Gherardesca, Caterina, Elena, Guidone, che fu prete, Corrado, Battista, Azzone, Federico, Tommaso e Fioravante (Cfr. Branchi, op. cit. II, tav. XI). Alcuni di questi per altro nel [416 eran già morti; come Federico, Corrado e Battista, che morirono prima del 1407; Guidone, ecclesiastico, era fuori dei domìni della famiglia. Ecco, per maggiore chiarezza, la discendenza dei marchesi di Villafranca da Corrado P antico fino ai figli di Federico III, che è la parte che interessa la nostra narrazione: Corrado Γ Antico f 1253 1 Federico 1 ' t 1264 Opjcino Corrado (di Dante) f 1300 o 1301 t e. 1294 I Federico II Anfrone Spinetta f 139S 111. Costanza.... t 1402 o 1403 Guidone Corrado Battista Gabriele Azzone Federico Tommaso uccisore di O. Biassa _j_ m. Maddalena Malaspina, t 1437 Anfrone Spinetta Giorn. stor. e lett. d. Lig. III. 3 34 GIORNALE STORICO E LETTERARIO UKLLA LIGURIA II. Trascorso un anno dal luttuoso avvenimento, ecco che un giorno la giustizia mette le mani sopra un certo Pellegrino di Milano, detto di Venezia, uomo di mala condizione, che la pubblica fama addita come uno dei sicari del marchese Gabriello nell’ omicidio del Biassa sfuggiti alla pena. Il vicario Bartolomeo Carrega, che per tutto il 1417 doveva amministrare la giustizia nel Vicariato, in unione co] giudice Stefano di Bobbio dottor di leggi e assessore vicariale, gli formò subito contro un processo; ed è appunto dagli atti di questo processo, conservatici in un libro della Vicaria della Spezia degli anni 1416-1417, che si trovano le notizie su riferite (1). Il giorno primo di marzo comincia l’inquisizione. L’ accusa afferma che il detto Pellegrino, ad istigazione d’un certo Moscatello di Verona, partito da Genova con lui e con altri soci, si fermò in Brugnato, indotto dalle persuasioni e dalle preghiere del marchese Gabriello a commettere l’omicidio di Oderico Biassa, avendo avuto prima come caparra dal Moscatello due ducati e una giornea, in acconto di cento fiorini che gli sarebbero stati pagati ad affare fatto; che, venuto il giorno dell’ o-micidio, il detto Pellegrino, « da diabolico spirito istigato, e non Iddio avendo dinanzi agli occhi, ma il nemico dell’ uman genere » col marchese Gabriele, col brigante Moscatello e gli altri soci postisi in agguato, all’ apparire del Biassa subitamente sbucati fuori gli furon sopra e 1’ ammazzarono sul colpo. Letta l’accusa all’imputato, egli con giuramento dichiara essere veridica in tutte le sue parti. Dopo di che gli si concede un termine di tre giorni per apparecchiarsi le difese. Chiestogli se un certo Leone di Ferrara trovato in sua compagnia fosse uno de’ complici nell’omicidio, egli con giuramento lo nega. (1) Il volume si conserva nell'Archivio Comunale della Spezia {/nini, prov. I. 5) ; è in folio, di cc. 170 n. n., legato ili pergamena, ed c diviso in quattro parti, distinte ciascuna con i seguenti titoli: 1) Titulus di-uersorum negotiorum sindicattnim atque registrcitionuni litterarum etc.; 2) Titillus debita confitenthun; 3) Titulus exeeutionum·, 4) Titillus Inquisitionum et accusationum. II processo contro Pellegrino è compreso nella quarta ed ultima parte, ed occupa 7 pagine discontinue, cioè da cc. 159-verso a 161-verso, e da 166-verso a 167-retto. GIORNALE STORICO li LETTERARIO DELLA LIGURIA 3 5 Il cinque di marzo si ascoltano i testimoni : sono quattro, e tutti di Brugnato. Tommasino di Carnizzano dichiara che conosceva tutti i briganti che avevano ucciso il Biassa, perchè nella sua qualità di oste li aveva per otto giorni ospitati in casa sua per volere del marchese Gabriello. Mostratogli il Pellegrino, e chiestogli se era uno di quelli, il teste risponde negativamente. Il giudice a questa risposta così esplicita e affatto contraria alla spontanea confessione dell' imputato rimane confuso, e domanda al teste come ciò sia. E il teste Tommasino ripete il già detto, affermando che il Pellegrino non fu mai tra quegli assassini, e che questa è la prima volta in vita sua che lo vede. E il giudice, sospettando che il testimonio menta, gli fa una domanda che ora chiameremmo ingenua, ma che allora aveva non comune importanza nella procedura criminale: Sarebbe contento il testimone che si punissero colla morte gli autori dell’assassinio? E il teste risponde di sì. Antonio Iacobini dichiara che, vedendoli, riconoscerebbe tutti gli autori dell’ omicidio perchè tutti i giorni conversava con essi « animo et intencione de dicto homicidio vindictam faciendi ». Ma, fattogli vedere Γ imputato, egli pure risponde non essere stato fra quelli, e non conoscerlo affatto. E chiestogli ancora se avrebbe potuto il Pellegrino essere fra coloro che uccisero il Biassa senza che esso teste lo sapesse, risponde di no; perchè non erano che quattordici quei sicari, dei quali dieci furono ammazzati, e gli altri quattro evasero (i); ed egli li conosceva tutti, e sa perfettamente che Pellegrino non era con loro. Dolcino di Paolinotto, già famiglio del marchese Gabriele, dichiara che conosceva tutti quei briganti, con i quali venne da (i) A tre di questi si riferisce molto probabilmente il seguente bando del 19 agosto 1416. Giudico si riferisca a tre sicari del marchese di Villafranca sia per il tempo, sia per essere quei banditi ex sudditi di Gabriele, sia per 1’ importanza della taglia. Ecco la relazione del bando fatta dal nuncio della vicaria, che si trova nel citato volume: « Iacobus de florentia nuncius retullit se hodie mandato dicti domini vicarij Gridasse proclamasse et viua et alta voce cridasse et bampnisse infrascriptos videlicet alderichum rauena de villa francha Zampetrum de panigalj et Anthonium dictum mezopetre offerendo et promittendo illi quj aliquem ipsorum viuum acceperit de pecunia comunis Janue florenos ducentos quj vero mortuum florenos centum. » 36 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Genova a Brugnato, e con loro stette sempre a bere e a mangiare, e andò anche con essi, per volere e comando del marchese, in quel di Mulazzo a prender de’ prigionieri ; ma che con essi Pellegrino non c’era, e eh’ egli non Io conosce. Alle stesse domande rivolte agli altri testi risponde allo stesso modo. Antonio quondam Arduino, che abitava col marchese Gabriello, per incarico del padrone somministrava ai quattordici briganti cibo e bevande; quindi dichiara che se i dieci morti resuscitassero, e se gli si mostrassero i quattro che evasero, li riconoscerebbe tutti quanti, avendoli serviti per dodici o tredici giorni Anche a questo teste i giudici rivolgono la domanda: Sarebbe contento di veder morto il Pellegrino se fosse colpevole dell’ omicidio del Biassa? Al che egli risponde affermativamente « quia attinens erat dicti condam Oderici ». L otto di marzo, ricondotto in presenza dei giudici il Pellegrino, e interrogato di nuovo sulle accuse imputategli, egli questa volta con giuramento le nega, affermando che la prima confessione gli fu strappata dalla paura e dall’ orrore.dei tormenti, metn et formidine tormentorum. E in sua discolpa invoca 1 alibi: in tutto il mese di febbraio del 1416 egli lavorò in Genova all arte della lana con Antonio Semino presso la porta dell Olivella ; s interroghi però il detto Semino, e si veda nei suoi libri di conti. E s’ interroghi ancora Domenico della Barba laniere presso la porta di Sant’ Andrea, eoi quale circa io stesso tempo Γ imputato aveva lavorato. Si sospende il giudizio, e si scrive a Genova per aver informazioni esatte sull’ alibi invocato dal Pellegrino; le quali, assunte per 1 ufficio del Giudice di malefizi, e trovate conformi alle dichiarazioni dell imputato, il quindici di marzo fu pronunziata dal Vicario Bartolomeo Carrega la sentenza, come oggi si direbbe, di non luogo a procedere per inesistenza di reato. E in tal modo ebbe termine questo processo; il quale se non ebbe allora alcun effetto, e se non ha oggi per sè stesso alcuna importanza storica; pure ci fornisce dei particolari che valgono a chiarire un punto oscuro della storia lunigianese; c però stimo opportuno di pubblicarlo per intero. Si desidererebbe che il documento ci fornisse qualche lume per ricercare il movente dell’eccidio; ma nessuna traccia troviamo in esso che valga a metterci sopra una via sicura. Pos- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 37 siamo per altro affermare, per le diverse circostanze del fatto che ci son note, che la crudel inimicitia et mortale presunta dal Porcacchi altro non sia che una pura fantasia, suggeritagli, come ho già detto, da quell’ aemulus di Giovanni Stella. Che sorta di crudel inimicizia potesse esistere tra il giovane Gabriele e Oderico Biassa non saprei davvero, dal momento che lo Stella, così esatto in ogni particolare che ci ricorda, afferma che il Biassa era ben lontano dal pensare di poter essere offeso da alcuno dei Malaspina: qui ab ipsis Marchionibus nequaquam laedi sperabat. E però viene il sospetto che quel pretesto invocato dal marchese omicida a scusa del suo delitto fosse una finzione per celare qualche cosa di più losco e innominabile. Tutti sanno quanto quei signori fossero alieni da ogni scrupolo di coscienza, e come volentieri cercassero vivere di prepotenze e di ruberie, lontani ormai di oltre un secolo dai tempi in cui il Poeta celebrava la Casa Malaspina, che in mezzo agli errori del mondo Sola va dritta, e il mal cammin dispregia. Ora, avendo 1’ annalista genovese lasciato scritto che il luogotenente del Vicario della Spezia si recava « ad scrutamen qui peregrinos quosdam predati fuerant » ; mi pare giustificato il sospetto che il marchese Gabriele non fosse del tutto estraneo a quella rapina, per cui temesse dover scaturire la propria responsabilità dall’ inchiesta che l’ufficiale della Repubblica si apparecchiava ad instituire, donde a lui sarebbero derivate noie, e mala fama al suo nome. Comunque fosse, egli non dovette certamente prevedere le terribili conseguenze che a se, alla sua famiglia, a molti de’ consorti derivarono dal suo eccesso, perchè quanto fu pronto, altrettanto fu terribile il Fregoso nel punire. Agli atti del processo contro il Pellegrino farò seguire due brevi lettere, che tolgo dalla prima parte dello stesso libro d’archivio, Titulus registrationum Litterarum : una del Doge Tommaso, e l’altra del capitano Battista Fregoso; le quali ci forniscono alcuni ragguagli intorno alla distruzione dei castelli di Calice e di Madrignano. Da esse rileviamo che quei castelli non furono distrutti dalle milizie genovesi, ma che ne venne dato 1’ ordine di distruzione al Vicario della Spezia. In fatti, GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA con la prima lettera del.25 di giugno 1416 il Doge ingiungeva al Vicario Alerame Grimaldi di far distruggere immediatamente dalle fondamenta i detti castelli servendosi di maestri presi in Levanto e nel Vicariato ; con la seconda, del primo luglio, il capitano Battista comandava di sospendere subito la distruzione del castello di Calice, anche se cominciata; ma di continuare invece nella distruzione di quello di Madrignano. Ubaldo Mazzini DOCUMENTI I. Die prima marcij Hec est quedam Inquisitio et titulus Inquisitionis que fit et fieri intenditur per Spectabilem et Egregium virum dominum Bartholomeum Carregam honorabilem vicarium Spedie et citra petram colicem contra et aduersus Pelegnnum quondam Ambrosij de mediolano homicidam et hominem malle condictionis et fame In eo de eo et super eo quod ad aures et notitiam ipsius domini vicarij fama publica procedente et insinuosa clamatione subséquente sepe peruenit non quidem a personis maliuolis nec suspectis sed potius honestis veridicis et fidedignis quod dictus pelegrinus superius Inquisitus Ianue existens motus peisuaxionibus cuiusdam Brigands nomine moscatellus de verona Animo et Intentione infrascriptum homicidium committendi de Janua recessit et cum dicto moscatelo vnaa cum certis alijs socijs quorum nomina ad presens tacentur ad lochum bmgnati accessit persuaxionibus etiam et precibus Gabrielis (1) marchionis malaspine et tunc dominj dicti loci habitis prius a dicto moscatello (2) ducatis duobus et jornea vna et armis videlicet lanze et ense pro caparro et parte pagamenti sibi promissi pro dicto homicidio perfitiendo. Residium vero dicti pagamenti quod esse debebat ad complementum flore-noium centum sibi pelegrino promissum fuerat per ipsum moscatelum darj et soluj per dictum marchionem complecto homicidio ordinato, quibus preordi-natis. et in dicto locho Bmgnati existentibus dicto pelegrino superius Inquisito cum dicto moscatelo et socijs. persuaxionibus et ordinamentis dicti gabrielis idem pelegrinus diabolicho spiritu instigatus nec deum habens pre oculis et in mente sed potius humanj generis Inimichimi, adueniente die dicti omicidij perpetrandi, se posuit in latebris siue Insidijs Juxta terram bmgnati et Juxta ordinem datum per dictum gabrielem Aspiciens' et expectans cjuod quondam oderichus de blaxia illuc accederet et interim, dum dictus oderi» (1) Era scritto prima Frederick poi la parola è stata cassata e sostituita con Gabrielis scrittavi sopra della stessa mano. (2) Eia scritto prima mai chiane, sostituito poi c. s. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 39 cluis ad lochimi brugnati accederet (i) Icturus Zignaticuni ecce, quod tunc dictus pelegrinus cum eius socijs de latebris seu Insidijs in quibus erat exiuit et obuiam dicto odericho festinanter accelerauit cum eius armis, ipsumque oderichum cum axilio et fauore dictorum suorum sociorum et dicti gabrielis lectaliter vulnerauit in tantum quod dictus oderichus staiim mortuus fuit et est percussionibus et vulneribus dicti pelegrini et sociorum Comictendo predicta contra et preter formam Juris capitulorum et ordi-namentorum comunis Ianue et in grauem offensam dicti condam oderici et contra statum Illustris dominj domini ducis Januensium Et predicta comissa et perpetrata fuerunt per dictum pelegrinum et socios de Anno proxime elapso de M" CCCCXVJ de mense februarij ipsius Anni ad lochum brugnati prope predictum lochum ultra aquam versus ipsum locum cuj coli ere t etc. Super quibus etc. Ea die Infrascriptus pelegrinus constitutus in Jure et in presencia dicti dominj Judicis respondendo cum Juramento suprascripte Inquisicioni dixit vera esse contenta in dicta Inquisicione Cuj statutus fuit terminus dierum trium ad fatiendum omnes et singulas defensiones suas Ea die Dictus pelegrinus Constitutus ut supra Interrogatus per dictum dominum Judicem si leonus de ferraria repertus in societate ipsius pelegrinj particeps sit seu aliter conscius suprascripti homicidij Suo Juramento dixit respondendo quod non nec vnquam fuit in partibus istis ipso pelegrino sciente Die vta marcij Thomainus de cornixano de brugnato testis receptus per suprascriptum dominum Judicem super contentis in suprascrita Inquisicione formata contra pelegrinum Ambroxij tamquam homicidam et participem mortis condam oderici de blaxia etc. citatus per facinum de nitia nuncium ipsius domini Judicis sue curie Juratus Interrogatus et examinatus quid sit et si cognoscet omnes et singulos quj dicte morti dicti condam oderici Interfuerunt Suo Juramento respondendo dixit quod sic Interrogatus de causa sientie respondit quod hospes erat tunc in dicto locho brugnati et ospitabatur omnes illos brigantes quj dicte morti Inter- (i) Seguono queste parole cancellate : visurus dictum gabrielem, che furono sostituite dalle seguenti icturus Zignaticuni. Ciò mostra che, a distanza d’ un anno, i particolari del fatto non eran ben noti nemmeno alla Curia. Sul latto dei pellegrini depredati 11011 fu trovato alcun documento, giacche il Titulus inquisitionum nel citato volume comincia solo dal maggio, e i volumi degli anni precedenti al 1416 come, del resto, tutti i posteriori, mancano nell1 archivio comunale della Spezia: né so che fine abbiano fatto, e come abbia potuto salvarsi quell1 unico superstite. 40 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA fuerunt 'io volt ili, marchiom tunc dìcti loci brugnati et quoti dicri bridantes ume temporis steterant in eia bossitio diche .x-t.> diebus «jan lemjHìre continu*' ministrabat et servie!vit illis .ideo quod omnes perfecte aspecto cogno-scehat et ct^nosceret si videret Interi.itus >i dictus pelegrinus superius Inquisitus quj sibi ostensus nunc est fuit de numero dictorum brigiintium Suo Juramento respondit quod non Interrogatus quomodo predicta >it dixit quod cognoscit omnes et singulos qui dictum cond.int odericum Interfecerunt visu et aspectu si ipsos videret eo quia steterunt in eius hospitio prout prediiit sed dictus pelegrinus uun-qu.im fuit in >ius hospiti., nec in numero predictontm brigantum prout eius aspectus clare manifestat Interrogatus \ 1. t qu.nl dicti brigante* quj dictum homicidium commiserunt punirentur de ipso homicidio et morirentur dixit quod sic Interrogatus si vnquam vidit dictum pelegrinum respondit qiuxl non nixi nunc Ea die Anthonius Jacobini de brugnato t -tis receptus Juratus examinatus citatus et Interrogatus vtsupra Suo Juramento respondendo dixit verum esse quod cognosceret si videret omnes illos qui dictum condam odericuni Interfecerunt Interrogatus de causa sientie respondit quod quotidie conversabat cum eis Animo et Intensione de dicto homicidio vindictam faciendi Interrogatus si dictus pelegrinus ex illis est quj dicti (sic) homicidium comtnisserunt ipso pelegrino - us ostens Suo Juramento respondendo .iixit quod non ■ gnnus potuisset sse que eo quini ip>. cesti' h v sciret Suo Juramento resp« 'inlendo- dixit quod non Interrogatus de causa sientie dixtt quod non fuerunt nixi qiumordedm quibas ...... .tecetn m.irtui tuerutu reliquj quatuor euaxerunt quos omnes «.agnosceret si rideret propter continuam conversacionem quam cum illis ha-behat sevi dictum pelegrinum nunquam vidit nixi nunc et perfecte cognoscit quod non est de illis Sujv-r I t' g- ralib.i' Interrogatus recte respondit Ea die Dtddnus pauliooti de hrugnato testis receptus Juratus examinatos citatus t Interrogatus \t supra Nu,> -funiuu>nt" spendendo dixit se perfecte cognoscere omnes et singulos quj dictum condam oderichum Interficerunt si ipsos \ideret Interrogatus de causa sientie respondit quia de versus Jantian brugnatum venit atm dictis briganti (his et in dicto locho brugnati continue stetit come-dado et libckdn eum eis. et vlierius cinn illis ibat -aptum préronerios super GIORNALE STORICO E LETTERARIO PELI.A LIGURIA 4I territorio illius de muratiti volente et |uhente m irrili·me bruinait cui 11 - homo erat dictus testis Interrogatus 'i dictus pelegrinus «uperiu* lnqui>iius est d illis Li ig:uuil«is qui dictum homicidium fecerunt respondit quod η··η Interrogatus de causa sientie respondit quia omnes itlo~ c· «gnosct-rei si videret quj dictum homicidium fecerunt ex causis per ipsum supradictis sed dictum pelegrinum uon cognoscit nec vnquam vidit nixi nunc Interrogatus si possit esse quod dictus pelegrinus Interfuisset dict·· homicidio absque eo quod ipse testis hoc sciret resjvoedit quod non Interrogatus de causa sientie respondit quia venit de ve-sus J. nurui cum illis et die et nocte cum illis morabatur et ips, s cognoscehat p* τ visum aspectum et etiam per nomina propter conversationem quam continue cum illis habebat et quod in locho brugnati illo tunc non fuerunt nisi hcigant xiiijcim de quibus non est dictus pelegrinus et si de illis --" t ip- im cognosceret Super alijs generalibus recte respondit Ea die Anthonius condam Arduinj de brugnato testis receptus Juratus examinatus citatus et Interrogatus vtsupra Suo Juramento Respondendo dixit se dignoscere omnes iilos quj dictum homicidium commisserunt si ipsos videret Interrogatus de causa sientie respondit quia tunc mirabatur cimi gahriele tunc marchione dicti loci brugnati et quj dict-is brigante* illic tenebat quibii~ brigantibus ipse testis Jussu dicti marchionis tunc ministralvat panem e; vinum et cetera comes tibii lia eis paralxit et «eruiebat arff· qu<« : cognosceret et - -videret Interrogatus si cognoscet Actum pelegrinum snperins Inquisitam et si ex illis fuit ipso pelegrino sibi prias ostenso rcspoodìt sao Juramento quod non Interrogatus si dictus pelegrinus potuisset Interfuisse dicto homicidio absque eo quod ipst : sti> hoc sciret r _-sj ■ Interrogatus de ausa sientie respondit quia o -tina· ·)πιπ>1 > : - n^u>- quj dictum homicidium commisserunt Jussu dicti ruarchinni-· ministrabat p· -.... . v.... . . . - ... facere vellent . set ut supra dixit qu>'c sic quia a::in· - s . .-s .. ■ ■ . -· . · .-: Interrogatus qtunto i τι pore :.:~c < r: ·»·.·. ·. —> ■ - duodecim vel tresdeom Interrogatus si perfecte cwg» >ce: t imia:' et vrgul - ruj dictr.— ' -odium commisserunt à ipsos rident respondit quod 9 resuscitarent q· Mortui fuerunt omnes Integre cegn.tscer ; et Integre agnoscit tIL s qu- i..'\ -runt si ipsos videret et perfecte scit qaad dicta» peregrinas —i--numero dictaram homicidarum nec illo tunc in dicto Wicb» brogliati Super alijs generalilxæs nete respondit 42 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA die viij Marcij Supruscriptus pelegrinus constitutus in Jure et in presentia suprascripti domini vicarij et domini Judicis Iterum et de nomi Interrogatus de contentis in dicta Inquisicione contra ipsum formata Juramento suo respondendo ne-gauit contenta in dieta Inquisicione fore vera et dixit quod confessionem quam fecit super dicta Inquisicione fecit metu et formidine tormentorum, et ad velificationem sue defensionis requerit examinari Antonium de semino lanerium et ciuem Janue habitatorem ad portam oiiuelle cum quo Antonio asserit dictus pelegrinus laborasse ad artem lanilitij de mense februarij de m 'cccv xvj et per totum ipsum mensem singulis diebus operarijs et sic debet esse scriptum in libris rationum dicti Antonij de semino prout asserit dictus I elegrinus. petit etiam Interrogari et examinari dominichum de labarba lane-rium in Janua prope portam sancti Andree cum quo asserit ipse Pelegrinus laborasse ad artem lane circa ipsum mensem februarij t MCCCCXVIJ die xv Marcij Hec sunt condempnationes et Absolutiones corporales et peceuniarie et Sententie condempnationum et absolutionum corporalium et peccuniamm et in defectum peccuniarum corporalium late date et in hiis scriptis Summaliter sen-tentiate et pruniulgate per Spectabilem et egregium virum dominum Bartlio-lomeum caregam honorabilem vicarium spedie etc. ventilate et examinate sub examine egregij legum doctoris domini Stefani de bobio Judicis et assessoris suprascripti domini vicarij contra et aduersus Infrascriptos homines et personas pro infrascripds delictis et excessibus per eos et quembilet ipsorum cummissis et perpetratis locis et temporibus in inquisitionibus contra ipsos formatis contents Nos igitur Bartoloniens carega vicarius antedictus pro tribunali sedentes ad nostrum solitum banchum Juris vbi talles condempnationes et absolutiones dari et fieri consueuerunt sequentes et sequi volentes formam Juris capitulorum et ordinameli torum colminis Ianue. et omni alio modo Jure via et forma quibus melius possumus et debemus ex potestate etiam et arbitrio nobis in hac parte concessis sono campane et voce preconis more solito in hiis scriptis sententiamus pronuntiamus condempnamus et absolimus prout infra videlicet Pelegrinum condam Ambroxij de mediolano prenominatum de venetiis Contra quem per nos et curiam nostram processum fuit et est per viam inquisitionis contra ipsum formate de anno presenti die prima martij instantis In eo de eo et supra eo quod ad aures et notitiam suprascripti domini vicarij fama publica procedente et insinuosa clamatione subséquente sepe per-uenit non quidem a maliuolis nec suspectis personis vmo potius fide dignis ' eridicis et honestis quod dictus pelegrinus superius inquisitus existens Janue motus a persuaxionibus cuiusdam brigantis nomine mosca tel Ius de verona a-nimo et intentione infrascriptum homicidium committendi de Janua recessit cum dicto .Moscatello vnaa cum certis alijs sotijs quorum nomina ad presens GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 43 tacentur ad locum brugnati accessit persuaxionibus eli ani enchè di suburbio, la sua figura, come avevano fatto il S.or D. Odoardo e S.or D. Alessandro a quella di S. Martino del Ponte. E per concluderla, questo Principe fece molte altre belle opere, come 1 ingrandimento del giardino in Camporimaldo ed altro. Nella sua gioventù, vivente l'avo, stava in Genova per compiacere alla consorte e là nacquero tutti li figliuoli : ma poi, a suo tempo, dopo la morte dell’ avo, venne alla residenza del Principato, stimolato e da Sua Maestà Cattolica e da altri motivi, e perchè li Governatori non stavano a dovere e sarebbero nati grandissimi sconcerti con molto pregiudizio dello Stato; e questo è quanto si può dire di questi tempi. 1628. Poco prima di questi tempi il generale Collalto, che guerreggiava contro Mantova per S. M. Cesarea, pretese di mandare un reggimento di soldati tedeschi, sospetti d’eresia e contagio, a quartiere d’inverno in questi Stati ; il che diede molto da temere a S. Ecc.™ Padrona e^ molto terrore nel popolo. Perciò il S.or principe inviò il cav. Giulio Beggi, suo segretario, con 3000 scudi, esatti dalla Comunità, per esimere il paese da tale alloggio, come infatti placato il Collalto liberò li Stati da quell aggravio. Fu poscia presa e saccheggiata fieramente la città di Mantova ; ed a tal guerra ne successe il contagio per tutta 1’ Italia, e solamente ne restarono esenti le città di Roma, Napoli e Genova ed alcuni altri luoghi di minor considerazione, fra’ quali la nostra città di Massa, col suo Stato, e Carrara ancora, benché vi fosse penuria per la proibizione del traffico a Livorno, ove passava la peste, e così in Lucca e nel resto della Toscana. — 1632. Li 13 giugno, festa del glorioso S. Antonio da Padova, essendo li IV di detto mese sbarcati alla nostra Marina alcuni appestati, procedenti da Livorno, de’ quali furono portate alcune robbe dentro di Massa, fu miracolo (come si crede di questo Santo, nel cui giorno si scoperse il male) per le orazioni fatte al medesimo che non s’ infestasse il paese e che le robbe di questi appestati non ammorbassero ogni cosa. La nostra Comunità fece,voto di fare ogni anno in perpetuo la festa di detto Santo e di mantenere sempre accesa una lampada al suo altare, coll’ iscrizione narrativa di tal grazia in una pietra di marmo per eterna memoria ». Quando fu distrutta la chiesa di S. Piotio, questa iscrizione andò dispersa. Era murata presso 1’ altare di S. Antonio di Padova a conni epislolae. Diceva : CAROLVS PRINCPS VI. GIVGNO. M. DC. XXXII. SBARCORNO Λ Q VESTA SPIAGGIA SEI PERSONE INFETTE DT PESTE PER ENTRARE IN MASSA, POSTE IN QVARANTI.\A BENCHÉ OCCVLTO IL MALE GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Ól PERI USI )N POCHISSIMI GIORNI MORIRONO, LE COSE SCOI'EB'l li SI Rl-TRo\ORNO NEL GIORNO DI S. ANTONIO, SI PVÙ DIR MIRACOLOSAM : ARDERÀ PERÒ (J VESTA LAMPADA 1)1 CONTINVO, E SI OSSERVERÀ LA SVA 1 IN QVESTO STATO E DI CARRARA COME DI PRECETTO PER MEMORIA l»I I AN IO BENEFICIO ATTR1BVJTO ALLA VERGINE SANTISSIMA VVVu< AIA NOS1RA, ed ALI. INTERCESSIONE DI yVESTO GLORIOSO SANTO XXV LVGI.IO L’ ANNO ISPESSO. ANEDDOTI NUOVI DOCUMENTI INTORNO A CATERINA DE’ MEDICI E A CLEMENTE VII. Nell ultimo fascicolo del Giornale (pagg. 423-445) ho pubblicato alcuni documenti relativi alla partenza di Caterina de' Medici dalla Spezia per recarsi in Francia, ed al successivo passaggio di Papa Clemente, che andava a Marsiglia per le nozze della nipote con Enrico d’Orleans. Ne aggiungo ora pochi altri, tratti dall’Archivio di S. Giorgio in Genova, che fanno conoscere nuovi particolari, e fissano alcune date relative a quell' episodio. Sono lettere del Capitano di Sarzana al Banco di San Giorgio, sotto la cui dizione era allora quella città. Special-mente importanti i brani che si riferiscono al passaggio di Clemente VII e al suo soggiorno di alquanti giorni alla Spezia. Come avevo ^ presunto, anche il Papa alloggiò in casa dei Biassa; ma l’ammiraglio Baldassare era già morto, perchè il Capitano di Sarzana scrive che il pontefice « è in casa delli heredi di baldassare biascia ». Possiamo adunque ritenere come esatta la data del 20 giugno 1531 per la morte di lui (cfr. Giornale, 1901, pp. 439-440). Quelle due lettere, che portano rispettivamente la data del 30 novembre e del 4 dicembre, ci rivelano un altro particolare sconosciuto agli storici: che cioè il papa si fermò alla Spezia anche nel ritorno da Marsiglia, e vi stette durante parecchi giorni, immobilizzato dalla gotta e nell’attesa del Duca Alessandro De’ Medici che s’era mosso di Firenze per venirlo a visitare. Certamente la maggior parte delle spese fatte dalla Comunità, e le feste in onore del Pontefice si debbono riferire a questo suo secondo soggiorno. U. M. , L « A pistoia e a pisa sentiamo si fanno preparamenti assai per il transito de la duchexina quale si dice debia andarsi imbarcarsi a la spesa e douerla acompagnare il ducha chon gran coraitiua. » GlUKNAl.fc. SIOKICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA i Leti, ili Giano Grillo, da Lucca, 12 ag. 1533 inserta m altra del Cap. di Sarzana — Arch. di S. Giorgio, Cane. Batt. Lonielhno, ili. Littcr. del 1533·’' IL « IIieri sera capitò a Carrara la duchesina quale di subito mandò uno .1 farmi intendere doue potria disnare sua S. insieme cun la sua Corte quali erano da Cavalli 150 incirca alla quale cun bone parolle lo mandai a S. 0 frane.0 dicendoli che quello luocho era comodo et che li faria fare prolusione de vittualie. El questa mattina è gnistrata qui detui S. Duchessina ad hore 14 et è andana in detto luocho di S.t0 frane.0 cun la sua Corte alle circum-stantie. In lo quale luocho è stata asai bene trattata maxime hauendo hauutto' pocho tempo da fare simile prolusione et se gl’ è fatto honore de altagliaiia debitamente da Sarzanello e Citadella e la terra, e poi 1 habio apresentata ila voluntade e consentimento di 111. Io Baptista [Fallavicino commissario] de pessi et altre cose quale ascenderano forsi alla somma de cinque o sei scuti in circa. Et in apresso la Capitana cum qualche altre done della terra sono andate a visitarla et de ogni cosa è remasta molto satisfatta. In compagnia del R.nio Car.le Cibo et altri personagij che erano seco poi se sono partiti et me hano mandatto uno delti soi Gentilhomi a ringratiarmi. Et detta S. Duchessina se n’ handata alla Spezza et a questa hora credo sia ariuatta et domane secondo sé dice monterà in Galera. Le quali Galere sino a qui sono in detto luocho della Spezza senza fare danno alguno. Li gentilhomj hano ditto che la S.tà del Papa douea hoggi partirsi da Roma et venire an-chora lei montare alla Spezza ». (Lett. d. Capit. e Commis, di Sarzana 6 sett. 1533 — Ivi, 1. c.) III. 30 nov. 1533 : « Il Papa auant’ hierj è giustratto alla Speza el quale è in casa delli heredi de baldasare biascia con le gotte, el quale secondo intendo starà in quel luocho giornj 5 o sei et intendo passarà per terra ». (Ivi). IV. 4 dicembre : « El Papa se troua auchora alla Spezza in lecto cum la podagra quale espetta el S. Prencipe. Et hoggi passerà de qui el Duca de horenza quale passerà per le poste a trouare la S.lil del Papa in detto luocho della Spezza ». (Ivi). BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. .limali genovesi di Caffaro e de’ vuoi continuatori dal MCLXXIV al MCCXXIV nuova edizione a cura di Li igi Tommaso Belgrano e di Cesare Imperiale di Sant’Angelo. Voi. secondo, con otto tavole illustrative. Genova. Sordo Muti, 1901 : in-8, di pp. LXX-203. Questo secóndo volume degli Annali genovesi esce dieci anni dopo la pubblicazione del primo, ed anziché il solo nome dell’editore di quello, ne reca due. La morte sorprese sprovvedutamente il Belgrano, quando stava per riprendere il lavoro intorno a questo insigne monumento della storiografia genovese, intramesso pei altre gravi cure, e ancora ìitardato da una lunga e tremenda malattia che lo condusse sull1 orlo della tomba, la quale pur troppo GIORNALE STORICO £ LETTERARIO DELLA I.KU'KIA si aperse improvvisa nel mentre all’illustre erudito, all’ iadimenli-tajii amico pareva fii aver riacquistato lena sufficiente per rimetterai all’opera. Allora venne affidata la continuazione della stampa a csaie Imperiale che aveva dato prova, con il suo volume sopra Oanaro e i suoi tempi, di conoscere assai addentro la nostra storia. 1 indoli (. la natura dei cronisti, e di essere ben preparato alla indagine erudita ed alla illustrazione critica dei testi. Nè la fiducia in lui riposta dall’istituto storico italiano, che gli commise il lavoro, rimase delusa, poiché questo volume, al quale egli lia cosi coscienziosamente lavorato, non solo può stare per intrinseco valore accanto al primo, ma in qualche guisa lo vince, sebbene Γ I. riconosca con grande lealtà e con imitabile esempio, che sì fatte mi-glioiieogli sono state suggerite da appunti lasciati dal primo ( ditole, o questi le avrebbe pur introdotte nel suo lavoro se gli fosse stato consentito di giovarsi de’ nuovi studi e delle nuove pubblicazioni uscite dopo la sua morte. E va data piena lode all’ 3. per una difficoltà di non lieve momento, superata felicemente. Vogliam diie la necessità in cui si e trovato di dover conformare l’opera sua a quella del suo antecessore, poiché il materiale lasciato, sia nella parte già tipograficamente composta, come nelle molteplici note, appunti, osservazioni, si presentava frammentario e incompiuto, atto soltanto a servir di guida a quegli che già aveva nella mente il disegno del suo lavoro e il modo di colorirlo. Quindi il secondo editore, senza lasciar da parte i suoi intendimenti soggettivi, doveva contemperarli ed armonizzarli con quelli del suo predecessore entrando quasi nello spirito e nel concetto di lui. Ora conviene riconoscere all’ I. il merito di aver saputo darci una continuazione, la quale nel metodo, nello sviluppo, nella critica, e nel commento sta in perfetta relazione con il volume antecedente. Ciò vuol dire che se il metodo del primo editore fu riconosciuto ottimo per universale consenso, l’opera presente dell’ I. ha chiarito come questi tosse degno di succedergli. Il volume si apre con una prefazione nella quale sono esposte le ragioni per cui tanto è ritardata la comparsa alla pubblica luce di questa seconda parte de’ nostri annali ; vengono indicate le nuove cure dell’I. per dare un testo più corretto, e corredarlo di quei riscontri e di quel commento che la critica richiede, e che giovano a far conoscere gli studi più recenti intorno al periodo trattato dagli annalisti, mettendoli opportunamente in relazione con i fatti narrati da essi; si notano poscia le plausibili ragioni che consigliarono 1’ I. ad allontanarsi dalle norme adottate dal Belgrano per ciò che concerne la riproduzione di figure e facsimili dal codice originale. Un’ultima importante osservazione riguarda il con- GIORNALE S CORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA cotto direttivo onde si è governato 1’ 1. nel giudicare il modo di composizione de’ singoli cronisti, i loro intendimenti. Γ intrinseco del racconto, ed è quello di considerare gli annali “ come veri c proprii documenti politici, nei quali anche la parte narrativa, la stessa menzione di un tatto, di un episodio hanno uno scopo che deve ricercarsi nelle condizioni dell’epoca, nella volontà di chi affidava o almeno consentiva l’incarico di conservare le memorie dei latti avvenuti per vantaggio del Comune e per ammaestramento dei privati ·>. Concetto giustissimo che riceve consenso di prova dalle narrazioni stesse dei tre scrittori raccolti in questo volume; ma del pari pericoloso ove non sia seguito con severe cautele e con buon discernimento. Nel qual difetto non ci sembra sia caduto 1’ J. quando ha rilevato l’intime cause di certi sapienti silenzi, di transitori accenni, o di ampie esposizioni: tutte cose richieste evidentemente da ragioni politiche. 11 che dimostra che al cronista non solo era tracciata una linea di condotta, ma veniva esercitata altresì sopra il suo lavoro un’attenta sorveglianza, si come era stile, durato eziandio nei secoli successivi, del governo della repubblica. Tre sono gli annalisti de’ quali vengono qui riprodotte le cronache, e cioè Ottobono Scriba, Ogerio Pane, e Marchisio Scriba. Di tutti e tre parla con sufficiente larghezza Γ I. in una speciale monografia destinata ad illustrare lo scrittore e Γ opera sua; in essa ricerca ed espone le notizie biografiche, esamina gli annali di ciascuno con critica sagace, studiandosi di indagare le cause del modo onde son compilati, di certe ommissioni, del difetto di proporzione in alcune parti, della trascuranza nella forma, della esposizione più piena ed esatta; de’ difetti itisomma e de’ pregi d’ognun d’essi annalisti. 11 che egli ascrive non solo alla diversa condizione personale dello scrittore, ma e ai fatti che si svolsero nei periodi in cui scrisse, e all’ indirizzo politico del governo nelle varie contingenze della vita pubblica così negli interni ordinamenti, sì come nelle relazioni esteriori. E in questa disamina l’a. tiene sèmpre presenti le cronache precedenti e le successive, istituendo opportuni confronti a riguardo del metodo e della forma, non che rispetto a le attitudini, alle intenzioni o al mandato dell’annalista, alla mente e alla mano che volle tramandare ai posteri il racconto di quegli avvenimenti. Le notizie biografiche sono desunte con molta diligenza dalle fonti migliori e più genuine edite ed inedite. Scarse son quelle che si riferiscono ad Ottobono. il quale, dopo parecchi anni dal punto in che aveva chiuso la narrazione il suo predecessore, incomincia a scrivere gli annali, assai probabilmente dopo il 1194, se- giornale storico k letterario della ligi ria condo congettura con buone ragioni 1’ I. contro Γ opinione de! lVrtz (.he voi rebbe anticipare di cinque anni questa data, e ripigliando dal 1171 conduce il racconto lino al ll'Hi. Non si conosce la famiglia alla quale appartenne; pochissimo si sa ili lui come uomo pubblico; i documenti sicuri che recano il suo nome muovono dal UH· e vanno, non troppo numerosi, al 1210 nel quale è rammentato come già morto, che di lui vivo l’ultimo che si conosca è del 12<·2. Egli dunque non condusse la istoria lino al chiudersi della sua vita, né si rileva il perchè. Seguitò immediatamente la materia nell’ordine cronologico Ogerio Pane, che gli succedette: uomo di maggiore autorità per uffici notevoli sostenuti, per assistenza a trattati politici, per rappresentanze pubbliche; uscito forse di modesta famiglia ma innalzatosi per virtù propria, e per acquistate parentele. Contemporaneo di Ottobono e di Oberto cancelliere, i documenti ce lo ricordano già fin dal 11(>4 in età atta a prestar testimonianza, e di lui è frequente menzione tino al 122(5 : da questo punto cessano le memorie che lo riguardano, e soltanto ricomparisce il suo nome nel 1288 come di persona già defunta: onde la sua morte si deve assegnare al periodo che intercede fin il 1227 e il 1288. Alcune notizie della sua famiglia e di lui stesso ha tratte l’I. da inediti documenti, ed ha potuto rilevare che è forse da ritenere autografa la confermazione d’ una testimonianza inserita nel registro del notaro Salomone. Ma neanch’egli scrisse gli avvenimenti degli ultimi suoi anni; s’arresta al 1215·, e gli è sostituito Marchisio, non si sa bene se in seguito a sua rinunzia dall’ ufficio a cagione della grave età, o a ciò consigliato dalle mutate condizioni politiche del governo genovese; forse per atto d’autorità del nuovo reggimento al quale conveniva scrittore più devoto. Questa ipotesi sufi Vagata da buone osservazioni è messa innanzi con prudente riserbo dall’I. e ci sembra non vada lontana dal vero. Marchisio che negli annali lià voluto esser chia nato coll’ appellativo di scriba, mentre ne’ pubblici atti da Ini rogati nella sua qualità di notaio imperiale e giudice ordinario, non ommette il quondam Oberti de Domo, visse fino all’aprile del 1225 secondo nota il suo successore e il primo documento noto in cui è menzione di lui risale al 1204. In questo periodo si hanno parecchi importanti istrumenti di ragion politica da lui rogati: altri a’ quali come pubblico rappresentante intervenne; ed il suo nome si vede cosi di frequente mescolato negli avvenimenti di quegli anni, che giustifica la esattezza e l’abbondanza del suo racconto. Il quale comprende un solo quinquennio, ma di capitale importanza per la storia genovese : onde può ascriversi a fortuna che abbia sortito un annalista assai diverso dai due antecedenti, ben addentro nella conoscenza de’ fatti, Giorn. stor. e lett. d. Lig. III. 5 66 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA più largo ne’ particolari, più libero nei giudizi, più vivo o pm efficace. L’esposizione critica degli annali de’ tre scrittori ufficiali, accompagnata da acuti rilievi, mentre ci pone in grado (li conoscere la parte notevole del contenuto, costituisce alcuni termini di confronto, utilissimi a render ragione de’ pregi e de’ difetti (li ciascuno, delle condizioni, dei tempi, in cui dettarono, degli intendimenti che seguirono. Ma se la trattazione si presenta per più rispetti disforme nelle cronache esaminate, non può defraudarsi l'annalista della giusta lode che gli è dovuta, per l’esattezza dei fatti eli’ ei narra, la coscienziosità onde si governa, e il sentimento d’ amor cittadino a cui s’inspira. Segue il questa larga premessa, sulla quale ci siamo intrattenuti fin qui, il testo delle tre cronache, coliazionato diligentemente con i codici, (li cui si danno le varianti, e accompagnato da un importante commento storico-critico, dove sono messe a contributo non solo tutte le più recenti e reputate pubblicazioni così generali come particolari intorno al periodo storico compreso nella narrazione dei tre annalisti, ma eziandio gli archivi genovesi. Di qui infatti oltre a parecchi documenti citati a riscontro, ne vennero ti atti alcuni che veggono la luce per la prima volta, e illustrano opportunamente punti rilevanti toccati dallo scrittore. Del pari accurati sono ’ numerosi chiarimenti con i quali si guida il lettore alla più agevole intelligenza di fatti, di luoghi, di uomini e di cose. Il volume di cui abbiamo parlato si accompagna degnamente al primo, e l’indugio nella pubblicazione non ha nociuto, anzi ha giovato assai alla migliore e più omogenea compik’.zione. Esso si adorna di otto tavole, la prima delle quali dà un facsimile della cronaca di Ottobono, le altre sette recano, ottimamente riprodotte in cromolitografia, le figure onde l’annalista si piacque adornare il suo testo, metodo non seguito dai suoi successori. E desiderabile che seguano presto gli altri cronisti fino al 1294, con le medesime cure e lo stesso metodo, e si chiuda questa pregevole raccolta dei nostri più antichi istoriografi genovesi, con un largo indice, secondo le moderne esigenze della erudizione, affinchè siano agevolate le ricerche. Così Genova potrà vantare una edizione per quanto è possibile perfetta di questo insigne monumento della sua gloria, che venne giudicato non senza ragione unico rispetto alle storie particolari delle maggiori città d’Italia, tanto più quando si considera che gli avvenimenti narrati da que’ contemporanei, non si restringono a Genova soltanto, ma son parte, e non di piccolo momento. della storia generale. Il Muratori che già aveva notato sì fatta importanza nella sua raccolta, mentre ricercava modo di con- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA < »7 durre lino al 15UU la storia genovese per mezzo di scrittori Mucroni posteriori agli Stella, scriveva a Domenico Maria Muzio in una lettera inedita comunicataci dalla cortesia di Matteo (aiupori. editore del grande epistolario muratoriano : i· ('oui potessi io avere ancora un qualche storico che avesse continuato la storia di Genova lino al 150(1, e fosse allora vivut.o, che cosi Genova Direbbe una tale comparsa nella mia Raccolti, e per conseguenza nel mondo, con autori tanto antichi, e sì continuati, che uiun altra la potrebbe pareggiar··, e a quest’ora ninna la pareggia nella gloria del Gafiaro e de’ suoi continuatoli ». E l’universale consenso ha con le rniato questo giudizio. Ond’è che non senza grande meraviglia si leggono le parole seguenti, con le quali Charles Seignobos dava principio di recente ad una sua conferenza universitaria in cui si proponeva di studiare « les transi ormations politiques qui se sont produites en Italie n dal secolo XI11 alla fine del XV: « En ce qui concerne cette époque de l’histoire d’Italie, nous possédons un assez grand nombre de documente nai-ratifs ; ce son des oroniques en latin, puis en italien : les Avnals* Januenses relatives à l’histoire de Gênes, qui se continuent juequ à la fin du Xllle siècle; les croniques des Florentins formant une série presque continue qui se termine à Machiavel. Des le X\lll<-siècle on les a reunies dans des recueiles : Muratori, Annali d lttilia; exception faite pour les chroniques du Piémont qui ont été publiées a part, au XIXe siècle, dans les Monumenta lauto riae patriae. Les récits fournissent en abondance une matière romanesque, dramatique, remplie d’episodes célèbres, où le théâtre et la peinture ont pris quantité de thèmes. Si elles ont un valeur littéraire, ces ohioni-ques sont médiocres au point de vue historique, et exigent une critique attentive; elles ont été écrites assez longtemps après les événements, et recueillies, par ouïdire, sans travail critique: autrement dit, ce sont des recueils de racontars η. 1 commenti sono davvero superflui ! A. N. D. Silvio Monaci. Storia del R. Istituto Nazionale pei Sordomuti in Genova. Seconda ediz. accresciuta con note, illustrazioni e documenti, pubblicata in occasione dei I Centenario della fondazione della Scuola, w aggio 1901. — Genova, tip. Istituto Sordo-Muti, 1901 ; in-8 gr., di pp. 3B2-CCXLI1. Nel 1892, in occasione del Congresso degli istitutori dei Sordomuti tenutosi in Genovii, il Dott. Silvio Monaci, valente ed infaticabile direttore dell’istituto fondato dal padre Assarotti, raccolse e pubblicò in un volume delle ottime Notizie storiche del Pio Istituto, che furono universalmente lodate. Ora, compiendosi il centenario della fondazione della Scuola, il M. ampliò quelle Notizie e, corredatele di ben sessantatre documenti, le ripubblicò col titolo di Storia. 68 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Il lavoro ampio e ben ordinato merita proprio questo nome: e sarebbe a desiderare che ogni istituto «li beneficenza della Liguria avesse un paziente ed erudito narratore come il M. che gliene fornisse uno smagliante. 11 volume elegantissimo è arricchito di ot-tantasette illustrazioni, tra le quali uno splendido ritratto del p. Assarotti. L’opera comincia con un proemio nel quale è discorso dell’ istruzione dei sordomuti innanzi al p. Assarotti : poi nella parto prima è esposta la vita del celebre scolopio e insieme l’origine e la vicenda della sua scuola fino alla morte. È noto come il p. Assarotti nato nella casa n. 60 di via dei Servi in Genova da un notaro, c lattosi per vocazione scolopio, si accingesse ad istruire nella sua città, nel convento di S. Andrea, pochi fanciulli sordomuti con metodi suoi particolari, senza nulla aver appreso dalla se-uola francese De 1’ Epée. Qui sono esposte tutte le prove dolorose, tutte le ambascie che dovette subire quell’animo generoso innanzi di riuscire a dar vita all'istituto nel locale delle Brigidino. Poiché mentre trovava entusiasti lodatori e protettori, s’incontrava ad ogni passo in gravi ostacoli frapposti da maligni ed invidiosi. Fin la caduta di Napoleone minacciò di essere fatale all’istituzione, perche avendola quel grande beneficata del locale e di mezzi non si voleva più dar corso alle disposizioni imperiali soltanto per non favorire essa da quegli favorita. Fortunatamente vi fuchi fece distinguere l’opera politica di Napoleone dall’opera benefica delI’Assarotti, e il governo provvisorio della Liguria prima e poi Vittorio Emanuele 1 confeimarono ed ampliarono le donazioni napoleoniche, tanto che morendo egli fra il generale compianto il ‘21 gennaio del 1829 poteva lasciare assicurata la vita della sua istituzione contro qualsiasi procella. Nel suo testamento il p. Assarotti aveva designato a suo successore un altro scolopio.il p. Descalzi, benemerito dei Sordomuti; ma e per la salute e per modestia non avendo questi accettato l’incarico, venne nominato a succedergli nella direzione della Scuola un altro suo attivo coadiutore, 1’ abate Luigi Boselli che appena quindicenne era entrato nell’ istituto a collaborare col fondatore. Da questo punto s’inizia la seconda parte dell’opera, nella quale sono narrate le vicende dell’istituzione sino alla morte del Boselli medesimo avvenuta il 17 gennaio 1886. Sotto il st o direttorato, e cioè pel periodo di quasi cinquantasetté anni, l’istituto progredì e migliorò, mercè l’opera sua attiva e disinteressata; poiché egli fu in tutto e per tutto il degno successore del p. Assarotti. L’abate Boselli, eh’ era anche un buon patriota, avendo preso parte al movimento unitario dal ’46 in poi, s’applicò con sapienza GIORNALE STORICO Ë LETTERARIO DELLA LIGURIA 6y pi ri agogica all’educazione dei poveri sordomuti, e nello stesso tempo, quale membro a vita della Commissione amministrativa, si dedicò al suo incremento economico. Adoperò a tale intento le alte ami-( izii contratte e gli onorari che riceveva quale decorato mauriziaiio 1 quale direttore : e sostenne una momorabile campagna per ottenne che il Governo italiano proseguisse ad aumentare il concorso stato assegnato prima da Napoleone e poi ampliato dai sovrani Sabaudi. Uopo l’abate Boselli fu direttore il prete Giacomo Panario che vi eia insegnante fin dal 1840 e che cessò di vivere nel Ih'.kì : ma nel suo decennio venne coadiuvato da I). Silvio Monaci, nominato vice-direttore in seguito a concorso e da ultimo direttore effettivo. Dal issi; ad oggi, mercè l’energica e abile iniziativa di lui, l’istituto ha fatto grandi progressi, singolarmente nel campo pedagogico. L· questo l’oggetto della terza parte dell’opera, nella quale, con rara modestia, egli nana ciò che si fece in questi tre ultimi lustri portando l’istituto all’altezza dei migliori e più rinomati nel genere. Bisogna visitarlo, per constatare l’ordine, la nettezza, la regolarità che vi regnano sovrane. Rara e pregevole la biblioteca che raccoglie quanto siasi pubblicato in Italia e all’estero intorno ai sordomuti; le aule di studio ben disposte e ricche di materiale didattico: 1 insegnamento impartito oralmente con rigoroso metodo scientifico. Completano l’opera alcune appendici, fra le quali è importantissima quella compilata dall’avv. Chiappe, segretario contabile dell’istituto, sulle condizioni economico finanziarie, da cui si rileva che mentre nel 1812 aveva un bilancio di circa 8000 lire, nel 1884 era già salito a lire 34-000, nel 18fil a lire ed attualmente supera le 100 mila lire, mercè le eredità, le donazioni e i concorsi governativo, municipale e provinciale. Oltre la sede dell'istituto in Via Serra, assai vasta e ben adattata, e nella quale si trovano la tipografia, (con esercizio a parte), la calzoleria, la sartoria, la ebanisteria, la Pia Opera possiede una villa a Fegino, in Polcevera, frutto d’un legato, nella quale vanno a trascorrere un mese di campagna i ricoverati e le zicoverate. A queste insieme all’insegnamento scientifico viene impartito un insegnamento industriale, e cioè il cucito, il ricamo, fiori artificiali, ecc. Conchiudendo, l’opera storica dell’egregio D. Monaci è degna corona dell’opera sua direttoriale, e merita i più ampi ed incondizionati elogi. Nè va taciuto il meritato encomio alla stamperia che prende nome dall’istituto, per la splendida forma artistica onde ha curato la pubblicazione di questo volume, che rimarrà fra’ più bolli esemplari dell’arte tipografica. Fkdemco Doxaver 70 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA ANNUNZI ANALITICI. GaET.WO Cogo. L’ ultima invasione ,/e’ Turchi tn Italia. Genova, Sordomuti, iqoi ; in-8, di pp. 115 (Estr. dal vol. XVII degli Atti della A*. Università di Genova). — 11 giovane e valente professore libero dell’Uni-/ versità di Genova, si mostra in questo, come in tutti gli altri suoi numerosi studi storici, degno discepolo del celebre De Leva, per la severità del metodo, la diligenza scrupolosa delle ricerche, la minuziosa cura di tutti i particolari, non iscompagnati da una certa disinvoltura nell esposizione e da una certa genialità di concezione. Egli si è proposto di ritornare con maggiore ampiezza su di un argomento, già sfiorato in altre sue pubblicazioni, cioè sull' ultima invasione dei Turchi in Italia verso la fine del XV secolo. Forse, e lo noto subito, sarebbe stato opportuno aggiungere al titolo un inciso, per chiarire che qui si vuol trattare delle invasioni per la via di terra, poiché, pur troppo, nel secolo XVI molte volte i Turchi fecero comparsa in territori italiani e lasciarono, in Calabria, in Liguria, in Toscana, in C01-sica, non dubbi segni del loro passaggio. Ma già la parola stessa invasione viene a determinare abbastanza bene il concetto dell’ autore, chè le altre, compresa quella del 1799, possono al più chiamarsi col nome di scorrerie. Premesso 1111 capitoletto, nel quale sono studiate le fonti contemporanee ai fatti e ricordati gli autori più recenti, che di quei fatti si occuparono, quali il Degani, lo Joppi e il Musoni, viene il C. a studiare le cause che produssero l’invasione del 1499, e si ferma specialmente ad esaminare le ragioni che indussero i Fiorentini e Lodovico il Moro a sollecitare il Sultano alla spedizione del Friuli, mentre tutti gli altri stati d’Europa, sul cui aiuto la Repubblica avrebbe potuto fare assegnamento, o per una ragione o per l’altra si tiravano in disparte. Solo Alessandro VI (e non troppo in buona fede, secondo il parer mio) promise qualche aiuto, che poi non mandò ; sicché Venezia rimase sola. Passa poi il Cogo a descrivere l’invasione del Friuli, capitanata dal celebre Castriota, Scanderbeg ; e giovandosi, oltre che del Sanudo e delle altre fonti già edite, anche di alcuni documenti, non tutti ugualmente importanti, da lui scoperti nell’Archivio di Stato di Venezia, mette in luce, non solo 1’ impreparazione della Repubblica, ma la pusillanimità dei provveditori e dei podestà veneziani, che si chiusero nelle fortezze e non osarono affrontare il nemico, che avrebbero potuto, e più volte, sorprendere e distruggere. Nella seconda parte del suo lavoro, 1’ autore esamina poi là condotta del provveditore veneto Zancani, e ne studia con amorosa cura il processo, non senza giudicare severamente la condotta del governo veneziano che a persona, così nota per la sua debolezza aveva affidato in un momento di sommo pericolo per lo Stato l’incarico di difenderlo. Esaminati poi i provvedimenti presi da Venezia per assicurare il suo territorio da nuove invasioni, passa brevemente ad esaminare quali ausiliari avessero i Turchi fra le genti del paese, e come fossero puniti coloro clic furono convinti di tradimento. Questo in brevi parole il sunto del lavoro, al quale tengono dietro dodici documenti inediti, parte tolti dai Senato Secreta, parte dai registri della luogotenenza del Friuli. Qua e là qualche errore, certo di stampa, come a pag. 59, dove si parla di strage orrenda della chiesa (forse strazio ?) ; e qualche ripetizione di concetto, mostrano che una maggiore e più accurata revisione non sarebbe stata superflua ; qualche nota d’ erudizione forse avrebbe potuto esser risparmiata, riferendosi ad argomenti che col tema hanno poca attinenza ; ma anche il censore più rigido dovrà dare ampia lode al professor Cogo, per la diligenza delle sue ricerche, per la larghezza di erudizione GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 7 1 bibliografica, per la lucidità delle conclusioni, alle quali giunge con critica prudente ed acuta. (C. Manfroni) Giovanni JachinO. Storiografia alessandrina (Alessandria dalle sue origini alla pace di Costanza). Alessandria, Jacquemod, 1900; 111-4, di PI’· '5*· — « Se Gainondio, Bergoglio e Marengo fossero comuni rustici, liberi internamente o borghi con soggezione feudale; se essi abbiano volenti o inconsciamente a poco a poco ampliato Rovereto sì da trasformarlo in citta, o siano stati indotti dai Lombardi ; se i consoli di Alessandria 1 abbiano o no sottomessa al papa in Benevento; con quali mezzi abbia potuto tener fronte a Federico 1 per sei mesi ; se meriti biasimo o sia da scusarsi perchè si arrese all’imperatore ». Ecco le questioni che il valente prof. J. ha trattato in questo 1 coni’egli lo chiamò) riassunto ih critica storica, ila lui pubblicato nella Rivista di Storia etc. della città natale. Le sue conclusioni, dato lo stato nostro attuale di cognizione dei documenti, 11011 differiscono molto da quelle del Gral, la monografia del quale fu, anni addietro, pubblicata nella versione italiana del Boltshauser, come indica egli medesimo. Risalire, per la risoluzione di siffatte questioni, fino ai Liguri Stazidli e all’ età preromana, potrà parere soverchio, nè l’A. sfuggirà, anche in altri punti, la taccia di prolissità. Ma si troveranno nel volume, più cose utili sullo sviluppo interno e sui rapporti esteriori del comune di Alessandria, ed anche sulle relazioni della repubblica di Genova colla Lega Lombarda. (G. B.) D.r Angelo RedaeLLI. La sagra di San Michele. La Chiesa e il Monastero di Λ. Michele della Chiusa. // sepolcreto e le tombe di Casa Savoja. Lugo, Tip. Sociale, 1901 ; in-8 gr., di pp. 60. — Da Massimo d’Azeglio a Fedele Savio e Alfredo d’Andrade molti scrittori del XIX secolo studiarono, o dall’ uno o dall’ altro lato il maestoso monumento « aneli’ adesso, aggrappato alla roccia, donde, memore della sua grandezza sparita, contempla malinconicamente le sottostanti montagne ». Così il Novali in uno scritto del numero alpino della Lettura (n. di Agosto) che qui si cita ancora per alcune belle incisioni del monumento che lo corredano. L’ opuscolo del prof. R. richiama garbatamente sulla Chiesa, sul Monastero e le primitive loro vicende l’attenzione dei lettori. Qualche postilla toponomastica messa in nota, mi lascia però con molti dubbi. La seconda parte del lavoro, a cui tien dietro 1111 elenco de’ principi e principesse di Savoja sepolti lassù, è pure interessante ; ma, come riconosce lo stesso A. nella conclusione, dovrà essere svolta più largamente. E allora potranno servirgli di guida parecchi collaboratori della Miscellanea di Storia Italiana, che non parlano d’ archivi e documenti come ne parla 1’ amico mio R. autore del presente opuscolo ! (G. B. ) JULES LaNCZY. Note sur le grand refus et la canonisation de Celestin Γ. Paris, Colin, 1901 ; in-8 picc. ; di pp. 22 (Communication faite au congrès international d’histoire comparée - Section de histoire diplomatique - a Paris, le 24 juillet 1900). — Ecco che gli Atti del Congresso Internazionale di Parigi ci recano un altro frammento degli studi di questo acuto indagatore, e caldo amico dell’ Italia che fu da noi ricordato e, a buon dritto, lodato nel precedente fascicolo ! L’ elegante brochure avrebbe di quegli tudì contenuto assai più, se al dotto professore della Università di Budapest molto tempo non fosse stato sottratto dalla necessità di preparare la partecipazione dei suoi compatriotti della Ungheria a detto Congresso. Ma speriamo che al Congresso successivo, il quale si terrà a Roma nella primavera dell' anno prossimo, egli vorrà presentare il seguito delle sue osservazioni intorno agli scritti e documenti dati recentemente in luce intorno a Pietro da Murrone. Il raffronto fra i luoghi di Dante e quegli di Ubertino da Casale che ~2 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA « coartava » la regola ili S. Francesco, presenta un particolare interesse. Dicasi egualmente «Ielle prove che il L. trovò nei documenti pubblicati dal Padre Ehrle t neU’.-//vA«· fur Litteratum mi Kirchengesch. des Mittelalt.) '■ fin ilai tempi di Niccolò III essersi dati « des refus semblables ile reconnaître la légalité des titulaires de la chaire pontificale ». Con ci«'> lesta illuminato quel luogo del Boccaccio, nel suo Commento alla Commedia, ove parla d’ oltre seicento eretici dannati al fuoco per essersi rifiutati a riconoscere la legittimità dei pontificati successi a quello di Celestino. Cosi restano allargate le vedute di E. Muore su questo argomento. Il lettore troverà accennate dal I.. le opinioni di due uomini, come GladstONE e VON Doi.LINGER che ne discutevano. (Cfr. su d’ uno scritto dantesco di quest’ ultimo la relazione del Di'. Leva, da noi menzionata nel Giornale, A. II, p. 146). Poi, in questo importante frammento, è preannunziato quello che da molti anni è particolare studio dell’ autore : sulla politica angioina in relazione, per un verso, agli affari d’ Italia e d’ Ungheria e dall’ altro ai due pontificati di Celestino V e «lei suo successore. « C’ est un c<‘>té trop peu signalé à 1’ attention et encore moins connu de ce grand drame qui plus qu’ aucun autre, parait se dresser comme un terme fatal entre deux grandes époques de 1’ histoire du moyen âge. Le Dante, malgré toutes ses ténèbres et ses profondeurs énigmatiques restera toujours le guide le plus inspiré pour traverser les précipices de cette violente crise de transition ». (Guino Bitioxi) GIUSEPPE Bokfito. /.’ eresia lìi Matteo Palmieri « cittadin fiorentino ». Torino, Loescher, 1901 ; in-8, di pp. 69 [Estr. dal Giorn. stor. d. lett. ita!. XXXVII i. — L’A. studia diligentemente la quistione assai controversa, di qual sorte di eresia egli si debba accusare. Disformi sono le opinioni degli scrittori, i quali nè s' accordano intorno ad essa, nè sulla sorte che sarebbe toccata al Palmieri in dipendenza di questa sua colpa. Il B. rifacendosi all’esame di più manoscritti incomincia col dare un giudizio complessivo del poema la Città di Vita, che non può aver diritto di levarsi al di sopra della mediocrità. Viene quindi ad esporre paratamente le accuse di eresia, e con le prove desunte dall’ opera stessa, sfata da prima quella di arianesimo ; mentre ammette come più verosimile Γ altra eh’ ei seguisse 1’ opinione di Pitagora a proposito della trasmigrazione delle anime ; se non che esaminando i passi che nel suo poema vi si riferiscono, rileva acutamente che pur fra incertezze ed oscurità, anche quest’ accusa non ha solido fondamento. Ma tutti lo accusano di aver professato l’errore di Origene, e qui il B. prova ad evidenza che non da questo autore derivò il Palmieri la dottrina esposta ne’ suoi inconditi versi, sì e più specialmente dalla scuola platonica, così fiorente a' suoi dì, e quindi da Platone stesso, forse col proposito di mettere in accordo la dottrina di questo filosofo a proposito della discesa delle anime nei corpi con le verità bandite dalla Chiesa cattolica. Il che in vero non gli riuscì, poiché dalle sue parole si trae quanto fosse in lui ferma l’opinione della preesistenza delle anime ai corpi, errore condannato, come quello che, secondo Dante, « ha più di felle » eretico. Sorge qui la quistione se il Palmieri abbia peccato in buona fede, come hanno sostenuto biografi e apologisti di lui. Il B. risponde con ottime ragioni di no. Egli chiude il suo importante lavoro cercando il vero in mezzo al dissenso degli scrittori a proposito della morte del poeta, ed inclina a credere, giovandosi opportunamente della combinata testimonianza del Foresti e del Gelli, che il corpo fosse dissotterrato e bruciato, o sepolto fuor di luogo sacro, pur ammettendo fra le cose possibili e probabili che il bruciamento possa essere avvenuto, secondo molteplici esempi, in effigie. Tu appendice sono pubblicate sei lettere frammentarie di Giulio Libri a Baccio Valori intorno alla Città di l'ila, dove ne è esp«jsta e difesa la dottrina. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 73 - opuscolo « De insulis nuper inventis » itel messinese .Vicoli/ SciUacio pio/issoie a /'avia confrontato colle oltre relazioni ilei secondo viaggio ii\ i/stofo/o Colombo m America. Memoria ili Cablo MkrkEL letta nel v. stituto Lombardo di scienze e lettere Γ anno /fig6, 2" edizione. Milano, og iati, 1901 ; 111-4, di PP· 118. — Dopo sci anni e quandi) 1’a., cosi giovane ancora e già tanto dotto, era stato rapito da morte immatura e de-p oriJta, ricomparisce alla pubblica luce questo studio, per le cure dello stesso so alizio che lo aveva accolto nei suoi volumi. Ed è offerto con felice pensiero a tutti coloro che furono presenti al· Congresso geografico adunato in .Iuano. In questa guisa è concesso, in separata e speciale edizione, più larga conoscenza ad un lavoro acutamente pensato, ed eseguito con piena e rara conoscenza della materia, e con esemplare rigore di metodo, riuscendo a conclusioni in tutto plausibili, desunte da un esame particolare e minuto che nulla lascia a desiderare. Di quanta importanza sia per la storia della navigazione e della scoperta di Colombo, 11011 vorremo ripetere qui, poiché fu detto con singolare competenza quando la prima volta uscì per le stampe ; ma era debito rinnovarne il ricordo con meritate lodi a chi ha sa]imo cosi bene rilevare ciò che la relazione del Scillacio presenta di veritiero o di fantastico. Della edizione originale del Scillacio si conoscevano quattro esemplari soltanto, ai quali un quinto se ne aggiunse di recente ritrovato dal libraio antiquario Olschki, che ne fece eseguire una riproduzione in fototipografia. E fu questa appunto che porse argomento a Giuseppe Fumagalli di dettare un notevole scritto già da noi annunziato (Giornale, a. Il, p. 77 >. Or egli aggiunge in questa nuova edizione una nota bibliografica in cui sono esposte le sue conclusioni a proposito dello stampatore dalla cui officina ebbe ad uscire primamente quel rarissimo opuscolo. Gaetano Cogo. Tre lettere inedite di Ippolito Niei'o. Venezia, Visen-tini, 1901 ; in-8, di pp. 15 (Estr. dal Nuovo Arch. Veneto, XXI). — Sono indirizzate a Luisa Sassi de’ Lavizzari a Sondrio, in casa della quale era stato condotto a dimora da Romualdo Bonfadini, quando s’ era condotto colà in compagnia di Garibaldi, ascritto coni’ egli era al corpo dei Cacciatori. Vennero scritte durante la pace di Villafranca, e mentre rispecchiano le incertezze, le titubanze, e il vivo desiderio di riprendere la lotta, recano curiose informazioni sui fatti correnti, e mostrano il sentimento patriottico ond’ era animato il gentile poeta, la bontà e la gentilezza che adornavano lo squisito animo suo. 11 C. ha rammentato in una succosa illustrazione il momento storico in cui quelle lettere uscirono dalla penna del Nievo, divisandone in un tempo 1’ occasione e chiarendo con opportuni richiami e notizie i nomi e le circostanze, di che in esse si tocca. P. M. Lonardo. Inventario ilei sacri arredi della 'Tesoreria metripo-hlana di Benevento nel 1411. Benevento, D’Alessandro, 1900 ; in-16, di pp. 22. — Ricchi arredi possedeva la cattedrale Beneventana, ora al tutto perduti, dopo le depredazioni francesi, e fra essi un singolare camauro o mitra triregale, a somiglianza della pontificia, concessa per speciale privilegio a gli arcivescovi di quella diocesi, il cui uso vietò Paolo II, sebbene poco conto fosse tenuto di sì fatta proibizione. Codesti oggetti potevano ben dirsi preziosi, non solo per il loro intrinseco valore, ma altresì per la vaghezza onde apparivano ornati di figure e di stemmi in rilievo e in smalto. Lavori di oreficeria pregevolissimi per il tempo e per la maniera, a proposito della quale è notevole la determinazione di croce ornata « cum diversis kboribus parisinis », o di piede di calice « laboratum ad operam parisinam », o di altra croce « laboratam ad operam antiquorum ». 11 L. premette alcuni buoni 74 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA cenni illustrativi, ed oltre all’ inventario pubblica pure il divieto di Paolo II all’ arcivescovo Piccolomini di usare il camauro pontificio. Amedeo Pellegrini. Relazioni inedite di ambasciatori lucchesi alle cotti di Firenze, Genova, Milano, Modena, Parma, Torino (sec. XVI-XI II) . Lucca, Marchi, 1901 ; in-8, di. pp. 371 — Relazioni inedite di ambasciato)·/ lucchesi alta corte di Roma (sec. XVI-XVII). Roma, tip. Poliglotta, 19ΟΙ ; 111-4, di pp. 60. — Dal 1581 in poi, per pubblica deliberazione, gli ambasciatori ordinari o straordinari della repubblica di Lucca, avevano 1’ obbligo di presentare una relazione la quale rendesse conto così del loro opeiato, come del modo ond’ erano stati ricevuti, delle condizioni de’ governi presso 1 quali erano stati spediti, e di tutte quelle politiche notizie ed osservazioni la cui conoscenza potesse riuscir profittevole ai reggitori dello Stato. Se queste relazioni degli ambasciatori di Lucca 11011 risplendono per quella laighezza di informazioni, e per li acuti rilievi onde vanno meritamente famose quelle de’ venetiani, pur 11011 mancano di una qualche importanza, e la loro pubblicazione è meritevole di lode, e da accogliersi con piacere dagli studiosi della storia e de’ costumi. L’ a. stesso ce li presenta per quel che valgono senza esagerarne il merito e la portata. Egli in un accomodata memoria discorre di tutte quante, ne espone la causa, e 11e rileva alcuni punti notévoli, aggiungendo la notizia di quelle altre relazioni che non ha stimato produrre alla pubblica luce, perchè non porgono (o in scarsa misura) cose sulle quali può essere richiamata 1’attenzione del lettore. Per questa stessa ragione il P. con buon consiglio ha stampato soltanto quelle parti delle relazioni trascelte, che possono presentare qualche utilità. Le più notevoli sono quelle della Toscana, dove gli ambasciatnri residenti maggiormente si estendono sull’ indole, il carattere, il giudizio del principe e della .sua famiglia ; sugli uomini di cortc più influenti ; sulla condizione economica, morale, politica del granducato. Si sente in questi diplomatici il timore costante che la loro piccola repubblica venga assorbita dalle voglie ambiziose della Toscana. E’ tipico a questo proposito 1’ aneddoto di Ferdinando (allora Granduca) quand’ era fanciulletto, narrato da Alessandro Lamberti. Vengono poi le relazioni di Roma, quelle in singoiar modo che si riferiscono a Sisto V, ad Alessandro VII, e a Clemente IX. Tengono il terzo luogo quelle di Milano, donde si traggono nuovi argomenti a corroborare quanto già era noto sul governo degli spagnoli in generale, e de’ governatori in particolare. Alcuni di questi brani ci richiamano col pensiero all’ efficace racconto manzoniano. Quattro sono i brani delle relazioni di Genova, chè le altre parecchie, pur esistenti, 11011 presentano alcuna parte notévole; tocca la prima del 1595 il passaggio da I.oano e da Savona dell’ arciduca Alberto (non, secondo dice il P., il cardinale Ferdinando clic passò da Genova nel 1633) avviato governatore delle Fiandre; la seconda de’ ricevimenti fatti a! cardinale Barberino reduce con il cardinale Sacchetti dalla Spagna nel 1626; più importante la terza che discorre le condizioni politiche della città dopo la congiura del 1628 e gl’intrighi di Spagna per mantenersi devota la repubblica; l’ultima, di scarso interesse, dettata nel 1700, ha qualche riferimento alle difficoltà in cui si dibatteva il governo per rilevarsi dalle subite prepotenze di Luigi XIV. Ma anche nelle altre relazioni, e specialmente in quelle di Milano non mancano accenni e giudizi sulle cose genovesi. Peccato che la correzione del testo lasci assai a desiderare (più corrette le relazioni di Roma) essendo insufficente a ristabilire l’esattezza della parola, e alcuna volta il senso de’ periodi, l’errata posta 111 line al volume. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 7 5 SPIGOLATURE K NOTIZIE. .·. Nella pubblicazione di Giuseppe Pardi, Titoli dottorati conferiti dallo studio di Ferrara nei sec. XV e XVI (Lucca, Marchi, 1900) ricorrono parecchi nomi di liguri e di lunigianesi, sia fra i laureati, sia fra i promotori (lettori dello Studio), sia fra i testimoni. Crediamo cosa utile tenerne nota. Il 30 dicembre 1418 c testimone al conferimento della laurea in arti di Giacomo Tigre da Ferrara, il genovese Giovanni di Odone podestà di Ferrara, da aggiungersi alla serie del Poggi (Cfr. Giornale, II, 465 ). Il 27 marzo 1441 viene addottorato in medicina Simone de’ Bonaventuri da Pontremoli del fa Giovanni che attese agli studi in Bologna e in Pavia. Pietro Antonio del fu Giovanni da Ventimiglia che studiò a Ferrara, a Siena, a Firenze, il 20 maggio 1447 ottenne la laurea nelle arti, e 1’ anno successivo,. il 12 agosto, fu addottorato in medicina. Del 1451 a> !7 aprile ebbe pure la laurea nelle arti Giovanni da Genova, e sette anni più tardi gli il agosto in medicina Nicolò da Genova. Il 4 giugno 1467 si laureò in teologia Gioachino de Montenegro dell’ Ordine dei Servi ; e 1’ anno stesso il 26 agosto è testimonio fra gli altri alla laurea in diritto civile concessa a Giorgio de Benelli da Saluzzo, Giovanni genovese dei marchesi « Languile » (Laigueglia). Un Agostino de’ Pittori fu Cristoforo da Silico in Garfagnana si addottora, nelle arti 1' 11 agosto 1481. Nel gius canonico e civile vien laureato il 5 agosto 1482 il rettore dei giuristi Francesco de Valisneria fu Ludovico da Pontremoli, ed è fra i suoi promotori il lettore di gius canonico Gian Luca da Pontremoli della famiglia Castellini il cui nome comparisce per la prima volta in quest’ anno, ed è in seguito indicato altresì sì come « ducalis consiliarius » ; se ne ha ricordo in questi documenti fino al 1503. Di lui discorrono il Gerini, Meni. star, d' Must, scritt. di Lunigiana, II, 24?, c il DaI.T.ARI, /)' un vescovo di Reggio il cui cognome non è ben conosciuto (Gio Luca da Pontremoli) in Atti e Meni. Dep. stor. pat. mod., Ser. IV, vol. IX, p. 253. Ed eccoci al celebre archiatro del re Enrico VII d’ Inghilterra, Giambattista Boerio del fu Bernardo dottore di legge, che dopo aver studiato in Pavia e a Ferrara, quivi riceve la laurea nelle arti il 30 marzo i486, notizie da aggiungersi alla sua breve e povera biografia (Cfr. Pescetto, Biog. med. ligure, I, 102) ; intervennero come testimoni alla collazione del titolo tre studenti genovesi Barnaba Vivaldi e Nicolò Oderigo che attendevano al diritto civile, e Ambrogio Oderico che studiava arti e medicina. Non risulta che questi abbiano poi compiuti i loro studi in Ferrara e quivi presa la laurea; ma de’ due ultimi e rimasta degna menzione nella istoia nostra. Nicolò infatti, oltreché per uffici sostenuti in patria, e per ambascerie, è rimasto celebre per la sua corrispondenza con Cristoforo Colombo; Ambrogio ha lasciata manoscritta su pergamena un’operetta de regenda sanitate consilium in cui dà qualche notizia di se e afferma d essere stato laureato il 18 maggio 1488, senza indicare in quale studio, sebbene premetta di aver studiato in Ferrara (Cfr. Spotorno, Stor. lett. hg-, II, 160 sgg.), Il 27 giugno del i486 si addottora in diritto canonico « Ton-ginus de Malaspinis » rettore della chiesa di S. Giorgio di Filattiera prima studente a Pavia, e sono testimoni il principe Alfonso d’Este, Nicolò Afaria d’Este, e Bernardino dei marchesi Pallavicini : non figura nelle genealogie, ed è probabilmente uno de’ tanti figli naturali di quella casata feudale. Nel 1491 il 17 marzo prende la laurea in medicina Angelo Melica da Genova. Un « Simon de Pontremulo » studente in arti è testimonio il 26 aprile 1492, e Γ anno appresso il 13 maggio si addottora in diritto civile « Ludovicus de Tarroris ex comitibus Vcntimilii » che già aveva studiato a Tolosa, a Torino 76 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA e a Pavia. Non sappiamo se sia da ascriversi fra i liguri un Matteo Augeri minorità che il 22 maggio 1494 è laureato in teologia, sebbene sia indicato come « de Fossano (Ianuaì ». Il 2 gennaio 1496 ottiene la laurea in diritto canonico Pasquale de Cazanemici di Tresana, e il 31 dicembre si addottora in arti e medicina « Iulius Niger de Virgulosta dioc. lunensis », che è certo Virgoletta, già studente a Siena ed a Pisa, scolaro del medico genovese assai celebrato Lorenzo Maggiolo, il cui nome apparisce appunto nel presente anno in questi documenti. Antonio degli Ottaviani figlio di Andrea da Villafranca di Lunigiana ottiene diploma di arti e medicina il 5 gennaio 1499; e Γ 11 ottobre di gius canonico Antonio Orso « de Vernino », ossia Varano lunigianese. Nel 1502 figura come rettore degli artisti Cristoforo de Rossi di Genova. « Iohannes Ugutionis f. Iohannis, ligur de Spedia » vien laureato in diritto civile e canonico il 2 agosto 1512; e lo stesso diploma ottiene il 21 maggio 1516 Antonio Carega di Genova « f. Bernardi canon, ianuensis »; egli aveva studiato a Bologna. Pietro de Becari da Pontremoli rettore dello Studio ferrarese, già studente a Siena e a Bologna riceve la laurea in diritto canonico e civile il 23 gennaio 1532, ed è pure di Pontremoli Galeazzo de’ Galli figlio d’Ottaviano che dopo aver frequentato gli studi di Bologna e di Roma fu laureato in Ferrara nel diritto civile e canonico il 28 gennaio 1535. A Terenzio de Venturini del fu Francesco di Massa prima studente a Bologna ed a Padova, fu conferita la laurea in arti e medicina il 29 dicem-hre *536- Giuseppe de Nobili di Gio. Francesco da Vezzano, innanzi studente a Padova, e scolaro del celebre Andrea Alciato si laureò in diritto civile e canonico il 20 agosto 1546, e già il 24 luglio aveva ottenuto lo stesso diploma, promotore l’Alciato, Gerolamo Faletti di Guidone da Savona, che frequentò gli studi in Torino, Avignone, Pavia, Piacenza, Lovanio, Padova, Bologna ; uomo assai celebre nella nostra storia letteraria (Cfr. Spotorno, op. cit., Ili, 87; IV, 113, 150, 237 sgg.). Il 22 dicembre del 1547 sono laureati in arti e medicina due scolari del Brasa vola, e cioè Girolamo Vis-cardo di Giambattista della Costa d’Oneglia già studente a Siena ed a Macerata, e Camillo de Bertoni di Baldassare da Vezzano che studiò anche a Padova. In medicina vennero pur laureati il 7 maggio 1550 Giacomo e Giambattista Lomellini di Pietro del Campo che studiarono prima a Padova « ubi quinquaginta conclusiones disputaverunt ». Giovambattista de Mari genovese scolaro nella facoltà legale è testimonio al conferimento di una laurea il 26 aprile 15 51 ; l’anno successivo il 25 agosto si addottora nel diritto canonico e civile Gaspare Lupo fu Battista genovese, già studente a Pavia, e sono testimoni Vincenzo Giustiniani e Cristoforo di Negrone. Due genovesi del pari, Teodoro Spinola e Marco Antonio Pallavicino assistono come testimoni all’atto di laurea conferita il 4 febbraio 1553 a Giacomo Giordano di Domenico e a Pietro Rolandi del fu Gian Domenico di Albcnga, che studiarono prima a Padova e a Pavia. In fine Fabio Belmesseri pontremolese ottiene laurea in arti e medicina il 26 agosto 1555, e Sinibaldo della stessa famiglia viene addottorato in diritto canonico e civile il 16 novembre 1 59. .·. Seguita la pubblicazione delle lettere e documenti intorno al principe d’Oratige (Boletin de la Rcal Academia de la historia, XXXIX, qu. V), dove è più volte menzione di Andrea D’Oria e di Genova e di genovesi. Due lettere di Carlo V sono datate appunto da Genova, 13031 agosto 1529. .·. Emilio Picot continuando la sua monografia interessantissima: Les italiens en France au XVIe siècle discorre di Giangioacchino da Passano, c di Francesco da Noceto diplomatico al servigio di Francia [Bulletin italien, Bordeaux, 1901, p. 278, 287). .·. Fra i processi di canonizazione pubblicati dalla Sacra Congregazione dei Riti troviamo: « Alerien. seti Papien. Canonizationis beati Alexandri GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA ./7 Sauli a congregatione Clericorum Regolarium S. Pauli Barnabitarum episcopi Alenensis et postea Papiensis. Positio super validitate processum ». . . Il primo volume dell’opera storica disegnata con largo intendimento da Domenico Orano contiene / Ricordi di Marcello Albertini, accompagnati da un eruditissimo commento, preceduti da una importante monografia su autoie e sull’opera sua, e seguiti da notevoli appendici. Troviamo in questi Ricordi alcuni accenni che è utile rilevare. Dopo aver ricordato la vittoria di « quell’ animoso et accorto Andrea D’ Oria, allhora capitano de ma'e pei Piantesi, flagello de Spagnoli », sopra l’armata di Carlo V nel- 1 aprile del 1528, (non 28 maggio, per cui cfr. MauFRONI, Stor. mar.'ilal. d. caduta di Costant. alla batt. di Lepanto, Roma, 1897, p. 276 sgg. non citato nelle fonti), seguita: « Questa bella et sì famosa vittoria de Franzesi in maie lu la loro deshonorevole perdita, perchè volendo el re Francesco quelli signori presi in potestà sua, parendo ad Andrea se li facesse ingiuria, et forsi per qualche buon dono che ne hebbe, come se vidde che i suoi preggioni presono lui, et non solo lo presero, ma donde era tanto inimico et perse-quutore de Spagnoli, lo renderono loro amicissimo et lo condussero al servitio et stipendio di Carlo, acerbissimo nimico de Franzesi » (p. 356 sg.). Facendo menzione più innanzi della impresa di Tunisi, raccoglie la voce che Barbarossa « volendo uscire con l’armata sua animosamente, anchora che Andrea Doria se li opponesse, pure si salvò, di che incolpano il principe che lo lassassi », di che sembra voglia scagionarlo (p. 455'. Al qual proposito è da rammentale che 1 impresa 11011 riuscita contro Barbarossa venne affidata' a Adam Centurione (cfr. Manfroni, cit., 314). Ed a proposito di questa famiglia è da rilevare la parentela fra l’Albeitini e Bartolomea Centurione « nepote de Andrea de Oria » per il matrimonio di lei con Marco Antonio Paloscio, il quale la « prese quando andò con el duca Alessandro a Genua ad incontrare Callo V » ; e intornno ad essa nel cod. Vatic. 2549, si trova la seguente 1 icoidanza : « Nobilis et honesta mulier domina Bartholomea lilia quondam domini Augustini de Centurionibus, uxor nobilis domini Marci Antonii de Paloxiis » (p. 391). .·. Giuseppe Flechia in una interessante comunicazione (Giornale stor. d. Ictt. /tal., XXXIX, 180) reai alcuni documenti del 1258 intorno a Caleca Panzano, tratti dai rogiti del notaro Giberto da Nervi che si conservano nell’Archivio di Stato in Genova. Con essi egli intende provare la ipotesi del Bertoni, identificando il ricordato genovese con il trovatore Caliga Panza che ha una poesia nel cod. Campori (ora edita negli Studi di filologia romanza, Vili, 468 sgg.) composta al cadere del 1267, e che sarebbe quindi quello stesso che figura fra gli anziani del 1259 (cfr. Poggi, Series rectorum Reip. Gen., Aug. Taurinorum, 1900, p. 107). .·. Troviamo ricordato Spinetta Spinola di Luculo in ufficio di podestà di Pavia nell’anno 1376 (Bolletino d. Soc. Pavese di Stor. Pat., I, 461). E’ da aggiungersi alla Series data dal Poggi, e si tratta certo dello stesso che questi registra sotto il 1369 come Podestà di Cremona, forse quegli ancora che fu podestà di Milano nel 1394, e di Verona nel 1396-97. .·. Giosuè Carducci nella prima parte del suo importante studio Dello svolgimento dell’ ode in Italia, discorre largamente di Gabriello Chiabrera {.Vuoi’a Antologia, XCVII, 12 sgg.). .·. Nel Bulletin historique della Revue historique, (LXXVIII, 99 sgg.) c notevole la critica del libro di Henry Vignaud sulla lettera di Toscanelli. Questi ne aveva già fatto argomento di una comunicazione al congresso degli Americanisti a Parigi (Cfr. Giornale, II, 73). 78 GIORNALE STORICO li LETTERARIO DELLA LGURIA CESARE PAOLI Ho qui sul mio tavolo l’opuscolo di necrologia die la lì. Deputasi ne Toscana ài Storia Patria lia teste pubblicato per l’insigne suo segretario e, aperto, a quello vicino, il libro primo del Programma del Paoli nella ristampa del 1901 che reca la dedica seguente: u A te, Silvia moglie mia, che mi fai cari gli studi consolandomi coll’affetto la vita, offro riconoscentfe questo libro per ricordo del-l’anno venticinquesimo del nostro matrimonio MCMI Crudele riscontro ! Appena era cominciato il 1902 e il Paoli, poco più che sessantenne soccombeva — il '20 Gennaio — al malore che da due anni avea cominciato a travagliarlo. Archivista prima, poi professore dell’istituto Superiore e Direttore da\V Archivio Storico Italiano dovunque lasciò tracce mirabili d’una grande operosità, d’ una grande rettitudine di giudizio e di opera. Ha detto bene sul suo feretro il Prof. Rodolico : u Egli vivrà.... non nella mente soltanto degli scolari che impararono da lui il metodo al lavoro con coscienza e con modestia, ma nell’ animo di tutti che lo videro sempre sincero, e nello scatto talvolta aspro del rimprovero che redimeva, e nella parola di lode per gli altri che era per lui causa di propria letizia n. Nè so astenermi dal riferire queste altre parole del Rajna; « Che la vita gli sia stata avara di quegli onori che da lei si profondono a capriccio ai degni e ai non degni, non è cosa che susciti in me alcun rammarico. La luce fatua di questi onori dà apparenza fulgida a figure che bentosto ricascan nel bujo. Di essi non ha bisogno chi splende di lume suo proprio E a questa luce s’inchina chiunque ama il lavoro costantemente e modestamente continuato, chiunque crede, contro i sii per uovi ini del momento, esservi bisogno grande di cittadini che abbiano non solo la testa sul collo ma anche un cuore nel petto. Senza quest’affetto che la scaldi, la scuola stessa non potrà essere fruttuosa, non potrà essere quale l’aveva pensata e attuata a Firenze (e iri materia si arida all’apparenza) Cesare Paoli. Gri'ino Biconi Anche noi che per diversa ragione abbiamo avuto con il dotto estinto rapporti personali e scolastici, e rammentiamo con quanto favore accogliesse la pubblicazione del Giornale, ci associamo al breve ricordo, onde 1’ egregio cooperatore nostro lia voluto adornare queste pagine. La Dirk/.ioxk GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 79 APPUNTI DI BIBLIOGRAFIA. LIGURE. Alberto Maffiolo da Carrara è veramente 1’ autore del Lavabo nella Certosa di Pavia? (in Rassegna d’Arte, 1902, I). Cfr. Sant’Ambrogio. BERNASCONI MEROPE. Il p. Ottavio Assarotti: ricordo del primo ccn-tenario dalla fondazione della scuola pei sordomuti in Genova. Genova, tip. della Gioventù, 1901 ; in-8, di pp. 12 ; con rit. e tav. Buscaglia Domenico. Restauro di un quadro del Merano e doni alla Pinacoteca di Savona (in Arte e Storia, XX, n. 21-22). Carducci Giosuè. Dello svolgimento dell’ ode in Italia (in Nuova Antologia, XCVII, 3 sgg.) [Parla lungamente del Chiabrera]. Contesso Carlo. Note e relazioni del marchese di Paulmy dall Italia . 1745-1746. Da un manoscritto della Biblioteca dell’Arsenale di Parigi. Torino, Civelli, 1901 ; in-8, di pp. 125. [Nelle prime 54 pp. si tratta esclusivamente dì Genova, della sua condizione politica, e della Corsica]. De’ Rossi Gino. Una gita invernale alle Alpi Apuane. In Emporium, vol. XV, N.o 86, febbraio 1902, pp. I43'154. con n illustrazioni. Innes A. The life and adventures of Christophe Columbus. Glasgow, Bryce, 1901 ; in-18, pp. 448. Isola F. G. Voci e maniere genovesi nei classici italiani (in Rivista Ligure, XXIII, 215-232, 255-277). Ferretto Arturo. Illustrazione storica della strofa : Rapallin sottoera gatti — Sotto e porte di sordatti — I sordatti son scappae Rapallin ghe son restae.... Episodi del dominio francese in Rapallo negli anni 1506-1507. Genova, Casamara, 1902 ; in-8, di pp. 36. Flechia Giuseppe. Galega Panzano trovatore genovese (in Giornale stor. d. ìett. ital., XXXIX, 180). Lombroso Cesare. La pazzia ed il genio di Cristoforo Colombo (In Nuovi studii sul gin io. I. Da Colombo a Manzoni, Palermo, Sandron, içoi ■ pp. 1-40 con tav.). Mazzini Giuseppe. Lettera a Giuseppe Giglioli, 20 novembre 183;. Faenza, stab. tip. Montanari, 1901 ; in-8, di pp. 15. Mazzini Giuseppe. Epistolario. Voi. 1. Firenze, Sansoni, 1901; in-8, PP· 475- Memoria (In) di Giuseppe Capitani [sarzanese] nel primo anniversario della morte. Genova, Sordomuti, 1902; in-8, di pp. 51, con rit. [Contiene: Achille Neri, Cenni biografici di Giuseppe Capitani Giuseppe Ricci, Discorso ai funerali — Giuseppe Berghini, Discorso al cimitero — Domenico Canini, Discorso al cimitero]. Natali Giulio. Lo scultore dei Mille [Battista Tassara]. Macerata, tip. Ed. Maceratese, 1901. SO GIORNALE STORICO E LETTERARIO UELLA LIGURIA Olcese Pietro. Cenno storico sul Santuario di N. S. del Bosco in Panesi. Genova, tip. della Gioventù, igoi ; in-16, di pp. 58. Oxilia G. U. Giuseppe Mazzini uomo e letterato. Firenze, Seeber, 1902 ; in-8, di pp. 320. P liscio Amedeo. I tempi del signor Regina. Genova, Stabilimento Tipografico del « Successo », 1902 ; in-8, di pp. 44, con fig. Poggi Vittorio. I Liguri nella preistoria. Savona, Bertolotto, 1901 ; in-8, di pp. 25. Poggi Vittorio. Discorso pronunziato nell’inaugurazione della Pinacoteca Civica dì Savona. Savona, Ricci, 1902; in-8, di pp. 21. Rapallo et ses environs, Guides illustrés Reynaud. Turin, Roux et Viarçngo, 1902 ; in-8, di pp. 100, figg. e c. t. Sacco L. Il monastero di S. Chiara di Montefalco di Rapallo (in II Cittadino, 1902, n. 8, 9). Sant'Ambrogio D. Il lavabo di Alberto Maffiolo da Carrara nella Certosa di Pavia (in Monitore Tecnico, 1901 ; n. 27). Vignaud H. La lettre de Toscanelli du 25 juin 1474 sur la route des Indes par Γ ouest. Traduction française, faite sur la 'photographie et les transcriptions du texte latin unique de la Colombine, données par M. Harrisse et par la Raccolta Colombiana, accompagnée de notes critiques, historiques et géographiques, par Henry Vignaud. Paris, libr. Leroux, 1901; in-8, di pp. 23. — La lettre et la carte de Toscanelli sur la route des Indes par 1’ ouest, adressées en 1474 au Porturgais Feniani Martins et transmises plus tard à Christophe Colomb. Etude critique sur 1’ authenticité et la valeur de ces documents et sur les sources des idées cosmographiques de Colomb, suivie des divers textes de la lettre de 1474, avec traductions, annotations et fac-similé, par Henry Vignaud, premier secrétaire de l’ambassade des Etats-Unis, viceprésident de la Société des americanistes de Paris. Paris, libr. Leroux, 1901 ; in-8, di pp. XXIX-321. Voragine (de) Iacques. La légende dorée nouvellement traduite en française par l’abbé I - B. M - Roze. Paris, Rouveyer, 1902 ; vol. tre. Giovanni Da Pozzo amministratore responsabile. PUBBLICAZIONI RICEVUTE Manuale della letteratura italiana compilato dai professori ALESSANDRO D'ANCONA e Orazio Baccì. Vol. V. Nuova edizione interamente rifatta. Firenze, Barbera, 1901. Giuseppe Petrai. Lo spirito delle maschere (storia e aneddoti). Roux e Viarengo, Torino, 1901. Gli ultimi giorni della repubblica di Genova e la comunità di Nenie tratti da documenti inediti per Angelo Francesco Trucco. Milano, Aliprandi, 1901. Alfredo Comandini. I' Italia nei cento anni del secolo XIX giorno per giorno illustrata. Milano, Vallardi, 1901 ; Disp. 26. Cirillo Berardi. Il Satana e la Chiesa di Polenta. Osservazioni. Bozzolo - Castel-ponzone, Arini, 1901. Vittorio Poggi. I Liguri nella preistoria. Savona, Bertolotto, 1901. Giuseppe Boffito. Intorno alla « Quaestio de aqua et terra » attribuita a Dante. Memoria I. La controversia dell' acqua e della terra prima e dopo Dante. Torino, Clausen (tip.-Bona), 1902. Rodolfo Honig. Guido da Montefeltro. Studio storico. Bologna, Zamorani e Al-bertazzi, 1901. Sebastiano De Navasquès. Del fiume Serchio. Lucca, Landi, 1891. Arturo Ferretto. Illustrazione storica della strofa : Rapallin sotterra gatti — Sotto e porte di sordatti —■ I sordatti son scappae — Rapallin ghe son restae..... Episodi del dominio francese in Rapallo negli anni 1506-1507. Genova, Casamara, 1902. Alessandro D’Ancona. Federico il grande e gli italiani. Roma, Forzani, 1901. Dino Catteri. Statuti del comune di Treville nel Monferrato. Alessandria, Piccone, 1901. AMOS Parducci. La tragedia classica italiana del secolo XVIII anteriore all’Alfieri. Rocca S. Casciano, Cappelli, 1902. Alfredo Chiti. Enrico Bindi e il suo Epistolario. Note ed impressioni con tre lettere di lui. Pistoia, Niccolai, 1901. Carlo Vanbianchi. La contessa Teresa Casati Confalonieri. Lettura fatta il 9 giugno igoi al Circolo « Gaetana Arnesi » di Milano, in occasione della Esposizione delle memorie delle Donne illustri italiane. Milano, Magnaghi, 1901. Giovanni Sforza. Una monaca e un re. Roma, Forzani, 1901. Giovanni Sforza. Il Manzoni giornalista. In Modena, Soc. tip. modenese, 1902. Benedetto Varchi provenzalista. Nota A'Santorre Derenedetti. Torino, Clausen, 1902. Vittorio Poggi. Discorso pronunziato nella inaugurazione della Pinacoteca Civica di Savona. Savona, Ricci, 1902. Carlo Contesso. Note e relazioni del marchese di Paulmy dall’Italia 1745-1846. Torino, Civelli, 1901. Oreste Poggioi.ini. Il divorzio al Parlamento Italiano. La Spezia, Zappa, 1902, in-16, di pp. 125, figg. Amy A. Bf.RNARDY. Venezia e il Turco nella seconda metà del secolo XVII con do- . cu menti inediti e prefazione di Pasquale Villari. Firenze, Civelli, 1902. Giornale storico e LETTERARIO DELLA LIGURIA DIRETTO DA ACHILLE NERI e da UBALDO MAZZINI. ^ ^ ^ ^ ^ & ANNO HI. F ASC. 3-4 IÇ02 Marzo-Aprile SOMMARIO G. Oberziner : I Liguri antichi e i loro commerci. Cap. II. I Liguri antichi e i loro °t*:1 comruerciali, (pag. 80) — V. A. Arullani : Femministi e misogini nei secoli XIII c ςΓ X’ (pag· 115) — VARIETA’: F. Gabotto : Una supplica degli uomini di Borgo ■ e ano dì Genova per Prospero da Camogli (10 maggio 1477), pag. 1I7 —ANEDDOTI: min m1'1101 ^er storia dell’eresia in Genova nel sec. XIV, pag. 140 — BOLLET-Λ v \ r τBIOGRAFICO: Si parla di: E. Marengo (G. Bigoni) p:>g. 142 — ANNUNZI J· ITICI: Si parla di: G. Monticolo, G. B. Gerini, R. Rohricht, E. Muntz, L. A. Cerotto, E. G. Parodi, B. Baldi, G. Dalla Santa, F. Bosdari, G. Leanti, E. Maddalena, *· ^ab°«o, F. Corridore, L. C. Bollea, A. Gentille, A. Fiammazzo, A. G. Spinelli, T’;Ti;orndore> pag. 147 — SPIGOLATURE E NOTIZIE, pag. 156 — APPUNTI DI J'ELIOGRAFIA LIGURE, pag. iS9· LA SPEZIA DIREZIONE Società d1 Incoraggiamento editrice AMMINISTRAZIONE Genova - Corso Mentana --La Spezia - Amministrazione 43-12 Tip. ni Francksco Zappa del Giornale AVVERTENZE Il giornale si pubblica in fascicoli bimensili di 80 pagine. Il prezzo dell’ associazione annua è di L. 10 — Per l’estero fr. 11. — I soci della Società Ligure di Storia Patria di Genova, e quelli della Società d’ Incoraggiamento della Spezia godono di uno speciale abbonamento di favore a Lire SEI. La Direzione concede ai propri collaboratori 25 estratti gratuiti dei loro scritti. Coloro che desiderassero un numero maggiore di esemplari potranno trattare direttamente col tipografo. N.B. - In Genova il recapito dell’ Amministrazione è presso il Negozio librario del Sig. Stefano Chiàppori di Bartolomeo, λ ia XX Settembre N. 16. PREZZO DEL PRESENTE FASCICOLO: L. 2.00 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 8l I LIGURI ANTICHI E I LORO COMMERCI Capitolo secondo I LIGURI ANTICHI E I LORO PRODOTTI COMMERCIALI. I Liguri erano chiamati Ligures dai Romani (i) e da’ Greci ne’ tempi più tardi (Λιγούρες) (2); gli scrittori greci più antichi li denominavano Ligui (Α,ίγυες) (3) e, da Polibio in poi, anche Ligustini (Αιγυστινοΐ) (4). Lo spirito indagatore degli antichi si era di già esercitato intorno all’ origine di questa popolazione, senza però poter venire a risultati sicuri. Alcuni li credevano greci, perchè usavano scudi di bronzo (5); quest opinione era condivisa anche da Diodoro Siculo (6), e da tutti quelli che, per attestazione di Dionisio d’Alicarnasso (7), facevano dei Liguri e degli Aborigeni del Lazio una sola popolazione oriunda dall’Eliade. Secondo Filisto Siracusano (8) Liguri, Siculi ed Italici sarebbero un solo popolo, poiché egli ritiene che i Siculi fossero Liguri, passati in Sicilia sotto la condotta di Siculo, figlio di Italo. Pare che altri li ritenessero Iberici, quegli scrittori cioè, che, come osservai nel capitolo precedente, dicono i Liguri ampiamente diffusi nella penisola iberica e in tutta Γ Europa occidentale. Eschilo infatti, per attestazione di Plinio (9), fa scorrere 1’Eridano nell’ Iberia ; Tucidide ^10) riteneva Iberici anche i Sicani, cacciati dai Liguri dalle rive di (1) Liv., 21, 26; 27, 49; 32, 19; Plin., 3, 5, 6; 3, 17, 21; 3, 20, 24; Eutrop., 3, 2, 8; Tac., Hist., 2, 14; Flor., 2, 3. Nel singolare dice-vasi promiscuamente Ligus (Cic., Se.xt., 31, 68; Verg., Aeri., 11, 715, Pers., 6, 6; Tac., Hist., 2, 13) e Ligur (Lucan., i, 442). (2) St. Biz., p. 472. (3) Esiod., fr. 46, da Strab., 4, p. 203; Ecateo, fr. 20 seg.; Eschilo, ir. 182, da Strab., 4, p. 183; Erod., 5, 9; 7, 165; Tucid., 6, 2; Pseudo Scil., p. 2; Polib., 34, IO, 18; Strab., 4, p. 203; Scimn., 200 segg. (4) Polib., i, 17, 4; 1, 67, Π 2- Ü 3- 33. 16; Plut., Aemil. Paul., 6; Plin., io. 24, 34. — (5) Cf. Strab., 4, 6, p. 202. — (6) 5, 39. (7; i, 10. — (8) In Dionis., i, 22. — (9) 37, n· — (I0) 6> 2· Giom. stor. e lett. d. Lig. III. ® 82 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA un fiume Sicano, che lo storico greco credeva scorresse nel-l'Iberia ; lo Pseudo Scillace (i) dice la costa fra i Pirenei ed il Rodano abitata da una popolazione mista di Liguri ed Iberi, sebbene, appunto il ravvisarne la mescolanza sarebbe argomento per asserire che le due popolazioni erano differenti. Riferendo Plutarco (2) che ai Liguri era originario il nome di Ambronì, ritiene qualcuno che con ciò lo storico di Cheronea intendesse che fossero affini d’ origine colla popolazione degli Ambroni, che dai Liguri furono appunto assaliti nella battaglia di Aquae Sextiae, e cioè che anche i Liguri fossero Celti. Questo non è però esplicitamente affermato da Plutarco, nè implicitamente si può assicurare, non essendo ben certo se gli Ambroni fossero precisamente Celti, o non piuttosto un avanzo di quella prima popolazione primitiva, dalla quale si fa da alcuni dipendere 1’ origine degli Iberici e dei Liguri. In complesso quindi nulla di preciso sapevano gli antichi intorno all' origine dei Liguri: 1’ unica cosa, in cui tutti andavano d’accordo, è che essi fossero dei più antichi abitatori d’ Italia; però anche a tale proposito particolarità poche si conoscevano. I Liguri stessi, dice Catone (3), essendo illiterati e mendaces, non ne sapevano o non ne volevano far saper nulla. Dionisio d’Aticarnasso (4) afferma che la loro origine era ignota; Strabone (5), che più diffusamente se 11’occupò, sa solo concludere che essi non erano Celti, poiché dice che i popoli, che abitavano i declivi delle Alpi erano Celti, meno i Liguri, i quali però vivevano al modo dei Galli, sebbene fossero differenti d’ origine (6), tanto da distinguerli anche al di là dalle Alpi, dove, essendo misti coi Celti, erano chiamati Celtoliguri (Κελτολίγυες) (7). I più antichi scrittori, chiamando, secondo lo stesso geografo, anche Celtiberi (Κελτφηρες) (8) gli (1) p. 2. — (2) In Mario, 19. (3) Orig., Fr. 2, in Servio, ad Aen., 11, 701, 715, unde oriundi si ut nesciunt, illiterati mendaccsquc sunt, et vera minus meminere. (4) ϊ, Ρ· 9· (5) 2i 5> 2^> Ρ· !28. εθ-vrj 5ε κατέχει πολλά τό όρος τοΰτο Κελτικά πλήν των Λιγύίυν. (6) 2, 5, 28, ρ. 128; οότοι 5’ ετεροεθ·νεΐς μεν είσι, παραπλήσιοι δε τοίς· βίοις. (7) Strab., 4, 6, ρ. 203. — (8) ι, 2, ρ. 33. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 83 abitatori dell’ Europa occidentale, evidentemente distinguevano i Celti dagli Iberi e dai Liguri, non escludendo forse che fra di loro, ma specialmente fra questi ultimi, esistessero delle affinità etnografiche. La medesima disparità d’ opinioni si manifesta negli scienziati moderni. Alcuni (1) si accontentano di osservare che 1’ origine dei Liguri è sconosciuta ; altri (2) ritengono che, come parte della famiglia italica, siano strettamente imparentati cogli Elleni. Il Grotefend (3) prima, con argomenti geografici, poi il Maury (4), per ragioni linguistiche, ritenevano i liguri di razza celtica. Il d' Arbois de Jubainville (5), basato su vaghe testimonianze antiche, su interpretazioni mitologiche, ed argomentazioni linguistiche, li crede Ariani, che, discesi dalle regioni più settentrionali dell’ Europa, avrebbero tolto agli [beri il dominio dell’ Europa occidentale. Ad ogni modo siano essi stati Italici o Celti o Elleni, o, più genericamente parlando, Ariani, sarebbero sempre, per questi scienziati, oriundi da un medesimo stipite, per cui se variano nei particolari, s accordano in questa tesi generale. Ad essa però se ne contrapposero altre che non hanno minor fondamento, e scientifica serietà. Il Nicolucci (6), appellandosi ad argomenti desunti dalla filologia e dall’antropologia comparata, cerca dimostrare che 1’ Europa era abitata in età preistoriche, prima che dalla razza Ariana, da una popolazione Turanica, dalla quale, e più particolarmente dagli Ugro-Finni, discenderebbero i Liguri. Secondo lui il brachicefalismo sarebbe la caratteristica antropo-logica più spiccata di questa primitiva popolazione, e quindi anche dei Liguri, ed il basco un ultimo residuo della loro lingua. Ma mentre quest’ultima asserzione è contestata da coloro che altre origini ascrivono alla popolazione ligure, la prima pareva scossa dal fatto che, al contrario di quanto (1) Il Niekuhr, R. ti., I., p. 173, dice p. e., che di essi questo solo si sa di certo, che non erano nè Iberi, ne Celti. (2) Cf. Forbiger, Handb. der alten Geographie, III, p. 546, n. 47. (3) Alt Italien, II, p. 5, 7 e segg. (4) Notes sur les Ligures (in Comptes-rendus de l’aead. des inscript. et bt'Hes lettres, 1887). (5) Les premiers habitants de I’ Europe. (6) La stirpe ligure in Italia. 84 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA afferma il Nicolucci, i crani degli scheletri usciti dalle più antiche caverne liguri, la più gran parte de’ quali sono tuttora visibili nel museo geologico dell’ ateneo genovese, sono senza discussione dolicocefali con pronunziato prognatismo. Se non che di questi ultimi giorni in una grotta neolitica, .scoperta nella villa Imperty a Montecarlo, e studiata da Verneau, e De Villeneuve (i), si trovarono parecchi crani nella più gran parte brachicefali, solo qualcuno mesaticefalo, ed uno solo dolicocefalo. Per cui conviene notare che i dati antropologici non sono ancora tanto sicuri da poter da essi ricavare qualsiasi conclusione. Egli è certo che già le testimonianze degli antichi scrittori ci mostravano gli Iberi, abitanti in origine in tutta 1’ Europa occidentale (2), forniti di caratteristiche fisiologiche speciali: pelle bruna, capegli neri e crespi, mediocre statura, persona forte ed agile nel tempo stesso; gente indurita alle fatiche e ai disagi (3). Alcuni scienziati moderni (4^ ritennero che fosse questa una razza speciale, differente dall’ Ariana, senza però essere Finnica, o Turanica oppure Semitica, che essi denominarono Iberica o Ibero-Ligure, ritenendo che stretta-mente legati con essa fossero precisamente anche i Liguri. A questa popolazione ascrivono una derivazione africana, collegandola con quei Libi, Lebu, o Rebu ricordati dalle iscrizioni egiziane, ultimi e superstiti rampolli dei quali sarebbero i Baschi e i Berberi, mentre in tempi remoti, prima dell’ immigrazione ariana avrebbero occupato gran parte del nostro continente, in particolar modo le regioni più occidentali. Questa teoria ebbe maggior fortuna e diffusione di un’ altra sorta quasi contemporaneamente, secondo la quale questa razza primitiva alla quale apparterrebbero i Liguri, sarebbe derivata dall' America Centrale e dall’Atlantide ora scomparsa, deducendo ciò da alcuni usi speciali dei cavernicoli, conformi a quelli degli abitatori delle Canarie e del Messico, dalla leggenda egiziana, ricordata da Platone nel Timeo e nel Crizia, secondo la quale (1) /,a grotte des Bas-Moulins (nell’ Anthropologie, 1901, ]). 1, segg.) (2) Strab., i, 2, p. 33. (3) Tacit., Agr., 2, cf. Strab., 3, 4, p. 163 e 164. 14) Cf. SCHIAPARELLI, Le stirpi Ibero-Liguri, nell’ occidente c nell' l-talia Antica; BERTRAND, Les Ibères et les Ligures de hi (ìnule, (in Revue archéologique, Paris, 1889). GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 85 ad occidente dell’Europa sarebbe esistita la grande isola A-tlantide, dalla quale facile sarebbe stato il passaggio al nostro continente, isola ricordata pure da una 'leggenda americana, raccolta dalla bocca degli indigeni del Yucatan dal Brasseur de Bourbourg (1). L’ Issel (2), dopo un attento confronto dei resti umani paleolitici della caverna dei Balzi Rossi con altri neolitici del Fi-nalese, ritiene che una stirpe unica, ora estinta, sia stata lungo il litorale ligure e francese fino al Rodano, e vi abbia esistito sin all’ albeggiare de’ tempi storici, stirpe a cui competerebbe il nome di ligure, che troverebbe, sotto Γ aspetto antropologico, perfetto riscontro colla razza di Cro-Magnon, illustrata da Broca, de Quatrefages e Hamy, che abitò, come indigena, ne’ tempi preistorici, gran parte dell’ Europa occidentale. Sarebbe questa la stessa razza che il Sergi (3), con termini più generali, denominò Mediterranea, perchè sarebbe stata ampiamente diffusa lungo il bacino del Mediterraneo, traendo, contrariamente all’ opinione dell’ Issel, origine dall’ Africa. Non entra nei limiti di questo lavoro il prendere in più minuto e-same tutte queste ed altre secondarie ipotesi intorno all’ origine dei Liguri; questo però credo necessario notare, che, se variano le opinioni intorno alla derivazione di questa razza, tutti però vanno d’ accordo nel ritenerla la più antica, o una delle più antiche, che abbiano abitato 1’ Europa occidentale. Più sicure sono le notizie che si hanno intorno al tenore di vita ed al carattere di questi primitivi abitatori della regione da noi presa ad esame; anzi gli studi paletnologici ci mettono fortunatamente in grado di accompagnare, nel cammino del progresso, 1’ uomo dalle epoche più remote fino ai tempi storici più conosciuti, non essendo state qui le perturbazioni esterne sì potenti da interrompere, come altrove, bruscamente il naturale sviluppo della razza primitiva, in modo da mutarne quasi radicalmente 1’ impronta originaria. Non è certo nostro intendimento di prender 1’ uomo fin (1) Cf. A. Or. Barrili, Gli antichissimi Liguri (nell’ Ateneo Ligure, anno XII, p. 40 segg.) (2) Im Liguria ed i S7toi abitanti nei tempi primordiali. (3) Origine e diffusione della stirpe mediterranea. 86 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LGURIA dalla sua origine, sebbene, in Liguria, si creda da qualcuno non ne manchino le traccie nel periodo terziario e nell epoca glaciale (i). Questi ilicerti primordi della razza umana entrano piuttosto nel campo della geologia che della storia. Non possiamo nello stesso modo trascurare i risultati della paletnologia per quello che riguarda il periodo quaternario e la successiva epoca storica primordiale, riuscendo essi di mirabile spiegazione alle scarse notizie che intorno ai Liguri ci lasciarono gli storici antichi. Non per tutti loro essi erano solo il durum in armis genus (2), il pervix genus (3), non erano per tutti solo i montani duri atipie agrestes (4), e il popolo as-suentum malo (5), tutte frasi, che, ripetendosi quasi colle medesime parole, tradiscono la comune fonte interessata donde furono desunte. Ma Diodoro Siculo (6), che non avea causa regionale di rancore verso di essi, se non ne parla con termini eccessivamente teneri, fa però un quadro veritiero delle loro abitudini. Egli osserva infatti che, essendo eccessivamente sterile ed aspro il suolo da loro abitato, essi traevano una vita miserabile, tutti intenti a faticosi e modesti lavori. Anche Posidonio (7) avea osservato che il suolo ligure era, così inclemente, che piuttosto che un arare era ivi un rompere i sassi. Essendo la loro regione montuosa e tutta coperta di selve, i più campavano la vita tagliando, con pesanti scuri, poderosi alberi, alcuni pochi coltivando i campi a gran disagio, poiché tanto era arido e pietroso il suolo, che cogli istrumenti agresti non rompevasi una zolla, senza infrangere delle pietre. Quantunque però essi avessero a lottare con tante difficoltà, a forza d’ ostinato lavoro, superavano la stessa natura, benché scarso fosse il frutto che ne traevano, e appena sufficiente ad alimentare i loro corpi macilenti, ma nerboruti. Non meno laboriose erano le donne, che condividevano co’ maschi le più dure fatiche. Essendo scarse le biade, davansi di preferenza alla caccia, percorrendo le ardue e difficili cime nevose de’ loro monti, e così riuscivano a indurire e fortificare le loro membra in modo veramente meraviglioso. (1) Cf. Issel, La Liguria geologica c pici storica. (2) Liv., 21, 26. — (3) Tac., Hist., 2, 14. — (4) Cic., Sext., 31, 68. (5) Vero., Georg. 2, 168. (6) 5, 16. — (7) in Strah., 5, 2, j>. 218. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 87 Acqua, erbaggi, e carne d’ animali selvatici e domestici e-rano i cibi e la bevanda da loro preferita. Oltre a queste particolarità, che potevano esser comuni a molti altri popoli che vivessero una vita ancor vergine, Diodoro ne nota alcune veramente caratteristiche. Egli osserva infatti che nella notte i Liguri dormivano nell’ aperta campagna, e assai di rado in vili capanne o in umili tuguri; ma per lo più in grotte scavate nelle viscere delle rupi, o in caverne fatte dalla natura. Questa vita dura e selvaggia faceva sì che le donne liguri avessero la robustezza degli uomini e gli uomini quella delle fiere, in modo tale che, venendo a singoiar tenzone il più forte de’ Galli resterebbe vinto dal più debole de’ Liguri. Anche Strabone (1) osserva che, vivendo i Liguri in un suolo aspro ed infruttifero si cibavano di carne selvatica e si dissetavano con latte e bevande d’ orzo. Ancora al tempo del greco geografo tutto il territorio ligure era coperto di fittissime selve, dalle quali gli abitanti ricavavano legname per costruire le navi, essendovi degli alberi con un tronco che raggiungeva perfino il diametro di otto piedi: egli vi riscontrava anche alberi atti a cavarne materiale da costruire mense non inferiori per solidità a quelle di cedro. Oltre Diodoro Siculo anche Posidonio e Strabono notano che i Liguri vivevano all’aperto, in luoghi non cinti di mura, κωμηδδν ζώσι (2), e che erano divisi in tribù, o genti (φΰλαι) (3). Di queste Strabone (4) ricorda gli Intemeli e gli Ingauni, mentre Polibio, egli dice, aggiunge a questi due anche gli Oxibi e i Deceati, che erano al di là dalle Alpi; ma oltre questi, lo stesso Strabone (5) ricorda anche i Sali, gli Albiensi, gli Albieci. Ma assai più numerose erano le tribù liguri sia di qua che di là dalle Alpi, e noi dietro la scorta degli scrittori e delle iscrizioni siamo fortunatamente in grado di stabilire chiaramente la posizione, il nome di tutte, almeno delle più importanti di esse. Tutti i Liguri erano anzitutto divisi in Cisalpini e Transalpini (6), e quelli suddivisi in Alpini (7) o Capillati (8) (Λίγυες oi Ιίομητοα) (g) che abitavano .(iì 4, 6 p. 202. — (2) Strab., 5, 2 p. 21S. (3) Strab., 4, 6 p. 202. — (4) 1. c. — (5) 4, 6, p. 204. (6) Liv., Ep. 60. — (7) Liv., 28, 56; 29, 5. (8) Lucan., i, 442; Plin., 3, 5, 7; 3. 20· 24· (9) Dione Cass., 54, 24. 88 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA sui declivi dell’Alpi Marittime, ed in Montani (i), che erano gli abitatori dei declivi dell’Apennino. Di questi ultimi i più orientali, lungo la riviera, erano gli Apuani (2), un ricordo de’ quali rimane ancora nel nome delle Alpi Apuane. Dal complesso delle vicende storiche di questa regione appare abbastanza chiaramente che ogni comunità, o tribù, si considerava indipendente, e cosi vedremo come ognuna di esse andasse soggetta a vicissitudini diverse. Nelle guerre combattute coi Romani appare ora 1’ una, ora Γ altra comunità, non mai tutti i Liguri uniti, ragione per cui devesi necessariamente arguire che essi non formassero uno stato, o una compagine politica unita. Gli Apuani appaiono nella storia precisamente appena che incominciarono le lotte da loro combattute contro i Romani. Pare che l'estremo limite occidentale del territorio da loro abitato, lungo la riviera, fosse il capo Mesco (3) ; più controverso è invece il loro confine orientale, che ponesi da alcuni alla foce della Magra, ritenendosi che Pon-tremoli fosse il loro luogo principale (4). Ma, se consideriamo che i monti Apuani si stendono sino al Serchio, e che d’altra parte, ponendo il confine alla Magra, il porto di Luni, che indubbiamente è 1’ attuale golfo della Spezia, sarebbe rimasto staccato dalla città che gli dava il nome, rimanendo questa in territorio etrusco e quello in territorio de’ Liguri Apuani (5), ed infine che per attestazione di Polibio e d’ altri scrittori sten-devasi sino all’ Arno il confine de’ Liguri, credo poter arguire, che, se all epoca augustea era riconosciuta la Magra come linea di divisione fra 1’ Etruria e la Liguria, così non dovea essere a tempi repubblicani, ne’ quali probabilmente il confine orientale degli Apuani era il Serchio, 1 'Anser (6), o Ausur (7) degli antichi. C iò sarebbe ancor maggiormente provato (I) Cic., Agr., 2, 35; Liv., 40, 41. — (2) Lrv., 40, 38. (3) Cf. V. POGGI, / Liguri nella preistoria, p. 23. (4) . Poggi, 0. c., p. 23. È però al tatto immaginaria l’opinione, espressa da qualche scrittore locale, che Pontremoli corrisponda ad 1111’ antica Apua. Cf. a tale proposito G. Rezasco, Dei Lunigianesi, pag. 4. (5) 3> 41’ 4· Cf. 2, 16, i; Apollod., 2, 5, 10; Dion. d’Alic., i, 41. (6) Plin., 3, 5, 8. (7) Rutil., i, 5, 66; presso Strabone, 5, p. 222, in genit. ΛΤσαρος corretto Αϋσχρο;·. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 89 da ciò che i Liguri Friniates (1), che abitavano sul declivio settentrionale dell’ Apennino, il cui crinale formava linea di confine fra loro e gli Apuani, si fanno generalmente giungere fino ad oriente del Panaro superiore, che in lingua liguie era detto Scultenna, toccando quindi 1’ Apennino sino al punto dove origina il Lima affluente del Serchio; ond’ è verisimile che, *nche sul declivio meridionale, fino a quel punto giungesse, ne’ tempi storici, il dominio ligure degli Apuani. Ma, come quello dei Friniatesche probabilmente in origine si stendeva sino al Po, nelle successive immigrazioni e conquiste si restrinse alla sola regione montuosa della Frignana, così il tenere degli Apuani sarebbe stato dall’invadente potenza etrusca respinto alla Magra, togliendo forse anche agli Apuani il vicino golfo della Spezia. Per questa ragione Luni, Luna (2), ΛοΟνα (3), mentre da parecchi scrittori antichi è posta fra le più importanti città del-1’ Etruria (4), da Pomponio Mela (5), da Livio (6), da Persio (7), da Giovenale (8) e da Servio (9) è collocata in Liguria, o almeno qualcuno ne parla in modo da lasciare in dubbio a quale delle due regioni appartenesse quella città. Qualsiasi però fosse la sua origine (10), egli è certo che non ebbe quel grande sviluppo, che la rese ricca e potente, se non che dopo la completa sottomissione degli Apuani al dominio romano. Questi fieri abitatori dell’ Apennino diedero molto filo da torcere ai Romani prima di chinarsi alla loro potenza. Quando nel 5(6i d. R. (193 a. C.) M. Cincio prefetto di Pisa, avvertiva (1) LiV: 39, 2. (2) Meia , 2, 4, 6; Liv., 41, 49; Plin., 3, 5, 8; Silio, 8, 4X1; It. Ant., p. 293. - (3) Strab., 5, p. 217, 218, 222 ; Tolom., 3, 1,4. (4) Strab., 1. c.j Plin., 3, 78 ; Lucan., i, v. 586; St. Br/.., p. 285; Stazio, 4, 4, 23; Tolom., 3, 4. (5) 2, 4, 6, Luna Ligurum. (6) 41, 49, de ligure captus is ager erat, quello cioè ove fu fondata la colonia di Luni, secondo alcuni, di Lucca secondo altri. (7) Sat., 6, 9, dove chiama ligus ora le spiaggie di Luni. (8) Sat., 3, v. 257, chiama saxa ligustica i marmi Lunensi. (9) Ad Aeri., 8, 720, parlando de’ marmi provenienti dal porto di Luni dice de portu Lunae, qui est in Liguria. (10) Intorno alle fantasticherie de’ cronisti riguardo all’ origine di Luni cf. C. Promis, Dell’ antica città di Luni, p. 35 segg. go GIORNALE STORICO E LETTERARIO JJELJ.A LIGURIA il senato, che i Liguri armati, in numero di venti mila, avevano invaso e devastato il territorio di Luni e di Pisa (i), ed incominciò quindi una serie di lunghe e sanguinose guerre cogli Apuani, già erano risuonate le armi romane in altri luoghi della Liguria, come contro i Deceati, gli Oxibi, gli Eburiati, e spe-cialmc*nte contro gli Ingauni. Non è però verosimile che solo nell’ anno sopraindicato avessero principio le ostilità contro gli Apuani, poiché, sebbene, durante la guerra annibalica, li troviamo alleati e sostenitori de’ Romani, a differenza degli Ingauni, che aveano preso le parti del Cartaginese, non è probabile che tacitamente abbiano tollerato d’ essere privati, prima da parte degli Etruschi, e poi dei Romani, di quel loro territorio, che era dalla Magra al Serchio, e non avessero più volte tentato di riconquistarselo Quelle quindi che i Romani chia mavano depredazioni non sarebbero state che regolari campagne, alle quali tanto più non doveano mancare gli appigli, in quanto che il porto di Luni era situato in territorio apuano, sebbene da una valida cerchia di monti fosse quasi staccato dalla regione circostante. Che infatti questa prima campagna degli Apuani, ricordata dalla storia, non potesse ritenersi una semplice ruberia, ce lo dimostra il fatto, che, contemporaneamente diecimila Friniates, discesi da’ monti, avevano devastato il territorio piacentino, portando la desolazione fin sotto le mura della colonia; onde si comprende, che era questo un moto generale di tutta quella regione, prodotto, o dal desiderio di riconquistare il perduto, o perchè i Romani, che già tenevano il vicino territorio, credendo giunto il momento di annettersi la Liguria orientale, ne aveano preparati di lunga mano i pretesti per dare, coll’ eccitare i Liguri a prender le armi, alla conquista 1’ aspetto di legale punizione. Non fu però sì pronta la vittoria come a tutta prima si credeva, poiché solo dopo una lunga serie di vittorie e di stragi riuscì Roma nel suo intento. Infatti la campagna del 193 a. C. finì colla peggio del console Minucio, che fu assalito dagli Apuani fra i monti, e potè a mala pena sfuggire a certo sterminio per la prodezza de’ Numidi (2). L’ anno seguente si mutarono le parti: novemila Liguri furono battuti nell’ agro pisano, e, inseguiti entro i loro stessi con- fi) Liv., 34, 56. - (2) Liv., 34, 56; 35, 3 6, 40. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 91 fini s’ ebbero castelli e terre abbruciate. Anche a questa campagna presero parte i Friniates, che pure rimasero sconfitti. Nel 191 a. C. più acre che mai si accese la guerra, che 1’ anno seguente parve terminata, come scrisse lo stesso proconsole al senato (i). Ma quella che seguì non fu che una pace apparente, poiché dal 186 a. C., nel quale anno toccò al console 0. Marcio Filippo una grave sconfitta, per la quale gli Apuani nuovamente s’ estesero al di là dalla Magra, dando il nome di Marcio.a\ luogo della vittoria (2), al 185 a. C., quando il console Sempronio sgombrò dell’orde liguri ii tratto fra Pisa e la Spezia, fino alla completa dedizione de’ montanari, la più gran parte de’ quali furono esportati nell’ agro taurasino, fu una serie continua di ostilità (3), il cui esito finale fu la fondazione della colonia di Luni (a. 177 a. C.), dove dai trimviri P. Elio, L. Egilio e Cn. Sicinio furono portati due mila cittadini romani (4). Essa fu ascritta alla tribù Galeria (5). La città di Luni comincia da quest' epoca a sorgere a grande importanza. Le mura, di cui era cinta, costruite di grandi dadi di candido marmo, dette perciò candentia moenia, attiravano 1’ ammirazione degli antichi (6). (1) Liv., 36, 38; 37, 2; Floro 2, 3. (2) Questa località pare fosse fra Sarzana e Lerici, presso Trebbiano, dove esiste un canale detto del Marzo; così pure una selva presso Sarzana è detta sylva Martii in un diploma di Federico III, del 14691 e nell antico statuto di Sarzana. Cf. PROMIS, o. c., p. 46. (3) Per più diffuse notizie intorno a queste guerre cf. Oberziner, Le guerre d’ Augusto, p. 125 segg. (4) Alcuni scrittori antichi anzi che a Luni dicono fondata la colonia a Lucca. Ma mi sembrano esaurienti le ragioni proposte dal Promis, ο. c., p. 46 segg., per dimostrare che la colonia dedotta in quest’ epoca fu precisamente Luni. (5) CIL., XI 11. 1330, 1335, 1362, 1388. A queste vanno unite le sei iscrizioni pubblicate da P. Podestà, Nuove scop. nell’ ani. Limi (in Notiz. degli se. del mese di die. del i8go) dove, essendo fatta parola dell ordo Lunensmm, appare che alla fine del terzo secolo Luni era municipium. Si sa d’ altronde come le qualità di colonia e municipio assai spesso si confondessero. (6) Rutilio Numaziano, Itin., 2, v. 60 segg. così descrive le mura di Limi: Advehimur celeri candentia moenia lapsu: Nominis est auctor sole corrusca soror. Indigenis superat nidentia It ha saxis Et /aevi radiat picta nitore silex t 92 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA La sua maggiore importanza comincia però solo dopo 1’ epoca augustea, riferendosi all’ èra imperiale le rovine de’ principali suoi monumenti, come quella di un anfiteatro, di un teatro, di templi, di edifici privati (1), e, quel che più monta, le rovine stesse della curia, della quale numerosi e cospicui avanzi e statue furono riscontrati, non è molto, sotto le rovine dell’ antica chiesa di S. Marco, ampliando così considerevolmente le notizie intorno alle condizioni di Luni all’epoca imperiale (2). Più ancora che la città attirava la curiosità il suo famoso porto. Esso, per attestazione di Strabone (3), che lo descrive minutamente, formava una parte quasi distinta dalla città. I Greci, egli dice, chiamano Σελήνη la città, e Σελήνης λιμήν il porto, 1' una non grande, 1’ altro vastissimo ed oltre modo bello, tanto che in sè stesso racchiude molti altri piccoli porti, ognun dei quali ben insinuantesi entro terra, adatti a gente appunto che per sì lungo tempo erano destinati a tenere il dominio di sì vasto mare. Il porto, continua il greco geografo, è cinto da monti alti, donde si può dominare tutto il mare, e vedere fino le coste della Sardegna e gran parte de’ lidi circostanti. Questa vasta insenatura, che giustamente tutti gli eruditi ritennero essere il golfo della Spezia (4), avea già richiamato l'attenzione Dives marmoribus tellus, quae luce coloris Provocat intactas luxuriosa nives. Nel 1442 visitando Ciriaco Anconitano (.Vova fragmenta, p. 16) Ic rovine di Luni, notò le pietre marmoree, clic egli trovò di 8 piedi di lunghezza e 4 di larghezza, tagliate a guisa di parallelepipedi, che formavano le mura. Antonio Ivant, scrittore sarzanese, in sua lettera del 1476 parla pure di questi parallelepipedi di bianco marmo. Finalmente A. Bertolonì, Delle mura ili Luni, ne trovò nelle vicinanze le traccie della cerchia delle mura, in luogo al quale gli abitanti danno il nome la Cerchia: erano, egli dice, di marmo bianco con macchie pavonazze; questi massi doveano quindi· provenire dalla Bianca nel promontorio lunese, o Capo Corvo. Ciò contrariamente all’ opinione espressa dal Promis, ο. c., p. 100, che riteneva le pietre esaminate da Ciriaco Anconitano riferentisi non alio mura, ma ad altri monumenti. a) Cf. Promis, o. c., p. 88 segg. (2) Quest’ importante scoperta fu messa in luce da P. Podestà, o. c., nel 1886. — (3) 5, 2, p. 222. (4) Che il porto di Luni corrispondesse realmente al golfo della Spezia, ritenevasi Ini dal secolo X \ . Il Promis, ο. c., p. 26, dimostrò non po- ^ giornale storico e letterario della ligukia 93 di Ennio, che lo designava all’ ammirazione de’ suoi concittadini : Lunai portum est operae cognoscere, cives (i). Così da si tarda età fino a Vergilio (2), Persio (3), Silio (4) e molto più su fino al Petrarca (,5), tutti furono concordi nel riconoscere in sì meraviglioso porto tutte le grazie della natura. La sua ampiezza e comodità ne favorì per tempo il movimento navale. Di qui pare sia partito nel 215 a. Cr. col suo esercito T. Manlio Torquato, uomo consolare, per recarsi in Sardegna a sedarvi una sollevazione (6); nel 195 a. C. di qui partì il console M. Porcio Catone per sbarcare, dopo aver costeggiato la Liguria e la Gallia, a Roses nella Spagna (7), e, nel 44 dell’ era volgare, il porto di Luni servì di covegno alle navi romane condotte da Claudio contro la Brittania (8). Anche il commercio della città vicina ebbe grande incremento per 1 a-gevolezza alle comunicazioni offerta dal porto Marziale (9) ricorda le colossali forme di formaggio di Luni, che portavano, come marca di fabbricazione, la luna: Caseus Hetruscae signatus imagine Lunae praestabit pueris prandia mille tuis. Non credo però di essere in errore ritenendo che, se Luni era 1’ emporio, o il punto di partenza di sì famoso formaggio, tersi ritenere, come alcuni fanno, che oltre al porto maggiore di Luni, cioc al golfo della Spezia, ve 11e fosse uno minore alla foce della Magra. (1) In Persio, Sai. 6, v. 9. (2) Nella descrizione del porto della Sicilia, dove approdò Enea, ciedesi che Vergilio, Aen, 3, v. 533 ecc., prendesse a modello il porto di Luni. Così Heine al commento a quel verso, e Promis, o. c., p. 23. (3) 1. c. — (4) Punk. 8, v. 481. — (5) Africa, lib. 6 in fine. (6) Liv., 33, 34, 40, 41. Che Tito Manlio Torquato sia partito dal porto di Luni, deducesi dal fatto, che con lui militava, allora giovane, il poeta Ennio, e che in nessun’ altra occasione, se non in questa, potè prender cognizione di questo porlo. (7) Liv., 34, 8. (8) Deducesi da un passo di Scriboniano, De compos, medie., 42 : della spedizione parlano Svetonio e Dione. (9) 13. cp· 3°· 94 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA non fosse parimenti precisamente il luovo dov’ esso si fabbricava. Poiché, se mancano ora i copiosi pascoli, che a tale uopo sarebbero necessari, come non sarebbero mancati allora, che concordemente tutti gli scrittori ci dipingono quel territorio coperto di fitte selve? Perciò non sembrami troppo ardito il credere che questo non fosse altro che Γ ancor oggi famoso formaggio parmigiano, per la valle del Taro a della Magra portato sul mercato di Luni, dove s’ imbarcava per lontane regioni. Così pure godevano meritata fama i vini di Luni. Afferma infatti Plinio (i), che essi tenevano la palma su tutti gli altri dell’ Etruria. Ma industria e commercio di ben maggiore importanza vi fiorirono all’ epoca imperiale; quelli cioè dei noti marmi lunensi. In epoche alquanto remote pare che non si a-vesse cognizione di quelle preziose cave e del marmo oggi detto di Carrara, poiché nessun monumento d’ una certa antichità, nè in Etruria, nè a Roma, riscontrasi eseguito con esso. I marmi greci, specialmente quello di Paro, erano più comunemente in uso, quando, in seguito alla seconda guerra punica, coll’ aumentare delle ricchezze, si sentì la necessità di fregiare i palazzi e le piazze di colonne e di statue di marmo. Il primo a far menzione del marmo carrarese fu Cornelio Nepote (2) dicendo che Mamurra, cavaliere romano, che era stato prefetto de’ fabbri nell’ esercito di Cesare nella Galiia, e che recatosi poi a Roma, serbandosi sempre fedele a Cesare, (3) condusse una vita eccessivamente molle, fregiò tutta la sua casa, sul monte Celio, di colonne di cipollino, ossia di marmo lunense. Ciò indica che già nel 48 a. Cr. circa, il marmo carrarese era noto a Roma, e quindi da tempo si esportava dal golfo lunense. In seguito divenne sempre più noto, e Strabone (4) osserva appunto fra le rarità di Luni, che ivi si scavavano marmi bianchi, ed altri venati di ceruleo, in tanto numero e di tali dimensioni, da costrurre colonne e grandi tavole d’un solo pezzo. Infatti, egli soggiunge, la più gran parte delle opere egregie, che sono la meraviglia di Roma e d’ altre città, sono costruite con questi marmi, il cui trasporto è assai facilitato dal (1) 14, 8, dove a proposito dei vini dice: Etruriae palmam Luna habet. (2) In Plinio, 36, 7. — (3) Cic., ad Ati., 13, 52. (4) 5. 2> V- 222· GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 95 fatto che le cave trovansi presso il mare, onde colle navi tra-sportavansi i blocchi per le foci del Tevere a Roma. Naturalmente Strabone va inteso con certa discrezione dove dice che le cave sono vicine al mare, e non devesi perciò, come fece qualche scrittore locale (ij, ritenere che egli non parli delle cave di Carrara, ma bensì di altre più vicine al mare, poiché la distanza di quelle dal mare non è affatto tale da autorizzare tale asserzione. Lungo il lido riscontrasi l’esistenza di altri marmi, special-mente venati e colorati; ma qualità per altro non pare che'sieno state usate negli edifici di Roma (2), sebbene il portoro, detto Portovenere, fosse pure usato per opere di piccola mole, come attestano due marmette romane esistenti nel museo di Bologna (3). Ma non a questo genere di marmi devonsi riferire le notizie di Strabone, perchè per attestazione di Plinio (4), si recavano a Roma marmi candidissimi, specie quelli della cava del Polvaccio, donde per 1’ attento esame di scienziati sarebbe derivato anche il marmo col quale fu scolpito ì’Apollo di Belvedere (5). Del resto traccie di marmo carrarese furono riconosciute nelle im-pellicciature e negli stipiti, e in altri ornati del Pantheon, nella piramide di C. Cestio, sulla via Ostiense, nel portico di Ottavia. Così pure di marmo lunense, per attestazione di Servio (6), era il tempio di Apollo Palatino, come del resto risulta dagli avanzi del medesimo. Lo stesso dicasi del tempio della Concordia in Campidoglio, dell’ arco di Claudio, sulla via Flaminia, del sepolcro di Nerone (7), della parte del Palatino aggiunta da Domiziano (8), dell’ arco di Domiziano, costruito sulla via da lui aperta fra Sinuessa e PozzUoli, del ponte sul Volturno (9), e sopra tutto nel foro Traiano, specialmente nella colonna traia- (1) Cf. Bertoloni, o. c., p. 7. (2) Cf. a tale proposito Promis, o. c., p. 98. (3) Sono debitore di questa circostanza finora ignota agli scienziati al d.r U. Mazzini. — (4) 1. c. (5) Così ritengono il Mengs ed Ennio Quirino Visconti. Cf. Missirini, Dell’ atto dell’ Apollo di Belvedere. — (6) Ad. Aeri., 8, 720. (7) SUET., Ner., 50. In eo monumento solium porphyretici marmoris, superstante. Lunensi ara, circumseptum est lapide Thasio. (8) Stazio, Sylv. 4, 2; Marziale, 8, 36. (9) Stazio, /. c. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA na, nell’arco di Costantino, nel tempio di Giove ad Ostia ed in altri assai, che troppo lungo sarebbe il nominare (i). Un altro cespite di guadagno per i Lunensi era il commercio di legname da fabbrica che per mezzo de’ fiumi si trascinava al mare (2). Ouesta già florida città, messa a ferro e fuoco da Rotari (641), poi dai Saraceni (849),fu completamente rovinata dai Normanni, condotti da Hasting nell’ 846, e non risorse più all’ antica grandezza. Ora le sue rovine si ammirano non lungi da Sarzana. Località di minore importanza ricordata nel tenere degli Apuani, sono Rubra (3) (Terra Rossa); Bibo/a (4); Erix (5) (Έρΐχης· κόλπος) (6). Lerice; Portus Veneris (7) Αφροδίτης λιμήν (8), Porto Venere; Boaceae (9). Quanto a Lerici e a Porto Venere conviene però notare, che alcuni dotti ebbero con buone ragioni a sostenere che non risalgono che ad epoca medioevale e che perciò que’ nomi siano interpolazioni posteriormente fatte ne’ citati testi antichi. Accanto agli Apuani, per lasciare i Lapicini, i Garuli, e gli Hergates, che nomina Livio (10), ponendoli cis Apenninum e de’ quali non è sicura la posizione, verso occidente, dal capo Mesco a Portofino, erano i Tiguli, comunità poco nota, nel cui tenere gli itinerari e gli scrittori pongono le località Bodetia (11), Bonassola; ad Momlia (12), Moneglia; Tigulia (13), Tigulia (14), Tegolata (15)) Τιγοολλϊα (i6), le cui rovine riscontrò alcuno presso Tregoso, altri l’identificarono con Segesta Tiguliorum (17), o semplicemente Segesta (18), ora Sestri Levante; Entellia (19), cioè Lavagna alle foci del torrente Entella, nominato da Tolomeo (20), ad Solaria, eh io ritengo essere 1’ odierna Zoagli, e finalmente Portus Del- (1) Cf. Repetti, Dell’ Alpe Apuana. (2) Strab., 5, 2, p. 222. — (3) Geogr. Rav., 4, 32. (4) Geogr. Rav., 4, 32. — (5) It. Ani., fr. p. 531. (6) Tol., 3, i, 3. — (7) It. Ani., p. 502. — (8) Tol., 3) '3· (9) It. Ani., p. 293. — (10) 41, 19. (li) It Ant., p. 294. — (12) Tav. Peut., e Geogr. Rav., 4, 32. (13) Mela, 2, 4, 9. — (14) Pun., 3, 5, 7. - (15) It. Ant., p. 294. (16) Tol., 3, i, 3. — (17) Plin., 3, 5, 7. (18) It. Ant., p. 501 e 502. (19) Il Ant., p. 531; TOLOM., 3, i, 3, nominali torrente Entclla. (20) Tav. Peut., Geogr. Rav., 4, 32. Per l’analogia del nome pongo GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Q7 plum (i)) ora Portofino, luogo contermine fra i Tigidi e la tribù dei Genuates, che seguivano ad occidente, occupando lungo la costa tutto il territorio che va fino al torrente Le-rone, secondo alcuni (2), secondo altri solo alla Polcevera, avendo però in alcuni punti le due tribù vicine sconfinato (3); non credo però improbabile che il confine vada cercato in un punto intermedio, forse presso Sestri. I confini dalla parte interna non sono ben definiti se non che per quel tratto dove i Genuates toccavano i Veiturii Langenses, che la sentenza dei Minuci, eternata nella tavola della Polcevera, definì nel modo che vedremo più innanzi, dove si parlerà dei confini dei Veiturii. Il confine settentrionale fra i Genuates ed i Dectumni, sebbene non sia espresso da alcun documento antico, par tuttavia dovesse esser formato dai contrafforti orientali ed occidentali del monte Antola, che ancor oggi segnano dal più al meno i confini settentrionali della provincia di Genova. Dei vari pagi ricordati dalla tavola della Polcevera solo gli O-diates appartenevano ai Genuates, ed essendo essi confinanti col-1’agro Iangense, pare abitassero fra la Polcevera e il monte Alpè, stendendosi dal monte Carmo (vi. Tuledon) al monte Bastia. È strano, che, mentre degli Apuani furono ricordate dagli storici antichi tutte le più minute particolarità riferentesi alla loro sottomissione, nulla ci abbiano riferito per ciò che riguarda i Genuates. Furono essi vinti, come i loro vicini, dopo una serie di lunghe é disastrose guerre? Fecero forse causa comune cogli Apuani nella lotta contro Roma ? Oppure credettero più opportuno staccarsi dai loro vicini d’oriente, come pure dai bellicosi Ingauni d’ occidente, tenendo una condotta amichevole coi Romani ? Quest’ultima pare l’ipotesi più probabile, cioè che vinti nelle prime guerre liguri, fra il 517 e il 531 d. R., si conservassero per sempre fedeli a Roma, poiché sappiamo che i Romani a Zoagli, presso Chiavari, la Stazione ad Soiaria, che il Mannert. p, 283, colluca al Ponte di Sestri, e il Reichard, presso Campi. (1) Plin., 2, 5, 7 e 21. Ant., p. 502 ; lo stesso itinerario a p. 294 chiama la stessa mansione semplicemente Dclpliini, ed altrove, p. 531, Delphinum. C’ è chi crede che il suo nome originario fosse Portus Finis, essendo porto di confine fra le due comunità dei Genuates e dei Tigulì. (2) Cf. VTït. Poggi, o. cp. 23. (3) Cf. G. Poggi, 0. c., p. 55. Giorn. stor. e lett. d. Lig. III. 6 g8 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA per stringere amicizia ed alleanza coi Marsigliesi si servirono della mediazione dei Genuates, il che fa necessariamente ammettere che questi, molto per tempo, fossero in ottimi rapporti con Roma. Infatti l’importanza marittima acquistatasi da loro, che, fin da epoche remotissime, correvano, come vedremo, colle loro navi il Mediterraneo, deve aver suggerito ai Romani la necessità di tenerseli amici, e dall’altra parte ai Genuates il bisogno di trovare in quelli un valido sostegno, per conservarsi, contro le insidie dei vicini, il primato della navigazione in quelle sP'aggie. E per vero tutti i rapporti dei Romani coi Genuati appaiono fin da principio improntati della migliore amicizia, poiché oltre l’accennata mediazione di Genova in favore dei Romani, sappiamo che nel 538 d. R , il console Publio Scipione, volendo dalla Gallia recarsi al Po, navigò da Marsiglia a Genova, per raggiungere di lì la sua meta (1). Durante la guerra annibalica, mentre la riviera di ponente fa causa comune coi Cartaginesi, Genova è invece unita coi Romani, onde Magone la distrugge dalle fondamenta. I Romani, senza nemmeno aspettare il termine delle ostilità, mandano un propretore a ricostruirla (2), e, sottomessa la Liguria occidentale, fu posto il focolare della guerra di qua dall’Apennino a Genova, di là a Piacenza (3). Ciò parrebbe indicare che fin d’allora i Romani consideravano Genova come loro incontestato dominio, anziché come una semplice città alleata. E quando, nel 557 d. R., Q. Minucio prese le mosse della guerra dai Liguri, avea concentrato a Genova il suo esercito e di lì si volse contro Clastidium e Litubium, che furono sottomesse, ed i Romani, come già prima, per facilitare le loro relazioni colla Liguria, aveano continuato la via Aurelia lungo il litorale, così ora ne costruirono un’altra cioè la Postumia, per la quale in breve tempo e con facile cammino, potessero attraversare l’Apennino, congiungendo Genova con Piacenza, cioè le due principali sedi della guerra. Le armi de’ Romani pare non avessero più a travagliarsi in questo golfo fino al tempo nel quale Pompeo ebbe a cacciarne i pirati, che vi s’erano annidati. La città principale de’ Genuates, colla quale anzi questi sono (1) Liv., 21, 32; Val. Mass., i, 6, 7. (2) J.iv., 28, 46; 30, i. - (3) Liv., 36, 29. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 99 assai spesso identificati, è Genova, (Genita (i), Γένοα (2). Quali fossero le sue origini, e a quale epoca si debbano porre, benché molte ipotesi fossero emesse a tale proposito, come pure riguardo l’origine del suo nome, non possiamo con sicurezza accertare, essendo tutte favole senza alcun fondamento quelle che fanno fondatore di Genova un Giano figlio di Saturno, o un Genuino, figlio di Fetonte, o Giano re degli Itali ; favole messe in giro da’ cronisti medioevali ed accettate con poco buon senno da qualche scrittore locale moderno. Non è improbabile che, in origine, Genova, fosse un piccolo vicus de’ Liguri, e che, avendo preso per tempo sviluppo pe’ suoi rapporti commerciali coi popoli marinari, che toccavano le coste del Tirreno, sia, in seguito, stata ampliata e cinta di mura al tempo de’ Romani. Questo è certo che, essendo stata distrutta da Magone, nel 545 d. R., come poco dianzi abbiamo notato, fu ricostrutta due anni appresso dal propretore Spurio Lucrezio, che vi venne con due legioni di ottomila uomini, nell’intento di far sorgere più bella e più forte la rovinata città, che sorse sul poggio ora detto Piano di S. Andrea, o nelle sue adiacenze, come attestano gli avanzi delle antiche mura ancor adesso esistenti (3), o quelli poco fa atterrati. Del resto poco o nulla ora rimane degli antichi monumenti la cui esistenza si afferma più per induzione che per certezza di prove (4). Non v’ ha però dubbio (1) Liv., 21, 32; 25, 46; 8, 30; Plin., 3, 5, 47; Tav. Peut; Ititi. Ant., p. 295, 502; Geogr. Rav., 4, 32, 5, 2. Solo a’ tempi dei Carolingi cominciò a chiamarsi anche Ianua. Parleremo in seguito del supposto secondo nome greco di Genova. (2) Strab., 4, 6, 1, p. 202, 203; 5, 1, 3, p. 211. Tolom., 3, 5. (3) Intorno alle mura di Genova cf. Celesia. Della topogr. primit. di Genova (in Giornale della soc. di letture e conversazioni scientific. di Genova, anno IX, p. 538 segg.) Non possiamo però condividere con lui 1’ opinione che precisamente la località dì Sarzano sia 1’ antico centro, Varx /ani, meno ancora che il nome Carignano derivi da Carine di Giano, etimologia che fa il paio con quella proposta da chi ritiene che questo nome derivi dal-,l’armeno Cherim Iani, cioè vigna di Giano, oppure da un Carino romano. (4) Fra le molte opere e pubblicazioni inserite in vari periodici, che furono da me consultati, citerò soltanto il Federici, Dizionario /storico, MS. nella R. Univ. di Genova, dove parlasi di acquedotti romani e di altre antichità genovesi. Degli Alti di st. patria vanno consultati specialmente il 30 e 40 volume, contenenti importanti studi del canonico Grassi e dell’ abate San- IOO GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA che le proporzioni della città erano piccole, e che non abbondava di edifìci privati molto sontuosi, poiché, ancora nell' avanzato medio evo, le vie erano anguste e la maggior parte degli edifici privati erano piccoii e costruiti di legno (1), benché la causa di ciò possa alcuno trovarla nella rovina della città operata da Rotari. Genova, come Luni, appartenne alla tribù Galeria (2), ed ebbe forma di municipio (3), i cui flamines, o decuriones, sono ricordati dalle iscrizioni (4). Come vedremo nei seguenti capitoli, l’importanza commerciale di questa città risale ad epoca remota; importanza che dovette maggiormente svilupparsi quando, oltre che fiorire per le sue relazioni marittime, potè mettersi comodamente in comunicazione con tutte l'altre città riveranee e con Roma stessa, per la via di terra, allorché dopo la conquista, furono continuate dai Romani nella Liguria quella via Aurelia, che, per 1' Etruria, conduceva per la t>orta Aurelia, al Gianicolo (5), e per il pons Aurelius, 1 attuale ponte Sisto (6), conduceva a Roma, e la via Postumia ^a. d. R. 606) che univa Genova con Piacenza, percorrendo la valle della Polcevera. Queste facili comunicazioni devono aver contribuito non poco a rendere fin d allora Genova il vero e più importante emporio della Liguria (έμπόριον Λιγύων) dove, come asserisce Strabone, affluivano le merci di tutta la regione, che venivano probabilmente commerciate nella località ora detta Morcento, negli Orti di S. Andrea (8). Ivi si vendevano pecore, pelli e GUiNEii, sulle iscrizioni romane, e di De Simoni sulle vie e sulla topografia della tavola della Polcevera. Cf. pure Celesia, Porti e vie strate; Santo Va™, Di un sepolcreto romano ecc. ; CAPURRO, Nozioni archeologiche intorno alla Liguria. (Giorn. ligustico, 1, 1S74J SlMIANE, Rapport sur une excursion archéologique a Genes (in Bulletin monumental, XXIX), ed inoltre le vane pubblicazioni archeologiche inserite nel Giornate Ligustico, e nelle Notizie della R. Accademia dei Lincei. Queste e dell'altre le più important avremo occasione di citare nel corso di questo lavoro, (1) Cf. BELGRANO, Anticaglie (in Giornale ligustico, a. XIII, p. 206 sgg. . (2) CIL., I, n. 185, — (3) CJL., V, 2, n. 7153. (4) CIL., V, 2, n. 7373. — (5) Cf. Becker, topogr., p. 196, 212. (6) Cf. o. c., p. 701. — (7) Strab., 4, 6, p. 202. (8) Cf. Celesia, o. c., p. 542 e F. Podestà, Il colle di S. Andrea in Genova (in Alti della soc. ligure di st. patria, voi. 30). GIORNALE STORICO E LETTERARIO UKLLA LIGURIA IOI miele, cavalli e muli speciali chiamati γίννοι. (i), tuniche e sai detti ligustici. Strabone afferma che v’ era copiosa e si vendeva pure 1’ ambra. Fra i prodotti naturali della Liguria Plinio annovera il ligusticum, detto anche panace, (2) ed il tufo bianco (3). S'esportavano l’olio e il vino italico, sebbene dica il greco geografo, che presso i Liguri poco vino si produceva e questo sapeva di pece ed era austero (4). Plinio (5) nota però che, come per il vino dell’Etruria, teneva la palma Luni, Genova la teneva per la Liguria. Osserva tuttavia Marziale (6), che l’a-stuto padrone di casa facevasi mescere ottimo vino vecchio, mentre ai convitati offriva vino ligustico, il quale, per affermazione di Columella (7) veniva condito colla pece nemeturica e confezionato in un modo speciale. Un altro articolo d’esportazione dalla Liguria era l’uva secca, che, secondo Plinio (8), veniva avvolta in giunchi, e riposta in botti, che venivano poi chiuse con gesso. Tutti gli Alpini, tanto i Reti, come i Liguri, usavano, per riporre i vini, delle botti di legno (9), e Strabone (10), certo in senso iperbolico, dice d’averne viste di proporzioni maggiori delle case. I marmi della regione ligure vinicola rammentano alcuni dispensatores, e riportano effigiati carri, che portano delle botti (11). Oltre queste merci, non dovea mancare sull’ antico mercato genovese la lana, poiché asserisce altrove il medesimo geografo (12), che la lana migliore e più fina producevasi nella regione Modenese, e nella valle dello Scu/tenna, che, come prima abbiamo avvertito, era regione ligure, lana più ordinaria, egli continua, producevasi nella Insubria e nella Liguria propriamente detta, e mediocre a Padova Località di minore importanza, nel tenere de’ Genuati, ricordate dalle fonti antiche sono: Ricina (13) (Recco) e ad Figlinas (14) (Fegino) nella valle delia Polcevera. (i) Strab., 1. c. — (2) 19, 50, 1. — (3) 36, 48, 1. (4) La tavola della Polcevera, 1. 27, parla anche del vino e del grano come produzioni dell’ agro langense. (5) 14» 8, 7· — (6) 3, 82. — (7) 12, 23, 24. (8) 15, 18, 5. — (9) 15. 27, ii· - (10) 5, i, 12. (11) Cf. Promis, St. ant. di Torino, p. 116. (12) SfRAB., 5, p. 217. — ^13) Tav. Peut.; Geogr. Ravenn., 4, 32. (14) Tav. Peut.; il Geogr. Raw, 4. 32 scrive Tic/inis. 102 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA A settentrione dei Genuates erano i Dectunini, ricordati nella tavola della Polcevera, che dalle sommità dell’Apennino s’estendevano sino al Po, così che rappresentavano una delle più estese civitates liguri. Fra questa e quella dianzi nominata dei Friniates, e precisamente fino al torrente Bobbio era un’ altra importante civitas ligure, cioè quella dei Veileiates, colla città principale Veli eia, nota per le caratteristiche tombe liguri della prima età del ferro ivi scoperte. Per tornare ai Dectunini, convien notare eh’essi furono coinvolti, cogli altri Liguri vicini, nelle guerre contro i Romani. 1 fatti più noti di essi consistono nella spedizione fatta nel loro agro, nel 530 d. R., dai consoli Caio Flaminio Nepote e F. Furio Filo, dei quali, nei fasti capitolini, troviamo segnato il trionfo. Altra fazione di guerra ebbe luogo in queste contrade 1’ anno seguente, quando i consoli Cneo Cornelio Scipione e Marco Claudio Marcello entrarono colle legioni fra gli Insubri e posero l’assedio ad Acerra, città posta probabilmente presso il Po, nel Cremonese. Narra Polibio (1), che non riuscendo gli Insubri a riconquistare la vinta città, sfogarono l’ira loro, portando le armi contro Casteggio, alla quale posero 1’ assedio ; e Plutarco (2) soggiunge, che Marcello corse colla cavalleria e parte della fanteria a soccorrere la desolata città, onde gli Insubri ne abbandonarono le mura per venire a campale battaglia, nella quale ebbero la peggio e il loro re Virdomaro rimase ucciso. Conseguenza di tanta vittoria fu la sottomissione del territorio degli Insubri e dei Gesati, onde ebbe Mai cello l’onore del trionfo, come ricavasi dai fasti capitolini. Fu quindi fra il 531 e il 532 d. R., che i Romani cominciarono a prendere possesso del Tortonese. Se non che Galli e Liguri di mal animo tolleravano il giogo romano, per cui, quando, alla venuta d’Annibale in Italia, s’ offerse loro occasione di riconquistare la libertà, allorché Publio Cornelio Scipione, vinto al Ticino, s’era ritirato alla Trebbia, Casteggio, con tutte l’abbondanti provvigioni, che v’erano racchiuse, cadde in potere del duce cartaginese. Dopo la guerra annibalica, se il territorio dectuniense tornò sotto il dominio romano, dovette però passare un secolo, nel quale si alternavano le paci e le guerre, prima che i Romani vi tenessero l’incontrastato do- r) 3> 17> 4· — (2) in Marcello 12. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 103 minio. Fu solo nel 637 d. R., che i consoli C. Cornelio Cetego e Q. Minucio Rufo vi fecero una guerra a fondo. Il primo assali questa regione, venendovi dal territorio degli Insubri, 1’ altro marciando da Genova verso il Po. Racconta Livio (1) che Clastidium c Litubium, ambedue città liguri (utraque Ligurutn), si arresero, e così pure due civitates della medesima gente cioè i Celelates ed i Cerdiciates, delle quali non è ben certa la posizione, ma che certamente non doveano esser molto discoste dalla civitas dei Dectunini. Le due vie costruitevi, cioè la Postumia da Genova, e X Emilia da Rimini valsero ad accrescere importanza a questa regione. La città principale della regione era Tortona (Dertona (2), Δέρτων, (3), Δέρτουν), (4), che Plinio nomina fra le nobili città liguri fra l’Apennino e il Po (5). Fin da’ tempi repubblicani essa era annoverata fra le colonie (6) e sebbene Velleio Pa-tercolo (7) asserisca non esser certo l’anno in cui divenne tale, pure ritengono generalmente i dotti, che essa appartenesse a quelle dieci o dodici colonie, che, secondo Plutarco e Appiano, nel 631 d. R., furono mandate in varie regioni d’Italia. Giulio Cesare, come avea fatto per altre colonie, tolse anche ai Dertonesi il loro territorio, che assegnò a’ suoi, formandone una colonia militare (8), che fu chiamata Iulia Dertona (9) aumentata poi e fortificata da Augusto denominossi Anglista * Dertona (10). Essa era ascritta alla tribù Pontina. Le numerose lapidi antiche, alcuna delle quali fa menzione di un forum e di un porticum, farebbero fede della considerevole prosperità ed ampiezza della città (11). (1) 32> 29· (2) Liv., 32, 28 ; Pr.lN., 3, 5. Solo alla metà del secolo quinto si comincia ad usare la forma Terdona. (3) Tolom., 3, i, 45. — (4) Artemidoro in St. B., p. 315. (5) Molti scrittori de’ secoli passati, come Leandro Alberti e Giorgio Merula parlano d’un nume speciale, Anti/io, che la città avrebbe avuto prima. Ma ciò non ha fondamento in alcuna testimonianza antica. (6) Pr.iN., 3, 5. Dertona colonia. (7) I, 15, de Dertona ambigitur. (8) CIL., Y, 2; 7375· - (9) CIL., V, 2; 7370. (10) CIL., V, 2; 7373. 1 II) Cf. G. A. Bcttazzi, Le antichità di Tortona e suo agro. p. 128 segg. 104 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Altra città importante dei Dectunini età. Libarna (ΐ) (Αιβάρνα) (2) posta dagli itinerari sulla via Postumia fra Genova e Tortona. Le rovine della città si trovarono a mezzo miglio circa da Serravalle Scrivia verso Arquata, ed i numerosi monumenti sepolcrali, urne, vasi cenerari, oggetti d’ornamento, frammenti di colonne, di capitelli e di statue, conservansi tuttodì nelle collezioni pubbliche e private di Genova, Novi e Tortona. Circa un secolo fa apparivano ancor grandiosi gli avanzi di un acquedotto, d’un anfiteatro, e d’altri edifici, ed apparvero il lastricato romano d’una via ed un pavimento a mosaico (3): parecchi di questi, monumenti, sebbene il tempo e l’incuria degli uomini ne abbiano diminuito le proporzioni, rimangono tuttavia. La tavola alimentaria di Velleia, del tempo di Traiano, fa cenno di praedia rustica in Libarnensi pago e fra essi ricorda un pagus Martius, un praedium Domitium, un pagus Erboreus, oggi Mont’Elabore, un pagus Moninas, che credesi l’odierno Meu, nella valle di Borbera, dove si rinvennero un sarcofago ed altre antichità. 11 pagus Precelle, nominato nella stessa tavola, era parte nell’ agro dei Velleiati, a’ quali appartenevano Bo-biutn (4) (Bobbio) e Barderate (Bardi) (5), e parte in quello di Libarna. L’ultima menzione di questa città è fatta dal Geografo Ravennate (6), che la chiama Levarna\ è però ignota la causa vera della sua rovina. Così pure scomparsa è ogni traccia della non meno importante città di Irta (7) (Elpfa) (8), che per Plinio era un luogo non trascurabile e che Tolomeo mette erroneamente fra i Taurini, chiamandola la città più orientale del loro territorio. Essa dovea essere sul fiume Irta, nominato dagli (1) Plin., 3, 5, 7. CIL·., Tav. Peut., Libamus; It. Ant., p. 294, Libar-num; Geogr. Rav., 4, 32, Levarnac. (2) Tolom., 3, i, 45; in Sozom., h. eccl., 9, 12, Λιβερδνα. (3) Cf. Βοτταζζι, o. c., p. 131 segg., e del medesimo autore, Osservazioni storico critiche sin ruderi di Libarna; e delle opere più recenti, Λ. Sanguineo, Iscrizioni romane della lingua raccolte e illustrate (in Atti della soc. ligure di storia patria, vol. 30, p. 234 segg.) e S. VaRNì, L' antica Libarna. (4) Paolo Diac., 2, 15, 16; 4, 43. (5) Plin., 3, 5, 7. — (6) 4, 32. (7) PLIN., 3, 5, 7 ; It. Ant., p. 288; Tav. Peut. (8) Tolom., 3, 1, 35. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 105 scrittori antichi, che alcuni, come dicemmo, identificavano collo Staffora, non potendosi altrimenti ammettere che l’Iria, città, corrisponda all’attuale Voghera, dove infatti furono trovati monumenti antichi. Ma sicure testimonianze antiche fanno pure ammettere, che piuttosto la Scrivia fosse l’Iria, che allora forse volgeva più ad oriente, passando per Voghera (viens Iria). La città, come la regione circostante, era abitata dagli Irienses, ed un’iscrizione fa parola di una colonia Foroiuliiriensium (i), che dovea la sua esistenza a Giulio Cesare, e di essa avea la protezione il tortonese Metilio Mercellino. Qualcuno crede eh’ essa facesse parte della colonia tortonese e fosse all’ odierna Villa del Foro, il Mommsen invece ritiene che fosse la stessa cosa colla città di Iria. Località di minore importanza erano Clastidium (2) Κλαστίδ'.ον (3) (Casteggio) e Litnbium, che è forse lo stesso Retovium di Plinio (4), ossia l’attuale Ritorbio. Il commercio principale di queste regioni, oltreché dal vino, era costituito, all’epoca romana, specialmente dal lino, conosciuto per l’eccellente sua qualità. Esso coltivavasi a preferenza presso l’ultimo luogo da noi rammentato (5). Ad occidente dei Dectunini era la civitas ligure degli Statielli (6), Statiellates (7), Statiellenses (8), che si stendevano ad occidente sino ai confini de’ Bagienni, occupando le valli dell’Orba e della Bormida. Gli Statielli sono i soli de’ Liguri, unì ex Ligurum gentes (9), che non avessero portato l'armi contro i Romani, ai quali pacificamente s’erano sottomessi. Luoghi principali di essi erano Acqui, Aquae Statiellae (10) Ay.oua.'. Στατίελλαι (il), nota allora, come adesso, per le sue acque termali; fu fiorente municipio (12), ascritto alla tribù Tor- (1) Cf. Βοτταζζι, o. c., c. 9. e CIL., V, 2, n. 7375, 7385. (2) Llv., 42, 8; CIL., V, 2; 11. 7357. — (3) Polib., 2, 16, 12. (4) 19, 2, i. — (5) r9, 2, r. — (6) Plin., 3, 5, 7. (7) Ltv., 5, 2, 8. (8) Cic., ad div., 2, II. A proposito degli Statielli cf. Gavotti, Saggio siti Liguri Statielli (in Giorn. lig. 1833, V, p. 62-71) e Muratori, Gli Statielli. — (9) Liv., 428. (10) Cic., ad. div., 11, il: Plin., 31, 22; CIL.,Y, 2; 7506: In Plin., 3, 5, 7, detta Aquae Statiellarum, in it. Aut., p. 299 solo Aquae, nella Tav. Peut., Aquae Tatelae. (11) Strab., 5, p. 217. — (12) CLL., V, 2; 7153, 7516. Ιθ6 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA r mentina (i), Asti [H,asta (2) "Αστα (3), che fu colonia (4), appartenente alla tribù Pollia; Monteu da Po (Industria o Bodincoma-gus), (5) della tribù Pollia (6); Valenza (Forum Fulvii (7)), detto Valentino da Plinio, che lo appella Liguriae otpidum, ascritto k , alla medesima tribù Torreggia ( Vardagate (S-)) fra il Tanaro e il Po ; Ceste nominato dall’ itinerario gerosolimitano Jg’f'e Quadrata^sulla via da Rigomagus ad Augusta Taurinorum; ed inoltre Canalicum, Crixia, e fors’ anco il Pollopex degli itinerari antichi, poste sulla via lulia Anglista da Vada Sabatia ad Aquae Slatiellae. Una delle tribù più importanti di que’ Liguri, che /Plinio pone cifra Alpes o cisalpini, è quella dei Bagienni detti T' ' anche Bagitenni (1fi) e Βατιένοι ο Βαγιέννοι Si sa dagli an- '/ tichi scrittori che essi avevano stanza ne’ monti (1^'), che nelloro territorio nasceva il Po, ed era ferace di biade, poiché asserisce Varrone (i^f, che alcuni coprivano le a£e, come facevano i Bagienni, altri invece che erano sparsi per saxa(i6). Essi occupavan un esteso territorio, poiché Plinio (17) li pone tra le Alpi, l’Apen-nino e il Po, e la tavola Peutingeriana fra i Taurini e gli Intimili (1) CIL., V, 2; 7153, 7175, 7116 ecc. (2) CIL., V, 2; 7555, 75O3; Asta 11. 7559 e Pr.TN., 3, 5, 7: liella Tav. Peut., Hasia in Cassiodoro, ver., 11, 15. Astensis civitas. (3) TOI.., 3, I, 45. (4) Τοι.., 1. c. Cf. CIL., V, 2; 11. 7566, 7567 riguardo alle magistrature. (5) Plin-> 3. 5. 7; 3. l6> 20. (6) Plin., 3, 16, 20: Cf. Polib., 2, 16, 12 e CIL., V, 2., n. 7479, 7464: Alcuni distinguono Industria, che identificano con Casale, da lìodm-comagus, che ritengono essere Monteu da Po. Cf. Forbiger, o. c., Ili, P· 551- (7) CLL., V, 2; 7469, 7464. (8) Plin., 3, 5, 7: nella Tav. Peut., Forum Suivi. (9) CIL., V, 2., η. 7452; V, i ; η. 44^4· (1 ο) ρ. 557· Secondo il Reichard e il FoiìBIGER, o. c., Ili p. 550 Monte Sestino. (lì) It. Herot., p. 557; It. Ant., p. 340, 356. (12) Plin., 3, 5, 7; Vell. Pat., i, 15, 15: CIL., V, 2 p. 630. (13) lav. Peut. — (14) Tolom., 4, 6, 31. (15) Plin., 3, 20, 125. — (16) R. R. 1, 51. (17) Silio, Punie., 8, 607. /io /1 2) W) GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 107 e gli Statielli. Infatti Plinio (i) fa loro finitimi i Forovibienses, ossia gli abitatori del territorio di Cavour (2), i Veneni, che abitavano la valle della Stura, ed i Montani della Liguria, de’ quali confinavano coi Bagienni precisamente gli Epanterii, noti solo da un passo di Livio (3), che li pone sopra agli Ingauni; a nord i Bagienni confinavano coi Taurini. Quando i Romani sottomettessero i Bagienni non è riferito dagli antichi scrittori, ma non pare improbabile (4) che ciò avvenisse tra il 581 ed il 611 d. R., poiché, nella prima di queste date Popilio Lenate vinse i Liguri, che aveano portato le armi negli Statielli, e nella seconda Appio Claudio assalì i Salassi. Pare quindi che nel frattempo, e forse più verosimilmente nella stessa impresa di Popilio Lenate, fossero stati vinti anche i Bagienni ç.d i Taurini. Ai quali per la legge Pompea (5) sarebbe stato conferito il diritto latino, come a tutto il resto della Gallia Transpadana, poiché sebbene i Bagienni fossero di qua dal Po, non erano tuttavia compresi nella Gallia Cispadana (6), ed il solo diritto latino godevano i Bagienni nel primo secolo dell’ Impero, come deducesi dalla testimonianza di Plinio (7). Pur tuttavia pare che le loro città principali, cioè Augusta Bagiennorum (8) Αύγούστα Βατιένον (9), la Roncaglia presso Bene, Pollmtia (10), Πολεντία (n) (Pollenzo) ed Alba Pompeia (12), ’Άλβα Πομπηία (13), (Alba) per la lex Iulia municipalis (705 d. R.) cominciassero a godere il diritto di cittadinanza romana. Non tutte le città de’ Bagienni erano ascritte alla stessa tribù, poiché dalle iscrizioni appare che Augusta Bagiennorum ed Alba Pompeia erano ascritte alla Camilia, e Pollentia alla Pollia, che domina in tutto il territorio, che si stende fra la Stura e il Po, da Pollenzo fino a Saluzzo. Dalle iscrizioni non appare che alcuna colonia sia stata dedotta nel territorio de’ (1) 3, 16, 117. — (2) 28, 46. — (3) 28, 46. (4) D. Manzo ne, I Liguri Bagienni e la loro Augustap. 52 segg. (5) Cf. Manzone, o. c., p. 59. — 16) 3, 20, 135. (;) Plin., 3, 5, 49; CIL., V, 2, 7153, 7604, 7670; XI, 1192. ✓(8) Tol., 4, 6, 31. (9) Cic., ad. div., 11, 13. Plin., 3, 5, 7 ; 8, 48, 73; 35, 12, 44: Sil., 8. 598. (ÎO^TOL., 3, I, 45. rt'!)vPLIN-> 3. 5- 7· Tav. Peut. — ^12) Tol., 3, 1, 45. (13) Tol., 3, i, 45. ιο8 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Bagienni. Augusta Bagiennorum, Alba Pompeia e Pollentia, erano municipi (i). Della prima di queste città sono visibili e abbastanza copiose le rovine, fra le quali si notano i vestigi di un aggere, di un castrum, per non dire che parecchie tombe, frammenti di colonne, statue, e numerose lapidi e monete ne attestano la sua antica importanza. Quando essa fosse distrutta e da chi non può dirsi con precisione. C’ è chi ne attribuisce la rovina ad Alarico, altri perfino ad Annibaie; parmi più nel vero chi ritiene che non sia caduta in una volta, e per opera d’un solo invasore, ma sia a poco a poco andata spegnendosi in que’ tempi di continue invasioni, guerre e stragi, che precedettero la completa rovina dell’impero occidentale (2). Della seconda, che pure fu luogo già noto all’ epoca repubblicana, e che prese da Cn. Pompeo Strabone 1’ epiteto di Iom-peia, importante all’epoca imperiale, e che col suo nome attesta la pretta sua origine ligure, rimangono pure ricordi antichi come traccie di un aggere e delle mura, nonché di parecchi edifici privati (3). Quivi, secondo alcuni, sarebbe nato Elvio Pertinace (4). Nel tener de’ Bagienni vanno ancora ricordate Pollentia ^Pollenzo) (5), Carrea Potentia (6), vicus non infrequens, che alcuni identificano con Carrù, Diovia (7) (Mondovì), Coeba (8) (Ceva), e fors’anco Carreo (Chieri) (9), ed, al confine occidentale, Pedo (Borgo San Dalma2zo). In questa estesa civitas era fiorente il commercio del vino, e non è improbabile, che la più gran parte di quello che affluiva all’ emporio di Genova, derivasse da questa regione, dove e monumenti e memorie d’ autori sono concordi nel celebrarne (1) Le iscrizioni, che ricordano una Colonia lidia Alt gusta 1 ’agiennorum sono tutte false. Cf. CIL., V, 2, p. 874. (2) Cf. MURATORI, L’Au g. dei Vagienni p. 20 ; I Vagienni e it toro paese, p. 61 e Μανζονε, o. c., p. 160. (3) Cf. Eusebio, Il museo storico-archeologico d'Albet, p. 14 c p. 29, 61 segg. Quanto alle mura romane di Alba, cf. lo stesso opuscolo al § 32; (4) Cf. Mommsf.n in CIL., V, 2 p. 889. (5) Per le antichità di Pollentia cf. Franchi Pont, Dell’ antichità di Pollenza (in Atti dell’ Acc. di Torino, 1805-1808 p. 321-510 . (6) Plin., 3, 5, 7. - (7) Geogr. Rav., 4, 33. (8) Plin., ii, 42, 97. (9) Plin., 3, 5, 49 in CIL. \, 2, 11..7496, Karrei. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA IO9 l’abbondanza. Osserva Plinio (1), che quelli di Alba Pompeia preferivano la creta e l’argilla all’altre sorti di terreno per piantare la vite. Famoso era altresì il formaggio di Ceva, detto cebano (2), mentre Pollentia andava famosa per la lana di color fosco, celebrata da Plinio (3), da Columella (4), da Silio Italico (5) e da Marziale (6), ed è forse quella stessa lana aspra, che Strabone (7) dice proveniente dalla Liguria, e colla quale la maggior parte degli Italiani facevano i vestiti degli schiavi (8). Erano altresì celebrate le coppe di Pollenzo e di Asti, che ga-reggiavano con quelle di' Sorrento, di Sagunto e di Pergamo (9). Parecchie altre tribù liguri d'incerta posizione, ma che do-veano trovarsi fra il versante settentrionale dell’Apennino, le Alpi ed il Po, sono ricordate dagli scrittori. Plinio (io) menziona, fra l’altre, quella dei Veneni, che pongonsi concordemente all’Alpi, intorno a Venadium (Vinadio), degli Esturri, dei So ti, dei B imbelli, dei Maielli (11), che sono al tutto ignote, quella dei Cubu-riates, che fu posta nella regione astigiana, dei Casmona/es, posta nei dintorni d’Alessandria ; Livio (12) fa menzione dei Cerde-•ciates (13) e dei Celelates ( 14), che soglionsi porre nella regione percorsa dallo Staffora e dal Coppa, ed i Briniates ( 15), in vai di Prino. Intorno alla posizione degli Ilvates (16) furono emesse varie ipotesi, alcuni gli identificarono cogli Iriates di Voghera, altri coi Velleiati, io esposi già altra volta l’opinione (17), che ricordo di loro sia nel torrente Elvo, che scorre non lontano da Alba. E al di là dal Po erano i Taurini, presso Torino, ed altrove i Libili, i Levi, i Agarici, gli Sten: ed altri, de’ quali non ci occupiamo allontanandosi considerevolmente dal punto centrale, al quale sono rivolte le nostre ricerche. (0 7, 3. >· — (2) PLIN., 11, 97. 1. — (3) 8, 73, 2. (4) 7, 2, 4. — (5) 8, v. 597, (6) H. 157, 158. — (7) 5- 2, 5· 18) 'Per i commerci dei Bagienni cf. Manzone, o, c., p. 82 segg. (9) Plin., 35, 46, 2; Marziale, 14, 157, Ο) 3. 5. 47- (11) I Bimbelli cd i Maielli vengono generalmente posti nella Traspadana, ma nota giustamente il Manzone, o. c., p. 16, che ciò si fa a torto e senza alcun fondamento. (12; 32, 29. — (13)32, 29. — (14) 41, 19. - (15) 31, 10; 32, 31. (161 1. c. — (17.) Le guerre 4^· A proposito dello stato antico di Savona cf. G. CORTESE, Sabatia, che è una raccolta di scritti inediti o rari relativi a Savona (Savona I 885). Cf. anche Filippi, Studi di storia ligure e V. Poggi, Archeologia locale. (4) 3» i. 45· (5) lt. Ant., p. 295 ; Plin., 3, 5, 7, Vadum Sabatium; Tav. Peut.. Vadis Sabotes. (6) Strab., 4, 6, p. 201 e 202. — (7) Cic., Ep. ad Brut, n, 10, 13. (8) Intorno a Vado ed a Savona, oltre alla raccolta di opuscoli pubblicati dal Cortese, Sabatia ecc. cf. C. Queirolo, Dell’ antica Vado Sabatia, e V. Poggi, Delle antichità di Vado. Contrariamente ad alcuni che di Vada Sabatia e di Sabatia fanno un solo luogo, ritengo anch’ io, come il Cortese ed altri, che devasi fare distinzione fra la prima che non era che una mansio, un locus, dalla seconda che dovea essere il centro della tribù. (9) 29, 5 · — (10) Le guerre d'Aug., p. 118 segg. 112 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LGUR1A gauni (i), (Ίγγαύνοι) (2), che tante fiere ed aspre lotte sostennero coi Romani, avendo ad un certo tempo trovato un valido aiuto nei Cartaginesi, de’ quali gli Ingauni furono fedeli e forti alleati. Loro città principale era Albenga (Album Ingannimi (3), Άλβίγγαυνον (4), che, sottomessa, dopo erculei sforzi, dai Romani, ricettò per ben tre volte cittadini romani, in cambio di altrettanti indigeni trasportati altrove (5)1 e fu fiorente municipio, ascritto alla tribù Publilia, del cui splendore ancora oggi si vedono considerevoli reliquie (6). Luogo secondario ricordato dagli itinerari era il Incus Bor-manni (la madonna del Rovere), che ritienesi fosse un compascuo posto alla foce del torrente Impero, che avrebbe formato il confine occidentale della tribù. A settentrione di essa erano gli Epanterii, nominati da Livio (7), che pongonsi nell’alta valle del Tanaro. Ma forse, anzi che una civitas o tribù, erano essi soltanto un pagus, probabilmente de’ Bagienni, non essendo infrequente il caso che lotte per ragioni di pascoli si sostenessero fra una potente tribù ed un pagus vicino, come vedemmo verificarsi appunto anche fra la tribù dei Genuates coi Langenses, eh’erano un pago dei Veiturii. Contermini ed alleati degli Ingauni erano gli Intimili (8) ( Ιτεμελιοι) (g), colla città di Ventimiglia (Album Intimiliiim (10), Αλβιον Ιντεμελιον (ii), che al tempo di Strabone (12) era città considerevole, e che, come municipio era ascritta alla (i) Liv., 39, 32. — (2) Strab., 4, 6, p.202. (3) Plin., 3, 5, 48; Varr., R. R„ 3, 9, i7; In Mela 2? 72> c nene iscrizioni CIL., V, 2; 7780, 7782 Albingaumun ; in Tac., Hist., 2, 15, Albigaiinum ; nel Geogr. Rav., 4, 32; 5, 2, Attingano. 4) Strab., 4, 6. p. 202; in Tolom., 3, 5, 48, Άλβίγαυνον. (5) Plin., 3, 6, agro tricies dato. (6) Cf. a tale proposito, Oberziner, Le guerre d’Aug., p. 117, 129 e CIL., V, 2, p. 894, e G. Rossi, Storia detta città e diocesi d’Atbenga, dove trovasi anche la bibliografia relativa alle antichità della regione. (7,' 3^> 4^· (8) Liv., 40, 41 ; Cic., ad fam., 8, 15, 2. (9) StrabJ, 4, 6 p. 202. (10) Plin., 3, 5, 7 ; nelle iscrizioni CIL., V, 2, 7883 e Tac., Hist., 2, 3 Albintmiitium ; detta anche solo Intimilium o Intemelium da ClC., ad fam., 8, 15, 2; Tac., Agr., 7. (11) Strab., 4, 6, p. 202. — ,12) 4, 6, p. 202, πόλις ευμεγέθης. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I I 3 tribù Falerna, mentr’ erano località più piccole, nella medesima tribù, portus Maurici (i) (Porto Maurizio), il castellum posto al fiume Taggia (fluvius Tavia) (2), Costa Balenae (3) (Arma), Lumone (4) (Mentone) e XAlpe Summa (5) (la Turbia). Con questa tribù abbiamo terminato il novero di quelle che facevano parte della nona regione italica, non essendo il caso di parlare de’ Lapicini, Garuli ed Hergates, che sebbene Livio (6) ponga cis Apenninum, pur non avevano sedi sicure; ma, dovendosi estendere il campo delle nostre ricerche anche a quei Liguri, che abitavano al di là dal confine italico, ultra Alpes (7), ricorderemo i Vediantii (8) (Ούεδίαντιοι) (g), i Deciates (io) (Δεκίατιοι) (il), gli Oxubi( 12) (Όξόβιοι) (13) ed i Salini o Salitivi (14). Ai primi apparteneva la città di Nizza (.Nicaea (15) Νίκαια) (i6), ed i minori luoghi Monaco (Herculis Monoeci portus (17) Mo-νοίκου λιμήν (ι8) ed i tre piccoli porti vicino a Villafranca, Olivula portus (19) Anao portus (20) e Avisio portus (21). Luogo (1) It. Ant., p. 502. (2) CIL., V, 2, 7809. (3) It. Ant., p. 502. (4) It. Ant., p. 295; Tav. Peut., Geogr. Rav., 4, 32; 5, 2. (5) Tav. Peut.; It. Ant·., p. 295. (6) 41, 19. — (7) Plin., 3, 5, 47. (8) Plin., 3, 5, 7: CIL., V, 2; 7872, 7873. (9) Tol., 3, i, 47. (10) Mela, 2, 76; Plin., 31, 7, 43; Floro, 2, 3. Il Geogr. Rav.; 5, 3, li chiama Decaei. (11) Tol., 2, 10, 8; invece Artemidoro in St. B., p. 228 e Polibio in Strab., 4, 6. p. 202, li chiamano Δεκιηται. (12) Liv., Ep. 47; Plin., 3, 4, 5. (13) Polib., 33, 7; Strab., 4, 1. p. 185; Stef. Biz., p. 517. (14) Polib, 33, 7; Strab., 4, 1, 91. p. 185; Plin., 3, 5, 47. (15) Mela, 2, 76; Plin., 31, 8, 43; Liv., Ep. 47; Amm. Marc., 15, 11, L’It. Ant., p. 504, ha Nicia. (16) Polib., 33, 4, 2; Strab., 4, 1, p. 180, 184; Tol., 3, 1, 2. (17) Plin., 3, 5, 7; nell’//. Ant., p. 502 Hercte Manico porhis; in Amm. Marc., 15, 10, Monoeci arx. Ii8) Strab., 4, 6, p. 202 ; Tol., 3. 1, 2. In Stef. Biz., p. 517 Μόνοικος πόλις. (19) It. Ant., p. 502. — (20) It. Ant., p. 502. (21) It. Ant., p. 502. Giorti. stor, e lelt. d. Lig. III, g 114 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA primario dei Deceati era Antibes (.Antipolis (i), Άντίπολις) (2), e de’ Saluvii Marsiglia (Massilia (3), Μασσαλία) (4). Di queste e d’altre minori città già altrove abbiamo parlato e più diffusamente dovremo occuparci nel corso di questo lavoro. A settentrione di queste tribù altre ve n’erano pure d'origine ligure o celto ligure, che poca parte tengono per vero nel movimento commerciale dell’antichità, ma che pur tuttavia nomineremo per completare il quadro del dominio ligure, rimandando per più minute notizie il lettore al mio lavoro, già più volte citato,sulle Guerre di Augusto (5). Appartenevano alla tribù de’Vedianzi i pagi seguenti, ricordati tutti nell’iscrizione della Turbia: i Suettri; i Nerusi Νερούσιοι intorno a Vence Oùtvxtov); gli Oratelli (presso Utelle); i Nematuri (valle del Paillon); gli Eguituri (nella valle dell’Esteron); i Vergunni (presso Vergons) ; gli Ecdini (nella valle della Tinea); i Triulatti (nella valle del Cians) ; i Gallitae (nella valle superiore del Varo). Appartenevano invece agli Albici i seguenti pagi : i Suettri (Σούκτριοι) presso Castellane, nella valle superiore del Verdon); i Nenia-Ioni (a Meolans); i Veamini (nell’alta valle del Verdon); gli Esubiani (nella valle superiore dell’Ubaye) e gli Edenates (nella valle della Seyne). Liguri erano pure le tribù della regione coziana e delle Alpi graie, ma, come i Liguri Taurini in Italia, così questi Transalpini escono fuori dalla cerchia de’ nostri studi. 1 arlando delle singole tribù liguri abbiamo di mano in mano notato quali prodotti fossero, secondo le testimonianze antiche, messi in commercio da ciascuna di esse, ed ora, parlando in generale, osserveremo che in particolar modo allora, come adesso, nella regione piana verso il Po, e nelle colline della provincia di Cuneo e del Monferrato predominavano i prodotti dell’agricoltura e della pastorizia: vino, formaggio, lane, nonché stoviglie d una certa finezza. Segala, miglio e panico erano i cereali più in uso: la segala dei Taurini, per affermazione di Plinio (6), (1) Tav. Peut.; It. Ant., 294 e 502. (2) Strab., 4, i, 1, p. ,go; Tol., 3, 1, 3. (3) Mela, 2, 76; Plin., 31, 8, 43; Liv. Ep. 47. n. Ant., p. 504, Tav. Peut. ; Tac., Agr., 1. 1 5 4- 14) Strab., 4, j, 1. p. l8o e segg.; Tol., 3, 1, 3. _ (5 p. I2j sc„ (6) 18, 40, i. GIORNAl-E STORICO lì LETTERARIO DELLA LIGURIA I I 5 chiamata asta,' offriva un pessimo cibo e sì pesante, che, per renderla digeribile e meno amara si mescolava col farro ; i Taurini facevano speciali confetti detti aquiceli, fatti con pinoli e miele (i). Del miglio (2) e del panico facevasi pane (3); delle fave abbondante era l’uso, servendosene specialmente come minestre. Altro fonte abbondante di lucro era la caccia. Uccelli, stambecchi, orsi, cinghiali ed animali di vario genere (4) abbondavano nelle selve della Liguria alpina. Vergilio (5) paragona la ferocia di Mesenzio a quella dei cinghiali del Monviso. La pesca de’ fiumi e de’ laghi- era pur fonte di lucro '6). La Liguria marittima in genere offriva marmi, olio, uve secche, vino, pelli, cacio, lana, legname per fabbricar navi. Colla pesca, fatta con ami grandissimi e solidi (7), si procacciavano, oltre a’ pesci ordinari, abbondanti tonni, fonte ai Liguri di non trascurabile guadagno. Tali erano i prodotti e le condizioni commerciali de’ Liguri come si deduce dalle testimonianze degli scrittori antichi, al-1’ epoca del maggiore loro sviluppo, quando già le aquile romane da lungo dominavano in quella regione. Come questi commerci avessero inizio e per quali varie fasi fossero passati e quali generi s’importassero per tempo nella Liguria, lo indagheremo nei seguenti capitoli. FEMMINISTI E MISOGINI NEI SECOLI XIII E XIV (8) Accanto alla tentatrice Èva fomite di peccato, la tutta santa Vergine Maria : accanto alla argiva Elena — adultera fatale — la casta sposa Penelope, filante in odio ai Proci. Ecco da remoti principi biblici ed ellenici delinearsi e propagarsi nei secoli la doppia corrente, favorevole e contraria alla donna. (1) Plin., 15, 9, 1. — ^2) Plin.·, 18, 25. — (3) Plin., 18, 10, 4; 49, 6. (4) Cf. Promis, St. ant. di Torino, p. 120. — (5) Aen., 10, 707-709. (6) Cf. Eliano, de nat. animalium, 14, 29. — (7Ì Eliano, o. c., 13, 26. (8) In questo mio studio è contenuta la materia di un altro pubblicato nel 1891. Tornando ora sull’argomento, le modificazioni e le aggiunte che con diverso ordine e miglior conclusione vi introduco son tali e tante, che il mio lavoro può ben dirsi per la novella veste quasi in tutto nuovo. Il6 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Nè fu di rado più forte la misogina; per quanto strano possa ciò parere ed ingiusto a noi viventi sull’alba del XX secolo, quando il femminismo combatte l’ultima sua battaglia disciplinata e cosciente per l’emancipazione, e l’invettiva contro la donna non è più altro che consuetudinario motivo burlesco o passeggero sfogo di amante infiammato e deluso. * * * Non è quindi meraviglia che la duplice corrente persista e si palesi nei secoli delle origini — rozzi e gloriosi — ch’io vengo ora per lo appunto studiando. Stimo però utile avvertire subito che. io non faccio qui se non raccogliere e citare e interpretare dei fatti : non ho in animo di sintetizzar troppo, nè tanto meno di cercare le ragioni e le sorgenti della contradit-toria tendenza benigna ed ostile alla donna — che sale su, lo ripeto, fin dall’antichità più remota e barbara. Che se io mi occupassi di proposito della donna nella caotica letteratura medievale (i), non dimenticherei lo studio alato del Carducci su Bernardo di Ventadorn, provenzale poeta d’amore del secolo XII, in cui c’è passione viva e profonda se bene quasi tutta sensuale, ed una espressione liberamente efficace che contrasta col riserbo e la vaporosità di certi altri imitatori italiani, 'cantori platonici di donne angelicate. In complesso la (i) Veramente a questo riguardo ho già pubblicato un articolo « La donna nella Bibbia e nel Medio Evo » sul Fan fui la della Domenica del 24 febbraio 1901, riuscendo insomnia a sostenere e provare che 1’ascetismo e gli scrupoli e lo spirito tutto quanto medievale — riflessosi nella letteratura dei Padri e dei Dottori e dei Santi della Chiesa — repugni fondamentalmente e necessariamente a quel culto della donna che contraddistingue certe altre epoche e civiltà più moderne o spregiudicate. E mantengo la espressa opinione, che per ogni persona liberale e colta è in fondo indubitabile e inoppugnabile: solo avvertendo che nel mio articoletto forse fui troppo severo verso S. Crisostomo (di lui ricordai un passo misogino dell’ Opus imperfectum in Maltheiun, hom. XXXII. che non tutti i critici riconoscono come lavoro autentico), il quale nell’ opuscolo ad una giovane vedova ed in parecchie omelie e sermoni dimostra — ad esser giusti — un ragionevole rispetto ed ossequio verso la donna. Del resto, se pure il passo da me citato foss_ di uno scrittore latino ed ariano erudito, avrebbe sempre valore per la mia tesi dello spirito misogino prevalente nel Medio Evo. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I 1/ poesia trovadorica provenzale ha sensi in tutto cavallereschi di sudditanza alla signoria d’amore e della donna: col gajo bohémien di Ventadorn — unica eccezione forse (a giudizio di Tulio Mas-sarani) (i) è Pierre Cardinal, che dimostra ne: sirventesi parecchia indipendenza e liberalità di spiriti. In questo bel libro del-l’infaticabile Massarani, in questo eh’è veramente (e mi auguro non sia l’ultima, come egli un po’ malinconicamente mi scriveva) una partita d’armi contro Γoscurantismo, ci sono pure utili notizie sulla lirica araba celebrante le donne e l’amore in modo non dissimile dalla cristiana cavalleria. E bene anche vi si parla di Hafìz, 1’ oblioso e per poco non dissi goliardico (codesti clerici vagantes, precorrenti l'umanesimo, sono nell’Evo medio i veri campioni del femminismo gaudente) Anacreonte persiano, e di un riscontro misogino ariostesco con le Mille e una notte. * * * Nel modesto albeggiare della nostra poesia, sui primi inizi del Dugento, e perciò forse il più antico a noi noto finora tra i verseggiatori volgari, ci si presenta Girardo Pateg cremonese. E, se non suoi, sono del suo tempo quei « Proverbia quae dicuntur super natura feminarum », che altri credè di un anonimo veneziano, e più recentemente il Torraca (2) dubitò fossero verseggiati più addietro del Pateg, non molt’ anni dopo il 1160. I « Proverbia » accusano, come pensa il Gaspary, qua e là l’imitazione di un antico poemetto francese sullo stesso argomento: e li pubblicò il Tobler (3). Qualunque sia l’anno e l’autore, si tratta di un curioso poemetto primitivo a quartine monorime, di spirito anti-femminile per eccellenza. Una laconica frase misogina: Molte sono le femmine eh’ hanno dura la testa è puranche nel troppo famoso contrasto, posteriore certo al 1231, di Cielo d’Alcamo. A volta a volta poi la passione accorata o la grossa sensualità predominano negli altri contrasti dell’Anonimo, (1) S/or/a e fisiologia deli’ arte ili ridere, Vol. I, pag. 361 e segg. (2) Attorno atta Smota Siciliana, in Nuova Antologia, 1" Maggio r896. (3) Zeitschrift J'iir romanische philologie, IX, 287. 1 18 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA di Rinaldo d’Aquino, di Oddo delle Colonne, di Compagnetto da Prato e di Ciacco dell’Anguillara, tutti più o meno popolareggianti. Nè senza dubbio mancano nella poesia così detta popolare gli spiritosi e mordaci accenni alle donne ; e parecchio di ostile ad esse sarebbe agevole spigolare ne’ caratteristici componimenti che ci rimangono dell’Anonimo genovese, avverso all’impiastricciarsi le guance ed il viso e cauto consigliatore di nozze ai giovani ardenti. Valgano ad esempio i seguenti versi: L’ omo chi moier vor piiar de quattro cosse de’ spiar : la primera è corno el è naa ; 1’ atra è se 1’ è ben acostumaa ; Γ atra è corno el è formaa ; la quarta è de quanto el è dotaa. Se queste cosse ge comprendi, a lo nome de De la prendi. * * * Ma veniamo alla vera e nobil lirica d’arte, alla lirica non più anonima delle scuole. I primi nostri poeti d’amore — sulle orme dei trovatori provenzali — serbarono alto il culto della donna (cavallerescamente dama, cristianamente madonna), che onorarono poi di quasi mistica adorazione ed angelicarono : Guido Cavalcanti e Cino da Pistoja le loro Primavere e Mandette e Selvagge, Dante la sua Beatrice, il Petrarca la sua Laura. Ho scorso i tre volumi delle « Antiche rime volgari » pubblicate per cura del D’Ancona e del Comparetti : ma in genere c’è una così estrema soggettività in queste poesie erotiche, che ben poco si può trarne che faccia al proposito nostro. Ci son sempre, è vero, lodi della donna, ma di quella sola e particolar donna amata e cantata dal poeta: e di rado s’incontra l’espressione di un qualsivoglia giudizio generico su tutto il sesso. Quando però questo si riscontra, bisogna dire che la lode so-pravvanza di gran lunga il biasimo. Come Dante Alighieri e Cino da Pistoja e Francesco Petrarca — allora quando maledicono la donna adorata — non estendono la loro maledizione a tutte le donne: così anche Chiaro Davanzati, rimatore pur esso notevole per molti rispetti (e che si può consi- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I I9 derare capo della scuola di transizione toscana, dopo Guitton d’Arezzo precorritrice — insieme con la Guinicelliana di Bologna — del dolce stil novo), tradito dall’amante sua, ricorda per consolarsene gli esempi celebri e leggendari di Virgilio e di Salomone, portenti di saviezza corbellati al pari di lui. Ma dal ricordo abbastanza freddo egli è ben lungi dal trarre la conseguenza scettica e pessimistica che tutte le donne dell’universo siano state e siano traditrici ed ingannatrici. Altrove però egli rimprovera alquanto le donne di crudeltà e di ritrosia, e vorrebbe eh’ ai loro amanti donili più larghezza, non sempre sia lor vita con dolore. Oltre questo leggero e benigno biasimo fuggitivo, nella citata raccolta ho trovato solo contro l’amore e le donne un serventese di Leonardo del Guallacco da Pisa, dove sono fra gli altri i seguenti versi : Se lo scritto non mente, da femina treciera si fue Merlin diriso ; e Sanson malamente tradìlo una lederà ecc. Del resto quando, ad esempio, Rugierone da Palermo in una poesia — che già era nell’Allacci e nel Valeriani — scrive il verso non poco significativo: Chi vole amor di donna viva a spene, non intende già biasimare ed ingiuriare le donne. Egli, che ha dello psicologo, sa che tutte le cose belle non si ottengono senza fatica; egli sa e vede che 1’ amor di donna ottenuto compensa d’ogni lunga speranza e d’ogni passato travaglio, e finisce col verso sentenzioso : Dolcie è lo male ond’ omo aspetta bene. Il medesimo si potrebbe dire dei due versi di quella poesia pubblicata già dal Valeriani col nome autorevole di Federico II re (fu da lui cercato il giochetto di parole?): -- 120 giornale Storico e letterario della Liguria Assai dona quando donna consente. E suonano aperta lode questi altri due, di forma e suono inconsueti, di Giacomino Pugliese: Le donne n’ hanno pietanza, chi per lor pàtiscie pene. Tutta poi in difesa del sesso gentile è, nella medesima raccolta, la canzone del caposcuola Guitton d’Arezzo, che comincia: Ai lasso ! che li boni e li malvasgi omini tutti anno preso accordanza di mettere le donne in disprescianza ; e ciò più eh’ altro pare che lor asgi. Perchè mal agia il ben tuto e P onore che fatto àn lor, poi n’ han morto sì bello. Ma io spero lor rubello, e prenderò tuto sol la defensione ecc. E tralascio di citare avanti, perchè mi spaventano i due ultimi versi davvero orribili. Degni però di nota sono gli argomenti escogitati dal poeta aretino alla difesa del gentil sesso. Egli prende a dire, con un certo calore quasi degno di campione moderno, se non con eleganza: Sovra le donne à preso om segnoria, ponendole in dispregio e villania ciò che a se cortesia pone ed orranza. Ai ! che villan giodicio e che fallacia ! E sostiene in seguito che la donna non uccide, non ruba, non arde, non strugge, non spergiura (ahimè, come l’opinion comune qui gli dà torto!) non inganna ecc., quanto l’uomo. E quando la donna cede, secondo Guittone, accade sempre dopo lungo tempo e resistenza; e quando si arrende, lo fa solo vinta dallo insistere e dalle arti dell’uomo medesimo. Nelle quali affermazioni è innegabile una intenzion di giustizia, ed un fondo di verità. Ma il lato puerile e ridevole non manca purtroppo (si direbbe la freddura finale di un panegirista di spirito) là dove il poeta afferma che la donna è più gentil cosa che l'uomo Giornale storico e letterario della Liguria 121 e meglio nata, perchè Dio fece l’uomo di fango e la donna formò invece dall’uomo. Argomento, dissi, e concetto, poco serio: il che non toglie che sia stato ripreso e risostenuto poi da una grande campionessa delle donne nel secolo XVI, Lucrezia Marinella (1). Anche a un’ ignota donna è diretta dal nostro aretino una irta epistola esortativa, che è tutta — in fondo — un iperbolico panegirico: e in generale alle donne è indirizzata un’altra canzone di Guitton d’Arezzo, scritta certo da quel bizzarro e poco equilibrato tipo d’ uomo e di poeta dopo la sua conversione e ritorno a santa vita. La contenenza della canzone apertamente lo mostra. Sono consigli ed ammonimenti che, se stanno bene sulla bocca di un frate, repugnano all’ indole delle poesie precedenti di Guittone stesso : nè perciò vi riscontriamo lo stolto ascetico disprezzo medioevale della donna tentatrice satanica. Egli insomma afferma che deve questa avere — più che 1’ uomo — in ira il vizio e in amore la virtù: che castità è cento volte più preziosa in femmina che in maschio: e insieme con castità deve possedere la donna umiltà, mansuetudine e pace, deve saper fuggire i soverchi ornamenti come stimolo incessante al peccato. Ravvedutosi per fulminea miracolosa ispirazione, ed entrato nell'ordine dei cavalieri di Santa Maria, il nostro Guittone da erotico si fa ascetico, senza i patologici eccessi di più d’un isterico e fanatico disciplinato : ma, piuttosto che contro le donne, scrive egli allora contro gli amori e le corruttele, nè di rado riesce insipido. Ciò invece non accade mai del maggior giullare di Dio, del beato Jacopone da Todi, che non meritò certo meglio delle donne. Verseggiatore rozzo, ma sincero ed efficace, egli ha una prolissa satira contro di esse, e specialmente contro il modo loro disonesto di ornarsi e gli artifici usati per farsi parer alte se basse, colorite se pallide, chiomate se di rade trecce (1). Ecco, a mo’ di esempio, ciò che il mistico e mono- fi) Riguardo a ciò, ed in generale riguardo all’opera della Marinella, veda il diligente lettore il mio studio « La donna nella letteratura del cinquecento, Verona, Tedeschi, 1890; pagg. 78-81. (1) Ad onor del vero noto però la candida affettuosità eh’ egli dimostra nelle rappresentazioni della Vergine Madre boriante e cullante il Divin Figlio e gemente sulla sua crocifissione. I 22 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA maniaco todino, coraggioso sferzatore d’ogni etica bruttura, dice delle pallide e delle brune: Se è femena pallida secondo sua natura, arosciase la misera non so con che tentura : se anco è bruna, embiancase con certa lavatura, et con tal sua pentura molte aneme ha dannate. E di quelle che s’imbellettano segue esclamando con un certo orrore : Que farà la misera per aver polito volto ? Porrasece lo scortico che il coio vechio ha tolto ; remette el coio morbido, parrà citella molto : sì engannan 1’ omo stolto con lor falsificate. E di certe madri che cercano in tutti i modi di aggiustare le contraffatte figliole per gabbare i merli aggiunge: E poi che a la femina egli è la figlia nata, co’ la natura fónnala pare una sturcïata : tanto lo naso tiraglie strengendo a la fiata, che 1’ ha si reparata che porrà far brigate. Nè con diverso intendimento altrove Jacopo de’ Benedetti ammonisce — terribile nel suo laconismo — chi vuol esser savio e nella grazia di Dio: non avere con femina molta familiartate. Per ragioni assai differenti non è neanche strano che Cecco Angiolieri, lo sbrigliato umoristico poeta senese, scrivesse contro le donne, egli che pure aveva desiderate per se le giovani e leggiadre e così dichiarate le sue simpatie plebee : GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 123 Tre cose solamente stirimi in grado____ cioè la donna la taverna e il dado. Non è strano, ripeto, perchè Cecco Angiolieri precorre a dirittura certe figure scapigliate di cinquecentisti, come l’Aretino, il Doni, il Berni, Nicolò Franco: ed ha veramente dei cinquecentisti la leggerezza sfrontata e spensierata, la burlesca genialità, le contradizioni caratteristiche, e —come ad essi — a lui sovente la tendenza e la sferzata misogina serve ad uso di valida risorsa giocosa. La poesia intanto, che Cecco scrisse contro le donne, è un sonetto rimasto fino a pochi anni fa inedito, e pubblicato insieme con altri da un diligente ricercatore (i). Continuando un po’ arruffatamente la mia rassegna, non voglio dimenticare tra le femministe (come una donna può essere anti-femministaf) la Compiuta Donzella, poetessa anonima del Dugento, appartenente all’epoca di transizione che prepara il dolce stil novo. Si tratta di un sonetto in cui (quasi ad esaltazione del suo sesso) la Compiuta Donzella afferma vivacemente che ella non vuole marito nè signore, incerta a chi suo padre intenda darla in isposa, e preferisce farsi monaca: membrandomi ch’ ogn’ uom di mal s’adorna, di ciaschedun son forte disdegnosa e verso Dio la mia persona torna. Nella quale terzina certo spicca più che altro il biasimo e disprezzo dell’uomo, che saranno più tardi caratteristici nell’opera di Lucrezia Marinella. Nell’appendice alla bella edizione delle liriche di Fazio degli Uberti, curata da Rodolfo Renier, c’ è una canzone di Nicolò Soldanieri contro l’amor carnale, di poco pregio quanto alla forma, e non senza interesse per la sostanza. Ci trovo, ad esempio, questa sciocca invettiva anti-femminile che comincia con un bisticcio : Femmena fe’ meno è, al proprio dire, animai per natura vario mutevol sempre senza posa, ( i) Biblioteca delle scuole italiane. Vol. II, tram. 12. 124 GIORNALE STORICO E LETTERARIO uEi.i.a LIGURIA vaga di nova signoria servire ; de 1’ uomo è sepoltura, e non apprezza, usata eh’ ha, la cosa. Malizia tanta tiene e sì ascosa che mostra il volto chiaro e dentro à il tosco, e talor tigne in fosco il viso, che nel cor per festa canta. Ε1Γ ha nel suo amor sempre rispetto al proprio suo diletto, però si piglia tosto e tosto schianta ecc. Noto la reminiscenza, in principio, dell’assai famoso varium et mutabile semper femina: e tralascio i due versi ultimi perchè troppo liberi e triviali. Ancora nella parte XVI del « Reggimento e costumi delle donne » di messer Francesco da Barberino (oltre i numerosi accenni sparsi nelle parti precedenti) ci sono, intrammezzati come al solito da consigli, molte riprensioni ed appunti al viver donnesco. E detto nella « Introduzione », e tutti sanno, che il libro del Barberino, misto di prosa e di poesia, è diviso in venti parti. Di esse la prima riguarda la fanciulla; la seconda, terza, quanta e quinta riguardano la donna maritata: trattasi poi variamente della condizione di donna vedova, di quella che passa a seconde nozze, di quella che si rende monaca o romita, della cameriera, della balia, delle donne più povere e di più basso stato, fino alla parte XVI in cui per lo appunto è parola delle donne in generale. Di questa parte, in cui le donne sono dal poeta didascalico riprese di smania d imitazione, di vanità d’ornamenti, di superstizione e di ipocrisia, sono per noi più notevoli i punti seguenti: Un vizio regna comune fra tutte ; che se da certe si serva un’usanza, che tutto che senza peccato non sia, vànnone molte poi per quella via. E chi lor dice eh’ è peccato o male, poco rileva o vale : chè non si crede cuocer nel gran foco se con molte arde in somigliante loco. Dimanda gente le donne d’attorno se credon sia peccato nel soverchiante ornato. Rispondon tutte : sì ; e biasman quello, ma non però si dipartili) da elio. GIORNALE STORICO K LUTTEKAK IO DELLA LGUK1A 125 In molte cose più femina crede ad una feminella che sta rinchiusa in cella, che a un che sia maestro in teologia ; e van per cjuesta stoltia. Ma più sicura è palese dottrina che d' una occulta rinchiusa vicina. Molte donne van per via coi pater nostri in mano, eh’ hanno il core e il pensici' vano. Va la donna al predicare molte volte a sè mostrare : quella va meglio e ritorna clic la mente porta adorna; dunque se per Dio non vai assai meglio in' casa stai. Come si vede, è un onest’uomo e di buon senso. Nè meno se la prende il nostro saggio moralista di Valdelsa con le donne che, dopo una giovinezza scapestrata, si danno a Dio nella impotente vecchiaja: Serbali le giovani donne sè nella vecchiezza a. Dio, che non lia poder del rio ; e sua giovinezza danno a color che intorno vanno, e non curan loro onore come cura Dio Signore. E soprattutto inveisce ognora contro quelle credenzone che vanno dagli indovini impostori e ciarlatani, come già sopra vedemmo contro quelle che usan consultare la vana arte delle femminucce : Donne che andate a Γ indovino spesso e che beffate tornate a magione, peccato fa chi risparmia il bastone. Così pure nei « Documenti d’amore » Francesco da Barberino discute con rozza semplicità, ma con sottil vena di satira e di umorismo, su l’eterno tema della scelta della moglie. E trova modo, fra l’altro, di censurar le donne come troppo frequentemente vanesie, ciarliere, pettegole, indugiantisi nei 126 GIORNALE S I ORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA balli e alle passeggiate, agli specchi ed alle finestre, e saettanti sguardi assassini sott’ occhio in zà e là. Bene i due libri nel ricco « Manuale della letteratura italiana » del D’Ancona e del Bacci son chiamati anzi definiti « galatei femminili del secolo XIV ». Parecchio più avanti nel Trecento si occupò e scrisse non poco delle donne Antonio Pucci, rimatore arguto più che di solito non sia un campanajo e trombettiere e banditor di Comune. Come già presso i Provenzali, come dovè far Dante medesimo, il gajo cantastorie del popolo enumerò una volta le più belle donne eh’erano in Firenze nel'1335. Egli ha pure una descrizione delle bellezze d’una donna, soggetto allora — e poi — molto fecondo di poesia (1). Ma il Pucci scrisse anche sulle donne una prosa, un poemetto di ottanta stanze e vari sonetti. Le ottave parmi che abbiano, almeno quanto al concetto generale che le informa, molta relazione con quelle che scrissero più tardi Antonio de’ Paz:i e Torquato Tasso (2). Finge il Pucci una disputa o contrasto fra due, di cui uno biasima, l’altro difende il gentil sesso: in una ottava c’è, poniamo, l’accusa di malignità o di lussuria con esempi, in un’ altra la risposta e la discolpa: e i due buontemponi finiscono per andar a bere filosoficamente insieme in un’osteria, il che naturalmente non fanno il De’ Pazzi e il Tasso, cortigiani e gentiluomini d’altra età. Gioverà intanto riportare intero il sonetto caudato del Pucci contro le femmine, solo avvertendo eh’ è giocoso e sarebbe perciò stoltezza pigliarlo troppo sul serio: Sonetto mio, di femina pavento, però eh’ egli éne in femina ogni inganno. Femmina pensa male tutto 1’ anno, femmina è d’ ogni bene struggimento. (1) Per altre consimili descrizioni, specialmente del secolo che segue, si può consultare 1’ articolo del Flamini, Un trionfo d’ amore del secolo A'V in Propugnatore, Nuova serie, Vol. II, fase. II. (2) Per il De’ P:izzi ed il Tasso rimando chi voglia saperne di più al mio libro : La donna nella letteratura del Cinquecento, pagg. 76-78. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Femina c sempre d’ ogni mal convento, femina è de 1’ nom vergogna e danno, femina di natura è proprio affanno, femina è d’ogni mal cominciamento. Femmina a peccare Adamo indusse, femmina ai Fiesolan fe’ perder pruova, femmina fu per cui Troja si strusse. Femina per mal far sempre rinnova, femina diavol ben credo clic fusse : sol una fu in cui bene si trova. Non aspettar che piova grazia dalla tua donna, e fanne callo, che con femina non è buono stallo. Come ammasso di improperi, più o meno gratuiti, il sonetto non ha proprio nulla da invidiare a certe tirate in latino d’uomini di chiesa, nel più nero Medio' Evo, e alle definizioni di Origene e S. Ambrogio. E pubblicato nel volume III della « Raccolta di rime antiche toscane » e a pag. 101 della « Scelta di poesie liriche dal primo secolo della lingua fino al MDCC ». E, sebbene meno tipico e punto caudato, può fare il pajo con esso il seguente sonetto pucciano, pur contro le donne e nelle due raccolte citato insieme con 1’ altro : Dove dimora in voi, donne, lo sdegno che dimostrate a chi per voi sospira ? Deh, coni’è stolto chi vostri occhi mira, credendovi trovar di pietà segno ! Voi siete d’ ogni crudeltà sostegno a chi più v’ ama, tanto in lui si gira maggior tempesta, che per voi il martira tanto che il fa parer di morte degno. In voi non regna punto amor nè fede, ma con vostri occhi dispietati e vili sì consumate altrui, donne nojose. Saette siete angosciose e sottili, ogni malizia sol da voi procede, e sempre state del mal far pensose. Accanto al Pucci va messo Franco Sacchetti (che, come novellatore, è particolarmente avverso alla vanità femminea) per la Battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie, lepido poemetto quasi eroicomico in cui, se il bel sesso è talora sati- I’S GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA reggiat°, è più sovente difeso e glorificato. Nè diverso ci appare il Sacchetti nei madrigali — e ne ha di bellissimi e graziosissimi, veri giojelli poetici studiati magistralmente dal Carducci in Musica e poesia nel secolo XIV —· ciò è a dire schietto sempre e galante ammiratore delle donne. Parecchia ostilità contr’esse noi possiamo invece trovare in un poeta della seconda parte del secolo XIV, vivo ancora nel 1404, Simone di Ser Dino Forestani Senese, più noto sotto il nome di Saviozzo da Siena. Scrisse questi la Storia d' una fanciulla tradita dal suo amante, pubb'icata dallo Zambrini, ed oltre a ciò parecchie poesie inedite, pubblicate solo nel secol nostro con rime di altri da Giuseppe Ferraro (1). Or qui appunto, in una canzone, dopo avere inveito violentemente contro una amata traditrice, il Saviozzo se la prende con tutte le donne nella strofe: O volubil natura inepta e prava eh’ è ne le donne ! Adesso si cognose ! Ben seppe chi ve pose, femmene, nome false e bestiale. Senonchè, se non falsi, sono certamente bestiali piuttosto i suoi versi. Nè si corregge più avanti, anzi artisticamente peggiora, dicendo: Non fu mortai mai donna in una voglia che si mostrasse continente e salda : come de cera calda più volte se stampise una tal cosa (sic ! ) così se fa de donne, in cui sdegnosa e varia opinion sempre si trova : ogni dì cosa nova provar li piace, e questo è il piacer eh’ anno. Nè mai s’ accese alcun bel core umano, per gran desio ovver per sua fortuna, ad ben servire alcuna di queste donne per natura vane. Un tempo, meglio per avere in mano tutta la libertà de le lor tempre, el par che le se stempre caute nel remirar più bel disegno. (ij Yredi la Scelta ili curiosità letterarie eec. Dispensa nuni. 168. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LGURIA I 2Ç I.e son mendace tutte, e d’ uno ingegno sollecito a far presto sua vendetta, e di malvagia setta, pronte ad ogn’ ira e piene di discordia. Che più ci giova il dir? Non mai concordia si trova in donne, pace nè riposo : tutto il mondo è percosso (sic!) e per lor mille, già città sono arse. Ancora non vorrei dimenticare Giorgio Anseimi, rimatore mediocrissimo, pur egli appartenente alla fine del secolo XIV. Di lui ricorda e pubblica una canzone su l’origine del matrimonio ed ostile alle donne un dottissimo ricercatore della poesia nostra de’ primi secoli, Tommaso Casini, nell’articolo Notizie e documenti per la storia della poesia italiana nei secoli XIII e XIV (i). E da questi utili e diligenti studi del Casini si può trarre parecchie altre notizie curiose, e non trascurabili documenti, con accenni vari alle donne nella letteratura popolare di quei tempi, la quale io ho lasciata forse un poco in ombra (2). * * * Non meno della poesia si sbizzarrì la prosa nostra delle origini nel censurare o lodare il gentil sesso. Però giova asserire che qui meglio in genere si palesa la tendenza leggermente satirica, ponendo nella poesia un certo freno necessario all’ invettiva la natura erotica del componimento e la tendenza trovadorico-cavalleresca. Ricordando appena di passata il « De virtute mulierum » di Benedetto da Cesena, dirò dunque che ridondano di accenni poco benevoli alla donna i numerosissimi trattati ascetici e morali di quei secoli, scritti in volgare. E non più indulgente, anche per certi ben noti peculiari fini d’arte, è il contegno tenuto dai novellatori e il quadro pòrto dalla novellistica profana di allora. Poiché appunto sembra dover il biasimo prevalere alla lode (1) È inserito in 11 Propugnatore, Nuova serie, Vol. I, fase. IV. (2) C’è finalmente (io però non 1’ ho veduta, e la cito qui soltanto per curiosità bibliografica'» una Canzone in lode della bella donna fra certi componimenti toscani del secolo XIV (Oxford, 1851): e la trovo ricordata nella importante quanto farraginosa Bibliographie des ouvrages relatifs à I' amour, aux femmes, au mariage ecc., par M. le C. D. F.... 1871. (jivru. stor. e /eli. d. Lig. Ut. 9 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA nei libri scritti con ètico e religioso intento insegnativo, è soprattutto notevole (tralascio altre fiorite e fioretti) nel Fiore di virtù (i) una generosa difesa delle donne da colpe loro trac*i-zionalmente apposte. L’ignoto autore contro i malvagi dicitori incomincia a recare in mezzo Γ autorità di savi che hanno sentenziato bene del muliebre sesso, poi spiega e combatte o concilia le sentenze contrarie. E, sebbene i suoi esempi sian scarsi e meschini, e le sue dimostrazioni poco valgano in complesso, bisogna tenergli conto e sapergli grado della buona volontà che gli fa dire : « Chi vuole bene ragguardare gli mali che si fanno, pochi ne fanno le femmine appo quello fanno gli uomini, e certo coloro che ne dissono male potrebbero tacere ». Dite grazie, amabili lettrici ! Senza dubbio il libretto, medievale per condotta ed intenti, non ha 1’ ostilità medievale per la donna, sprone al peccare. non ha quella ostilità che si riscontra, ad esempio, in un altro consimile trattato moraleggiante, « Gli ammaestramenti degli antichi » raccolti da fra Bartolomeo da S. Concordio. Qui la Distinzione XXXV parla appunto de’ vizi delle femmine, e dimostra con citazioni che le femmine son mobili d'indole e capo de mali terreni, ordinatamente procedendo 1’ austero frate dalla Bibbia agli scrittori sacri ed ai profani, e serbando due ultimi capitoli al biasimo delle femmine bevitrici e delle suocere e delle nuore. Che se acri pajono e poco giustificate le invettive, non bisogna dimenticare che siamo nell’ultimo medioevo, epoca schietta ma rozza e non certo scevra di barbarie e di esagerazione, se bene dal seno del Medio Evo — per opera del Cristianesimo insieme e della Cavalleria — sia venuta fuori la più limpida corrente redentrice della donna. Ma dal puro ideale femminile, personificato dall’ ascetismo nella Vergine e nelle Sante, troppe femmine corrotte e peccatrici, perdute dietro le lusinghe de' sensi, si discostavano allora. E ciò spiega come anche contro le donne obliose e vane e cattive predichi a tratti, senza però fiele ed acrimonia, co.i molta umiltà e lungi dalle consuete esagerazioni, quel meraviglioso tipo di Santa che fu Caterina da Siena. Curiosissime notizie, particolarmente sugli usi nuziali nel Trecento, ci porgono gli « Ordinamenti contro alli soperchi (1) Cap. I e II. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I 3 I ornamenti delle donne e soperchie spese de’ mogliazzi e de’ morti » volgarizzati da Andrea Lancia e pubblicati da Pietro Fanfani. Dagli accenni e dalla severità dei quali ordinamenti pubblici appare che si esagerava di solito dalle donne nei regali e nel vestito e nel fasto delle cerimonie liete o luttuose, nei cortei e ne’ pranzi. Un grande rispetto invece e una favorevol luce per la donna madre e capo ideale della famiglia è in parecchi preziosi e ad un tempo ingenui e forti libri di memorie o lettere domestiche che il Trecento ci lasciò. Cosi ci sfilano dinanzi agli occhi commossi dalla semplicità efficace della narrazione severi e simpatici ambienti e interni famigliari e quasi spartane o romane- figure femminee, leggendo le opere di integri cittadini ed elevati caratteri come Lapo da Castiglionchio e Donato Velluti (i) e Lapo di Mazzei (2). * * * Ma veniamo finalmente alla immortai triade del secolo XIV. Francesco Petrarca è un poeta lirico eminentemente soggettivo e tutto chiuso nell’amore più che ventenne per la sua Laura, laonde noi cercheremmo invano in lui i numerosi accenni generici che in altri molti si trovano, più scrutatori dell’ altrui che della propria anima, e quel poco che di ostile si può raccogliere non basta certo a dedurne ragionevolmente una ostilità nutrita contro il sesso. Tutta invece l’opera più vitale e duratura del Petrarca, il Canzoniere volgare in vita e in morte di Madonna Laura (o meglio quel complesso di poesie composte per Laura prima e dopo la conversion morale e religiosa del poeta), génial frutto dello spirito nuovo precursore dell’ U- (1) Vedi anche, a proposito del Velluti, il discorso di Isidoro Del Lungo, La donna fiorentina nei primi secoli del Comune, Firenze, Cellini, 1887. (2) E citerò solo di passata, perchè non li ho veduti, i trattatelli pubblicati nella raccolta di Strenne nuziali del secolo XIV dal Targioni — Tozzetti, Livorno, Vigo, 1873. Eccone i titoli significativi: « Trattato della moglie e della concordia » — « Avvertimenti e ammonimenti di maritaggio » — « Le sedici e le diciassette cose che inducono ad amare il matrimonio » — « Sul tòr moglie, o no, secondo Teofrasto sommo filosofo » — « Trattato maliens bonae ». 132 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA. manesimo, è innegabilmente vòlta ο almeno riesce alla sicura esaltazione dell 'eterno fent7tiini.no. Non ignoro che c’è, troppe volte ripetuta, una terzina d’un sonetto (il CXXXI in vita di Mad. Laura), che suona condanna alla proverbiale mobilità del sesso: Femmina è cosa mobil per natura, ond’ io so ben che un amoroso stato in cor di donna picciol tempo dura. Ancora si potrebbe, a voler essere minuziosi, citare la frase misogina di una delle Senili (XV, 4) : « foemina ut in plurimis verus est diabolus » ; ed il poco garbato saluto che il poeta della gentilezza rivolge altrove stranamente (non forse in una crisi di nervosità e di malumore?) alle donne chiamandole schiera di un bel silenzio assai contenta. E più gravemente significativa sarebbe, nel « De remediis utriusque fortunae > (Libro II) e precisamente nel capitolo che tratta De importuna uxore (Dial. XIX) la frase umoristicamente sentenziosa: « Quem una uxor non castigat dignus est pluribus » ; la quale ricorda in modo sorprendente la famosa freddura moderna: « un vedovo che ripiglia moglie è indegno della fortuna d’aver perduto la prima ». Ciò nullameno un’aureola di galanteria ricinge e ricingerà il capo glorioso del cantore della bella Avignonese. Nè altrimenti possiamo dire di Dante, realistico nelle rime petrose del Canzoniere e che pure ha scagliato un atroce invettiva contro la sfacciataggine delle donne fiorentine del tempo suo, use —andar mostrando con le poppe il petto (1). È noto che contro le portature delle donne di Firenze anche Franco Sacchetti scrisse poi una sdegnosa canzone, pubblicata da Giosuè Carducci neli’edizion sua delle « Rime di Cino da Pistoja e d’altri minori ». (1) Divina Commedia — Purgatorio — C. XXIII — v. 102. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 133 Ma Dante Alighieri, insistendo su questo malaugurato stimolo alla corruzione, ritorna in altra cantica del poema a biasimare fieramente per bocca di Cacciaguida le donne della sua città, riccamente contigiate con catenella corona cintura più appariscente che la persona. Vero è che, con giustizia esemplare, alla condanna delle moderne si accompagna in quel passo la esaltazione delle antiche donne : onde la satira è meri ata e parziale (i). Una sola volta, forse, nella Commedia abbiamo una generale e dispettosamente fiera accusa alle donne, di incostanza in amore, nella terzina: Per lei assai di lieve si comprende quanto in femina foco d’ amor dura, se 1’ occhio o il tatto spesso noi raccende. Che amarezza di personali ricordi e insieme che forza di esperienza in quel tatto posto lì dopo occhio, con una crudità di verismo che fa pensare! Certo qui non è più lo scrittore gentile della Vita Nova che parla, è piuttosto l’ardente poeta del canzoniere, che vorrebbe cacciar la mano vendicatrice nei crespi aurei capelli dell’amata, è l’esule malinconico e sdegnoso che ha provato la vita e conosciuto il mondo. Giova però notare che anche nel XIII capitolo della Vita Nova c’è un passo, ricordato già dal Valmaggi (2), in cui le donne sono similmente accusate di soverchia volubilità e leggerezza: « La donna per cui amore ti stringe così non è come 1’altre donne, che leggeramente si mova pel suo core ». — De! resto, nulla è più pericoloso delle citazioni sporadiche, nulla è più agevole che il trovare così la contradizionc in uno stesso autore e il porger modo a un oppositore nostro di dimostrare precisamente il contrario di ciò che noi abbiamo dimostrato. Perciò io mi guarderò bene dal sentenziare che sia misogino il cantore della mistica Beatrice, di lei invaghito fino a morte, il grande perfezionatore di quel dolce stil novo che tu tutto un inno e un omaggio alla bellezza femminile. Dimenticando o tacendo la molta parte elogiativa, potrebbe (1) Divina Commedia — Paradiso — C. XV — vv. 97-135· (2) Biblioteca delle Scuole italiane, Anno I, N. 16. 134 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA anche da certe affermazioni staccate considerarsi come misogino quel Guido Cavalcanti, gentiluomo simpatico e primo amico del-ΓAlighieri, quel Guido che tante volte amò e che ha tanta passionalità vibrante e nostalgica commozione nelle tristi ballate dell’esilio. Ma per me il sonetto contro la Scrignutuzza non basta ad ascrivere il miscredente ucciso dalla malaria fra i lirici anti-femminili : come i due sonetti contro due donne di Guido Guinicelli non offuscano il suo gentil culto dell’amore. Ma di gran lunga più importante dell’AIighieri stesso e del Petrarca è per noi ora Giovanni Boccacci. La tendenza antifemminile pare forse più strana in lui, che amò certo ed adorò tutta sua vita le donne ; ma la meraviglia scompare se si ripensi alla sensata e profonda osservazione, paradossale in apparenza, che fa il Bayle nel suo famoso « Dictionnaire historique et critique », parlando appunto del Boccaccio nostro: « Quegli autori che più hanno detto male delle donne sono quelli che più le hanno idolatrate ». Del resto la sapienza arguta del popolo ha sentenziato da un pezzo: chi disprezza ama. Checché sia di ciò, non sempre il Certaldese è misogino nel-1’opera sua molteplice. Nella seconda parte del Filócolo, ad esempio, ci son cavalieri e dame novellanti con risoluzione di quesiti attinenti al- 1 amore e alla donna: dei quali uno è « Se convenga meglio amare una pulcella od una vedova », liberamente e sottilmente discusso. In questa opera prosastica, e più forse nell'Ameto misto di prosa e poesia, e neìì’Amorosa Visione in terzine dantesche, incomincia a manifestarsi quella strapotenza della donna che fu uno de caratteri spiccati del Rinascimento. Ancora nel De claris mulieribus il Boccaccio resta in fondo buon campione del sesso femminile, e mostra che anco le donne posson fare qualcosa di grande, se bene nel proemio del libro riconosca in quasi tutte un corpo debole ed un ingegno poco robusto, e se bene certi esempi da lui addotti sian tutt’ altro che favorevoli ed edificanti. Nè manca negli episodi stessi di Sante Vergini, che la Chiesa venera sugli altari, 1’ umoristica e un po’ scollacciata festività del Decamcrone, che fa quasi dubitare con un risolino della serietà delle lodi: ma in complesso, ripeto, il libro è alle donne favorevole. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 135 Bene poi lo Zumbini (1) rilevò la tenera gentilezza degli affetti domestici dipinti nel Ninfale Fiesolano : in cui la madre ha davvero pel figlio Africo atti ed accenti delicatissimi. Senonchè la medaglia ha il suo rovescio: e, passando alle opere del Certaldese in cui si vede quello spirito anti-femminile di che abbiamo parlato, noto anzitutto il Decamerone, che generalmente ci offre la donna sotto un aspetto tutt altro che lusinghiero. Su questo capolavoro di novellistica non mi soffermo però, come potrei agevolmente, a notarvi la sensualità'e 1 astuzia delle eroine e la larga indulgenza verso i peccati d amore eh è nelle tre giovani novellatrici, le quali tuttavia non si abbandonano mai a vita disonesta coi sette compagni. E non mi soffermo per ragioni parecchie ; ma per questa soprattutto che se bene il racconto del Boccaccio sia sereno e rispecchi la vita del secolo — parecchi motivi tradizionali e atteggiamenti di convenzione pur c’entrano, e l’intenzion gioconda e burlesca dell’autore (che ha molti punti di contatto con 1 Ariosto) fa sì eh’ egli accresca spesso la dose e carichi le tinte, e impedisce di pigliare proprio sul serio ciò eh’ei dice e di considerarlo come espressione schietta e genuina e calma del suo pensiero. D’altronde, ondeggiante parecchio è questo suo pensiero, anche per lo scrupolo religioso che ne’ più maturi anni lo incolse. Una invettiva poco violenta contro il sesso è nella Vita di Dante: là dove, parlando delle nozze di lui, il Boccaccio ne tragge argomento ad una digressione, la quale riesce a provare che i filosofanti almeno non dovrebbero tòr moglie. A questo proposito, anzi, egli colorisce con sufficiente vivezza gli incomodi che ne avrebbero ed i timori e le incertezze e gli affanni. Uno degli argomenti più curiosi a sostegno della sua asserzione è il seguente: « Chi non sa che tutte 1’altre cose si provano prima che colui, da cui debbon essere comperate, le prenda? Se non la moglie, acciocché prima non dispiaccia che sia menata, e ciascuno che la prende la conviene aver non tale quale egli la vorrebbe, ma tale quale la fortuna gli concede ». È poi tutta una satira ferocissima contro le donne il Cor-baccio o Laberinto d'amore: del quale libello — per le oscenità spàrsevi — pochi passi è lecito riferire, se bene sovr’esso in se- (1) Una storia d' amore e morte, Roma, 1884. I3<5 GIORNALE STORICO E LETTERARIO UKLLA LIGURIA guito si modellarono non pochi altri componimenti misogini. Una riduzione :n ottave, ad esempio, ne fece Ser Ludovico Bartoli, col titolo II Corbaccino : e la pubblicava ed illustrava anni sono Guido Mazzoni. Nel suo Laberinto d’amore il Certaldese passa (ed è caso frequente nella psicologia de’ temperamenti erotici) dalle invettive contro una vedova che lo ingannò al vituperio di tutto il sesso. E comincia a definire ostilmente la femmina « animale imperfetto, passionato da mille passioni spiacevoli e abbomine-voli pure a ricordarsene, nonché a ragionarne ». Più maligna e iraconda definizione non conosco, salvo alcuna delle medievali o delle burlesche. Insiste poi sugli ornamenti donneschi, sulla malizia, sui lacciuoli tesi di continuo agli uomini, sulle apparenze bugiarde e le abili finzioni ed altri simili difetti. Indi, dopo essersi fermato con ispeciale compiacimento sul capitolo della lussuria, passa a dimostrare l’esecrabil sesso femmineo sospettoso ancora ed iracondo, e — come se non bastasse avaro ed insaziabile. Afferma inoltre più rade che le Fenici favolose, dopo Maria Vergine, le sante donne: e, se mai, proclama essersi sbagliata la Natura « sottoponendo e nascondendo così grandi animi, così virili e costanti sotto così vili membra e sotto così vii sesso come è il femmineo ». In tal modo, anche dove'non può negare virtù egregia e straordinaria di singole eroine, cerca pretesti e trova appigli per offendere intero il genere donnesco Esalta infine — per artificio di contrasto — la nobiltà dell uomo, e sostiene a dirittura che l’infimo uomo del mondo prevale alla femmina ritenuta più eccellente : assurdità spiegata solo dalla rabbia e dall’odio che gli dettò tutto quanto il componimento. * * * Tale, nei secoli XIII e XIV, il vario concetto della donna. Riassumendo, mi pare di poter concludere che il Trecento letterario, pur presentandoci a questo proposito ancora tenace la medievale corrente misogina dovuta al persistere di quello spirito di macerazione e di oscurantismo che condannava l’amore e la bellezza, segna già un risveglio alla gioja, all’umanità ed alla vita, e prepara abbastanza spiccatamente — coi suoi più grandi e schietti rappresentanti — quel culto tra goliardico ed GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 137 ellenistico della forma che contraddistingue l’Umanesimo ed il Rinascimento nostro. Parallelamente intanto, nella gloriosa infanzia della pittura italica (lo stesso potrei dire della scultura coi Pisano, suppergiù), Cimabue prima, e poi Duccio di Buoninsegna geniale artista, e il grandissimo Giotto e i giotteschi Taddeo Gaddi, Andrea di Cione e Pietro Cavallini si sforzavano di dare purezza di linee e armoniosa grazia e soprattutto espressione intensa alla donna, senza spirito misogino, anzi con manifesta simpatia e con gioja di creatori. Vittorio Amedeo Arullani VARIETÀ UNA SUPPLICA DEGLI UOMINI DEL BORGO DI S. STEFANO DI GENOVA PER PROSPERO DA CAMOGLI (IO MAGGIO 1477). Il primo a far conoscere con qualche precisione la curiosa figura di Prospero da Camogli, a cominciare dal cognome Schiaffini, fu il comp'anto Desimoni (1), e molte altre notizie aggiunse poi lo scrivente in suo lavoro ornai vecchio, ma forse non ancora del tutto disutile ai nostri studi (2). Ora molte altre cose nuove potrei aggiungere, ma le più troveranno, credo, posto migliore in un ampio studio, cui attendo, su Genova e Francesco Sforza (1450-1464). Un documento, però, rintracciato in questi giorni, fuor di posto, nell 'Archivio di Staio di Milano (3), mi pare meriti essere pubblicato qui subito, sia perchè uscendo fuor dei termini del lavoro disegnato, difficilmente ve lo si potrebbe inserire, anche di straforo, sia, sopratutto, perchè notevole sotto più di un punto di vista ed illustrante quel gruppo di documenti che fu da me altra volta edito intorno allo Schiaffini, od almeno alcuno di essi. Il documento, in data 10 maggio 1477, è una supplica indirizzata dagli uomini del borgo di Santo Stefano di Genova alla duchessa di Milano, Bona di Savoia, reggente — dopo l’assassinio del marito Galeazzo Maria Sforza — pel figliuoletto Giovan Galeazzo. Ma sarà forse bene recare il testo prima di commentarlo. (1) In Giorn. Ligust., anno III, 1876, pp. 87 e segg. (2) Un nuovo contribuio alla storia dell’ Umanesimo ligure, in Atti Soc. Lig., xxiv, 31, 35-44, 126, 187**17. v3) Genova, Mazzo 1457-1463. 138 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Illustrissima et Excellentissima princeps et Domina, Domina nostra colendissima, Quantunque possa parere presumptione che noi, persone minime, vogliamo interpellare vostra Celsitudine in quelo che dispone Vostra soma prudentia, nientedimeno, conio queli li quali sapemo essere devotissimi di vostra Excellentia, per lo stato de la quale seiliper senio, prompti et parati exponere la propria vita, corno habiamo facto questi dì podio inaliti, 11’ è parso poteire recomandare a vostra Illustr.ma Segnoria lo R.do meser Prospero da Camulio, el quale di comandemento de vostra Exc.a se dice essere venuto a Milano ; de la quale cossa qui asai se parla variamenti, perchè ogniuno, essendo nostro citadino, se male ne accadesse (che non crediamo), ne liaveria grandissima compassione, maxime essendo reputato devotissimo di vostra Sublimità, per le optime dimostratione eh’ el ha facto questi dì, quando stete qui : de che noi rendemo vero testimonio, habiandolo audito continua-menti exhortare ogni persona al beni vivere et a essere dinoto e fedele di vostra 111.ma S.ria. La quale senio certi, per sua infinita bontà e clementia, lo habia liberare, essendo persona relligiosa, la quale post mults annos è ritornato in la propria patria, parendose essere in quela securo, passando a Roma a suo viagio sensa nocumento alchuno. Per la qual cossa supplichemo humilementi vostra IH.ma S.ria voglia, etiam per amore nostro, hauere re-comandato esso R.do meser Prospero, del cui destrasio non poterà se non dolerne asai, benché ogni dispositione di vostra Sublimità prenderemo semper in bene, per bem facta, conio se convene a fidelissimi et humili seruitori di vostra Celsitudine. A la quale desyderemo essere semper recomandati. Janue Mcccclxxvii, die x Maii. E. 111.me D. V. Deuotissimi seruitores infrascripti de Burgo sancti Stephani ( 1 ) Francisais de Albingauna Bernardtts de Albinganna Franchus de Albingauna Iohannes de Valebella Constantinus de Castronouo Amer de Montesoro Arseli io de Axereto Iohannes de Benedicto Defendens Blanchus Antonius de Bergamo Baptista de Assereto Melchior de Costagna Iohannes de Sommo Jacobus Bazurrus Paulus Gaibino Bernardus Cazol/a Petrus de Montesoro Iohannes Baptista de Montesoro Iaeobus Guastauinus Raphael Richermus Petrus Iohannes Cazolla Petrus de Mtirisio Iohannes de Valebella Nicolaus Richermus lodisius de Pentenna Guillelmi Petrus de Carolo lanerio Iohannes Blancheto Ghaspure de Santo Petro Iohannes Bazur nix Iaeobus de Leco Petrus Horabonus Sti riami s Pellixola Nicolaus de Solario Iohannes Baptista Orabonus Petrus de Fossato Cumpetro (sic). E’ chiaro che questa supplica vuoisi connettere alle trame dello Schiaffini con Paolo Fregoso, arcivescovo ed ex-doge di Genova, che agognava di ricuperare il potere nella sua città; ai sospetti quindi suscitati dalla sua permanenza, e forse dai (1) Le firme seguenti sono tutte autografe. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DEI,LA LIGURIA I 39 suo contegno, in Liguria, mentre l’attraversava come protono-tario apostolico e latore di ambasciate di principi d’Oltralpi al Papa; all’arresto, in fine, operato in Chiavari d’ordine dei capitani ducali sfoizeschi Giovanni del Conte ed Amurato Torelli, con successivo invio del prigioniero a Milano, dove fu detenuto in carcere più mesi. Ora io ho altra volta creduto che l’arresto di Prospero a Chiavari si dovesse porre nel giugno 1477, perchè di tal'epoca era il primo documento con data certa che ne parlasse e fosse allora a mia notizia. Ma la data vuol essere anticipata almeno di un mese, e forse un po’ più, secondochè risulta dalla nuova carta dianzi qui pubblicata. La quale, d’ altra parte, ci mostra come non fosse erronea l’espressione che « qualche potente dovette intromettersi » a favore dello Schiaf-fini (i), perchè non è senza significato l’agitazione a suo favore di tutto quell’importante ed energico borgo di Santo Stefano che nel 1461 aveva incominciato il tumulto onde i Francesi furono costretti a ritirarsi in Castelletto, e poi a partirsi da Genova dopo la battaglia di Sampierdarena (2). E’ ben vero che, pel momento, la supplica dei Santostefanesi non conseguì a pieno il suo scopo, e che passarono almeno altri due mesi prima che Prospero venisse liberato; ma intanto il fatto rimane, e dimostra anche un’ altra cosa, cioè che non erano poi tutte millanterie, come affettava di credere Cicco Simonetta, le promesse dello Schiaffini all’arcivescovo Fregoso: ciò che pur si poteva già prima scorgere dalla cattura e dall’imprigionamento di lui, perchè non si arresta nè si tiene in carcere per sospetti politici chi veramente non desti qualche seria apprensione. Altri fatti emergono ancora dal nuovo documento. I cittadini genovesi del borgo di Santo Stefano affermano la correttezza del contegno di Prospero da Camogli durante il suo passaggio e soggiorno per la città, sostenendo anzi esser lui « devotissimo » della duchessa ed esortatore di quieto vivere sotto il reggimento di lei. L’attestazione è senza dubbio importante, ma non vuol esser presa troppo letteralmente ; guai a volervi riposar sopra la piena innocenza dell’imputato! Piuttosto è a fermar l’attenzione sul passo della supplica che accenna ai « vari discorsi > fatti in Santo Stefano sulla cattura dello Schiaffini, e principalmente sul modo di essa. Dicono infatti i sottoscrittori dell’ istanza che Prospero « di comandamento de Vostra Ex.a se dice essere venuto a Milano »: l’espressione non è punto chiara, e sembra contradire alle testimonianze esplicite ed incontestabili che parlano del suo arresto in Chiavari per ordine dei mentovati capitani ducali e del suo trasfe- (1)' Un nuovo contrib. st. Utnan. lig·., p. 44. (2) GlUSTINIANT, Alinoli della repubblica ili Genova, II, 421, Genova, 1854. 140 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA rimento a Milano dopo sette giorni (i). Su tale questione può gettar qualche luce un passo della supplica di Battistina da Camogli, sorella del nostro, alla duchessa Bona per ottener la liberazione di lui, « quale è stato incarcerato a nome de V. S. già tosto doy mesi fa, et è stato conducto qui a Milano, digando che V. Ex.tia gli voleva parlare, e Iny è venuto volun-tera, desiderando far reverentia et servire V. S.rta ». Queste parole, raffrontate colla citata espressione del nuovo documento, sembrano dare qualche indizio che la « presa » dello Schiaffini e la sua detenzione costituiscano una specie di tradimento. Egli sarebbe stato fermato a Chiavari e diretto a Milano non soltanto colla forza, ma anche, e più, con lusinghe: su di ciò, nondimeno, non è lecito pronunciar per ora un giudizio definitivo. Probabilmente, YArchivio di Stato di Milano conserva intorno a quest’affare altri documenti finora sfuggiti all’attenzione ed alle ricerche degli studiosi, e di essi, se mi verranno tra mani, mi affretterò a dar conto, parendo la cosa di qualche interesse per la biografia di una curiosa figura di studioso e diplomatico ligure del Quattrocento, nonché per la storia generale del tempo e specialmente per quella della dominazione sforzesca a Genova e della sua caduta. Ferdinando Gabotto. ANEDDOTI PER LA STORIA DELL’ERESIA IN GENOVA NEL SECOLO XIV. Il P. Boffito nella sua Monografia Albigesi a Genova nel secolo XIII (2), dopo aver esposto tutto che si potea conoscere intorno le sette eretiche in Genova, suggella l’interessante lavoro col dirci che « dal Liber Jurium (II, 414) appare per la prima e l’ultima volta il nome d’un inquisitore genovese fra le varie firme d’un atto del 2 giugno 1300 ». Il P. Tommaso de Agostini, che scriveva nel 1678 (3), adduce i pochi squarci dei nostri Annali, riferentisi all’eresia, fatti pure di pubblica ragione dal P. Boffito, aggiungendo una lettera d’Innocenzo IV, scritta da Assisi il i° giugno del 1254, con la quale s’ingiungeva a! provinciale di Lombardia di deputare quattro inquisitori nella marca di Genova. 11) Un nuovo contrib. st. U/nan. lig., p. 217. Cfr. anche p. 214. {2 ) Atti della li. Accademia dette Scienze di Torino, An. 1896, Vol. XXXI1. (3 j F.lenchica Synopsis idest strictum ac verum Compendium Fundationis, incrementi, obbligalionis et redditus Conventus Divi Dominici lamine compilatum per Fr. Thomam l)E Auc.t'stinis eiusdem coenobii alumnum MDCLXXV1II, Ms. alla Biblioteca della R. Università. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I 4 I L autore si duole dello sperpero dei documenti, che concernono il tribunale dell’inquisizione, e ci dà soltanto una serie di inquisitori, che va dal 1427 al 1701. I documenti, che riferisco nella loro integrità, vengono in buon punto per colmare una lacuna, e me ne saranno grati coloro, e non son pochi, che studiano i moti ereticali nella nostra Italia. I. In Cliristi nomine Amen. Universis Christi fidelibus présentes litteras inspecturis frater Iaeobus de Levanto ordinis predicatorum inquisitor heretice pravitatis in Lombardia et Marchia Ianue a sede apostolica constitutus salutem in auelore et confirmatore fidei domino lesu Christo. Latorem presen-cium nomine Iacobinum Garronum de Saona nostrum et officii inquisicionis nobis commissi officialem juratum familiarem fidelem ac nuncium specialem karitati vestre duximus tenore presencium comendandum. Insuper monemus omnes et singulos cuiuscumque gradus aut condicionis existant primo secundo tercio peremptorie uno pro tribus terminis assignato precipiendo sub pena excomunicacionis ac omnibus aliis penis canonicis et legitimis que debentur venientibus contra officium inquisitionis aut ipsum officium quocumque modo impedientibus ne quis dictum Iacobinum offendere seu impedire présumât in persona vel rebus vel eidem opponere per se vel alium publicc vel oculte quominus ea que dicto Iacobino pro honore fidei orthodoxe ac dicti officii comisimus exequenda libere valeat expedire. De predictis autem omnibus ius-simus fieri publicum instrumentum quod voluimus 111 actis officii registrari ut contra inobedientes et contemptores si qui quod absit reperti fuerint possimus legitime procedere iusticia mediante. Actum Ianue in domo fratrum predicatorum presentibus testibus fratribus Benedicto de Cumis lectore- fratrum predicatorum de Ianua Iacobo de Cessulis vicario domini Inquisitoris et aliorum inquisitorum et Petro de Saxa Mediolanensi eiusdem ordinis. Anno domini nativitatis Millesimo CCCXVIII ludicione XV secundum cursum Ianue die VII11 Ianuarii post vesperas (1). IT. In Christi nomine amen. Anno nativitatis eiusdem Millesimo CCCLXXI1II indictione XII secundum cursum civitatis Ianue die XIII mensis Octobris circa horam terciarum. I11 dei filio sibi karissimo fratri Augustino de Saliceto ordinis fratrum predicatorum frater Thomas prior provincialis in provincia Lombardie superioris ordinis eiusdem sacre pagine professor salutem cum sincere dilectionis affectum. Qum illis-potissime in quibus zelus et devotio fidei or-todoxe dignoscitur specialiter hahundare eidem fidei deffensio seu protectio est fiducialiter committenda. Idcircho vos de cuius sinceritate et doctrine veritate ac zelo religionis catholice gero in domino noticiam pleniorem auctoritate apostolica mihi in hac parte commissa inquisitorem heretice pravitatis in Lombardia superiori et Marchia Ianue instituo tenore presencium licterarum. In speciali autem vobis deputo civitates papiensem piacentinam Cremonensem et bobiensem cum diocesibus earumdem exhortatis vos in domino leshu ChristQ quatenus tamquam nostre fidei pugil fortis vulpeculas vineam domini Sabaoth fraudulenter demoliri attemptantes et oves morbidas sua feditale caulas inficere (1) Atti del Not. Ugolino Cerrino, Reg. IV, p. 160, Ardi, di St. in Genova, 142 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA gregis dominici presumentes pro viribus vigilantes ac strenue procul pellere studeatis ut tandem digna pro mercede vestre diligentis custodie mereamini finem fidei reportare. In horum autem robur et testimonium per infrascriptiim Nicolaum de Belignano notarium publicum instrumentum presentisque mei sigilli appensione muniri. Actum et datum in lamia in convcntu fratrum predicatorum civitatis eiusdem presentibus testibus fratribus Dominico de Lagneto magistro in theologia Iohanne de Curmulino lectore Petro de Saona subpriore Leonello Maroccllo omnibus auditoribus ordinis et conventus ad hee specialiter vocatis et rogatis ( i ). L’Archivio del Capitolo di S. Lorenzo ricco di pergamene, che possono recare un nobile contributo per la storia di Genova nei secoli XIV e XV, possiede una lettera, scritta il 26 marzo del 1349 da frate Giovanni, nunzio apostolico eletto per pacificare il genovesato, all’arcivescovo di Genova, e ai vescovi di Pavia, Piacenza, Vercel'i, Novara, Asti, Alba, Acqui, Torino, Alessandria, Tortona e Bobbio, pregandoli di concorrere nelle spese fatte durante il suo soggiorno in Genova dall’8 dicembre 1348 sino al 24 marzo. Il delegato pontificio scrisse la lettera da Genova, dal convento di S. Domenico, essendo presente frate Francesco Galvani inquisitore heretice pravitatis (2), lo stesso che vicn pure ricordato in un altro atto dell’il luglio 1352 (3). Arturo Ferretto. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Emilio Marengo. Genova e Tunisi (13881515'j Relazione storica seguita da due appendici sulle monete e i consoli e da alcuni fra i più importanti documenti. Roma. Tipogr. degli Artigianelli, MGMI ; in-8 gr., di pp. 318. (Vol. XXXII degli Atti della Società Ligure di Storia Patria). Quelli fra i lettori che ricordano la prefazione premessa da Michele Amari, (nel V volume degli Alti della Society stessa) ai « Nuovi ricordi arabici sulla storia di Genova n ricordano anche quanta copia di documenti avessero raccolto i compianti Desimoni e Bei-grano per illustrare i rapporti fra la repubblica e gli stati musul- (1) Atti del Not. Emmanuele Aimerici, Reg. I, p. 231. t 2) Cassetta A. B. C., N. 115. Nello stesso Archiviò-conservansi due bolle di Eugenio IV del 22 febbraio e i° giugno 1443 scritte all’arcivescovo di Genova. Nella prima il pontefice si lamentava che Antonio de Grassis, già abate deposto di S. Andrea di Sestri coll’ aiuto di alcuni armati era entrato nell’ abazia violentemente, scacciando il novello abate Gregorio da Camogli, per cui ordinava di amovere 1’ intruso e reintegrare nel possesso 1’ abate espulso. Nella seconda si doleva di bel nuovo che frate Raffaele dell’ ordine dei PP. Predicatori, inquisitore d’ eresia nella provincia di Genova, avesse redatto processo d’ eresia contro 1’ abate Gregorio a suggestione di alcuni suoi emuli, per cui ingiungeva di nulla innovare contro il predetto abate (Cassetta D, N. 25 e 25 bis). '3) Atti del Not. Filippo Noitorano, Reg. I, Arch. di St. in Genova. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I 43 mani, non potendoci più accontentare, secondo che diceva appunto 1 Amari, delle u esposizioni sommarie che soddisfacevano i nostri padri ai tempi del Marini e del Fanucci -n. Per quanto riguarda Tunisi, potè, innanzi di morire, il Desimoni ottenere che il Marengo suo sotto-archivista si accingesse alla pubblicazione e illustrazione d una parte di e.ssi, che partendosi dal principio del trecento vengono sino a quel tal diploma di Abu-Abd-Allah-Mohammed nel 1517, illustrato precisamente da Michele Amari. Siccome però, dopo stesa la relazione storica su questi documenti, il M. con nuova e diligente revisione dei registri di Cancelleria della repubblica, trovò parecchie lettere su Tunisi, egli le riunì opportunamente in un Supplemento u assieme ad altri documenti venuti da poco in luce Percio di queste lettere e documenti diremo un po’ men succintamente, rinviando, per il resto, alla pregevole relazi ne storica del M. stesso, che è degnissima di attento esame (1). Non lasciamo però dal notare le importanti deduzioni che il M. ha saputo trarre intorno alla storia del commercio genovese in Barberia e all’origine delle varie comperette che presero da Tunisi il nome, omettendo egli appositamente di trattare di quelle pescherie di corallo .che i Genovesi ottennero dagli Hafsiti a Marsacare, per non ripetere in proposito quanto avea detto il consocio Francesco Podestà in quell’ erudita sua pubblicazione del 1897. Naturalmente il M. si è servito per illustrare i suoi documenti delle pubblicazioni del Mas-Latrie, del Dclaville Le Roulx e dello Jorga, ma nel giudicare la politica che la soggezione della repubblica alla Francia o al Visconti rendeva necessaria, e che spesso era molto contraria agli interessi della repubblica stessa, diede non scarsa prova di retto criterio storico. Parecchie carte poi, pubblicate prima dallo Jorga nella Revue de l’Orient latin, e poi nel volume di Note ed estratti per le Crociate nel secolo XIV, opportunamente ripubblicò in più corretta lezione. Anche il breve cenno sulle monete saracenali in corso nel regno di Tunisi al tempo degli Hafsiti sta a mostrare il profitto che il M. ha tratto dagl’ insegnamenti del Desimoni, ed è molto utile perchè ci facciamo un concetto quanto è possibile esatto della vita economica medievale. Passando ad altra considerazione, possiamo invitare coloro che negano del tutto l’importanza dell’azione individuale di certi personaggi nella storia, a spiegarsi l’ordine e la potenza della monarchia Hafsita sotto Abu-Omar-Othman (1435-1488) prescindendo dall’opera sua propria. Di questa ristaurazione profittò il commercio (1) Facciamo noi stessi questo esame in una dispensa del torrente anno dell’Jrcft. Sior. Italiano. I_|4 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA dei Genovesi in Tunisi e crebbe nella seconda metà del quattrocento anche per un’altra ragione: che qui e negli altri stati dell’Africa settentrionale si concentrarono gli sforzi, che non potevano dirigersi nel bacino orientale del Mediterraneo divenuto quasi tutto ottomano. Ma in sullo scorcio del secolo, dopo la morte del grande Hatsita, 1 soprusi tunisini contro i mercanti genovesi si moltiplicarono e la repubblica « abbassata com’ ella era, non potea far seguire le minacce dagli effetti, nè abbandonare i tesori, che i suoi mercatanti aveano investito in quei commerci ». Un seguito quindi di « oscuri piati s sino al 1515, che è l’anno al quale giunge il M. Fra le carte del supplemento, omesse quelle che presentano certa analogia colle precedenti, notiamo una lettera della Signoria genovese al console e mercanti genovesi in Tunisi, lettera del 26 Gennaio 1110. (Il console doveva essere Bernabò delle Colonne Scoto, come dal diligente elenco compilato dal M. a p. 138 e seguenti). La Signoria perchè la « fraus et perfidia hominum cupiditate exce-catorum », non abbia a recar danno, avverte <· novos dolos fuisse nuper excogitatos fila auricalchi ordinare in capsulis moie auri quod Janue filatur, eaque tam pulchre componere ut, nisi homo doctus sit, falli possit, ut credat esse aurum filatimi januense n. E soggiunge temere che di questa roba abbia, a bordo della sua galeazza, un Antonio di Rapallo, al quale pure era stato concesso di esportare da Taggia e caricare 80 vegete di vino ad uso dell’ equipaggio. Anche è degna di osservazione la lettera, colla data 19 Aprile 1459, diretta dalla Signoria alla Santità di papa Pio II. Il reclamo è fatto sopra istanza di certo Giovangregorio Stella, che aveva a Tripoli, sovra uua nave di Vinciguerra Vivaldi, caricati u saccos septuaginta novem lanarum, ballas novem coriorum, vegetes septem collaquin-tidarum, et ballas septem storiarum quas vulgus appellat de medio junco cum filo diversorum colorum: quae omnia capiunt precium ducatorum mille n. Merci tutte che dovea recare a Genova ad Emanuele e Lionello Grimaldi. La nave era stata, nel mare di Malta, catturata dalla squadra pontificia agli ordini del vescovo di Tarragona, e le merci vendute a Siracusa. Chiede perciò la Signoria a S.S. un indennizzo' simile a quello che di recente, per simil caso avvenuto a una nave veneziana, era stato concesso. Contemporaneamente a questa domanda, mandavasi una lettera al cardinale di Rouen pregandolo d’intercedere. La Signoria aveva allora alla sua testa Giovanni, figlio di Renato di Angiò, governatore a nome del re Carlo VII di Francia. Il 12 Novembre 1460 è invece governatore per il sovrano medesimo Ludovico de la Vallée, e prega il re di Tunisi di far benigna accoglienza ad Antonio dell’Arinellina, Simone Taddei e Antonio Specia GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 145 procuratori di Sigismondo Malatesta « dominus in Italia plurimum potens.... multis ac nobilibus populis imperans. Hic vehementer cupit e regnis vestris educere equos cursores tres aut plures n. 1 ei-ciò erasi rivolto alla repubblica, che molto raccomanda questo suo desiderio al re di Tunisi, e scrive al console, perchè tratti con ogni riguardo i procuratori del Malatesta, per il viaggio dei quali unisce anche i salvacondotti. Altre volte (come nella supplica del Giovangregorio Stella sul-lodato) trattasi di reclami fatti da mercanti dimoranti o trafficanti in Tunisi, non solo contro la prepotenza dei magistrati barbareschi, ma anche contro la trascuraggine del console genovese a Tunisi, e del resto della colonia mercantile, che non sentiva la solidarietà ed il bisogno di far reclamo tutta unitamente; presso il re : « ipseque Johannes Gregorius, neque a mercatoribus ullum habere posset ia-vorem (quia illic nulla cura est communis boni, sed omnino ad pii vata redacta; quod est potissima causa quod mercatores januenses illic male tractantur) ». E torna più innanzi a battere su questo punto con quelle altre parole: « Dominatio vestra ita moneat consulem qui non ob aliam causam illic tenetur nisi pro detensione Januensium. ut operam adhibeat necessariam; et sub aliqua pena, quia a certo tempore citra, consules pro sua proprietate se cum curia regia immiscent, vel non audent vel non volunt mercatores tueri, ac eorum negotia procurare ; quod causam omnium malorum, qui in regno proveniunt, parturit v. Le quali cose forse potrebbero ripetersi anche oggi, a proposito di certi consoli e agenti consolali... di nostra conoscenza. Non . sappiamo pero se oggi il governo, in si mil caso, sanzionerebbe la consuetudine delle colonie meicantili, come fece il 30 Luglio 1470 la Signoria della città, a Ad partem vero suspicionis consulis dicimus, quod si vos mercatores, exclusis his qui cum quibus dictus Johannes Gregorius est causas habiturus, intellegetis ipsi Johanni Gregorio inesse legitimam causam suspicionis dicti consulis ; eo casu, quia ista est apud vos consuetudo — ut audivimus hic ab aliis mercatoribus nostris, qui in eo regno conversati sunt — quod, in casu suspicionis consulis, alius per vos mercatores consul in causis, alligantes eum suspectum (esse) eligitur, eo casu volumus, ut et vos idem, exclusis, ut diximus, illis ad quos pertinet, in hoc casu faciatis, advertendo virum eligere honestum et intelligentem *. E parecchi altri dei documenti dell’appendice riguardano i reclami di questo Gian Gregorio Stella, che fin dal 146-2 era per traffico e per la pesca dei tonni in Tunisi, e spesso lagnavasi che il re non consentiva eh egli si sei visse di tutti i mezzi legali, per ottenere il pagamento dai suoi debitori. Onde la Signoria fa presente (28 Aprile 1480) al re che « la raxum et ogni Gioiti, stor. e lett. d. Lig. III. I4Ô GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA bona usanza vole, quando uno non po pagare, convene che glie sia assignado la prexum, per la quale sia constrecto de fare lo so debito » e al console Francesco d’Oria che « senza ciò il traffico non andrebbe avanti ». Uno degli ultimi documenti poi è una lettera del 1° Ottobre 1481 della Signoria a detto Francesco d’Oria console a Tunisi, e riguarda provvedimenti per guardarsi, navigando, dai corsari Catalani perchè, oltre ad esempi recenti di atti di pirateria « horamai è il tempo che quelle nave de Spagnoli Catalani, Biscaini e altre natione, chi sono state in favore del serenissimo re Ferrando ad Otranto, ritornano, delle quale, non mancho a nostro giudicio se può dubitare corno de quelle de Barcellona, attento la condicione de li homini che devono essere in quelle, li quali devono avere man-chamento de molte cosse, li quali se può dubitare assai le pren-deriano in ogni loco. Ghe sono ancora molte caravelle portogaleize dele quali, benché siano vaxelli piccoli, non se ne può dubitare; siando carrighe de homini et altigiarie ». Ricorderemo pure il salvocondotto per un religioso dell’ordine della Santa Trinità u qui. hoc pietatis opus precipue exercet ut, si licet, captivos cristianos redimat a servitute infidelium, ob quam causam istuc accedit ». Esso viene caldamente raccomandato da Prospero Adorno e dalla Signoria (1° Gennaio 1478) u tum propter rei pietatem, tum propter nostros (si qui in aliqua calamitate sunt) quibus prodesse poterit », perchè il console e i mercanti genovesi in Tunisi « honorem favorem et suffragia vestra (quantum potestis) illi prebeatis et commendatum habeatis. Placebitis enim ex hoc Deo et nobis vehementer ». In quel tempo (1478) console era Raffaele Grimaldi, come rilevasi dal prelodato elenco. Innanzi di por termine a questi cenni, vogliamo riprodurre dal bel volume la notizia, già contenuta negli Annali del Giustiniani, dell’ambasciatore del re di Tunisi che nel Marzo 1452 « passò per Genova che andava in Lombardia e fu onorato e accarezzato assai dalla repubblica ». Il M. dai libri Diversorum trasse paiecchi paiticolari riguardanti questi onori e carezze, secondo che le chiamò il Giustiniani, e aggiunse che, probabilmente, il re di Tunisi prevedeva dover tornare Genova sotto Milano, poiché dal 1450 erasene fatto Duca quel forte e avveduto Francesco Sforza. Questa torse la causa dell’ambasciata fatta proseguire, da Genova, alla volta di Milano. Più intorno a quest’ argomento deve trovarsi naturalmente nell’Archivio di Stato di quest’ultima città, e forse nell Archivio Storico Lombardo j>otremo leggere, un di 0 l’altro, il risultato di nuove ricerche in proposito, come molti anni sono vi leggemmo lo scritto del Giiin/.om Un ambasciaUre del GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I47 soldati0 d’Egitto alla corte milanese nel 1476 (1). Se Giacinto Romano estenderà agli Sforza i copiosi interessanti studii fatti intorno ai Visconti (e ne ricordiamo alcuni riguardanti precisamente i rapporti fra Filippo Maria e gli Ottomani) ne verrà nuova luce anche sulla storia di Genova e nuova spiegazione delle difficoltà fra cui dibattevasi la sua politica commerciale nel Mediterraneo. Tornando poi alle induzioni del re di Tunisi nel 1452, il nuovo assoggettamento di Genova a Milano non avvenne prima del 1464, ossia poco innanzi alla morte di Francesco Sforza. Fra il 1458 e il 1461, grazie ai Fregosi, la repubblica era tornata sotto Francia. E perpetuavasi la trista vicenda, che dà un cosi particolare carattere alla storia genovese del secolo XV. Guido Biconi ANNUNZI ANALITICI. Giovanni Monticolo. Lettera a Sua Eccellenza conte Giuseppe Greppi, senatore del Regno (A proposito della sezione ottava del Congresso internazionale di scienze storiche), Roma, tip. Cooperativa sociale, 1902; in-8, di pp. 26. — I lettori del Giornale sanno come in questo mese di aprile dovesse tenersi a Roma un Congresso intemazionale di scienze storiche, al quale aveano già fatto adesione molti cultori delle medesime, così d’ Italia come di altre nazioni. Una delle sezioni del Congresso, 1’ ottava, presieduta dal senatore conte Giuseppe Greppi, aveva per oggetto la « Storia medioevale e moderna, generale e diplomatica, e la scienza diplomatica, archivistica, e bibliografica ». Nell’ opuscolo che qui si annunzia il M. offre notizie particolareggiate di varii lavori compiuti per iniziativa del Comitato provvisorio della suddetta Sezione, del quale egli fece parte fino al 28 gennaio p. p., giorno in cui credette conveniente di dare le sue dimissioni. La Lettera, scritta con molta cura e limpida chiarezza, è importante anche per ciò che 1’ autore espone intorno ad alcuni lavori fatti, in questi ultimi anni, dai periodici storici, dalle Società, Accademie e Deputazioni di storia patria, e per le notizie riguardanti altri studi di carattere storico, bibliografico, archivistico, e le comunicazioni, i quali doveano presentarsi al Congresso, che il M., quando iniziò la pubblicazione della Lettera, ignorava che sarebbe stato rinviato. Ma sopratutto 1’ opuscolo è prezioso per le informazioni sicure eh’ esso contiene sulla compilazione degli indici storici già pubblicati, o di prossima pubblicazione, per (1) V. il fascicolo del Giugno 1875 dellMrc/t. Stor. Lovib. (Anno II, p. 205). Anche dell’invio a Milano dell’ambasciatore di Genova nel 117b*&. B. Lomellino (Genova fu sotto gli Sforza una prima volta dal 1464 al 1478), deve esservi nell’Archivio di Milano qualche notizia che forse interessa i rapporti con Tunisi, perche l’ambasciatore è precisamente la persona stessa che nel 1171, appena due anni prima, era andato a Tunisi. Per ora sappiamo di questa missione a Tunisi quello solo che ci ha detto il Giscardi a p. 1221 delle famiglie nobili genovesi (Ms. nella Biblioteca Oivico-Beriana) « mandato per affari di navigazione ». V. Marengo, Relaz.ne, p. 89, n. 182. 14$ GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA cura di periodici e di Istituii scientifici. E di quanta utilità siano codesLi indici, che rappresentano « lo svolgimento dell’ operosità scientifica negli studi di storia italiana », è superfluo dire. Il M., in appendice alla Lettera, dopo di aver notato che il Congresso è stato rinviato, aggiunge: « Mi rivolgo — agli studiosi che con tanto zelo hanno partecipato all’ opera della sezione ottava e li invito a persistere nella esecuzione e pubblicazione dei lavori che ho annunziato. La scienza storica non soffrirà alcun danno se non si fara più qualche dimostrazione per esaltare alcuni ambiziosi ; ma se saranno pubblicati, e in modo degno, quei lavori che sono ora in corso di stampa o in preparazione avanzatissima, se nei periodici e all’ uopo anche nei giornali quotidiani e nelle riunioni dei circoli dotti, saranno discussi e risolti i temi proposti, si potrà dire che per la Sezione ottava il Congresso avrà virtualmente raggiunto il suo fine ». Io auguro che queste parole siano messe in pratica da tutti coloro che, avendo a cuore lavori di vera utilità scientifica, vogliono contribuire all’ incremento del decoro nazionale. (G. Cogo). G. B. Gerivi. (ìli scrittori pedagogici italiani del secolo decimottavo. Torino, Paravia, 1901; in-8, di pp. vili - 448. — Questo nuovo volume col quale l’A. segue il disegno di darci insieme le notizie dei nostri pedagogisti, e la storia delle dottrine intorno alla educazione, si raccomanda al pari degli antecedenti per diligenza di ricerche, e per lucida esposizione delle opere o delle scritture di tutti coloro che in qualche guisa, sia di proposito, sia per incidenza, trattarono dell’importante argomento. Perchè il G. non solo ci mette dinanzi la personalità e le dottrine di coloro che scrissero direttamente e con animo deliberato intorno ai metodi educativi, ina indaga e ricerca quali furono le opinioni di parecchi altri più o men noti scrittori del secolo XVIII, nelle cui opere ebbero occasione di fermarsi su qualche punto di pedagogia o di didattica. Cosi oltre ai nomi luminosi e celebrati del Vico, del Filangeri, del Gerdil, dello Stellini, del Doria, si veggono qui ricordati, il Gorani, il Carli, il Gozzi, il Salvini, il Beccelli, il Torri, il Maffei, il Bruni e alcuni altri. Notevole il capitolo che riguarda il dibattito intorno agli studi femninili in Italia, perchè dimostra come già fin dal settecento si manifestassero quelle idee intorno alla educazione della donna, che si andarono maturando nel secolo successivo, e presero così grande sviluppo in questi ultimi tempi da cadere persino nella esagerazione e provocare un qualche sintomo di provvida reazione. Auguriamo all’A. che dia termine alla sua opera con il volume che comprenderà i pedagogisti del secolo passato, rendendo così un buon servigio e alla letteratura ed alla scienza filosofica. R.EINHOLD Rohricht. Geschichte des ers/en Kreuzzitges. Innsbruck, Wagner, 1901 ; pp. 270 in-8. — Eccola dunque questa desideratissima introduzione alla Storia del Regno di Gerusalemme, che 1’ infaticabile professore di Berlino pubblicò nel 1898, e della quale abbiamo reso conto altrove a suo tempo. L’ opera del Sybel, che portò una vera rivoluzione, sessant’ anni or sono, nel modo di considerare 1’ origine delle Crociale e la prima delle grandi spedizioni, non poteva più bastare, dopoché le nuove edizioni di testi orientali ed occidentali e particolarmente gli sludii critici speciali su Alberto di Acquisgrana e sui cronisti a lui anteriori, nonché sulle interessanti figure di Pietro d’Amiens e di Goffredo di Buglione, portavano nel giudizio una moltitudine di fatti nuovi. Si aggiungano gli studii sui Comneni e la politica loro, e la molteplicità d’ indagini intraprese dalla Société de l'Orient Latin ne’ suoi Archives e nella sua Revue, nonché dalla Deutsche Morgcn-landische GeseUschaft e dal Deutsche Palàstina· Verein nei giornali rispettivi ; il tutto posteriore all’ opera del Sybel, clic si continuò a stampare sino GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 149 al 1900 senza che vi comparisse alcuna miglioria. Di tutto, con un accuratezza e scrupolosità ammirabili ha tenuto conto il R. come, del resto, ogni attento lettore del suo Manuale (1) poteva prevedere, sol che ne ricordasse il primo e secondo capitolo. Il Manuale però, oltre al restringere in meno di sessanta pagine la materia dell’ attuale pubblicazione, è assolutamente privo delle note e citazioni, che sono qui copiosissime e compatte, non meno che nella Storia del Regno di Gerusalemme, e offrono una guida preziosa a chiunque abbia bisogno d’ esaminare più addentro qualunque punto, per quanto speciale. Quattro excursus completano la narrazione : il iu, già pubblicato nel 1890 nel programma del Ginnasio Humboldt, col titolo: Zur Vorgeschichte der Kreuzzuge sul mondo musulmano nei tempi che precedono immediatamente le Crociate ; il 2" sul discorso di Urbano II a Clermont ; il 3U sulla papera o meglio sul papero profetico, una delle molte partecipazioni che la leggenda attribuì alla natura tutta, anche agli animali in favore del passaggio ; il 4" è la versione inglese della descrizione di Antiochia lasciataci da Ibn-Butlan, un autore che ha un’importanza di primo ordine per la storia che precede immediatamente le Crociate. Essa è contenuta in una lettera che Ibn Butlan scrisse di Bagdad a Abùi Husain Hilal ibn al- Musin l’anno 442 dell’Egira (1050-10511. La versione è di Guy le Strange reputato autore dell’opera intitolata: Palestine under thè Moslems (London 1890). La Storia della prima Crociata fu dedicata dal R. allo Hagenmeyer, benemerito editore di Eccardo e di Gualtiero Cancelliere, e acuto critico delle leggende cumulatesi sulla figura di Pier l’Eremita. Superfluo il dire eh essa è corredata di tre utilissimi indici. (GUIDO Bigoni) Le musée de portraits de Paul Jove contributions pour servir à l iconographie du moyen âge et de la renaissance par M. Eugène Muntz. Paris, lmp. Nationale, 1900 ; in-4, di pp. 95, con fig. — La divisione avvenuta nel secolo XVIII di tutto quanto ancora rimaneva delle importanti collezioni raccolte dall’ insigne letterato comasco, costituiva un ostacolo assai grave per chi voleva ricercare diligentemente in che consistesse la suppellettile artistica dell’ insigne museo. La pubblicazione degli Elogia nelle diverse edizioni uscite mentre era vivo 1’ autore ci faceva conoscere la serie dei ritratti, nel raccogliere i quali s’era adoperato il Giovio con tanto amore e tanta pertinacia; ma se ci indicava alcune delle fonti donde l’effigie erano derivate, non ci metteva sotto gli occhi la rappresentazione de’ personaggi. Soltanto venticinque anni dopo la morte dell’erudito collettore, apparvero in una edizione postuma degli elogi que’ ritratti, il cui numero attestava la ricchezza della raccolta, sebbene 1’ editore ne ρμΙΛΙίοαββε soltanto una parte, secondo la scelta da lui fatta, che se presentava i nomi più importanti non era certamente la maggiore. Ora il M., con la competenza che tutti gli riconoscono, ha voluto tentare con buona riuscita una ricostruzione storica e artistica del museo gio-viano dei ritratti, raccogliendo e ordinando tutte le notizie atte a fargli raggiungere il suo fine, e indagando saggiamente, mercè opportuni confronti le derivazioni di parecchi di que’ dipinti, i quali acquistano perciò un valore grandissimo di attendibilità. L’A., con quella prudenza che è qualità dei veri eruditi, dichiara che con questo suo lavoro non intende d’ aver esaurito la materia : potranno quindi uscire alla luce nuovi elementi per arricchire, modificare, od anche correggere quel eli’ egli ha detto (il ritratto di Andrea (i) Propriamente, come lo chiamò il R. contorno: Gesch. der Kreuzzuge in Umrìss (Innsbrucli, Wagner, 1S98). Vedine la recensione da noi fatta in Arch. Star. Hat., Serie V, Tomo XXIII (1899) p. 179, e per la Gesch. des Kuuigreic/is lerusulem, Ibi, Serie V, Tomo XXI (1898), p. 357. ί 50 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA D’Oria dipinto dal Bronzino che il M. non conobbe giovi ad esempio!, ma 1’ edilìzio da lui costrutto ha basi solide e 11011 può ricevere nocumento. I dati storici numerosi e rigorosamente tratti dalle fonti migliori ; notevolissimi i raffronti artistici, al tutto persuasivi ; ottime le osservazioni intorno alle fasi subite dalle copie, dalle ripetizioni e dai rifacimenti. Compagnia dei Caravana. Le feste inaugurali del gonfalone e del quadro ricordo dei figli di Caravana che si segnalarono per dignità ed ingegno. Relazione di Luigi Augusto Cervetto. Genova, tip. della Gioventù, 1901 ; in-8, di pp. 50, con fig. — Dopo un ampio resoconto delle feste che furono fatte nella indicata circostanza, con i discorsi pronunziati, fra quali notevoli quelli del C. per i riferimenti storici, si leggono le note storiche, da questi dettate, intorno all' antica corporazione. Ne divisa da prima l’istituzione che rimonta al secolo XIV, dà ragione plausibile del nome assunto, e dei luoghi onde derivarono i primi ascritti, si ferma a ricordare la fondazione della cappella del Carmine, intitolata alla S. Croce, dove i Caravana venivano sepolti, parla dell’ uso di apporre a ciascheduno degli appartenenti alla compagnia un soprannome (come si faceva nelle vecchie accademie), costume antico e quasi legalizzato dal ritrovarsi nella matricola ; chiude in fine con un cenno sul portofranco, e sulle disposizioni riguardanti i Caravana per il la-voio a cui dovevano attendere ed alla loro organizzazione privilegiata. Notizie diligentemente vagliate ed attinte da autorevoli fonti edite ed inedite. Discorso inaugurale letto nell’ aula magna del R. Istituto di Studi superiori pratici e di perfezionamento in Firenze il 3 novembre igoo dal prof. E. G. Parodi. Pirenze, Galletti e Cocci, 1901 ; in-8, di pp. 43. ^' argomento di questo discorso si desume da queste parole : « Vi parlerò, nel modo più facile e piano eh’ io sappia e tenendomi ai concetti più comuni e più noti, della scienza del linguaggio ; la quale in Italia si vuol chiamare Glottologia e altrove Linguistica, e che da taluno è pur detta, prendendo la parte pel tutto, Grammatica comparata ». Egli così 11011 è uscito dal suo campo, e con la dottrina che tutti gli riconoscono, ha esposto in bella forma accessibile a chicchessia, la storia di questa scienza moderna, lo svolgimento, le modalità, i metodi, le lotte, le sconfitte ed i trionfi. Poiché ormai essa ha ne suoi principi, e ne’ dettami generali, cosi saldi fondamenti da non temere ferite od offese. Il ragionamento dell’A. procede serrato e denso d idee, di concetti, di giuste illazioni, ma del pari agevole ad essere inteso anche da coloro che non fanno argomento principale de’ loro stridii la glottologia ; certe verità singolarmente sulla necessità del metodo, e sull’ abbandono dell empirismo nelle indagini linguistiche appaiono così luminose da persuadere chi non abbia affatto ottuso l’intelletto. Anche qui troviamo alcuni tocchi che si riferiscono alla nostra regione intorno al cui particolare linguaggio, come tutti sanno e se ne avrà in breve altro documento, il P. ha fatto studi speciali e di grande importanza. Opera nuova e da ridere o Grillo medico. Poemetto popolare di autore ignoto ristampata per cura di Giacomo Ulrich. Livorno, Giusti, 1901 : m-16, di pp. xvm - 79. (Vol. V della Raccolta di rarità storiche e lei-tirane.. La riproduzione è fatta diplomaticamente sulle due stampe del 1537 e *549, seguendo il testo della prima. L’editore determina nella breve prefazione quali differenze grafiche e lessicali esistono fra 1’una e l’altra; viene quindi a parlare della genesi di questa curiosa novella popolare, assai nota nei volghi anche oggidì, e della quale molti hanno discorso. Ne ritrova i primi germi in onente donde s. diffuse poi in Europa, e dalla Francia, secondo egli cede, giunse in Italia; ricorda alcune allusioni a questo poemetto nella let- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 151 teratura italiana, e il rifacimento del Baruffaldi. Ma questa prefazione, che potrebbe dirsi una serie di appunti ordinati a più ampia e diffusa trattazione da chi ha la materia famigliare, non contenta, come dovrebbe, gli studiosi. Bernardino Baldi. L’ invenzione del bossolo da navigare. Poema medito pubblicato per cura di Giovanni Canevazzi. Livorno, Giusti, 1901 ; in-16, di pp. xxvii - 75. (Vol. VI della Raccolta di rarità storiche e letterarie). —- Questo poema conosciuto dall’Aftò soltanto per il titolo, e invano da lui cercato, si trova autografo nella biblioteca Estense di Modena, fra i manoscritti Campori, dove si conserva altresì 1’ autografo della Nautica. E fu ottimo consiglio quello del C. di renderlo noto per le stampe e per il suo valore letterario, e per quello scientifico in ordine ai tempi ne’ quali venne dettato. Sebbene possa stare da se, e fu questa forse 1’ intenzione dell autore, pure è così legato per la materia all’ altro più ampio e complesso, da potersi considerare come un notevole episodio di quello. Ala alla Nautica egli diede le ultime cure, mentre questo fu lasciato in disparte, e sebbene siano non poche le varianti marginali, pure non può dirsi quella dell’ autografo 1 ultima e pulita lezione del testo secondo la mente dell’ autore. Il quale dimostrò da prima il proposito di condannare all’ oblio il suo lavoro, inserendo nel maggior poema la parte speciale che si riferisce strettamente alla scoperta della bussola ; mentre poi, o non fosse contento di questa giunta, o volesse lasciare intatto quel componimento per tornarvi su e ridurlo a buon fine, rimaneggiò tutto il brano rifacendolo per intero quando diede fuori la Nautica. Comunque sia, ora 1’ operetta viene ad aggiungersi alle altre pregevoli produzioni poetiche del Baldi, e pur in essa ei manifesta quelle invidiabili qualità di poeta onde giustamente è stimato, sebbene si scorga qua e là il difetto del limae labor di che egli era tanto curante. La leggenda di Havio Gioia è oggimai bandita dalla scienza, ma non si può far carico all autore se 1’ ha accolta, secondo la comune credenza ; ben riesce osservabile la bella fantasia, e la garbata immaginazione con le quali in forma elegante la pone dinanzi agli occhi del lettore. L’ editore ha dato ragione di questa stampa in una sobria ed appropriata introduzione discorrendo, oltreché del manoscritto, del tempo in cui venne composto il poemetto, che è il 1579» conle d'ce la scritta finale, del metodo di riproduzione e della materia rispetto alle cognizioni scientifiche di quei dì. In fine ha posto le varianti che si leggono ne’ margini, sebbene alcune gli siano riuscite indecifrabili. Rileviamo per noi notevolissimo il brano in cui si discorre di Colombo e della scoperta dell’America, che viene così ad essere la menzione più antica nell’ epica italiana. Giuseppe Dalla Santa. Un trattatista- « De Syllabis » dimenticato. Venezia, Monanni, 1901 ; in-8, di pp. 8. — Il D. S. pubblica qui una lettera di Georgius lunensis monachus, scritta « Ex Cervaria die 28 mar-tii 1513 » e diretta al padre Gio Antonio veneto priore del monastero di S. Giorgio Maggiore a Venezia, nella quale discorre di un’ opera « de syllabis » da lui composta e che stava apparecchiando per la stampa. Ad essa si proponeva di mandare innanzi un’ « abbreviazione » del maggior lavoro, ma gli parve poi miglior consiglio pubblicare 1’ uno e 1’ altro contemporaneamente, e in questa lettera appunto ragiona delle pratiche da farsi con gli stampatori, sottoponendo anche le due opere « al giudicio de meser Aldo Romano e de ogni altra persona docta, se parerà sia cosa digna de stampare ». Questo fiate Giorgio era monaco del monastero della Cervara che non è, come dice 1’ editore, in Val di Magra, ma nella riviera di Genova nel comune di S. Margherita. Il D. S. non sa se questo Giorgio sia da identificarsi con un « Georgius de Ianua » o un « Georgius de villa de I 52 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Spedia » ricordati in un atto del 14 febbraio 1516 che si riferisce alla Cer-vara, notando altresì che un Giorgio di Genova decano del monastero suddetto, ricorre in altro atto accennato dallo Spinola nelle sue memorie manoscritte dell’ insigne cenobio. Egli tuttavia considerando 1’ appellattivo di lunensis inclinerebbe per Giorgio della Spezia ; lo trattiene tuttavia un dubbio, e cioè 1’ indicazione posta a tergo della lettera da mano diversa, la quale dice : « De d. Zorzi Da Zenoa ». Si potrebbe osservare che forse lo scrittore di sì fatta annotazione lesse Ianuensis invece di lunensis. In ogni modo ecco un ignorato ligure, autore di un’ opera, del pari sconosciuta, che fra Giorgio vien divisando così : « Sum in questa nostra opera, exceptione circa septe milia, sopra tuti quelli chi fine a chi hano scripto de syllabe, tute probate per auctorità poetica, o per certa ragione ; e similmente tute le altre exceptione probamo, laxate da li altri per la maiore parte non probate, e cum distinctione clarissime metiamo lute da per si le longe, le breve, e le comune, cadaune de parte con le sue rubrice, e la» maiore parte per ordine dalpheto ». Filippo Bosdari. Giovanni da Legnano canonista e nomo politico del 1300. Bologna, Zanichelli, 1901 ; in-8, di pp. 141. (Estratto dagli Atti e Memorie della R. Depnt. di Stor. pat., XIX). — L’A. con buon corredo di documenti, e ricercando con savio discernimento le fonti edite ed inedite, è riuscito a ricostruire la biografia di questo insigne lettore dello Studio di Bologna. Sebbene lombardo, e nato secondo ogni probabilità a Milano egli viene considerato come bolognese, non solo per la lunga e stabile dimora in quella città, ma e per i pubblici uffici che vi ebbe, e la onorifica cittadinanza che ne'ottenne. Le prime notizie di lui sono contemporanee alla dominazione viscontea sopra Bologna, onde giustamente si riferisce a quel tempo la sua prima comparsa in quella che gli fu patria d’adozione. Quivi egli ebbe modo di far conoscere il proprio valore, e perciò si vede mescolato nelle politiche vicende che si svolsero in quei tempi. Il B. ha avuto cura di narrare con sobrietà, e insieme con chiarezza i fatti che procacciarono a Bologna periodi di turbamenti e di relativa tranquillità, e ne modificarono più d’ una volta le condizioni del reggimento, fino a che, pur soggetta alla Chiesa, mantenne una certa forma d’ autonomia nella interna amministrazione. Di tutti questi avvenimenti cittadini il da Legnano fu gran parte, e più d’ una volta, e in diffìcili contingenze, ebbe carica d’ ambasciatore al pontefice, di cui fu anche Vicario; importantissima l’opera da lui prestata nel tempo dello scisma occidentale, quando due papi travagliarono 11011 poco la Chiesa. Uomo di grande dottrina, di fermo carattere, e di severo costume, pur difendendo le prerogative pontificie, non si tenni.· dal rilevare i mali che affliggevano il clero, e d invocare provvedimenti atti a ristabilirne la disciplina ; fu sollecito propugnatore dei diritti della sua nuova patria, della quale cercò il lustro ed il benessere. Notevole il suo testamento, al quale aggiunse un condicillo poco innanzi la sua morte, avvenuta, forse per la peste, il 16 febbraio 1383. L a. ha opportunamente rinfrescata la memoria di un tanto uomo, sul quale non si avevano che scarse e monche notizie ; diligente nelle ricerche, se 11’ è gio\ato con buon accorgimento ; prudente nelle induzioni, ha reso accettabili le sue conclusioni. Avremmo desiderata una cura maggiore della forma, e ci sembra sarebbe riuscita giovevole la bibliografia delle opere da lui lasciate. Giuseppe Leanti. Intorno alla poesia L di Catullo. Avola. Piazza, 1901; in-8, di pp. 8. — In questo opuscolo nuziale (Bonfanti-Mauceri 1 il L. dà il testo del poemetto catulliano accompagnato da una piana versione in prosa, e ne prende aigomento a discutere parecchi luoghi sulla lezione dei quali an- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 153 tichi e moderni commentatori non si trovano d’ accordo. I rilievi sono fatti garbatamente e suffragati da buone ragioni. E. Maddalena. Un Auto-da-fé a Ragusa nel 1S60. Venezia, Visen-tini, 1901 ; in 8, di pp. 10. — Si tratta del bruciamento avvenuto il 16 aprile 1860 nel cortile del ginnasio di Ragusa tenuto dai Gesuiti, delle poesie di Arnaldo Fusinato, perchè « piene di scurrile amore, maestre di libidine ed effeminatezza ». Il libro fu trovato ad uno studente del ginnasio, che s’ ebbe una nota di censura perchè leggeva « Γ opera d’ un autore girovago corrompitore dei giovanetti, zeppo di storte idee ». Da questo piacevole aneddoto narrato genialmente, come suole, dal M. si impara altresì che vigeva l’uso in quell’istituto di fare una baldoria per la festa di S. Luigi, ad alimentare la quale si esortavano gli scolari ad offrire i libri condannati dalla S. Congregazione, che trovassero nelle loro case. Ferdinando Gabotto. Lettere inedite di Silvio Pellico a Carlo Muletti. Saluzzo, Bovo e Baccolo, 1901 ; in-8, di pp. 12. (Est. dal Picc. Arch. Stor. d. Ani. March, d. Saluzzo). — E’ noto che Delfino Muletti scrisse le 1Memorie storiche di Saluzzo e Carlo suo figlio le pubblicò annotandole ; poi questi mandò in luce la Cronaca di Goffredo Della Chiesa. Una nota laudativa per- il Pellico inserita nel terzo volume ha dato il primo avvio a questa corrispondenza, e la lettera con la quale incomincia è dell’ottobre 1830, poco più di due mesi da che il prigioniero dello Spielberg era stato liberato. E se questa non manca di interesse, riesce del pari assai notevole 1' altra del giugno 1846 in cui il Pellico dà un giudizio sommario intorno al metodo tenuto dal Muletti nella pubblicazione della Cronaca. Il G. con un conveniente commento le illustra. Francesco Corridore. Bricciche storiche. Cagliari, Valdès, 1901 ; in-8, di pp. 33. — Tre sono gli aneddoti storici, corredati da documenti, che il C. raccoglie in questa sua pubblicazione. Perchè nel 1691 la flottiglia sarda non andò a soccorrere Nizza ? La risposta ci è data appunto da una relazione del viceré conte d’Altamira, e da un rapporto del generale Sifuentes. Ed è questa, che le navi erano in pessime condizioni, la flottiglia disorganizzata, e mancavano assolutamente i denari. — Il governo di Spagna aveva ridotto anche la Sardegna allo stremo. Cercò di cambiar padrone e passare sotto il reggimento austriaco ; 1’ impresa venne promossa dagli stessi capi delle milizie. La flotta anglo-olandese, con i soldati austriaci da sbarco tentò invano nel-l’inverno 1707-1708 d’approdare all’isola, ma fu scompagginata dalle insistenti tempeste e vi dovette per allora rinunziare ; ma nella successiva estate riuscì a compiere il disegno. — Saltiamo ora un secolo, ed ecco che ci si presenta uno spagnuolo, Giuseppe de Iauregni, il quale dopo aver seguito, in ufficio di commissario di guerra, Gioachino Murat, ed aver preso parte alla battaglia d’Austerlitz dove toccò una ferita, si mise a fare il diplomatico, e in questa sua qualità con altro nome viaggiò in Prussia, in Pomerania, in Olanda, in Fiandra, fin che si ridusse a Parigi. Quivi riuscì a conoscere i progetti di Napoleone contro la Spagna, ed egli da buon suddito si propose di farli conoscere al suo re, svelandogli a Ferdinando di Napoli perchè ne rendesse edotto il fratello. Dopo varie peripezie ottenne finalmente di poter esporre in una relazione al marchese di Circello quanto era venuto a sapere. Il C. narrando i fatti di cui si è brevemente discorso li pone in relazione, illustrandoli, con la storia di quegli anni. L. C. Boi.LEA. Le prime relazioni fra la casa di Savoia e Ginevra (Q26-1211J. Torino, Clausen, 1901 ; in-8, di pp. 92. — L’ a. si è proposto un argomento 154 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA determinato, di cui ha segnato i confini, e il lavoro si presenta quindi come una integrazione di quello del Mallet, il quale fino dal 1849 ricercava e stabiliva la podestà esercitata sul ginevrino dalla casa di Savoia. In tre parti egli divide la sua trattazione ; nella prima discorre i rapporti fra le due case comitali di Savoia e di Ginevra, nella seconda quelli della prima con i vescovi del luogo, nell’ultima le relazioni eli’essa ebbe col territorio ginevrino e coi signori quivi dominanti. Le fonti alle quali attinge sono tutte edite, ed egli ne mostra larga conoscenza ; ma discute le conclusioni intorno a punti particolari messe innanzi da altri ; e riesce a rilievi persuasivi ed attendibili. Di qui si trae una conoscenza abbastanza esatta rispetto alla importanza ed alla qualità delle relazioni intercedute fra i conti di Savoia e Ginevra nel periodo anzidetto, e meglio s’intende con quali intenti vennero mantenute, e per qual guisa si affermò poi la preponderanza politica di quella casata sopra la città e il territorio ginevrino. Attilio Gentille. Una lettera inedita di Cario Goldoni, s. 11. tip., in-8, di pp. 7. (Estr. άΐΛΥ Archeografo Triestino, XXIII). — E. Maddalena. Lettere inedite del Goldoni. Napoli, Detken e Rocholl, 1901 ; in-8, di pp. 18. (Est. dalla Flegrea\. Una h itera inedita di Carlo Goldoni. Firenze, Barbera, 1901 ; in-8, di pp. 8. (Est. dalla Raccolta ded. ad A. IXAncona . Goldoni e A ota. A proposito di due famiglie esemplari. Roma, tip. Tribuna, 1901 ; in-8, di pp. 10. (Est. dalla Rivista polit, e lett. . Intorno alla « Famiglia dell Antiquario » di C. Goldoni. Napoli, Melfi e Ivele, 1901 ; in-8, di pp. 37. (Est. dalla Rivista teatrale). Uno scenario inedito. AVien, 1901 ; in-8, di pp. 22. (Est. da Sitzungsberichte d. kais. ALad. d. IViessanscheften). — Rosario Bonfanti. Lno scenario inedito di Basilio Locatelli. Noto, Zam-mit, 1901 ; in-8, di pp. 14. — Notevoli per diversa ragione tutte queste pubblicazioni delle quali diamo una breve notizia. L’ epistolario goldoniano, che, come tutti sanno, non è ricco, riceve qui utile incremento. Il biglietto del 22 febbraio 1780 pubblicato dal Gentille con opportune illustrazioni ci richiama alle note relazioni del comico veneziano con Vettore Gradenigo allora segretario d ambasciata a Parigi, e v’ è menzione de’ suoi rapporti con la principessa di Montbazon, di cui altrove non è parlato. L’ autografo si trova nella biblioteca di Trieste; dove è pure una ricevuta del 16 aprile 1 72 1 di « Malgari ta Savioni Goldoni », madre di Carlo. Ma ecco il Maddalena, alla cui competenza ciascuno s’inchina, con maggior messe ; cinque lettere, un bigliettino ed un documento. Risale la prima al 1754 quando il Goldoni era-a λ enezia, mentre a Firenze si stampavano dal Paperini le sue commedie, e la lettera esprime la riconoscenza dell’ autore ad una « Eccellenza » per i ventiquattro ducati mandatigli generosamente a donare in seguito all’omaggio forse del quarto tomo delle commedie, o anche di tutti quattro dove probabilmente era una qualche dedica a quell’ ignoto patrizio, il quale, secondo il M., potrebbe essere o il Gambara, o Nicolò Balbi. La seconda da Parigi scritta dieci anni dopo è invece indirizzata ad una « Eccellenza » ben nota, e cioè al maichese Albergati, importante fra 1’ altro per un gustoso paragrafo sul Baretti. La terza e la quarta sono dirette a Parma, come si rileva dal contenuto, e da questo e dalle date Γ editore ritiene Γ una scritta al Du Tillot, 1 altra al De Llano suo successore ; invia al ministro e, per suo mezzo al duca, un esemplare del Bourru, ricordando con riconoscenza il titolo di poeta conferitogli da Don f ilippo. e la pensione assegnatagli ; la qual pensione figura nel Ruolo del 1785 (a c. 222) cosi: « Carlo Goldoni. Poeta di S. A. R.... 2200 ». Il biglietto è in calce ad una lettera del nipote Antonio ; ed è diretto a Giuseppe Pezzami, il quale dimorava allora a Parigi insegnando P italiano, e attendendo ad una poco fortunata edizione del Metastasio. Riguarda la GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LGURIA I 55 quinta quel disgraziato Avare Fostueux, che, senza poi meritarla del tutto, ebbe riuscita cattiva più specialmente per cause estrinseche che cospirarono contro quella commedia. Ricordiamo, a proposito, che alcuni anni sono presso il Claudin era in vendita il manoscritto di un Avare fastueux, che non giungemmo a tempo ad acquistare, nè ci è noto dove sia andato a finire ; diamo qui a titolo di curiosità 1’ indicazione prodotta nel catalogo: « ”5763. Avare fastueux (L'), comédie. Manuscrit du χνιπ siècle de 92 ff. chiffrés, in-4, vél. — Cette comédie, qui probablement 11’ a pas été imprimée, fut représentée sur un théâtre de société. Les acteurs dont les noms sont désignés dans le manuscrit furent MM. de Grandville, Chevalier, Desportes, Coypel l’aîné, Dalencon, Coypel cadet et Mouret. Les vers de la première scène semblent indiquer Mouret comme 1’ autenr de la pièce, il s’ agit peut-être de Mouret de St-Firmin, ancien commissaire de la marine et pensionnaire du roi, auteur d’un poëme : Akakia, imprimé en 1771 ». Il documento finalmente è la dichiarazione con la quale il commediografo veneziano cede alla ved. Duchesne il manoscritto del Burbero di buon cuore, traduzione della sua commedia francese, e che comparve alla luce il 1789. Sarebbe qui superfluo l’aggiungere che il M. ha illustrato queste nuove lettere, com’ egli soltanto sa fare. Alla critica del teatro goldoniano ci richiamano le altre due pubblicazioni dello stesso M. qua sopra indicate. Sulla Famiglia dell’Antiquarie egli ha dettato una vera e propria monografia, nella quale dopo aver discorso della commedia nel suo svolgimento, ne ricerca le fonti, e ne divisa la fortuna singolarmente presso gli stranieri. Intorno a questo argomento è da vedere utilmente un articolo di Carletta (Antonio Valeri) nel Fanfulla della Domenica (a. XXIII, n. 22). La Buona famiglia, ha poi dato modo al M. di fare alcune acute osservazioni sulla morale goldoniana esposta in teatro, e più singolarmente di mettere a raffronto della stessa la Pace domestica del Xota da quella derivata. Pubblica infine imo scenario, da lui rinvenuto manoscritto nella biblioteca Palatina di Vienna, dal titolo : Un pazzo guarisce I’ altro tratto evidentemente in servizio della scena dalla commedia omonima del Gigli. Se questo scenario è curioso, perchè dimostra come i comici dell’ arte s’ impadronivano della commedia scritta e ne attegiavano a lor uopo il soggetto e lo svolgimento, ben più importante è quello di Basilio Locatelli mandato in luce dal Bonfanti. Ha per titolo : Il vecchio avaro 0 vero li sci itti e il B. rileva assai bene i contatti e le relazioni con il Àfalade imaginaire del Molière, e più e meglio con la Serva amorosa del Goldoni, intorno alla quale diede un buon saggio il Maddalena due anni or sono. La favola del scenario locatelliano fu svolta anche da Iacopo Cicognini nella inedita commedia L’ amor figliale, come si vedrà prossimamente in uno scritto sul poeta castrocarese che si pubblicherà in queste pagine. A. Fiammazzo. Lettere di dantisti con prefazione di Raffaello Ca VERNI. Città di Castello, Lapi, 1901 ; in-16, di pp. 66, 55, 140. — Sono tre volumetti che costituiscono quattro dispense (64-67) della ben nota collezione di opuscoli danteschi. Nel primo si raccolgono lettere d’italiani del sec. XVIII (e sono Pier Caterino Zeno, Giulio Gagliardi, Giuseppe Gennari, Baldassare Lombardi ), o che a cose dantesche di quel secolo si riferiscono, in una serie di lettere di Stefano Grosso d’Albisola. Il secondo ci dà una silloge di lettere di dantisti stranieri ; notevoli quelle del Thomas, del Witte e di Guglielmo Michele Rossetti. Queste come alcune del Grosso furono tratte dal carteggio di Jacopo Ferrazzi, di cui è una breve responsiva latina al Thomas, salvo le due del Witte indirizzate una a Filippo Zamboni, 1’ altra a Adolfo Mussafia. Dal medesimo carteggio del Ferrazzi provengono (una sola eccettuata del Caverni al compilatore) quelle onde si compone il terzo volumetto ; 156 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA tutte di dantisti italiani (salvo quelle del Lubin) del secolo XIX ; fra i più noti si veggono i nomi del Giuliani, dello Scartazzini, del Perez, dell' Ini-briani, dello Scolari, dello Scuramuzza, e d’altri ancora. Un’appendice chiude lepidamente il volume mettendoci innanzi un dantista che fa parte per sè stesso, e cioè quel Matteo Romani arciprete di Campegine che osò emendare a suo talento la poesia di Dante ; si recano due brevi sue lettere al Ferrazzi, c un saggio di altre correzioni da farsi al testo della Divina Commedia. L’ editore ha arricchito questa bella raccolta di sobrie, ma utili annotazioni atte a ricordare, mercè pochi cenni biografici, gli scrittori, o a chiarire alcuni riferimenti del testo. A. G. Spinelli. Chi era « /’Abbé p.... B.... V... » delle Memorie del Goldoni? Modena, Soc. tip., 1901 ; in-16, di pp. 9. — Ai critici delle Memorie del Goldoni non era riuscito trovar la prova di quanto questi afferma nel cap. XVIII della prima parte, a proposito di quell’ abate, il cui nome dovrebbe corrispondere alle iniziali sopra riferite, sebbene tutti convenissero che in esse sembrava indicato G. B. Vicini. Ora ciò che non scopersero gli archivi diligentemente compulsati, ci vien palesato da un sonetto con relativa nota, contro il \ icini stesso. Quivi è detto, « Del foco punitor del Santo Uffizio - Avanzo infame— », perchè « fu condannato dalla Inquisizione pei i molti suoi matti errori e per le sue nefande sporcizie, e fu liberato per intercessione degli amici di suo padre fc. Il Goldoni ne aveva dunque veduta la pubblica punizione, dalla quale rimase tanto colpito che fece proposito di entrare ne cappuccini. Lo S., che è fra i benemeriti goldonisti, ha fatto bene a dar fuori, garbatamente illustrata, questa nuova notizia. Francesco Corridore. Autografi di Carlo Pisacane. Torino, Clausèn, 1901 , in-8, di pp. 7. 11 Pisacane nel 1855 profugo a Genova domandò di esseie nominato ingegnere del municipio di Oristano. Ottenne quanto desiderava, ma gli si richiedevano alcuni documenti che egli non poteva procurarsi da Napoli. Per questo, e perchè sembra avesse 1’offerta di un’altra occupazione nel continente, non potè accettare, e rinunziò. Il carteggio che a si fatto episodio si riferisce è dato qui dal C. con brevi notizie. Non sarà inutile ricordare che nel 1852 lo stesso Pisacane aveva cercato un ufficio nelle scuole Svizzere, si come si rileva da una lettera a lui di Carlo Cattaneo, sequestrata nel 1857 dopo i fatti di Genova, e che fa parte delle carte prò-cessual i. 1 SPIGOLATURE E NOTIZIE. .·. Fra le pubblicazioni uscite or non ha molto per cura della Sezione storica dello Stato Maggiore di Francia, sono notevoli per i nostri studi .1 terzo volume della Campagne de V année d' Italie 1796-1797 del luogotenente Gabriele Fabry (Paris, Chapelot ■, e la seconda parte della Cam- cZZ LÌ armCe r'Se''Ve ? '*°° del caPit;lno Cugnac (ivi). Questo se-1SCW;: specialmente d, Marengo e porge dei riferimenti lateali ai solo nor T i ! fma; I prim0 più Attamente c’interessa non solo per i fatto che si svolsero nella riviera di ponente, ma altresì per la ΞΪ„Ϊ iftepiic “ C IC in‘°rn0 P"”'1'” “ \'«^"1ÌCr RÌCd iI,“tre SCrÌUOrC d’a^e maceratese scriveva il 4 ago- a via di p "IT k’"Smi, chiaro architetto di Feltre : « Da Firenze per la Ma di Pisa e della rmera fu, a Genova, e mi fermai il tempo conveniente GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 157 a considerare quelle sontuose fabbriche, le quali, considerando le antiche, si restringono al Duomo, a S. Maria di Castello, alla facciata della soppressa Chiesa di S. Agostino e poco più, e le moderne a quelle dellAlessi, e de suoi successori e coetanei, che non fecero nè più nè meno di seguire la sua traccia ». E il 14 successivo: « L’Alessi è stato il fondatore a Genova di quel genere d’architettura che domina nei grandi palazzi della via Balbi (voleva dire via Nuova, ora Garibaldi),. strada che Madama di Stael chiamava siepaia da laute reggie. Tutti gli architetti che vennero dopo di lui, seguirono quel carattere dominante, per cui, escluse pochissime eccezioni, voi troverete 1’ insieme sempre uguale, e la differenza esistere nelle modanature e negli ornati » (Antologia Veneta., II, 352-53). .·. Nel render conto della breve monografia di Camillo Manfroni intorno a Gian Andrea D’Oria, Alfonso Professione pubblica alcuni brani di documenti inedili, tratti dall’Archivio di Modena, ed annunzia un lavoro sul-1’ ammiraglio Andrea D’ Oria, giovandosi del vasto materiale che conserva quell’ archivio, diligentemente schedato dall’ attuale direttore Giovanni Ognibene, davvero paziente e cortese quanto erudito, e lo sa chi 1’ ha provato. Non sarà inutile osservare che d’ una gran parte di quel materiale, le cui copiose schede per singolare favore del conte Malaguzzi, vennero da assai tempo comunicate a chi scrive, si giovò il Manfroni nella sua Stona della marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto, per riferimenti e riscontri, sì come anche un poco lo scrivente nella sua pubblicazione intorno alle relazioni di Andrea D’Oria con la corte di Mantova. Aggiunge il Professione una notizia interessante, e cioè la comunicazione fatta da Vènceslao Santi alla R. Deputazione di Storia patria di Modena d’ una importante relazione di Alessandro Tassoni, nella quale si accusa apertamente Gian Andrea per la fallita spedizione d’Algeri (La Cultura, XIX, 35°'5 0· .·. L’opera di Biagio Caranïi, La Certosa di Peste. Storia illustrata e documentala. (Torino, Camillo e Bertolero, 1900) che, spentosi l’autore mentre si stava stampando, ebbe le ultime cure da Carlo Cipolla e Ferdinando Gabotto, contiene parecchi documenti, i quali si riferiscono alla Liguria. Li verremo notando ordinatamente. A pag. 35 (Vol. I), 1228, 15 « intr. jullii »: Enrico marchese di Savona « filius q. domini henrici verci » concede « per se suosque heredes » al monastero di Val di Pesio il transito ne’ suoi domini senza pagamento di pedagio. A pag. 69 (s. a. 1245-51): « Frater Iaeobus Sola vingtimiliensis episcopus » accoglie i frati della Certosa sotto la sua speciale protezione, e ordina ai dipendenti di procurare la restituzione di quanto ad essi venisse tolto da uomini iniqui e predoni della sua diocesi. A pag. 73, 1250 dicembre : « Iaeobus de Carreto marchio Saone » concede in perpetuo ai frati certosini dieci emine di sale all’ anno sulla gabella del Finale. A pag. 97, 1270, 30 agosto: Corradi del Carreto si obbliga dare al monastero per la terza parte Selle dieci emine di sale lasciate dal padre Iacopo, soldi quaranta genovini, ipotecando la sua parte del pedagio di Millesimo. A pag. 101, 1276, 28 luglio : Araldo priore di consenso e volontà de’ monaci (fra’ quali è un « dominus Gulielmus de Ianua ») concede in enfiteusi a Fulco Curio di Ventimiglia tutto quanto il monastero possiede in questo territorio nel luogo detto Arole (o Airole). A pag. 103, 1277, 25 febbraio : Figura il sopradetto Guglielmo di Genova in ufficio di priore. A pag. 105, 1316 settembre: Confessione di Fulchino Curio da Ventimiglia del fu Pietro di possedere in enfiteusi per ventinove anni i beni in Airole già concessi a Fulco suo avo, e assunzione d’ obblighi da sua parte. Fra i testimoni sono Giovanni, Germano, Guglielmo Gastaudo della Briga, e Giovanni Pomellerio di Ventimiglia. A pag. 112-113, 1337, 8 novembre: Figura un « Malocellum de Malocellis majorem judicem pedemonlis », prò- 158 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA babìlmente lo stesso che era podestà di Bologna nel >317 Cfr. Poggi, Series rectorum etc., 276). A pag. 117, 1354, 23 aprile : « Guido de sancto meniate » podestà di Ventimiglia concede, nonostante il divieto degli statuti, ai forestieri di venire a coltivare le terre del monastero nel territorio ven-timigliese. A pag. 120, 1402, 21 giugno: Carlo del Carreto marchese di Savona concede ampio privilegio sopra le sue terre ai monaci della Certosa, così per loro individualmente, come per i lavoratori, derrate, vettovaglie ecc., liberandoli da ogni dazio, tassa, o altro qualsiasi diritto. Notiamo infine che a corredo del lascito di sale fatto da Iacopo del Carreto, è pubblicata una memoria delle divisioni e suddivisioni a cui esso andò soggetto, donde si può rilevare un importante alberetto della discendenza di quel marchese. .·. Oscar Christe nel libro: Rastatt. L’ assassinat des ministres français le 28 avril 1799, d’après les documents inédits des Archives de Vienne, traduit de l’allemand par un ancien officier supérieur (Paris, Chapelot et C., 1900), vorrebbe scagionare i soldati austriaci dell’ eccidio dei ministri francesi Roberjot e de Bonnier, e tenta di contraddire alle testimonianze di Bartolomeo Boccardi, ambasciatore per la repubblica Ligure, che fu testimonio di veduta. Ma la verità è che 1’ uccisione fu commessa dagli ussari austriaci, i quali obbedivano ad ordini superiori. .·. Dal Carteggio tra i Bentivoglio c gli Estensi pubblicato da UMBERTO-Dallari (Atti e Mem. della R. Deput. di Star. Pat. per le provincie di Romagna), rileviamo alcune notizie che interessano la nostra regione. Ercole I avvisa il 4 marzo 1482 Giovanni Bentivoglio di aver eletto suo ambasciatore a Venezia Armanno de’ Nobili, le cui istruzioni e il relativo carteggio si conservano nell Archivio modanese (XVIII, p. 67). E’ certo quell’Armanno de’ Nobili da Vezzano che fu caro a Niccolò V. — Lucrezia d’Este Bentivoglio scrive da Bologna il 15 giugno 1506 a Ippolito d’Este, affinchè voglia conferire uno dei primi benefici che restassero vacanti nella sua giurisdizione al nobile messer Cristoforo da Genova, suo familiare e precettore dei figli di ei « homo letteratissimo et virtuoso ». Il 4 luglio rinnova la raccomandazione, e il 2t aprile 1514 manda lo stesso Cristoforo con sue credenziali al fratello, per chiedergli alcune cose da lei desiderate (XIX, 340-41-48) — L A. aveva già altra volta parlato di Gio Luca da Pontremoli che riievò appartenere alla famiglia Castellini (Cfr. Giornate, I, 157); ora produce un atto notarile (XIX, 252) che aggiunge nuova prova alle già prodotte. * .* τΠ seppe Baccini nel suo lavoro Di Piero Ciroui e de* suoi scritti (Rivista delle Biblioteche e degli Archivi, XIII, 6 sgg.) dà un cenilo di no. Battista Cuneo d’Oneglia, e pubblica due lettere di Niccola Ferrari genovese, del^ quale riferisce alcune importanti notizie biografiche. . . Nel Centralblalt fuer Bibliotheksxaesen, XIX, b. 1-2) si legge una notevolissima monografia di J. HlLGERS intorno alla biblioteca di Niccolò V. / ARfISSE ha lnser't0 nell° stesso periodico un articolo dal titolo Apo-ti')p ia moicana, in cui discorre con molta competenza, e soverchia vivacità, 1 un processo svoltosi in America a proposito della falsificazione della lettera di Colombo a stampa che si conserva nell’Ambrosiana. Annali di Alessandria. — La Società di Storia della Provincia di Alessandria e venuta nella determinazione di ristampare gli Annali di GIROLAMO iHILINI e 1 fame curare la coniinuazione fino a tutto l’anno 1900. Il compilo ( 1 riordinare e completare la storia d’Alessandria dalla sua fondazione alla fine del secolo XIX venne affidato al prof. Amilcare Bùssola. L’opera saraciusa nei seguenti periodi storici: 1. Dalla fondazione di Alessandria ai isconti (1 168-1313) > 2· Dai Visconti agli Sforza (1313-1445); 3. Dagli GIORNALE STORICO E LETTERARIO UKLW LIGURIA I 59 % Sforza alta pace di Castel Cambresis (1445-1559) ; 4· Dalla pace di Castel Cambresis a. Vittorio Amedeo II (1559-17071 ; 5. La casa di Savoia fino alla dominazione francese (1707-1798); 6. La dominazione francese (1798 1814) ; 7. Dalla restaurazione alla promulgazione dello Statuto (1814-1848); 8. Le guerre per I’ indipendenza e I’ unità- d’ Italia (1848-1870); 9. Dall’ occupazione di Roma alta morte di Umberto I (1870-1900). — Il Ghilini cessa i suoi Annali alla fine dell’ anno 1659 ; da quest’ epoca pertanto il professore Bossola ne incomincierà la continuazione, seguendo il metodo dello storico alessandrino, che è quello di narrare anno per anno i fatti più salienti che si sono svolti in Alessandria, senza entrare in apprezzamenti di sorta. (Cinque volumi di circa 150 dispense di 16 pagine ciascuna; L. 5 ogni 50 disp.). APPUNTI DI BIBLIOGRAFIA LIGURE. Assiìreto Ugo. Genova e la Corsica 1358-1378. Sec. ediz. Bastia, Ollagnier, 1902; in-8, di pp. 154. Bustico Guido. Antonio Panizzi, Passano e il duca d’Aumale (in Fan-fulla della Domenica, a. XXIV, n. 15) — [Corrispondenza del Panizzi, e del duca d’Aumale con il bibliografo G. B. Passano, genovese]. — Un brindisi inedito di Felice Romani (in II Palcoscenico, Milano, ■a. V, n. 36). C. P. C. [Castellini]. Memorie storiche. Illuminazione notturna a Chiavari (in II Cittadino, a. XXX, n. 86). Calvini A. Buzana. Spigolature storiche (in I' Eco del Santuario del S. Cuore di Gesù in Bussana, 1902, 11. 3 e 4 '. Cogo G. Tre antichi annalisti genovesi (in Nuova Antologia, 1 maggio 1902) PP· I3°-I33· Crosa Francesco. Pegli. Genova, Sordomuti, 1902; in-8, di pp. 84, tig. D’ Isengard Luigi. Un nuovo melodista (Carlo Mussinelli della Spezia) in Rassegna Nazionale, 16 marzo 1902, pp. 340-345. Donaver F. Memorie genovesi. La famiglia Ruffini (in II Giornale del popolo, a. IV, n. 848). Guida (Nuova) popolare illustrata di Genova e dintorni con annessa pianta topografica. Genova, Montorfano, 1902 ; in-16, di pp. 77. Hilgers l·. Zur Bibliothek Nikolaus’ V (in Centralblatt fiir Bibliothek-swesen, XIX, 1-2). In memoria di Bartolomeo Fontana (di Alassio), Roma, Forzani. 1902 ; in-8, di pp. 35. Isola Michele. Conferenza storica tenuta nella sala della « Misericordia » il 29 dicembre 1901 sulla Società di Mutuo Soccorso di Sarzana festeggiandosi il suo 50'anno di fondazione alla presenza dei soci, delle rappresentanze delle società locali e limitrofe nonché di un pubblico numeroso ed eletto coll’ intervento dell’ avv. Prospero De Nobili rappresentante il Collegio e Sottosegretario di Stato. Sarzana, tip. Lunense, 1902 ; in-8, di pp. 16. Kehr lJ. Papsturkunden in Mailand, Lombardei, Ligurien. Bericht ftber die Forschungen v. L. Schiaparelli (in Nachrichten der K. Gcscllschnft der IViessenschaften zn Gottingen, Heft 1 11. 2 ; 19021. ΐ6θ GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA La Corte Cailler Gaetano. Andrea Calamech scultore ed architetto del secolo XVI (in Archivio storico Messinese, a. II, p. 32)· Laenen F. Le ministère de Botta Adorno dans les Pays-Bas autrichiens pendant le règne de Marie-Therèse (1749-17 3'· Anvers, Lib. Nerlan ., 1901, in-8, di pp. 297. Leges Genuenses inchoaverunt Cornelius Desimoni, Aloisius Thomas Belgrano explevit et edidit Victorius Poggi. Augustae Taurinorum, E regio typographeo apud fratres Bocca bibliopolas regis, a. MCMI , in o ., ci pp. VIII, col. 1216. Manfroni Camillo. Il figlio di Lamba D’Oria (in Scritti van di filologia, Roma, Forzani, 1901 ; pp. 95-103'. _ — Storia della marina italiana dal trattato di Ninfeo alla cadüta c 1 o-stantinopoli ( 1261-1453). Parte I. Dal trattato di Ninfeo alle nu£>ye Crociate. Livorno, Giusti, 1902; in-8, di pp. 263 [La storia di Genova v ha una grandissima parte]. Mazzini Giuseppe. Lettere inedite (in Rivista d’ Italia, aprile 1902, pp. 563-581). — Lettera inedita (1865 a Benedetto Musolino) (in Rivista, ai Ko ma politica, parlamentare ecc., a. VI, 31 marzo 1902). ... — Lettera a Nicola Fabrizj. [7 novembre 1849 o 50] (in Rivista di Roma, politica ecc., a. VI, 19 aprile 1902). Muratori Ludovico Antonio. Corrispondenza inedita con i pp. Con-tucci, Lagomarsini e Orosoz della Compagnia di Gesù [per cuta di I IE1 RO Tacchi Venturi] (in Scritti vari di filologia, Roma, L* orzalii, 1901 , PP- 263-306). Neri Achille. Per la bibliografia foscoliana (in Rassegna bibhog. d. ictt. ita!., a. X, pp. 85-88). [Vi si parla di Francesco Trucco genovese e del suo di anima Iacopo Ortis~\. Percopo Erasmo. Ponburiana. Napoli, Giannini, 1902 ; in-8, di pp. 17. [Il III studio: Un memoriale del P. ad Alfonso II d’Aragona si riferisce al progetto di impadronirsi di Genova nel 1494]. Queirolo Federico. Memorie genovesi. — Una vecchia Gazzetta. [La Gazzetta di Genova'], (in Giornale del Popolo, 1902, 11. 834, 24-25 marzo). Regalia E. Collezione osteologica di E. Regàlia in l· irenze (in Archivio per Vantropologia, Firenze, 1901, voi. 31, pp. 265-270 . [Si tratta, fra I altro, della collezione paleoetnologica della Grotta dei Colombi nell isola I almaria]. Spinelli A. G. I busti del Muratori e del Sigonio nella Estense (in La Provincia di Modena, a. V, n. 105) — [Sono opera di Giovanni Cybei di Carrara], Staffetti Luigi. Una sposa Principessa del Cinquecento. Massa, Medici, 1902; in-8, di pp. 84. [Si tratta di Lucrezia Cybo figlia di Alberico, maritata al conte Ercole Sfondrati]. Uzielli G. Toscanelli, Colombo e la leggenda del pilota (in Rivista geografica italiana, a. IX, n. 1). Za velli Severino. Sulla educazione morale del soldato [per cura di Enrico Barone, che vi . promette una prefazione]. (Est. dalla Rivista Militare Italiana, disp. I, 1902 ). Giovanni Γ)α Pozzo amministratore responsabile. PUBBLICAZIONI RICEVUTE Giuseppe Flechia. Poesie giovanili inedite del prof. Giovanni Flechia. Torino, Baglione e Brojotto, 1901. Alcune lettere di illustri italiane tratte dagli autografi in Trivulziana [per cura di Emilio Motta]. Belinzona, Colombi, 1902. Prospero Peragallo. Viaggio di Matteo da Bergamo in India sulla flotta di Vasco di Gama (1502-1503). Roma, Civelli, 1902. Giuseppe Ugo Oxilia. Giuseppe Mazzini uomo e letterato. Firenze, Seeber, 1902. Leopoldo Tiberi. Il palazzo del popolo in Perugia. Perugia, Tip. Umbra, 1902. Enrico Carrara. Studio sul teatro ispano-veneto di Carlo Gozzi. Cagliari, Yaldès, 1901. AlFREDO Chiti. Scipione Forteguerri (il Carteromaco. Studio biografico con una raccolta di epigrammi, sonetti, e lettere di lui 0 a lui dirette. Firenze, Seeber, 1902. / drammi musicali di Carlo Goldoni. Appunti bibliografiei-cronologici del dott. Cesare Musatti. Venezia, Visentini, 1902. Un altro frammento di Breviario del secolo X-XI contenuto in un Codice di Claudio della Nazionale di Parigi. Nota, di Giuseppe Boffito. Torino, Clausen, 1902. La sfera del fuoco secondo gli antichi e secondo Dante. Nota delp. Giuseppe Boffito. s. n. tip. [Venezia, Visentini, 1902]. CAMILLO ManfRONI. Storia della marina italiana dal trattato di Ninfeo alla caduta di Costantinopoli (1261-145$). Parte I. Dal trattato di Ninfeo alle nuove Crociate. Livorno, Giusti, 1902. GIULIA Ricciardi. Giuseppe Baretti e le sue lettere famigliar! ai fratelli. Catania, Giannatta, 1902 · Erasmo Percopo. Pontaniana. Napoli, Giannini, 1902. Ferdinando Gabotto. L’ agricoltura nella regione saluzzese dal secolo XI al XV. Pinerolo, Chiantore-Mascarelli, 1901. Gaetano Capusso. Il Collegio dei Nobili di Parma. Memorie storiche. Parma, Battei, 1901. Armando TALLONE. Lettere di Carlo Denina al fratello Marco Silvestro. Pinerolo, Tip. sociale, 1901. Cjiornale storico E LETTERARIO DELLA LIGURIA diretto da ACHILLE XERI e da UBALDO MAZZINI. ^ ^ ANNO III. FASC. 5-6-7 jço2 Maggio-Giugno-Lnglio SOMMARIO E. De Réxoche: Le favole mitologiche della fine del sec. XV, pag. 161 — G. Ober-zixer: I Liguri antichi e i loro commerci. Cap. ΠΙ. I primi commerci dei Liguri coi Fenici, pag. 191. Cap. IV. Rapporti commerciali dei Liguri coi Greci, coi Cartaginesi, e cogli Etruschi, pag. 222. — VARIETA’: G. Sforza: La prima stamperia in Massa di Lu-nigiana, pag. 250 — ANEDDOTI : A. X.: Un giudizio artistico di Pompeo Arnolfini, pag. 259 — BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO: Si parla di : A. F. Trucco (U. Asserito), pag. 263 — ANXUXZI ANALITICI : Si parìa di : G. Flechia, C. Petri, D. Calieri. G. Finzi (A. Chili), C. P. Castellini, Μ. H. Weil, G. Boffito, E. Carrara, V. Poggi, A. Chiti, S. De Navasquès, P. Peragalio. G. Lanzalone. D’Ancona e Bacci. pag. 279. — SPIGOLATURE E NOTIZIE, pag. 284 — APPUNTI DI BIBLIOGRAFIA LIGURE, pag. 286. ■ LA SPEZIA DIREZIONE SockQ d’laconggiimeato editrice AMMENlSTRAZIOXh Genon - Corso Meta taira --La Spezia - AæsLs^razûoc 43*12 Tip. ih Francesco Zappa del Gioroak GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA l6l LE FAVOLE MITOLOGICHE DELLA FINE DEL SEC XV L’indole geniale e nervosa del nostro popolo italiano si esplicò in tutte quelle feste ed in tutti quei divertimenti con i quali, specialmente nel sec. XV, i signori dominanti allora la penisola cercavano di distrarre i sudditi dalle cure politiche. A Milano, a Mantova, a Ferrara, e nelle corti dell’Italia centrale e meridionale, nobili dame solevano radunare in sale pomposamente addobbate gli uomini più eletti del tempo, e si intrattenevano su argomenti intellettuali, e riposavano Γ animo e la mente, ammirando fra il suono ed il fulgore della luce opere, nelle quali solevano spesso sbizzarrirsi geniali artisti. E non solo le dame, ma i principi, i cardinali ed i pontefici stessi prendevano parte a queste feste, davano loro vita e ne erano spesso i promotori. Una causa qualunque era ragione di tripudio: Firenze, come è noto, fu un lieto rumorio di festa, non appena vi cominciarono a fiorire i commerci e le industrie. Avvicinandosi la solennità di San Giovanni per due mesi continui si tripudiava pubblicamente, mentre la classe più colta ed eletta si radunava nelle case dei ricchi; a queste poi si aggiunsero feste in occasione di altri santi. Erano sempre scene strane e bizzarre che si rappresentavano, scene mute nelle quali il diletto era dato dal mimo, ma a poco a poco l’arte della parola doveva riprendere tutta l’importanza propria: le mute figurazioni dei fatti dell’antico e del nuovo testamento davano origine e sviluppo in Toscana ai'a sacra rappresentazione, che per l’indole dei tempi e per il prevalere del classicismo convertivasi in uno spettacolo profano, nella favola mitologica; ed è mio proposito accennare qui brevemente alle prime feste mitologiche che ci si presentano verso la fine del secolo XV. Quando nel 1487 (1) Lucrezia d’Este andò sposa ad Annibaie Bentivoglio, Bologna passò vari giorni di seguito in tripudi, mentre per celebrare la fausta occasione, anche la famiglia nelle proprie stanze aveva preparato strani divertimenti. Una fan- fi) ZannoNI. Una rappresentazione allegorie 1 Bologna nel 1847, nei Resoconti dell’Accademia Reale dei Lincei, an. 1891, vol. II, pag. 414 seg. G ioni. St. e Lelt. della Liguria 11 IÔ2 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA ciulletta fiorentina di appena sei anni, guidata da un nano, aperse la festa danzando fra il suono di tamburi e di zufoli, e tostochè ella ebbe finito e si fu ritirata dalla stanza, un uomo peloso, e con barba irsuta e con capelli scomposti irruppe nella stanza portando una torre di legno che egli faceva saltare, sulla quale stavano Giunone, Annibaie Bentivoglio ed un altro giovane. E nello stesso modo, ma non si poteva vedere chi li portava, apparvero nella sala un palazzo su cui stavano il dio dell’Amore Cupido, Giunone, la Gelosia, l’infamia e quattro Imperatori accompagnati ciascheduno da una giovine donna, ed una montagna ove era un bosco con una spelonca, e Diana con le sue Ninfe stava nel bosco, mentre montati sovra un sasso e vestiti alla moresca erano una donna ed otto uomini. Diana improvvisamente si mise a cantare alcune terzine, dopo le quali una Ninfa, pur cantando due ottave di endecasillabi, presentò agli spettatori un uomo camuffato da leone in mezzo al canto di Diana, delle Ninfe e degli altri giovani. Dopo questo si vide una delle Ninfe, che rappresentava Lucrezia, allontanarsi da Diana e perdersi nel bosco. Cupido la colpì coi suoi dardi, sicché essa spaventata invocò Diana con questi pochi versi : Hora come sono -io quivi rimasta Isconsolata, afflita et scognosciuta Perdendo la mia dea prestante e casta. Più presto non Γ havessi mai veduta ! A lei si avvicinarono allora Venere, la Ricchezza, l’infamia e la Gelosia, ma la Ninfa respinse i consigli della dea Venere. E cosi sdegnosa si mostrò pure verso Giunone, che la consigliava « al nodo matrimoniale » ; la Ninfa voleva rimanere seguace della vergine Diana, ma respinta anche da lei ritornò a Giunone dicendole : Vera consorte de lo gran tonante Fammi posar sotto tua grande insegna ! Io sempre a te sarò ferma e costante Pur che mi facci de tua gratia degna. Giunone accolse la preghiera dell’afflitta Ninfa, ed uscita dalla torre assieme con Lucrezia e con Annibaie si mise a ballare, mentre Cupido con versi cantava un evviva agli sposi. Il dio GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LG URI A dell’Amore saettò poi il palazzo ed il sasso: dal palazzo sbucò, accompagnata dal suono di un tamburino e di altri strumenti, una giovine con otto donne, vestite tutte alla moresca con ricchi ornamenti d’oro, e con cerchi di sonagli alle gambe; tutti insieme ballando misero fine alla festa. Simili pompe si usavano anche nei pranzi, ove giovani, in apparenza di dei, recitando e cantando versi, offrivano ai convenuti le vivande fra melodiosi suoni. Il Menestrier (i) ci dà una relazione della festa fatta dal lombardo Bergonzo Botta sullo scorcio del secolo XV, quando Giovanni Galeazzo si recò a Tortona. Non appena i convitati ebbero sazio il desiderio di mangiare e di bere, Orfeo con ricca veste greca, cinto il capo di alloro suonando !a cetra invocò Imene. Costui entrò nella sala seguito da una schiera di fanciulli, che simili ad Amorini, cantando brevi versi, lodavano le nozze. Ai melodiosi accenti, dispostesi a triangolo si presentarono al pubblico le Cariti, che indossavano vesti semplici, ornate di una sola cintura alla vita; di esse l’ultima recitò pochi versi. La Fede Coniugale allora, biancovestita, tenendo una piccola lepre nella destra ed un’iaspe nella sinistra, espose al pubblico i doveri che spettano alla fanciulla quando diviene sposa ; e detto questo essa se ne volò al cielo. Apparvero poi la Fama alata, annunziando esser essa sempre messaggera e del bene e del male, e Semiramide con una coorte di donne al pari suo impudiche, con Elena cioè, con Medea e con Cleopatra. Costoro con detti lascivi al pubblico narrarono le loro azioni disoneste ; a nulla valsero i rimproveri mossi loro dalla Fede Coniugale; furono allora chiamati gli Amorini che, bruciati i veli con le faci accese, le cacciarono dal triclinio. Liberata la sala da quel sozzume, Lucrezia, Penelope, Tamiri, Giuditta, Porzia, Sulpicia ed altre donne oneste, intonato un coro, lodarono la castità di Isabella, alla quale ciascheduna portò la propria palma. Sileno allora, ebbro, o fingendosi tale, montato sovra un asino, si lasciò cadere a terra, eccitando l’ilarità nella gente radunata. E così ebbe fine la festa. Neppure i Cardinali rimanevano estranei a questi sollazzi di (i) De Repres: en musique ancienne et moderne pag. 160 in CreSCIMBENI Commentarti, vol, I, pag. 236 e seg., Roma, de Rossi, IÔ4 GIORNALE STORICO E LETTERARIO PELLA LIGURIA vita mondana, perchè anche essi nei loro palazzi radunavano genti a caccia, a conviti, a rappresentazioni di commedie. Il Panormita (i) ci dà una prova deila vita spensierata e della gaiezza dell’Italia meridionale nella relazione delle feste latte nel 1443 dai Napoletani, quando Alfonso d’Aragona riuscì a debellare Renato d'Angiò. E celebri feste si fecero pure a Venezia nel 1493 in occasione della venuta di Beatrice d’Este. Ma, come si è visto, piccola parte aveva in questi spettacoli la parola, però assieme con essi si rappresentavano pure commedie, egloghe, drammi classici e profani. Cosi, fra i tanti esempi che si potrebbero citare, Bernardo Bellincioni nel 1483 compose a Milano una poesia per commissione di Lodovico il Moro, che egli chiamò Paradiso, perchè si era appositamente fabbricato un Paradiso che girava con i sette piane-ti, rappresentati da uomini i quali cantavano in lode della duchessa Isabella. La Festa fu annunciata da un Angelo, come nella Sacra Rappresentazione, l’azione si svolge fra dei pagani, in essa per di più si recitarono dei sonetti in lode all’ambasciatore del Pontefice, del Re, del Senato Veneto e di Firenze. L argomento delle egloghe era sempre l’amore; l’azione si svolgeva fra i monti e le selve, presso ad una fontana, ad un lago o a ridosso di una vetta e pastori soltanto vi prendevano parte. Spesso vi si nascondeva un significato allegorico, vi erano allusioni a persone presenti ed a fatti storici, od ai costumi del tempo. Tali ci si presentano la egloga pastorale conservata fra le rime del Bellincioni e che egli chiamò « operetta » e quelle con le quali nel 1490, consenziente il Cardinale Giovanni Colonna, si presero di mira, a Roma stessa, i corrotti costumi della Curia Romana; la « Semidea » (2), che Baldassare Taccone, nel 1493 mandò ad Isabella Gonzaga perchè la cantasse accompagnandosi sulla lira, e quella nella quale lo stesso poeta cantò in terzine di versi sdruccioli l'amore « di Francesco Sanseverino, conte di Cajazzo e di Madonna Chiara di Marino, nuncupata la Castagnina > (3). Alle volte anche le egloghe venivano introdotte (1) De dictis et factis Aìphonsi, lib. IV in D’Ancona Origine del Teatro Italiano, vol. I, pag. 283, nata 4, Torino, Loescher, 1891. (2) R. Biblioteca Estense Ms. X 34. (3) L’Atteone e le Rime di B. Taccone (per cura di F. Bariola). Firenze, Carnesecchi, 1884. CIGNALE STORICO È LETTERARIO DELLA LIGURIA in qualche farsa; l’ultimo atto infatti della Farsa che nel 1496 Anton Galeazzo Bentivoglio fece rappresentare in cinque atti è detto « ecloga », perchè in esso si tratta di Amore, e vi prendono parte Ninfe, Pastori, Fauni e Satiri. Da tutti questi spettacoli mimici e coreografici, dalla Sacra Rappresentazione e dalle egloghe, sia da quelle destinate solo alla lettura, che da quelle che solevano rappresentarsi, sorse il dramma profano. Le egloghe infatti ebbero sempre tendenza drammatica. Teocrito stesso nei suoi idillii cantò la vita ed i costumi dei pastori e dei pescatori della Sicilia, amò abbellire « i quadretti della vita reale » da lui espressi con vivaci e gioiose descrizioni della natura. Questo carattere drammatico è più accentuato nelle egloghe di Virgilio, il migliore fra i latini imitatori di Teocrito. Le scene rappresentate sono sempre le stesse, si hanno sempre i soliti pastori che fra di loro interloquiscono di amore, e le Ninfe che si mostrano sdegnose; la natura ritratta è sempre la stessa; i boschi·, cioè, le selve verdeggianti ove scorre il ruscello, e dove si ripercuote tristamente la eco dei lamenti dei pastori ed il belato del gregge. Però nelle egloghe di Virgilio prevale il dialogo, poiché su dieci egloghe sei sono a dialogo, il che mostra, come osservò anche P Hortis, (1) la maggior tendenza a drammatizzarsi, tendenza che sempre più si sviluppa nei nostri tre primi poeti, e specialmente nel Petrarca il quale tratta di fatti storici tali che avrebbero potuto servire a scene veramente drammatiche, specialmente perchè in lui le egloghe sono collegate l’una all’altra. Così, ad esempio, lo sono la III e la IV, tanto che il Carrara (2) dice che « la IIIa pare quasi il secondo atto di un piccolo dramma, che nel Parthenias s’inizia ». E questo si osserva pure nel Boccaccio, il quale nelle sue egloghe paragona con meravigliosa dipintura le vicende della vita umana alle vicende atmosferiche ; le descrizioni si intrecciano ed alternano alle narrazioni, e l’azione ha un filo continuo a due ed anche a tre egloghe; insomma nelle egloghe del Boccaccio v’ è maggiore snellezza, maggiore vivacità. A questi poi si (1) HORTIS. Studi sulle opere latine del Boccaccio, pag. 67, Trieste, 1879. (2) E. CARRARA. I commenti antichi e la cronologia delle egloghe petrarchesche nel Giom. storico delta Leti. Ita/., XXVIII, 123 sgg. l66 GIORNALE STORICO £ LETTERARIO DELLA LIGURIA debbono aggiungere Giovanni del Virgilio e il de’ Boni di Arezzo. Ma ancora si scrive in latino ; il mutamento di idioma non avviene che nella seconda metà del secolo XV, quando al latino si sostituisce il volgare, agli esametri la terzina di endecasillabi, e, carattere nuovo che si osserverà poi anche nell 'Orfeo, nel Cefalo?. nelle altre favole poste sulla scena alla fine del Quattrocento e nel Cinquecento, è la polimetria. Alle rime piane, per esempio, si frammettono le sdrucciole, e le strofe a rime ripercosse, quali si trovano nei componimenti dell’Arsocchi, del Be-nivieni, del Boninsegni e del Sannazaro, il quale con la sua Arcadia, in cui a terzine di sdruccioli intreccia metri lirici, fa un passo più innanzi verso il dramma pastorale. Un po' alla volta la vita dei pastori, dapprima cantata solo in componimenti scritti, cominciò a porsi sulla scena, ove si rappresentarono i monti con le grotte e con i boschi, con l’acqua che zampillava dalla sorgente : i personaggi indossavano costumi di pastori, di satiri e di ninfe; e si aumentarono di numero, sicché da due divennero tre e poi quattro: lo svolgersi dell’azione divenne più complesso, e, carattere più importante, si introdusse l’elemento reale. Tali sono !e egloghe, ad esempio (i), che Serafino Aquilano fece rappresentare contro la corruzione e l’avarizia della Curia Romana, quella di Baldassare Taccone conservata nel codice Magliabe-chiano IT, II, 75 già citata * importante questo perchè si vede eomc l’egloga primitiva, tal quale era, potesse essere trasportata sulla scena » (2). Nelle egloghe di Galeotto del Carretto poi e di Gualtiero da S. Vitale, le quali pure si conservano nel Codice Magliabechiano, « l’intromissione dell’elemento reale » è il legame che più schiettamente le collega ai componimenti drammatici, ai quali ancor più si avvicina 1’ egloga, già citata, che il Conte di Caiazzo fece fare a Bernardo Bellincioni; l’azione è maggiormente sviluppata, i personaggi sono parecchi, il dialogo è vivace ed animato da contrasti, alla terzina è sostituita 1’ ottava, vi si trovano, in una parola, gli stessi elementi che nel-l’Orfeo e nelle altre favole mitologiche. i ) D’AvCONA. Studi sulla lett. italiana dai primi secoli, pag. 164, Morelli 1884. A proposito di queste egloghe di Serafino Aquilano così scrive il D’Ancona « —quelle Egloghe____furono una delle prime forme della rinascente poesia drammatica ». (2 V. Rossi. Buttista Guarini ed il Pastor Fido, Torino, Loescher, 1888. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DÈLLA LIGURIA Dall’egloga così si passa alla favola mitologica, ed attraverso a questa al dramma pastorale, quale è il Sacrificio di Agostino Beccari, condotto poi alla perfezione dal Tasso con la sua Aminta, e dal Guarini con il Past r Fido. Il dramma pastorale si svolse dal semplice idillio e divenne poi melodramma, quando, oltre la drammatica, si curò anche la musica. La Favola Mitologica però non ha in sè solo gli elementi delle egloghe, ma bensì anche quelli della Sacra Rappresentazione andata in disuso quando gli studiosi si rivolsero di nuovo a greci ed ai latini, e si affievolì di molto il sentimento religioso a causa della corruzione del clero. Cadde allora la Sacra Rappresentazione, ma le sue forme perdurarono nel teatro profano ; l’ottava fu frammista alle altre forme classiche, sulla scena continuarono ad apparire l’inferno ed il Paradiso; il Dio, i santi ed i demoni della religione cattolica si trasmutarono in divinità pagane. La favola mitologica insomma sorta con il Poliziano dopo il 1470, non è che un ampliarsi dell’egloga con l’intreccio degli elementi della Sacra Rappresentazione, e degli Spettacoli mimici delle Corti del Rinascimento: tali sono Γ Orfeo del Poliziano, il Cefalo del Correggio, la Danae e VAtteone del Taccone, e la Pasitea del Visconti. L’ORFEO DEL POLIZIANO. Il primo che tentò di drammatizzare l’egloga pastorale fu Angelo Poliziano con la sua Favola di Orfeo, scritta e rappresentata a Mantova, quando Galeazzo Sforza si recò presso Gonzaga tra il 18 ed il 20 di Luglio del 1471, come potè assodare Isidoro del Lungo (1), contrariamente a quanto avevano creduto il Tiraboschi (2) ed il Bettinelli (3). Un argomento già trattato da Virgilio nel IV libro delle Georgiche e da Ovidio nelle Metamorfosi, e quindi tanto conosciuto, portato sulla scena, doveva interessare sommamente alla eletta schiera di coloro che (i) Del Lungo. L’ Orfeo del Poliziano alla corte di Mantova in Ahiova Antologia, 15 ag. 1881, pag. 537 e segg. ^2) Storia della Leti, italiana, Tomo VI, P. II, pag. 193-94, Modena, 1776. (3) Delle lettere e delle arti mantovane, pag. 34, Mantova, 1774. l6S GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA frequentavano la casa dei Gonzaga e che trovavano massimo diletto negli antichi classici. Ma io solo riassumerò in poche parole questa Favola, poiché già di essa a lungo hanno trattato il Del Lungo (i), il Carducci (2), ed altri. Euridice, amante amata di Orfeo, fugge su per il monte, il pastore Aristeo, che vuol indurla ai suoi preghi, e nel fuggire è morsa da una serpe e muore. Un pastore porta la straziante notizia ad Orfeo, il quale, per strappare Euridice all’ Inferno scende all'Ade e con la sua lira e con il suo canto piega le divinità Infernali, ed ottiene Euridice, ma solo ad un patto, Euridice però non deve ritornare alla luce. Orfeo, troppo impaziente per amore, dimentica la promessa fatta e si volge a guardare la Ninfa, « sic erat in fatis », che, emettendo un grido ricade nell’inferno. Orfeo ritenta di passare la soglia dell’Averno, ma una Baccante glielo vieta; egli diviene sprezzatore delle donne, ed è fatto in brani dalle Baccanti ebbre di sangue. Tale è l’argomento della Fabula Orphei, come lo stesso autore la chiamò, e quale fu rappresentata alla corte di Gonzaga; argomento che l’Ambrogini rivestì delle forme popolari ed auliche ad un tempo, poiché all’ottava già in voga negli strambotti, innestò la terza rima ed il coro delle Baccanti, che diede fine alla Rappresentazione Favola poi la chiamò il Poliziano, e non commedia nè tragedia, come si intitolò la seconda redazione rimaneggiata, a quanto pare, dal Tebaldeo. E della tragedia infatti non ha alcun carattere principale, qualora si tolga quell’ intonazione patetica, di cui essa è pervasa da principio alla fine, e la morte di Euridice e quella di Orfeo: non la divisione in atti ed in scene, nè l’intreccio dei caratteri, nè lo sviluppo dell’azione possono permetterci di darle un tale appellativo, nulla di tutto ciò. La Favola si svolge tutta in forma di dialogo, e la narrazione « dove la passione cresce assurge alla lirica ». Ad un così nuovo spettacolo in cui il classico era frammisto al popolare, e nel quale la mitologia, sotto forma drammatica (1) Nuova Antologia, già citata. (2) GlOSUÉ Carducci. Le Stanze, L’Orfeo e le Rime di Messer Angelo Ambrogini Poliziano, Firenze, G. Barbera, 1863. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 169 rallegrava per la prima volta le aule regali, dovette certo sentirsi esilarata la compagnia, benché triste fosse l’argomento del dramma. Ed infatti nel 1490 il duca Francesco avrebbe desiderato di far rappresentare l'Orfeo nel suo palazzo ma poi dovette rinunciarvi mancando chi potesse sostituire Baccio Ugolini (1). L'Orfeo fu poi rimaneggiato e perfezionato, fu ridotto sembra dal Tebaldeo a forma drammatica, e diviso in cinque atti. IL CEFALO DI NICCOLÒ DA CORREGGIO. L’esempio di Mantova non rimase infruttuoso, perchè tre lustri dopo Ferrara pure aveva il suo poeta, il quale per radunare a lieta festa la corte ed i nobili personaggi di Ferrara, metteva a loro servizio i frutti del suo intelletto e della sua erudizione. Già Nicolò da Correggio era noto ed era caro a tutte le corti, agli Estensi non solo, ma a Lodovico il Moro ed ai Gonzaga, e tanta era la fama di cui egli godeva, che alla sua morte così si scrisse di Isabella d’Este: Sed Felix, etiam longe magis, quod tib tantus Tradiderit vates omne poema suum. e di lui fece l’epitaffio Battista Mantovano, fingendo che la Musa Polimnia avesse detto di lui : Hic jacet haeredem ' vates qui fecit Elissam Nicoleos gratae gratificatus Herae. Nel 1487, in occasione delle feste che si diedero a Ferrara quando Lucrezia d’Este andò sposa ad Annibaie Bentivoglio, fu recitato il Cefalo di Nicolò da Correggio. Anche nel Cefalo l’ambiente è pastorale: un bosco ove si svolge la parte più importante dell’azione, una strada che mena al bosco, la casa di Cefalo e quella di un vecchio pastore. Per una tale molteplicità di scena, per la prevalenza dell’ ottava rima, il Cefalo si avvicina alla Sacra Rappresentazione, però all’ottava si intrecciano metri lirici. Per la parte rappresentativa, per i (1) D’Ancona. Op. cit., Vol; II, pag. 362-63. 170 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA frequenti balli e canti e per la mimica ricorda gli spettacoli scenici e coreografici che si davano presso le corti del Rinascimento. L’argomento mitologico il Correggio tolse dal libro VII delle Metamorfosi ; altri prima di Ovidio aveva trattato il medesimo soggetto, ma nessuno con tanta gentilezza di idee e di imagini. Però il Correggio non in tutto s’ attiene a lui, v’ hanno piccole differenze. In Ovidio l’Aurora stessa muta il volto a Cefalo, perchè non conosciuto metta a prova la moglie, e gli rende poi il suo aspetto; nel Correggio, all’incontro, Cefalo indossa i panni di mercante e da un segno viene riconosciuto da Procri, la quale, dopo morta non risuscita nella narrazione di Ovidio, che neppure introdusse la schiava circassa di Procri, ed il maligno fauno (lì. In sette ottave, brutte abbastanza, è dichiarato 1’ argomento agli spettatori. Il nostro Correggio però è incerto come definire il suo componimento : Non vi do questa già per comedia Che in tutto non se observa il modo loro Nè voglio la crediate tragedia Se ben de Nymphe gli vedrete il choro, Fabula, o historia, quale ella si sia Io ve la dono e non per prezio d’ oro Di quel che segue lo arguniento è questo Silentio tutti ed intenderete il resto. Per l’argomento e per lo svolgimento del lavoro infatti, non gli si può dare nè l’uno nè l’altro appellativo: fu adunque più esatto il chiamarla favola, come l'Orfeo, bencnè questo sia quasi il germe di quello essendo meno sviluppata e meno complessa. L’azione è divisa in cinque atti; pastori, ninfe e dee v’hanno parte, e tutta si svolge nei boschi. All’argomento segue il primo atto, composto quasi tutto di ottave, vi hanno anche terzine ed una canzone cantata da Aurora, col coro delle Ninfe; dunque vi ha polimetria. Cefalo, sposo di Procri, è amato ardentemente da Aurora, la quale non tralascia e voti e preghiere per muovere ai suoi i) LuziO-Renier. Niccolo da Correggio in Giornale storico della Leti, italiana, anno 1893, ν°·- XXII, pag. 65 e seguenti. GIONALE STORICO E LETTERARIO XJEJLLA LIGUIA desideri la persona amata. Ma Cefalo non si piega e non vuol far torto alla sua Procri, e resiste all’amore della dea: O sancta Dea, che dal excelso thoro Discesa sei per un vile amatore A la tua deità chiedi perdono Che in mio arbitrio non è certo il core. Per maritai connubio aggiorno sono A Procri Nympha e seria grande errore Violar per altre le sacrate leggi. Dunque, madonna, il tuo desir correggi. Ed in Ovidio (Met., VII, v. 420-23): Quod teneat lucis, teneat confinia noctis, Nectarei quod alatur aquis — ego Procrin amabam — Pectore Procris erat, Procris mihi semper in ore. Aurora non si dà per vinta, ella vuole essere amata da Cefalo, gli instilla il sospetto che Procri non gli sia fedele, e lo istiga a metterla alla ftrova; lo consiglia di trasvestirsi da mercante e a tentare Procri con doni. Aurora esulta dell’inganno da lei trovato, mentre Cefalo in aspetto di mercante, si reca a casa sua ove non riconosciuto, offre ricchi doni alla moglie, la quale è combattuta dal desiderio di possedere quegli oggetti, e dal dovere che le impone di rimanere fedele al marito, il quale sulla scena discorrendo con il famiglio, osserva la lotta cui è soggetta Procri (e qui abbiamo duplicità di azione). Cefalo vedendo che la moglie sua era titubante, e credendo di poterla costringere al fallo con l’insistenza, rimanda il famiglio, e le porge nuovi e più ricchi doni. Procri non sa vincere il desiderio di possederli, ma, riconosciuto nel finto mercante il proprio marito, si dà alla fuga sdegnata e non cede alle preghiere che Cefalo le fa di ritornare a lui. Aurora intanto canta con le Ninfe un coro saltellante, lieta della vendetta presa O mie nymphe iubilate Riastemato hor meco amore Mie bellezze disprezzate Volse ben quel traditore. Ma ben siamo Vendicate 172 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Cum suo danno e dishouore Vendicate è il mio dolore Riastemato lior meco Amore. E così continua per altre due stanze. Nel secondo atto Procri ritorna a Diana, di cui vuol essere Ninfa. La dea l’accetta e le dà un dardo, che mai non falla, le regala ancora un cane, e la veste con le sue ninfe. Sotto queste spoglie invano Cefalo la cerca in ogni luogo. Chiamandola esce sulla scena ove nel bosco fra le vergini seguaci di Diana, v’è Procri. Egli la riconosce e le grida: Lassa gli sdegni hormai, lassa il dolore Fallai il confesso, deh perdona homai Raffrena Nympha bella il tuo furore Che senza te, non credo viver mai. Che temi ? non salvasti il nostro honore Quando scortesemente io te tentai. Deh non fuggir, o Procri, alquanto expecta Odime e fa con le tue man vendetta. Ovidio (418): Tum mihi deserto violentior ignis ad ossa Pervenit : orabam veniam et peccasse fatebar, Et potuisse datis simili succumbere culpae Me quoque muneribus, si munera tanta darentur. E nell’ottava seguente straziato dal dolore e dal desio la prega di fare pur vendetta su di lui, ma di non fuggirlo. Procri non si lascia commuovere, e fugge e fugge sempre. Ma ella si ripara presso un pastore, che le fa manifesta la ragione del travestimento di Cefalo; allora depone ogni sdegno, vuole stringere la pace ed il pastore chiama per festeggiare questo lieto avvenimento due suoi compagni : Tirsi e Coridone, con i quali intona e canta un'egloga, che mette fine al secondo atto. Nel terzo Cefalo e Procri rappacificati escono assieme dal bosco, ella gli dà in dono il dardo fatato ed il cane, regali di Diana. E quest’ è un dardo che è affatato in modo Che tratto da ciascun mai in fai non gionge GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 173 Che tu il possedi per mio amor ne godo E sapii che più d’ altri il ferro ponge. Per prova el dico e volontiera el lodo, Che già l’ho tratto da presso e da longe, Nè mai fera campò di mie mani E Lelapa ti dò eh’è re di cani. Ovidio (v. 464-67): Dat mihi praeterea, tamquam se parva dedisset Dona canem munus, quem cum sua tradèret illi Cyntia « Currendo superabit » dixerat omnes, Dat simul et jaculum, manibus quodeernis, habemus. Ma ecco per il bosco un cinghiaie, che sarà causa poi di nuova discordia fra i due: Cefalo, consigliato da Procri, lo caccia per il bosco, ed essa frattanto rientra in casa, mentre il marito, dopo aver lungamente inseguito la bestia senza averla ritrovata, dà ristoro alle membra gettandosi all’ ombra degli alberi, ed invoca l’Aura quale refrigerio al calore cocente (v. anche Ovidio v. 518-530). Se non che un Fauno maligno va a Procri, che attende Cefalo alla finestra e l’accusa falsamente. Ella vuol rendersi certa con i propri occhi del tradimento del marito per farne poi vendetta, e mentre sta per muoversi si imbatte in Cefalo, che se ne tornava a casa e che invano tenta di giustificarsi presso la moglie furibonda di gelosia. Il Fauno assieme con altri suoi compagni e con qualche satiro intona una canzone ed intesse una danza, con la quale finisce il terzo atto. Il quarto comincia con uno sproloquio della fante di Procris, che cerca il fauno per ordine della sua padrona, sproloquio in cui ella vorrebbe dimostrare l’inutilità della gelosia ed impreca contro Procris stessa, la quale, per ispiar il marito che è alla caccia, esce di casa. Ma improvvido disegno fu il suo, poiché mentre Cefalo chiama a suo ristoro l’Aura, ella credendo di essere tradita, comincia a lamentarsi ; è creduta una fiera ed è uccisa da Cefalo con lo stesso dardo che ella gli aveva dato. Sii qual fiera tu vuoi che in queste fronde Forsì pascendo e riposando vai, Questo dardo te mando e non scio donde Ma la virtù de questo proverai. 174 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Ed in Ovidio : Et subito gemimi inter I1K.Ì verta videbar Xeseio quos audisse « Veni » tamen « optima * dixit Fronde ìevem rursus strepitum ‘sciente caduca, Sum ratus esse feram. tehnnque volatile misi. Frocri ferita grida di dolore : Hai me ! crude! Amante, ahimè consorte. Haìmè vìe» moria] come te lasso Ovidio (55.2-54 : Procris erat, medio: ue teneus in pectore vulnus « Hei mihi ' » ooocUmat Cefaìo riconosciuta ìa voce di Procri corre a lei, e vistala ferita disperato vuole uccìdersi con io stesso dardo, ma Procri glielo impedisce e scio gii chiede di non essere dimenticata, Cagione è staio il feramini! furore Dì «questa mone e non ru Cephal tnìo. Cagione è siali* el nappo ardente amore E sola intendo de passar quei sio Se al nodo maritai far tos honore Prego per altra Don me dìi ìa oblìo Se mi prometti aon pigliar 1 ‘ Axirorji Tir» poà e3 ferro del mìo pedo fon. Ovidio 561 -óó : Virihœ il li csreas câlin Tcc-r.bcada twe: se pasca loqrà « Per oosiri jaakn ledi. Perque deos ssppfex oro sraperosçQ': roexeqoe, Per sqiàd mera: de te beoe. perqae Xudc quoque, cnm pereo, ca^sasn malìa nxirdis arDctrerm Xe thalamis Auram panar*· àarubere uostris. E così pregando muore. Celalo chiama in suo armo Calliope ed altre dee, per onorare con il canto le eseqiaie di Procri. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I 7 5 Le Ninfe e le dee accorrono al lamentoso pianto di Cefalo, vogliono esse compiere il pietoso ufficio, al che tenta di opporsi Cefalo, '1 quale vuole lui stesso darle sepoltura; invoca, liberatrice al suo male, la morte, e tutto ciò in tre brutte ottave. Eccone una: Morte, dal mondo hai par spinto el bel sole Mone, hai de ogni rinù por triomphait/ Morte, se aidran mortai di te si doie Mone, io son quel dit l" ha più dispreizalo. Morte, se agli inani 5 perdonar si scile Morte. 5ŒB quello aachor che 1' ho pregalo Morte, se acquisiir voa eierx-o 3: or.ore Morte, ttotì üeajji 2] æiseso amatore. Lo strazio è troppo forte, e Cefalo cade tramortito. Le Ninfe 10 sollevano e lo allontanano dal luogo di dolore, mentre 'e Muse cantano tristamente sui corpo morto di Procri- Onesto canto doloroso con cui finisce il quarto atto, impietosisce Diana, che con 11 dardo tocca Procri e le ridà la vita Procri inginocchiata dinanzi a Diana la ringrazia e le chiede di poter esser sna Ninfa. Diana glielo vieta, anzi la consiglia di ritornare a Cefalo, che frettolosi*, si avanza sulla scena, e aranto inanzi a lei, si prostra e la ringrazia. Diana fa un iieve rimprovero ai dne innamorati, e le Ninfe ballando al snono di una canzone abbandonano la scena, mentre Calliope licenzia la brigata. \ aliala itsTrsi. o mrâ dsaii z&adïîorî Ocâ 5Ç*fÎ2LdL : SâOSm» 1_ ZDS£ . Sü -ΟΞΠΙΓΟ raOCODÔgiliEZlâ 1ZQCCÎ ÌDazido ctsuoro a ie sue Viassoi Tin ~>οπ2. è retire â ècarâ sEezi colata >dhc acni-r sr^zne Sr Ίτ" ê jiiirriaa çussie sossa testo Fî.ni>e s^rr-x ci' alilo 2. Σt ure resis_ Così piangendo 3a colta compagnia Lasda la reggia di Ferrara-E Correggio dopo questi snccessâ c:xenne Γ idolo delle corti Lì. r dall Olio. due ottobre del 179=. nella .errerà che scrisse ai]' amica Paòre Pozzetti rimettendogli le opere él Niccolo -da Correggio, chiami» ii Csfa2? < nna scenica azione », stìt-ì « ]a 176 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA prima azione scenica regolare in lingua italiana » (1) di molto superiore all’ Orfeo. Il Pozzetti poi nelle sue osservazioni al-Γ Orfeo cede solo « la palma dell’autorità », mentre per la lingua, per la morale, per Γ andamento tutto della parola, e per 10 sviluppo dei caratteri lo ritiene inferiore al Cefalo. Tutto questo è esagerazione, o per lo meno è prova di poco buon gusto. La lingua, i versi del Cefalo troppo lasciano a desiderare: 11 merito maggiore del da Correggio, è di essersi accostato per l’intreccio dell’azione e per lo svolgimento dei caratteri alla commedia del cinquecento. Certo è però che anche il Cefalo ebbe, come 1 Orfeo il plauso degli astanti, e tanto piacque che dovette essere ancora dato, sulla scena anche dopo il i486, se il Caro propose di rappresentare Cefalo « come un giovine bellissimo vestito d un farsetto succinto nel mezzo, co’ suoi usattini in piedi, col dardo in mano, ch’abbia il ferro indorato: con un cane alato, in moto per entrare in un bosco, come non curante dell'Aurora, per amor che porta alla sua Procri ». Il Cefalo di Niccolò da Correggio ispirò le stanze 21-50 del Canto 43 dell’ Orlando Furioso (2), ove si narra del cavaliere mantovano ospitato da Rinaldo. Però mi sembra che 1 Ariosto più che dal Correggio attingesse da Ovidio. Tanto nella Metamorfosi come nell’Orlando Furioso la narrazione è semplice, non complicata come nel Cefalo del Correggio, nel quale non è Aurora che cambia l’aspetto a Cefalo, come è in Ovidio, e come fa Melissa r\e\yOrlando Furioso. Il Cefalo della favola rappresentata nella Corte Estense da sè si trasveste e da sè si fa riconoscere mentre Aurora e Melissa ridonano le sembianze alle persone amate, quando queste si trovano alla presenza delle mogli. Procri riconosciuto Cefalo fugge a Diana, e cessato lo sdegno ritorna al marito. La donna invece dell’Orlando Furioso ripara presso un amante, e per sempre abbandona il marito. Più idealizzata è la favola in Ovidio e nel da Correggio; tuttavia qualche verso dell’Ariosto è ricalcato quasi interamente sul Cefalo. Valga ad esempio: (1) Biblioteca Estense — Codice, 1067. (2) Fio Rajna. Le Fonti dell’ Orlando Furioso, pag. 571-73 e Firenze, C. Sansoni, 1900. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I 77 Ma che bisogna dir tante parole? Quest è vii dono a quel eh’ io spero anchora Cognoscer Procris la stagion si vuole Che in mill’ anni non vien quel che in un’ bora. E nell’Ariosto (et. 37): E le dico che poco è questo dono Verso quel che sperar da me dovea ; Della comodità poi le ragiono Che non v’ essendo il suo marito, avea. Nello stesso canto XLIII dalla stanza 71 a tutta la ottava 147 il poeta narra la storia di Adonio e di Argia, moglie infedele del giudice Anseimo. Questo punto è pure tolto dal Cefalo di Niccolò tanto nella prima come nella seconda parte. E ricalcato sul Cefalo è nel Rinaldo del Tasso l’episodio del Cavaliere che uccide Clizia, sua moglie, gelosa della ninfa Erminia (c. VII, et. 24-41). Che non le tele, la conocchia e Γ ago, Ma 1’ ago e i dardi audace adopra ognora. Clizia gelosa spia il marito, il quale pure credendola una fiera la colpisce, e ferita, chiede, come Procri, di non essere dimenticata. Per otto ottave la narrazione precede quasi di pari passo; è evidente che il sommo Torquato tolse da Niccolò da Correggio non solo le idee, ma quasi anche i versi. Imitazioni del Cefalo sono pure parecchi melodrammi: L’Aurora ingannata di Ridolfo Campeggi, edita in Venezia il 1608, messa in musica da Girolamo Giacobbi, e che si conserva a Berlino nella Biblioteck der Gedruckteten weltichen Vocalmusin Italiens, e di cui si ha una copia nella libreria del liceo musicale di Bologna. L’Allacci nella Drammaturgìa (Venezia 1755 al 1763) ne ricorda un altro: Cefalo e Procri di Pietro Benarelli della Rovere — stampato in Ancona nel 1651 insieme con le altre poesie del-l’Autore —. Continuazione del Cefalo di Niccolò è il Rapimento di Cefalo del Chiabrera, musicato da Giulio Caccini, e rappresentato il 9 ottobre del 1600 per le nozze di Maria de’ Medici. Giom. St. e Lett. della l iguria 12 I78 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA CONFRONTI TRA l’ ORFEO DEL POLIZIANO E IL CEFALO DEL CORREGGIO. Esaminati cosi 1 Orfeo ed il Cefalo, è facile ora, ponendoli a confronto, vedere quali siano i punti di contatto e quante differenze intercedano fra l’uno e l’altro lavoro. Ambedue tolgono 1’ argomento dai classici latini ; il Poliziano, come più si conveniva alla sua natura, ebbe per maestro Virgilio, il Correggio Ovidio. Ma benché il nostro Poliziano, poeta di corte, scrivesse per compiacere altrui, ed in soli due giorni in mezzo alle liete brigate ed ai giochi componesse 1 Orfeo, di quanto non supera egli per maestria di lingua e di verso il poeta della corte di Ferrara! , Le ottave dell 'Orfeo sono quasi sempre facili ed armoniose, ed anche se molto si scostano dalla scorrevolezza e dall armonia che fluisce continua nelle ottave del Boiardo, deH’Ariosto e del Tasso, tuttavia superano di tanto quelle del teatro religioso, da cui veramente derivano e quelle del Correggio che riescono spesso stentate, difficili. L'ottava prevale, vi si intrecciano però altri metri lirici ; la canzone, la barzelletta, 1’ egloga e le terzine. L’umanista giovinetto, senza correggere, nè levigare il suo componimento scenico, perchè il tempo gli era mancato, seppe dare qualche volta al suo verso leggiadria e sonorità tale, che molto e molto si lascia addietro per fattura gli endecasillabi del Benivieni, del Boninsegni e dell’Aisochi. Certo vanto simile non può farsi al Correggio, pur non dovendogli negare qualche pregio. Il Poliziano ha il merito di avere scritto per il primo in volgare una favola mitologica con andamento drammatico, il Correggio nell’opera sua, e per i caratteri dei personaggi e per l’apparato scenico si avvicina alle tragedie ed alle commedie, e s’accosta molto più che non l’Orfeo alle commedie plautine e terenziane. Infatti nel Cefalo i personaggi si valgono talvolta di sotterfugi, come in Plauto ed in Terenzio. Cosi Cefalo, il quale ad istigazione di Aurora si traveste da mercante per mettere a prova la fedeltà di Procri, può paragonarsi a Cherea nell’ Eunuchus di I erenzio, che per ottenere il suo scopo si copre dei panni di uno schiavo ed entra furtivo nella casa ove sorprende addormentata la fanciulla di cui si era innamorato, e si può anche paragonare agli GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 17g intrighi che si svolgono tra figli innamorati e padri rigorosi, combinati e risoluti poi dai servi scaltri, intrighi tanto comuni nelle commedie di Plauto e di Terenzio. Il famiglio che accompagna Cefalo travestito da mercante, e poi ad un suo cenno se ne va lasciandolo solo con Procri; la schiava Circassa che nell’atto IV, esce di casa per trovare il fauno, accusatore di Cefalo, e che dice cose volgari, possono paragonarsi ai servi di Plauto e di Terenzio. La Favola mitologica inoltre rappresentata a Ferrara si divide in cinque atti, appunto come le commedie romane ; ciò segna un progresso rispetto aW'Orfeo della prima redazione, in cui la scena si svolge velocemente, ininterrotta e in un atto solo. Nel Cefalo, finito lo spettacolo, Calliope licenza gli spettatori, chiedendone il plauso: Se ’l v’ è piaciuta questa nostra festa fatine segno, ed altro a far non resta ; similmente Terenzio e Plauto licenziavano il pubblico con il motto « spectatores piaudite » o « plausum date ». L’orditura adunque delle due favole e specialmente del Cefalo s’accosta a quella delle commedie latine. In queste spesso padroni, servi ed etere usano il medesimo linguaggio talora poco decente invero, senza che intervengano a modificarlo le differenti condizioni sociali, l’istruzione e l’educazione; così nelle due favole mitologiche gli dei, i fauni, i satiri, i pastori e la fante si esprimono allo stesso modo. E nelle une come nelle altre gli uditori vengono annoiati con lunghi sproloqui o scipite disgres-sioni. In Plauto infatti nell’atto primo e nella scena seconda del Persa v’ è lo sproloquio inutile del volgare parassita Saturione, e nella scena terza dell’atto primo del Rudens con una serqua di versi Palestra racconta le sue disgrazie. E così non si possono comprendere lo strambotto con cui Orfeo si lagna dèlia volubilità femminile dopo aver perso per la seconda volta Euridice, nè il soliloquio di cinque ottave che è recitato dalla fante di Procri, e con cui comincia 1’ atto quarto del Cefalo. Il Poliziano ed il Correggio non vollero però imitare i commediografi latini, sebbene diffusissime fossero allora le commedie e le tragedie di Seneca, di Plauto e di Terenzio, ma solo dare uno ΐ8θ GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA sviluppo maggiore agli spettacoli mimici ed alle egloghe che si rappresentavano presso le corti. Primo il Flamini fece osservare come fra l'Orfeo ed il Cefalo siano molte le affinità. I due poeti, il Poliziano ed il Correggio, cioè, si attennero alle rappresentazioni sacre, allora tanto in voga, sostituendo però al Dio, ai Santi ed alla Vergine del mondo cristiano gli dei dell' Olimpo. Orfeo per riaver Euridice, Cefalo per richiamare Procri alla vita si rivolgono l’uno agli iddìi dell’averno, l’altro alla vergine dei boschi. Anche le due favole come già le Sacre Rappresentazioni, cominciano con un prologo. All’egloga polimetra che segue il prologo nell’ Orfeo si può confrontare quella con cui finisce il secondo atto del Cefalo, molto meno bella però e per il metro e per il contenuto. In tutte e due pastori innamorati, ma non corrisposti nel loro amore si dolgono con i compagni loro, e si lagnano della crudeltà con cui li trat-tono le loro Ninfe. Ma l’imitazione che il Correggio fa dell Orfeo è palesemente manifesta nella canzone con cui Aristeo innamorato di Euridice cerca di intrattenerla, mentre essa fugge dinanzi a lui, e in quella che nel Cefalo un vecchio pastore canta nel bosco per placare Procri, la quale sdegnata dell’inganno orditole dal marito voleva ritornare a Diana. E l’una e l’altra canzone constano di tredici versi che formano una sestina di settenarii framezzati da due endecasillabi, seguita da altri cinque settenarii pure framezzati da due endecasillabi. La sola differenza, che del resto è poca cosa, sta nelle rime. Riporto la prima sestina soltanto; confrontando verso per verso, parola per parola sarà palese l’imitazione. Aristeo dice ad Euridice : Non mi fuggir donzella Ch’ io ti son tanto amico ; E che più t’ amo, che la vita e ’l core. Ascolta, o Ninfa bella, Ascolta quel eh’ io dico, Non fuggir, Ninfa, eh’ io ti porto amore. E nel Cefalo : Deh non fuggir donzella Colui che per te more E sçnza te del suo viver non cura Giornale storico e letterario della Liguria 181 Poiché sei tanto bella Pietà del suo desir Che lungo sdegno in gentil cor non dura. Tutte e due poi ricordano l’egloga di Serafino Aquilano, con cui Ircano cerca di arrestare la sua Ninfa che fugge: Hyr. Non mi fugir, o Nympha alquanto mirarne Che te darà tal fede il mio calore Ch’ io ti porto nel core E sol da te la mia vita depende. A ’che cerchi aniazar chi non t’ offende ? A che cerchi fagir chi ama tanto? Non vedi il crudo pianto Di che convien che corpo se distilla ? Non vedi uscir dal cor tante faville Che han facto del mio pecto un mongibello, Dove con gran martello Par che ci regna el gran fabro vulcano. Non mi fugir aspecta, hor va pian piano Ch’ io non son fier leon, tygre nè orso Che così rapace morso Devorar voglia tua santa bellezza. E proseguendo : il ditiramb vivace e snello che le Baccanti avvinazzate, mentre si aggirano in ridda forsennate, cantano attorno alla testa di Bacco, liete di aver punito colui che per amore divenne sprezzatore delle donne, dovette in parte servire d’esempio al Correggio nella canzone che intonano le Ninfe quando Procri è ridata a vita. Amore è la molla di tutte e due le favole, più nobile nel-l’una favola, non turbato dai sospetti e dai timori della gelosia, più volgare nell’ altra. Cefalo che, dopo aver ucciso la gelosa Procri da lui creduta una fiera, dà sfogo in due ottave alla sua disperazione, e prende il partito di morire assieme con la sua donna, ricorda Orfeo che, dopo aver avuto da un pastore l’annunzio della morte di Euridice, accasciato dal dolore, grida: Dunque piangiam, o sconsolata lira Che più non si convien 1’ usato canto. e divisa di scendere « alle Tartaree porte », a vedere se con i82 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA la sua cetra possa commuovere i terribili dei infernali, Cerbero, Plutone, Proserpina, come un tempo seppe trar dietro a sè è pietre e selve e fiumi e cervi e tigri. A Procri, come ad Euridice fu ridata la vita, ma il fato fu ben più crudele a quest’ultima. Orfeo avuta Euridice è esultante di gioia, e Cefalo, quando Galathea gli annuncia che Procri è risorta, festoso si affretta e vuol vederla con i propri occhi. Ma breve è la letizia di Orfeo, perchè Euridice gli è di nuovo strappata, laddove Cefalo, ricevuto un rimprovero dalla Vergine dei boschi, con le Ninfe rientra in casa danzando mentre Calliope intona l’ultima canzone. Pastori e dei pagani sono i personaggi di ambedue le favole, dei che si inframettono nelle cose umane ; i fatti si svolgono nei boschi, nella campagna e nel monte, siamo insomma in pieno ambiente pastorale. Non è osservata l’unità d’azione, di tempo e di luogo, canoni che, secondo Aristotile, sono fondamentali per la drammatica, poiché in ambedue contemporaneamente si dovevano mostrare agli occhi degli spettatori il campo, il bosco, la montagna, e nell Orfeo anche l’Averno. Esempio questo di mancanza di unità di luogo. E così Cefalo, che, sotto le spoglie di un mercante, si intrattiene parlando con il famiglio, mentre Procri, che in lui non aveva riconosciuto il proprio marito, è dubbiosa se accettare o respingere i doni, ed il Fauno, che va a Procri mentre Cefalo si aggira nel bosco cercando il cane ed invoca l’Aura che 1’ aiuti a ritrovarlo, e falsamente accusa il marito, ed Aristeo che in principio della favola deH’Ambrogini interrompe il canto che egli aveva incominciato con Mopso, e si slancia sulle orme di Euridice che egli vedeva aggirarsi sul monte, mentre Mopso e Tirsi parlano della sua pazzia, ci provano come tutti e due i poeti abbiano trascurato anche l’unità d'azione. Maggiore affinità troviamo tra la seconda redazione dell’Qrfeo YOrphei Tragedia cioè, ed il Cefalo. Consta, a guisa delle commedie latine, di cinque atti: pastorale, ninfale, eroico, negromantico e baccanale; al coro delle Baccanti si aggiunge nell’atto secondo il coro delle Driadi che cantano tristamente la morte di Euridice: le stelle si sono offuscate, nell’aria si ripete una eco lamentosa, la terra giace senza vita. E triste il canto delle driadi, laddove vorrebbe essere un coro di allegrezza quello di Aurora e della Nynfa con cui finisce il giornale Storico è letterario delLa Liguria 183 primo atto del Cefalo. Aurora nel suo egoismo gode del male che essa stessa ha suscitato. L’Orphei Tragedia, come il Cefalo, si avvicina di più alle tragedie latine, che non la favola di Orfeo. Tutte due poi hanno affinità e con la favola pastorale che si svolgerà nella seconda metà del secolo XVI, quali X Aniini a ed il Pastor Fido, e con le commedie in volgare che cominciarono a rappresentarsi in tutta Italia circa un ventennio più tardi, alla Calandra, cioè, alla Clizia ed alla Mandragola. Osserviamo per prima l’Aminta. Anche essa comincia con un prologo messo in bocca al dio Amore ; al prologo segue la favola divisa in cinque atti, come il Cefalo. Però, novità che nel Correggio non troviamo, ogni atto è diviso in iscene ; al coro è dato maggiore sviluppo, essendosi introdotto anche nel corpo degli atti stessi. La scena prima dell’atto terzo consiste tutta in un dialogo fra Tirsi ed il Coro, il quale poi nella seconda scena dell’atto quarto interrompe il dialogo fra Ergarto, Silvia e Dafne, ed è pure parte importante nella scena dell'atto quinto. Amore è sempre la molla delle favole, pastori innamorati non corrisposti danno sempre sfogo al loro dolore lamentandosi con i compagni. Però l’azione è più complessa, l’intreccio è più sviluppato e così pure il carattere dei personaggi, i quali nelXAmmta raggiungono il numero di nove; all’endecasillabo rimato è sostituito il verso sciolto ed a’ distici di endecasillabi i distici di settenari. Per tutti questi caratteri il Cefalo più che l'Orfeo si avvicina alle varie favole pastorali posteriori, ed alle commedie del Machiavelli e del Bibbiena. l’ atteone di BALDASSARE taccone. A quelle di Mantova e di Ferrara non volle essere inferiore la corte di Lodovico il Moro, che reggeva per Giovanni Galeazzo il governo di Milano, e che cercava di nascondere 1’ efferatezza d’animo e dei costumi proteggendo le lettere e le arti Fra il 1480 ed il 1494, o piuttosto fra 1’80 e 1'89, come arguisce il Bariola (1), dal fatto che non si accenna mai ad Isabella, il Tacconi, cogliendo l’occasione che si avvicinava l’epoca in (1) L’ atteone e le rime di Baldassare Taccone, citata. I&4 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA cui i varii quartieri della città dovevano recare « 1’ annuale ferto al fastigioso primo tempio della cipta di Milano », compose la sua favola Atteone per l’offerta fatta dal quartiere di Porta Orientale, e che fu poi rappresentato nella piazza di Milano. Niun valore ha esso, nè per la lingua, nè per Io svolgimento. E’ un componimento brevissimo di cinque ottave ed undici terzine ; queste e quelle in brutti versi. Nessun intreccio, nessuno svolgimento d azione, nè di carattari. Interlocutori sono Diana, Atteone, Mercurio, che finisce la festa ed accomiata la moltitudine adulando il Moro, e minacciando punizione a chi a lui non ubbidisce. L argomento e il mito di Atteone, mutato in cervo per aver osato di guardare Diana, mentre si bagnava nelle acque di una fonte. Argomento che il poeta tolse dal libro terzo delle Meta- . morfosi di Ovidio, ed a cui accennano Euripide e Diodoro, ed il Petrarca nella canzone Nel dolce tempo della prima etade nella penultima strofa: I seguii tanto avanti il mio desire Ch’un dì, cacciando sitcom’ io solea, Mi mossi ; e quella fera bella e cruda In una fonte ignuda Si stava quando il sol più forte ardea. Io, perchè d altra vista non m’ appago Stetti a mirarla, ond’ ella ebbe vergogna ; E per farne vendetta, o per celarsi, L acqua nel viso con le man mi sparse. Vero dirò (forse e’ parrà menzogna) Ch’ i’ sentii trarrne della propria immago ; Ed in un cervo solitario e vago Di selva in selva, ratto mi trasformo; Ed ancor de' miei can fuggo lo stormo. Più importante riesce la favola per l’apparato scenico, ed anche perchè, come osservò il Bariola vi si adombrano fatti politici: Atteone divorato dai cani, vorrebbe significar le crudeltà e le uccisioni ordinate da Giovanni Maria Visconti e da Lodovico il Moro. Come dicemmo, la rappresentazione di questa favola segna, GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 185 sotto certi rispetti, un progresso. Basti esaminare l’apparato scenico. In mezzo alla piazza fu posta una fontana « ad emulatione d’antiquità ingeniosamente fabricata », e fatta edificare « dal preclarissimo et splendidissimo senatore et cavaliere M. Francesco Fontana ». Da questa, per mezzo di cannuccie, zampillava in varia guisa 1’ acqua. Diana con le sue Ninfe cacciatrici si avvicina alla fontana, ove si svolge l’azione: Atteone entrato in iscena va presso la fonte, e vedendo Diana tuffata nell’onda, è colpito dalle sue bellezze, invoca perciò i dardi di Amore: Ma la dea sdegnata lo punisce: Presumptuoso cacciator, che fai ? Non vedi che tua vista me molesta, E tanto preme più quanto più stai? Or va eh’ ogni tuo osso et carne et nervo Per mia vendecta sia rivolta in cervo. E Ovidio (178-185): .....et ut vellet promptas habuisse sagittas, Quas habuit, sic hausit aquas in vultuuque virilem Perfuditi spargeusque comas ultricibus undis Addidit haec cladis praenuncia verba futura : Num tibi me posito visam velamine narras, Si poteris narrare, licet nec plura minata Dat sparso capiti vivacis cornua cervi. Atteone trasmutato in cervo nel Tacconi per farsi riconoscere dai cani grida : I’ son Acteon, et sono el patron vostro Voi non dovete a 1’ ira rispectare Di quella che qui fami parer mostro. In Ovidio invece Atteone vorrebbe parlare, ma la sua voce non può uscir dalla gola. E vedendosi così non sa qual partito prendere : S’ io vado a casa i’ so’ il più vergognato Di qualunque altro al mondo mai non fusse. l8Ó GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Ed Ovidio : Quid faciat? repetatdve domimi, et regalia tecta ? An latrat sylvis ; timor hoc, pudor impedit illud, Ma troppo egli indugia; i cani gli si avvicinano e lo fanno a pezzi, e con ciò ha fine la favola. Però un fiore, posto su di un albero presso la fontana, improvvisamente si apre, e ne esce Mercurio, il quale prima che la moltitudine abbia ad allontanarsi rattristata, fa un elogio a Lodovico il Moro. Non v’ è intreccio, come si vede, non isvol-gimento; l’interesse sta tutto nello splendore e nella novità degli apparati scenici. E per l’argomento pure l’Atteone si strania da tutte le altre rappresentazioni sceniche; non più pianti e sospiri di pastori innamorati e non corrisposti, non più inutili desideri nè scoppii di gelosia; e mentre prima la scena presentava solo cose della natura, e l’arte poco o nulla ci aveva parte, nell’Atteone contribuisce molto all’effetto l’arte stessa. LA DANAE DI BALDASSARE TACCONE. Quarta in ordine cronologico viene la Danae, composta pure dal Taccone, e che fu « recitata in casa del Signor « Conte di Cajazzo all’illustrissimo Signor Duca e populo di Milano a dì ultimo de genaro MCCCCLXXXXVI ». Il poeta la chiama « comedia », e veramente se la si paragona alle altre favole mitologiche prima recitate nelle splendide corti del Rinascimento, le si può ben applicare un tal nome, perchè con essa il poeta portò un grande rivolgimento nelle favole mitologiche. Anche in questa rappresentazione la forma metrica prevalente è l’ottava rima frammista a ternari ed a due sonetti. L’argomento tolto dalla mitologia, è la sorte di Danae rinchiusa nella torre del padre, il quale teme che da lei abbia a scendere colui che lo sbalzerà dal trono. Omero nell’ Iliade al libro XIV, v. 319· Pindaro nella XIII delle Odi Pìtie, Apollodoro Pausania, Orazio al lib. Ili, ed. XII, ed Ovidio in parecchi luoghi delle Metamorfosi e nel III libro degli Amori, e dell 'Ars Amandi trattano lo stesso mito. Non più pastori nè ninfe sono i perso- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I 87 naggi fra i quali 1’ azione si svolge, ma dei, membri e servi di famiglie reali ; non boschi, nè selve, nè monti, nè fontane formano Γ apparato scenico, ma la reggia, la torre ed il Paradiso, ove appare Giove con gli altri dei. Per lo splendore dell’ apparato scenico « tutto in un subito un cielo bellissimo dove era Giove con gli altri dei, con infinite lampade a guisa di stelle » — la pioggia d’oro in cui si tramutò Giove alla fine del terzo atto, e la stella che sorgendo dalla torre fu trasportata fin su in cielo — per il rumore di parecchi strumenti che ad un medesimo tempo fra un atto e 1’ altro suonarono, per i due capitoli d’ amore recitati uno « per intermediare lo secondo acto de la commedia da uno che portava un laberinto », e l’altro « recitato da uno che andava seminando per intermediare il terzo acto della commedia », molto ritiene degli spettacoli mimici e coreografici, che allora formavano il diletto di ognuno. E d’ altra parte si avvicina alle commedie vere e proprie, specialmente a quelle latine per la divisione in cinque atti, per il prologo recitato non più dal messaggero degli dei ma dal poeta stesso, per l’azione e per l’intreccio più complessi, e per i caratteri dei personaggi. Acrisio che sacrifica la figlia per il proprio interesse, Siro il servo che, temendo l’ira del proprio padrone è crudele contro la figlia del re, Mercurio il quale con denaro tenta di corrompere l’implacabile custode della torre, si avvicinano molto ai personaggi di Plauto e di Terenzio. La prevalenza dell’ottava rima, lo svolgersi dell’ azione fra il cielo e la terra, Mercurio che è ambasciatore fra gli dei e gli uomini, tutto ciò ricorda la Sacra Rappresentazione. Nell’ atto primo Acrisio, fatti chiamare i suoi baroni, sotto l’incubo del vaticinio che a lui aveva fatto Apollo preannunziandogli guerra e morte dal suo stesso sangue, si consiglia con loro, e dopo aver in un inutile sproloquio invocato la morte, chiama Siro : Siro, vien qua, troppe parole i’ spargo, Danae mia figlia serra in quella ton e : Sì che non venga mai più fora al largo ; Vedrò s’io posso a questo mal fin porre. El te bisogna aver la vista d’Argo, Se no la forcha de drieto ti corre. I 88 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Movela dentro a quella forte mura E lì la serberai con studio e cura. Ed è ben presto Siro ad ubbidire al comando del re; a nulla valgono i lamenti di Danae, Acrisio li sente, ma mai se ne commuove. « Qui finito il primo acto sonorano li instrumenti grossi ascosi drieto a quelle machine de la scena, poi Danae alti merli de la Torre fece questa lamentatione de Aurora ». Con queste querele comincia il secondo Acto in sette ottave di brutti versi, che esprimono Γ angoscia di Danae, che, sebbene nella torre ed allontanata dal consorzio umano, pure è tormentata da Amore. « In questo punto se discoperse un cielo bellissimo tutto in un subito dove era Giove con gli altri dei con infinite lampade in guisa di stelle ». A Mercurio il Re degli dei dà 1 incarico di scendere a Danae quale Nunzio di Amore. E Mercurio discende « così a mez’ aria a parlare a Danae quale era in la torre ». Danae però non si lascia sedurre dalle promesse dell alato messaggero, e rimanda Mercurio con un diniego. E Giove allora tenta altro mezzo, dà, cioè, a Mercurio molto oro per corrompere Siro, affinchè gli permetta di entrare in segreto nella torre. Mercurio questa seconda volta scende in terra, e con una lunga serie di terzine cerca di corrompere Syro, il quale però sdegna i doni, e le promesse di future ricchezze, e non si lascia indurre a tradire il suo signore. Il Messaggero allora di nuovo con le pive in sacco ritorna al cielo. * Finito qui il secondo acto sonarono piffari, cornamuse, timpani, et altri instromenti occulti ». Nell’atto terzo Giove, nella speranza che Danae abbia a cedere qualora egli rinnovi 1 attacco, le manda una volta ancora il dioalato con un sonetto da lui composto. Ma non migliore accoglienza ha il Nunzio, che « Danae lacera la letra, e Mercurio parla da sè stesso » in modo alquanto buffo, che certo deve aver destato il riso nella compagnia : Aiutami fortuna questo è un segno Se non lo intendo ben, di andarse ascondere Se non mi porgi qualche tuo sostegno, Di vergogna m’ ha costui a confondere. GIORNALE STORICO E LETTERARIO UEI^A LIGURIA I 89 Ella gli dà un sonetto in cui a Giove risponde ancora negativamente. Ma Giove ama e per ottenere quanto vuole ricorre all’inganno. « Tramutassi qui Giove in oro, e se vide un pezzo piovere oro dal cielo e Giove discende visibilmente e qui sonarono tanti instrumenti che è cosa innumerabile e incredibile. Finito il terzo acto ». Nell’atto quarto Acrisio manda un servo per aver notizie della figlia, e Siro entrato nella torre, accortosi dell’inganno si dà alla disperazione, e vuol fuggire, ma si decide poi di portare lui stesso la brutta novella ad Acrisio, il quale sfoga la sua ira sopra Siro e lo fa rinchiudere in prigione. Questo non è sufficiente però, egli deVe scongiurare il pericolo che lo minaccia, ed ordina ai suoi famigli di gettar Danae nel mare. Ella vedendo che in suo padre non v’è pietà si rivolge a Giove, che prima disprezzava: Giove da te son posta in abandono ? Pietà ti mova de mia tanta' doglia Da questi che qui intorno armati sono La vita per tuo amor mi si dispoglia. Se mai ti offesi, or ti chiedo perdono, Padre rafrena la tua cruda voglia, O Nymphe, o pesci, o terra, o genti accorte Pietà vi mova di mia accerba sorte. « Qui è da sapere che Giove mosso a commiseratione de Danae, doppo la fu portata via la converse in una stella, e li se vide di terra nascere una stella, e a poco a poco andare in cielo con tanti soni che pareva che il palazzo cascasse. Finisce il Quarto Acto ». Nel quinto, Hebe, la coppiera degli dei, scende dal Cielo a terra, mandata da Giove a raffrenare 1 ira di Acrisio, e ad annunziargli che Danae fu assunta da Giove in cielo fra le stelle, e che da lei era nato Perseo. Acrisio ridiventa giovine ed a Siro è ridata la libertà. « Giove per compiacere quelle Nymphe mandò in terra Apollo con la lyra, — quale dichiarò alii spectatori » e finisce dicendo : Evviva il Moro triumphante e verde. 1QO GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA « Finita la comedia che durò hore tre sonarono le trombe che havevano ancora sonato al principio ». E sebbene fosse durata la festa tre ore la compagnia non dovette certo annoiarsi : il rumore dei suoni, le improvvise e frequenti apparizioni degli dei, le novità meravigliose dei mezzi scenici, molto dovettero divertire « el grande concorso de’ principi et altri spectatori », mentre d’altra parte il fine lieto deila rappresentazione servì a sollevare gli animi prima forse rattristati dall’ infelice caso di Danae. L Atteone e la Danae, assieme con la Pasitea di Gaspare Visconti, la quale si conserva a Milano nella biblioteca del Principe Trivulzio nel codice Visconteo, che non mi fu possibile vedere, furono le ultime produzioni drammatiche sotto forma di favole mitologiche rappresentate nel quattrocento, nelle quali si risentisse 1 influenza e delle egloghe e della sacra Rappresentazione. Nata da lontanissime scaturigini e sviluppatasi poi lentamente essa pure, come tutti gli altri generi letterari, in italiano fu abbandonata per curare il latino; cosicché l’imitazione inceppò il libero sviluppo di una forma che nacque tra noi. La Tirsi del Castiglione, rappresentata nel 1506, segna già una decadenza; alla polimetria il Castiglione sostituì l’ottava rima, sicché essa può dirsi una transizione tra la favola mitologica recitata sulla scena e gli altri componimenti pure mitologici ma in ottava rima. Risorse per breve tempo ancora con II Sacrifizio di Agostino Beccari, finché con XAminta del Tasso, con il Pastor Fido del Guarini, giunse all’apogeo: risorse e cadde subito. E fu naturale, poiché i pastori ed i pescatori che esso metteva sulla scena non potevano avere vita propria, furono necessarii quindi la stranezza e l’ibridismo; la commedia neppure era durata a lungo per l’indole sua; cosicché dal dramma pastorale, quando la musica si perfezionò, e si curò maggiormente il canto, dando pure più importanza alla messa in scena ed alla danza-, in Italia si sviluppò e si diffuse per tutta l’Europa il melodramma. Emma De Rénoche GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I LIGURI ANTICHI E 1 LORO COMMERCI Capitolo terzo. I PRIMI COMMERCI DEI LIGURI COI FENICI. Come scarse e poco chiare sono le testimonianze degli antichi scrittori per ciò che riguarda i commerci d’importazione e di esportazione de’ Liguri all’ epoca romana, così esse ci mancano affatto per tutto il periodo che precede alla conquista. Eppure, anche se da altre fonti ciò non risultasse, converrebbe tuttavia ammettere che fin da tempi remoti grande fosse 1’ attività commerciale delle coste ligustiche, e stretti i loro rapporti coi popoli più laboriosi e arditi del Mediterraneo, poiché solo la prosperità, conquistata per tale tramite, può aver indotto i Romani ad intraprendere, così per tempo, guerre difficili, lunghe e micidiali, per ridurre sotto il loro dominio un territorio, che del resto non presentava speciali risorse agricole (i), o vantaggi strategici singolari. Se non che una sicura guida per rintracciare l’origine e il lento sviluppo commerciale de’ Liguri ci è offerta dai risultati archeologici, per i quali, oltre che formarci un chiaro concetto delle primitive civiltà di queste regioni, possiamo pure assicurare i primi passi fatti nella via del commercio, ed indicare altresì i prodotti, che vi venivano importati da estranee contrade. Gli accurati studi del Rivière (2), dell’Issel (3), del Morelli (4), (1) L’aridità del suolo della Liguria avea infatti richiamato l’attenzione degli antichi scrittori. Cf. Diou. Sic., 4, 40; 5, 39 e Strab., 4, 6, p. 202. (2) Paléoethnologie de V antiquité de I’ homme dans les Alpes Marfàmes — Sur trois nouveaux squelettes humains découverts dans les grottes de Menton (Comptes rendus des séances de l’Acad. des Sciences, 23 février, 1874). Note sur les deniers squelettes humains d’adultes et d’enfants trouvés en 1S73 et 1875, dans les cavernes des Baussé-Roussé (Comptes rendus du Congres international des Sciencéi géographiques de 1875). (3) Le caverne ossifere e i loro ant. abitanti. [Nuova Ant., vol. 10, ser. 2, p. 328 sg.). — Nuovi documenti sulla Liguria preistorica. Scavi recenti nella. Caverna delle Arene Candide. (Bull, di paletti. /t., XII, 7> 8, li e 12). — La Liguria geologica e preistorica, vol. II. (4) Relazione degli scavi eseguiti nella caverna Pollerà (Aleni, della R. Acc. dei Lincei, 1888). —: Iconografia della preistoria ligustica (Genova, 1891). IQ2 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA del Regalia (i), per nominare solo alcuni de’ principali indagatori (2) delle più vetuste antichità liguri, hanno messo in chiaro che, come in quasi tutte Γ altre regioni d’Italia, così pure, ed anzi di preferenza, in tutto il territorio ligure, da’ Balzi Rossi alla Palmaria, dalle valli delle Langhe alle sommità dell’Apen-nino, la popolazione primitiva abitava nelle spelonche. Quest’ uso fu seguito, almeno dagli abitatori più miseri della campagna, fino in avanzata epoca storica, poiché Diodoro Siculo (3) afferma, che ancora a’ suoi tempi i Liguri dormivano all’aperta campagna, o in caverne scavate dalla natura, o dalla mano dell’uomo, mentre solo pochi si riparavano in umili capanne. Appunto l’uso di cercar rifugio nelle caverne profonde ed inaccessibili agli inesperti, rese la sottomissione de’ Liguri più che mai difficile ai Romani, che non poterono snidarli da que’ covi, se non che col renderne insopportabile la dimora, riempiendoli di fumo prodotto da gran cataste di legna resinosa incendiate alla loro imboccatura. Solo in questo senso si può spiegare la laconica notizia di Floro (4),.che Fulvio domò gli Ingauni ed altre tribù occidentali, cingendo di fuochi le loro latebre. Le quali del resto non cessarono di servire di dimora a’ più rozzi, nemmeno quando già la Liguria, all’epoca romana, era disseminata di floride città e castella; infatti ancora nel primo secolo dell’èra cristiana, i vescovi Windemiale e S. Eugenio, reduci dall’Affrica, videro gli abitatori di Vado raccogliersi in una oscura spelonca, dove praticavano un singolare culto pagano (5). D’altra parte, se vogliasi (1 ì Sui depositi antropozoici delta caverna nell’ isola Palmaria, Firenze, 1871 ; Sopra un osso forato della caverna della Palmaria (Ardi. per l’Antropologia, 1878). (2) Cf. pure, a riguardo delle caverne liguri, Colini, Pulì, di paletti, it., XIX, p. 117 sg. ; Modigliani, Ricerche nella grotta di Bergcggi, l· irenze, 1886; Pacini, L arma del Sanguineto o la Caverna della A fatta, Savona, 1879; Amerano, La cav. dell’ Acqua in Pulì, di paletti, it., XVII, p* 91); CAPELLINI, Grotta dei Colombi a l’ ile Palmaria, Bologne, 1871 ; CARAZZI, La grotta dei Colombi all’ isola Palmaria, Genova, 1890; BENSA, Le grotte dell’Apennino ligure e delle Alpi Marittime (Pulì, del Club Alpino ital., 1900). '3) 4> 4®· 4 2, tandem Fulvius latebras eorunt ignibus sepsi/·. (5) Tolgo questo importante particolare, riferito da Giudici, Notizie storiche di S. Eugenio (Ancona, 1744), da Issel, In vacanza, p. 55. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA I93 anche prestare scarsa fede a queste vaghe testimonianze, la persistenza delle abitazioni cavernicole nell’epoca storica è dimostrata all’evidenza dai manufatti e dagli usi gallici e perfino romani riscontrati in alcune grotte (i). Semplici e primitivi erano i costumi de’ cavernicoli. Essi vivevano di cacciagione, e de’ prodotti della pastorizia e della pesca; vestivano pelli di animali cucite con vimini ; usavano armi di pietra di forme svariatissime; amavano ornarsi di collane formate di conchiglie, o di denti d’animali infilati in un vimine, e seppellivano i loro morti, con riti speciali, nel sottosuolo della caverna da loro abitata. Le prime e principali loro industrie, oggetto del commercio locale, consistevano quindi nella fabbricazione di armi e manufatti litici e di osso, di oggetti d’ornamento, e di fittili di rozza cottura e con semplice, ma tipica, ornamentazione, o rilevata, o punteggiata. Non v’ha dubbio che gli svariati utensili d’ogni genere, usciti dalla ricca caverna delle Arene Candide e d’altre molte del territorio ligure, sono nella massima parte il prodotto d’industrie locali e comuni non solo agli abitatori litici della Liguria, ma altresì a tutti i cavernicoli della penisola italica. Però accanto a questi prodotti nazionali, se ne trovano alcuni pochi di provenienza straniera, che meritano la più grande attenzione, come quelli che offrono i primi e parlanti documenti de’ commerci di questi indigeni con popoli oltremarini. Anzitutto non sono infrequenti nelle grotte liguri gli oggetti di ossidiana, che, essendo propria delle isole Lipari e della Sardegna, accennerebbero ad antichissimi rapporti commerciali con quelle regioni. Accanto ad essi dobbiamo pur ricordare gli oggetti di giadeite, ma più degna di nota è la purpura haema-stoma, gasteropodo comune alle coste meridionali del Mediterraneo, specialmente a quelle della Tunisia, che, sebbene nel Mediterraneo settentrionale sia segnalato come una rarità (2), pure, con una certa frequenza, si riscontra nei depositi delie caverne liguri, associato ad una grossa patella, cioè alla mitra ( l ) Cf. Issel, Caverne del Loanese e del Finalese (con appendice di C. Raimondi) in Bicll. di paletti, it., XI, n. 7-10 e P. Podestà, Notizie degli se. d’ ant. comunicate alla lì. Acc. dei Lincei, anno 1879, p. 245-309. (2) Ho dalla gentilezza del prof. Issel, che egli nel corso di quarant’anni di ricerche ne trovò un solo esemplare vivente a Porto Maurizio. Giom. St. e Leti, della Liguria 13 194 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA oleacea, che è rarissima ora in Liguria e comunissima invece nell’ Oceano Indiano. A tale proposito vanno pur segnalati un dente di leopardo riscontrato dal Morelli (i) nella grotta delle Arene Candide, il teschio di un grosso sauro (varanus), ora vivente in Egitto (ragan) (2), ed un grano d' ambra gialla, rinvenuto nella caverna della Matta (3). Alla categoria degli oggetti di provenienza straniera vanno pure aggiunti, a mio credere, gli stampi di terracotta, detti comunemente pintaderas, che servivano per imprimere sul corpo delle figure colorate, e certe canne in forma di pipa, ad uso forse di suffumigi. Quanto a’ primi, che ebbi occasione d' esaminare minutamente nel museo geologico dell’ ateneo genovese, riguardo a’ disegni nulla offrono di caratteristico che possa dare qualche lume intorno alla loro provenienza. Essi presentano in generale delle semplici figure geometriche, o regolari punteggiature, fatte tuttavia con maggior cura e perfezione di quelle che trovansi impresse ne' fittili liguri della medesima epoca. L’ uso di fregiarsi il corpo col mezzo di tali pintaderas, proprio agli abitatori delle Canarie, del Messico, del-l’Honduras e di tutta l’America Centrale in genere, offerse a qualcuno (4) argomento ~ er ritenere derivati da quelle regioni anche i primi abitatori della Liguria. Ma abbiamo già altrove accennato alla poca probabilità di tale ipotesi, che non trovò seguaci ne’ dotti più accreditati. Del resto toglie ogni convincimento ad essa anche il fatto che tale uso riscontrasi pure presso gli abitatori della Guinea e d’ altre regioni deH'Affrica occidentale e centrale, onde può ritenersi che in origine fosse pur comune agli indigeni delle coste settentrionali dello stesso continente, e di lì siasi pur diffuso ad altre regioni lungo le coste del Mediterraneo. Mi par tuttavia da ritenere che all’industria straniera vadano ascritti gli stampi trovati nelle grotte liguri, per la ragione che, mentre frequenti essi si riscontrano nelle grotte lungo il litorale (5), pressoché sconosciuti (6) sono nelle grotte e capanne dell’ epoca stessa nel resto dell’ Italia set- (l) Iconografia della preistoria ligustica, p. 213. — (2) O.c., p. 214-215. (3) Bui/, di paietn. it., I, p. 76. (41 Cf. Barrili, Gli antichissimi Liguri (Ateneo Ligure, XII, p. 7*4^)· ^5) Cf. Bull, di paietn. it., XIX, tav. II, η. Ι-Ι2. 6) Una sola usò dai fondi di capanna nel Reggiano, e può esservi pervenuta per rapporti commerciali coi Liguri. Cf. Bull, di paietn. it., Ili, p. 69 seg. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA IQ5 tentrionale, che pure appartengono al medesimo popolo, che in tutto il resto seguiva i medesimi costumi degli abitatori delle Arene Candide e dell’ altre grotte liguri. Le medesime considerazioni valgono per gli altri oggetti in forma di pipa, nonché d'altri utensili tutti propri delle grotte liguri, ed ignoti invece all’altre della pianura padana e delle Alpi, onde non sembrami avventato il pensare che quella più progredita civiltà, che riscontrasi lungo il litorale, e quella maggior copia d’oggetti d’ uso domestico e d’ornamento caratteristici di questa regione, mentre non sono per sè di tale entità da autorizzare ad ammettere in Italia popolazioni o famiglie differenti nella medesima epoca, debbasi ascrivere a rapporti commerciali, che senza dubbio i popoli lungo la riviera mediterranea ebbero con popoli stranieri e più progrediti. In che forma avveniva questo commercio? Quali sono i popoli coi quali i Liguri primitivi si misero in relazioni commerciali ? Chi ha anche scarsa conoscenza dell’ archeologia preistorica, e degli usi e costumi delle più remote età, sa come si praticassero allora i commerci, e come i prodotti più ricercati, come ad esempio l’ambra, a forza di vicendevoli scambi, giungessero lentamente fin dalle più remote contrade. Egli è però naturale che più celere e più attivo dovesse verificarsi lo scambio in regioni riveranee del Mediterraneo, e specialmente nella Liguria, e che ivi si formassero de’ veri magazzini e centri d’irradiazione di merci esotiche. Per tale tramite, io ritengo, giunsero agli abitatori delle caverne alpine e dell’ Italia settentrionale e centrale gli oggetti di sicura provenienza straniera, com’ è quel frammento di meleagrina margaritifera Lamak, trovato in un fondo di capanna del Reggiano, che a qualcuno parve una prova dell’ origine orientale di quella gente, che, fin dalle coste del-l’Oceano Indiano, avrebbe, emigrando verso occidente, seco recato quella conchiglia (i). Abbiamo da Diodoro Siculo (2) che espertissimi navigatori (1) Bull, di paletti, it., III, p. 77. Ho già altrove notato l’inverosimiglianza dell’ ipotesi dello Strobel, che questo frammento di conchiglia fosse stato direttamente portato dalla costa dell’ Oceano Indiano, alla venuta in Italia dei cavernicoli. Per togliere peso a questa supposizione basti pensare al tempo che sarebbe occorso, e alle vicende che i cavernicoli avrebbero dovuto passare prima di giungere dalle spiagge dell’Oceano in Italia. — 2) 4, 40. ig6 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA erano i Liguri primitivi e che molto si esercitavano ne’ commerci, per amor de’ quali, sfidando ogni sorta di pericoli, e mettendo fino a repentaglio la vita, correvano, su leggerissimi e semplicissimi scafi, per mari lontani, toccando le coste della Sardegna e della Libia. Per cui come in tutto il resto essi aveano conservato i costumi aviti, così è pur certo che a tempi remotissimi rimontava il loro uso di sfidare le intemperie marine con rudimentali barchette, costituite in origine di tronchi d’albero scavati col mezzo del fuoco, o di que’ zatteroni sostenuti da otri galleggianti, ricordati dal Serra nella sua Storia di Genova (i). Nulla quindi di più verosimile che gli oggetti, propri deH’Affrica settentrionale, delle Lipari e della Sardegna, rinvenuti nelle caverne liguri dell’età neolitica, siano il prodotto di tali navigazioni, e di contatti commerciali cogli abitatori di quelle spiaggie, ond’essi vanno riguardati come il più antico e venerando documento per la storia del commercio nell’ antica Liguria. Si potrebbe supporre, come realmente qualcuno suppose (2), che esistessero rapporti commerciali fra i Liguri delle età preistoriche e i Fenici. Si credette trovarne le prove in certi ciottoli di speciale forma e peso che assai numerosi si rinvengono nelle caverne. Essi avrebbero servito di peso per lo scambio del miele e d’altre merci proprie della Liguria, che i Fenici avrebbero esportato altrove. La corrispondenza di questi ciottoli al peso e alla forma di altri, di cui a tale uso si servivano i Babilonesi, i Fenici e gli Egiziani, dovrebbe confermare quest’ipotesi. In tal caso oltre che da diretta importazione fatta dai Liguri sulle coste dell’Affrica, gli oggetti estranei, che dianzi abbiamo enumerati, si potrebbero considerare il frutto degli scambi commerciali coi Fenici. A quest’opinione non farebbe ostacolo l’eccessiva diversità di coltura, che era fra i due popoli, che venivano a contatto, nè, come potrebbe obbiettarsi, la persistenza de’ Liguri nel non (1) Vol. I, p. 5. (2) Cf. F. Lindemann, Zur Gesch. der Polyeder u. der Zahlzeichen (Mtìnchen, 1897 : p. 696 e C. F. LeHMANN, nelle varie sue pubblicazioni a proposito dei sistemi dei pesi e misure orientali e dell’ epoca preistorica pubblicati in vari numeri delle Verhandlungen der Berliner Gesdlschaft fiir Anthropologie Ethnologie u. Urgeschichte. Cf. specialmente la sua relazione iiber prahistorische Metrologie. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA IQ7 usare i metalli, anche in seguito alle loro relazioni con un popolo, che ne faceva grande ricerca ed uso, come i Fenici, poiché è pur noto, per esplicite attestazioni degli scrittori antichi (i), che essi furono in rapporto anche coi trogloditi del golfo arabico e delI’Affrica settentrionale, ricavandone avorio, corna di rinoceronte, pelli d’ippopotamo, tartarughe, sfingi e schiavi, senza che per questo fosse radicalmente modificata la civiltà tipica e primitiva di quelle genti. Per quanto serie difficoltà non vi si oppongano, convien però notare che di ciò mancano vere prove, poiché i ciottoli, di cui sopra abbiamo fatto cenno, e sui quali soltanto si fonda quell asserzione, si trovano in tale sovrabbondante quantità, e sono di peso così vario da far seriamente dubitare che servissero all’uso che loro si vorrebbe attribuire. Oltre a ciò convien notare, che essi si trovano colla stessa frequenza nelle caverne e capanne delle regioni mediterranee, dove certamente non giungevano i mercanti Fenici, onde pare più ragionevole l’opinione di que’ dotti, che ritengono, che la più gran parte di essi servissero piuttosto a condurre a completa ebolizione l’acqua, poiché, non potendosi condurre a tal punto, per l’imperfetta costruzione de vasi fittili, mediante il vivo fuoco, vi s’immergevano tali ciottoli arroventati alla viva fiamma, come denotano le traccie d’ustione che portano pur tuttavia. Ma si potrà negare per questo che i Fenici avessero mai rapporti commerciali colle coste liguri? A tutti è noto che questi arditi navigatori ed esperti mercadanti già in epoche remote aveano esplorato il litorale della Grecia, dell’Affrica, dell’Iberia, e che in tutte l’isole del Mediterraneo aveano fondato scali e fattorie, che corrispondevano con Tiro e Sidone, e che per tempo, passate le colonne d’Èrcole, visitarono le coste occidentali della Gallia, spingendosi fino all’isole Cassiteridi, donde esportavano, in cambio delle loro merci, il metallo di cui le isole portavano il nome. Dov’ erano miniere da esplorare ed utilizzare, o ricchi prodotti da acquistare, ivi approdavano le agili navi di (i) Cf. Agatharc. in Phot. Bibl. p. 443; Plin., n. h„ 6, 34, 173. Maximum hic emporium Troglodytarum, etiam Aethiopum ; deferunt plu-rimum cbur, rhinocerontum cornua, hippopotamorum coria, chelvon testudinum, sphingia, mancipia. Cf. MoVERS, Die Phonizier, III, 1, p. 93, 94 e n. 33. Iq3 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA quegli esperti speculatori, e assai di spesso sorgevano vere colonie, che ancora adesso tradiscono nel nome la loro origine orientale. Volendo quindi anche ritenere che i ricchi prodotti della regione celto-ligure nella Gallia meridionale siano sfuggiti allo sguardo di questi avidi mercadanti, e che le coste del golfo ligustico siano parse a loro troppo improduttive per navigarvi direttamente e piantarvi degli scali, non è però d’altra parte possibile che i Liguri stessi, nelle loro ardite navigazioni, non abbiano incontrato relazioni di commercio, o di rapina, coi Libyphoenices (i) e colle colonie fenicie dell’Affrica settentrionale, coi Fenici delle isole Baleari, di Malta, Gozzo, della Sicilia, e più ancora della Sardegna, le cui ricchezze in cereali, nonche in argento, piombo, ferro ed altri metalli, indussero quegli Orientali a piantarvi per tempo colonie, fra le quali Caralis tenne il primo luogo (2). Molti argomenti furono però proposti da parecchi dotti per dimostrare che realmente i Fenici non solo percorsero le coste del golfo ligure, ma altresì vi lasciarono imperiture traccie della loro coltura. Non tutti però hanno la mtdesima importanza e la stessa serietà scientifica, per cui ci è d’ uopo esaminarli tutti al più breve possibile, per vedere quanto valore si possa asci 1-vere a ciascuno di essi. Ci fu qualcuno (3) che volle trovare una prova del passaggio e dello stabilirsi de’ Fenici sulle coste liguri nelle singolari iscrizioni rupestri delle Alpi Marittime; perciò non posso esimermi dal tenerne qui brevemente parola. Il monte Bego, nevoso massiccio, che sorge a m. 2873 su' livello del mare, divide la Valle d’inferno da quella di Fonta-nalba, che hanno direzione quasi paralella fra loro. All ultima di esse si arriva dalla Valle di Casterino, alla prima da S. Dal-mazzo di Tenda, passando per 1’ antica miniera di piombo ar- (1) Gli antichi riconoscevano che i Libyphoenices della costa africana erano una popolazione mista di Libi e di Fenici. Tolomeo, 4, 3> P- 2^5 (°‘ Λφυφοίνικες) li pone presso Cartagine; Livio, 21, 22, li dice mixtum. Punicum Afris genus. (2) Cf. Diod., 5, 35; Claud., de b.g., v. 520. Cf. Movers, o. c., II, P- 555- (3) Cf. Rivière, Association Française pour V avancement des sciences (Bull, del Chtb A/p. it., vol. XVII, n. 50, p. 16-20) e IL. Celesia, / laghi delle Meraviglie in Val d’ Inferno, p. 13 sg. GIORNALE STORICO E LETTERARIO della LIGURIA 199 gentifero di Vallauria, presso la quale scorre un torrentello detto appunto della Miniera. La Valle d'inferno, così denominata dall’orridezza del sito, è disseminata di laghi detti delle Meraviglie, perchè sulle roccie granitiche, che li costeggiano, sono incise le strane inserzioni di cui si fa parola. Simili iscrizioni sono scolpite nella Valle di Fon-tanalba sulle roccie, che dal Lago Verde (m. 2100) si stendono sino alla parte superiore della valle (m. 2500), e consistono in incavi puntiformi tra loro assai vicini, 0 in linee formate da serie degli stessi forellini (1). Questi appariscono eseguiti per mezzo di punte acuminate, o di metallo, o, più probabilmente, di pietra, poiché nessuna traccia del metallo è visibile, che pur non sarebbe scomparsa da quelle roccie di scisto cristallino (2). Delle iscrizioni di Valle d’inferno fece primo menzione, fin dal 1650, il Gioffredo nella sua Storia delle Alpi Marittime (3). Ma solo nel secolo decimonono esse divennero argomento di studio da parte del Fodere (4), del Moggridge (5), del Clu-gnet (6), del Rivière (7), del Dr. Henry (8), del Blanc (9), del Prato (10), del Ghigliotti (11), del Molon (12), del D’Albertis (13). (1) ISSEL, Le rupi scolpite nelle alte valli delle Alpi Marittime Bull, di paletn. it. XXVII, p. 220). — (2) Issel, o. c„ p. 221 sg. (3) In Monum. IList. pat., Scriptores, I, p. 23. (4) Voyage aux Alpes Maritimes. (5) The Meraviglie (Comptes rendus du Congrès internat, d’Anthrop. et d’Archéol. préhistoriques, Londres, 1868). (6) Sculptures préhistoriques situées sur les bords des lacs des Merveilles (Matériaux pour V Histoire primitive et naturelle de l'homme, 20 série, tome VIII, 1877). (7) Rapport à. M. le Ministre de V Instruction publique, Paris, 1877. — Gravures sur roche du lac des Merveilles au val d’Enfer (Italie) Association française pour I’ avancement des sciences. Congrès de Paris, Paris, 1878). (8) Une excursion aux Lacs des Merveilles (Annales de la Société des lettres sciences et arts des Alpes Maritimes, tome IV, p. 185). (9) Études sur les sculptures préhistoriques du Val d’Enfer, Cannes, 1878. (loi Impressioni sulle iscrizioni preistoriche dei laghi delle Meraviglie {Boll, del Club Alpino it„ vol. XXVIII, Torino, 1884). (11) Escursioni nelle Alpi Marittime (.Boll. del Club. Alpino it., vol. XXVII, Torino, 1883). (12) Preistorici e contemporanei, pag. 37"3®> Milano, 1880. (13) Crociera del Corsaro, Milano, 1884. In questo lavoro E. d’Albertis fa il confronto fra le iscrizioni delle Alpi Marittime con quelle delle Canarie. 200 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Il professore Emanuele Celesia (i), tenuto conto degli studi fatti prima di lui, esaminò con accuratezza le iscrizioni della Valle d’inferno, e fece argomento di studio quelle di Valle di Fon-tanalba, che furono da lui per primo sottoposte all’ attenzione dei dotti. Se ne occuparono in seguito il Bicknell (2), il Mader (3) il Lissauer (4), e finalmente, colla nota sua dottrina e diligenza, ne trattò diffusamente il professor Issel (5), presentando anche le figure delle principali incisioni. Alcune di esse rappresentano manufatti, come accette di bronzo o di pietra immanicate, mazzapicchi con manico, mazze di pietra, cuspidi di freccia, punte di lancia, forme appartenenti, il maggior numero, all’età della pietra, alcune all’età del bronzo, non solo primitiva, ma anche agli ultimi stadi di essa, come dimostrano le figure di alcuni pugnaletti a breve impugnatura. Sono notevoli, fra le rappresentazioni di armi, un falcetto e un’ alabarda di forma riscontrata dall’Evans in stazioni europee della prima età del bronzo. Fra gli oggetti voluminosi l’Issel (6) riscontrò in Val d’inferno la figura di un carro a due ruote, delle quali una sola è· visibile, con sette raggi assai grossi, e in Valle di Fontanalba, fra le duemila figure, che il Bicknell suppone vi siano, notò le imagini di gioghi, aratri ed erpici. (1) / Laghi delle Meraviglie in Val d’Inferno, Genova, 1885. — Escursioni alpine (Boll, ufficiale del Ministero di pubblica istruzione, fase. V, maggio, 1886). (2) Le figure incise stille rocce di Val Fontanalba {Atti della Soc. Ligustica di Scienze nat. e geogr., vol. Vili, Genova, 1887). — Proceedings of thè Society of Antiquaires, Dec. 9, 1897. — Osservasioni ulteriori sulle incisioni rupestri in Val Fontanalba (Atti della Società Ligustica di Scienze nat. e geogr., vol. X, Genova, 1899). (3 ) Le iscrizioni dei Laghi delle Meraviglie e di. Val Fontanalba nelle Alpi Marittime ( Rivista mensile del Club Alpino italiano, vol. XX, 11. 3, Torino, 1901). (4) Anthropologischen Bericht über seine letzte Reise in Siid-Frankreich und Italien ( Vorhandlungen der Berliner anthrop. tìesellschaft, Sitzung vom 21 Iuli, 1900). (5) Incisioni rupestri nel Finalese. (Bull, di paietn. it., XXIV, n. 10-12, 1898). — Le rupi scolpite nelle alte valli delle Alpi Marittime (Bull, di paietn. it., XXVII, n. 10-12, 1901). (6) Le rupi scolpite nelle alte valli dille Alpi Marittime, p. 226, fig. 17. GIORNALE STORICO £ LETTERARIO DELLA LIGURIA 201 Però il numero maggiore di figure rappresentano animali o parti di animali, e specialmente buoi (i) con corna ora più, ora meno sviluppate, ora rappresentati nella loro intierezza con tutti gli arti, ora solo schematicamente con una linea a indicare il corpo e quattro ad indicare gli arti, e due ricurve a significare le corna; oppure, semplificando la figura, si sopprimono in alcuni casi parecchi arti, fino ad esprimerla in forma semplicissima di croce ansata. Altrove sono segnate le corna contorte e diramate del cervo, del capriolo, dell’ ariete, della capra (2), e non di rado sono raffigurati i buoi attaccati all’aratro e all’erpice (3). Più complicate sono le figure umane (4), che sostengono con una, o con due mani, lunghe aste terminanti con un’ arma appuntata, o un’alabarda, o un’ascia a lungo manico; una di queste figure sostiene con ambedue le mani un’asta, che, secondo l’Issel, potrebbe rappresentare un giavellotto. Più che mai caratteristici sono infine i gruppi di figure rappresentanti aratri condotti da buoi e guidati da uomini (5); si ravvisano aratri condotti fin da tre e da quattro buoi. Varie opinioni furono espresse intorno al significato e all’origine di queste strane incisioni. Alcuni le ascrivono all’azione d’un antico ghiacciaio (6), altri ritengono che fossero ex voto offerti ad una divinità montana, che veneratasi in Val d’inferno (7), il Reclus (8) e il Fodérè (9) li credono caratteri punici ivi incisi dai soldati di qualche riparto dell’ esercito d’Annibale, che, a differenza del corpo principale dell’esercito, avrebbe tenuto quel cammino; il Gioffredo (10), il Clugnet (11), il Navello (12), e G. de Mortillet (13) li riferiscono alla rozza opera de’pastori, che, avrebbero praticato quelle incisioni per passarsi le lunghe ore (1) Cf. Issel, 0. c„ p. 227, fig. 19, fig. 44. (2) O. c., fig. 46-49. Il Rivière, Gravures sur roche ecc. vi ravvisa anche teste di dromedari e di elefanti. L’ Issel, 0. c., p. 235, invece esclude nel modo più reciso che si manifesti in alcuna figura l’intenzione di rappresentare animali esotici, in ispecie V elefante, la giraffa e il dromedario. (3) 0. c., fig. 51-53. -- (4) 0. c„ fig. 61-69. — (5) c- fig· 70-73· (6) Henry, 0. c., p. 185. — (_7) E. Blanc, o. c., p. 15. (8) Les villes d’hiver de la Méditerranée et les Alpes Maritimes, p. 273 sg. (9) O. c., p. 26. — (10) 0. c., p. 10. — (11) O. c., p. 7. (12) Cf. Bull, del Club Alpino it., vol. XXVII, n. 50, p. 225-263. (13) Revue mensuelle de I' École d'Anthropologie, 15 Sept. 1894. 202 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGUKIA dì ozio; il Molon (i) vi vede un rudimentale alfabeto degli indigeni dell’epoca di passaggio dalla pietra levigata alla civiltà del bronzo; il Lissauer (2) ne fa autori gli Iberici, che per scopi commerciali avrebbero frequentato, in tempi assai remoti, cioè dodici o tredici secoli prima dell’era volgare, questa via attraverso le Alpi. Troppo lungo, e per noi fuori di proposito, sarebbe l’esaminare minutamente ciascuna di queste opinioni: del resto l’insussistenza della maggior parte di esse appare già per sè così evidente da non richiedere lunghi ragionamenti per farne la confutazione. Speciale attenzione merita invece 1’ opinione del Rivière (3) e del Celesia (4), perchè ha più diretta affinità coll’argomento di cui ci occupiamo in questo capitolo. Il primo di questi scienziati, che fra le varie figure incise scorgeva qualche analogia colla croce ansata dei Fenici, le riteneva opera di gente d’origine libica. Più esplicitamente il Celesia, e con una serie di argomenti lo dimostra, attribuisce le incisioni ai Fenici, che qui, venendo dalla Spagna, si sarebbero aperta con somma difficoltà una via per sfruttare le vicine miniere e per mettersi in relazioni commerciali coi Liguri e cogli altri abitatori della pianura padana. Ma, non corrispondendo le iscrizioni rupestri alla solita e nota scrittura dei Fenici, egli è pur costretto a riferirle non già a quei navigatori, che dai lidi di Gebal, di Arado e di Tiro percorrevano tutto il Mediterraneo, e che più tardi visitarono anche le coste ligustiche, bensì ad antichissimi Pelasgo-Fenici, che per via di preferenza di terra, e in tempi anteriori ad ogni istoria (5), si sarebbero spinti fino a queste alpestri regioni. Essi sarebbero in parentela con quei Khéfa, che, usciti dall’Asia Minore, invasero la valle del Nilo sotto la iga e la 20a dinastia e che sono rappresentati in bassorilievi egiziani di quell’età, quando, non essendo ancora sviluppato 1’ alfabeto, usavano una scrittura figurativa, o ideografica, quale è appunto il caso delle incisioni da noi prese in esame. Molti argomenti trasse in campo il Celesia a sostegno della sua tesi, ma, sebbene alcuni siano degni di esser presi in considerazione dai dotti, conviene però notare che (1) O. c., p. 38. — (2) O. c.. p. 25. — (3) O. c„ p. 15. (4) I Laghi delle Meraviglie, p. 18 sg. — (5) Escursioni alpine, p. 24. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 203 non tutti hanno egual fondamento scientifico, e che alcuna volta egli ha lasciato troppo correre la fantasia per amore dell’argomento da lui propugnato. Anche il Mader (i) non è alieno dal-l’ascrivere i segni delle Alpi Marittime ai Fenici, i quali però non avrebbero estratto piombo dalle vicine miniere, metallo da loro non ricercato, ma bensì argento e zinco. Maggiore ampiezza di ricerca e serietà offrono le osservazioni, che ci presenta il professor Issel sia riguardo al significato delle incisioni sia alla loro più probabile derivazione. Egli osserva assai argutamente, che quella che il Rivière ed il Celesia ritenevano una croce ansata fenicia, non è altro che la figura schematica del bue, ridotta alla sua più semplice forma. Trovandosi il medesimo segno trasformato in vario modo, essendo alcune volte rappresentato da una, altre da due e da tre trasversali, e osservando che in alcuni alfabeti primitivi le rette trasversali hanno un valore numerico, ritiene che le rette orizzontali valgano a designare giovenche, o tori di un anno, o due, o tre, essendo ne’ sacrifizi primitivi tassativamente prescritto il numero degli anni dell’ animale da offrirsi. Così pure segni numerali, che trovano riscontro in antichi alfabeti, sarebbero la figura di stella ad otto raggi e quella di ruota a quatto raggi, mentre quella che al Celesia parve l’immagine d’ una costellazione, sarebbe, secondo l’Issel, più verosimilmente un’insegna, ed insegne ritiene altre figure combinate, come quell’alabarda, che attraversa un corpo cornuto, come le figure umane isolate e in gruppi, riferendosi a guerrieri, o principi, quelle nelle quali l’uomo porta l’alabarda, mentre i buoi attaccati all’ aratro starebbero ad indicare agricoltori. In complesso il confronto delle incisioni delle Alpi Marittime con quelle di cui fanno uso alcuni popoli barbari, in particolar modo neU’America settentrionale, inducono l’Issel a ritenet e che i segni singoli sono associati in convenzionali combinazioni, allo scopo di esprimere idee più o meno complesse, si tratterebbe in sostanza di una scrittura ideografica simbolica, nella quale forse certi segni assai semplici stavano per acquistare, e forse avevano acquistato, il significato di caratteri fonetici (2). Più che il significato, intorno al quale, senza nuovi sussidi, sarà più facile accontentare la fantasia che la realtà, per quel (1) O. c„ p. 14. - (2) 0. c„ p. 212. 204 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA che riguarda le nostre ricerche è importante conoscere l’epoca e il popolo, al quale si debbano attribuire. La natura stessa delle incisioni ci denota un popolo agricoltore e guerriero, e gli oggetti raffigurati ci portano ad un’epoca, •nella quale, pur abbondando le armi e gli oggetti litici, sono già in uso armi di bronzo, periodo quindi di passaggio dall’ età neolitica a quella del bronzo. Fu già osservato (i), che l’uso di attaccare all’aratro due e più paia di buoi non può riferirsi a gente, che stabilmente avesse dimora su quelle alte montagne, nelle quali, sebbene in altri tempi fossero coperte di boschi e avessero quindi un clima più mite, tanto da renderle più atte ad essere abitate, sarebbe stato quasi impossibile un simil modo di aratura, che è più proprio degli abitatori della pianura. La maggior perfezione delle incisioni delle Alpi Marittime, in confronto degli ornamenti impressi sopra oggetti dei cavernicoli della Liguria, esclude pure l’ipotesi che si tratti della medesima gente. D’altra parte, se non perfetta analogia nella tecnica, dipendente forse dalla diversità delle rupi, non si può a meno di riscontrare qualche somiglianza e identità di carattere colle figure incise sui dolmen o menhir (2), monumenti megalitici, che appartengono precisamente alla gente occidentale, in epoca, nella quale dalla civiltà neolitica stava per passare a quella del bronzo, mentre affinità non mancano colle incisioni rupestri riscontrate nelle Isole Canarie, nel Marocco e nell’Asia Minore (3). Le incisioni delle Alpi Marittime, nonché quelle impresse sulle rupi figurate di Orco Feglino e dell’Acquasanta, sulla pietra da croci di Pieve di Teco in Liguria, apparterebbero quindi a questo periodo di passaggio da una civiltà ad un’altra più progredita. È però notevole che questa fase di civiltà si manifesta in tutta la regione che, come una larga zona, circonda il Mediterraneo (4), poiché non conviene scordare che di tali monumenti megalitici in forma di stèle, massebah (5), non che di veri dolmen e cromlech, (i) Issel, o. c., 241. — (2) Issel, o. c., p. 248. (3) Anche Γ Issel (o. c., p. 243 sg.) che pure non ammette, come il Rivière, una vera identità di ligure fra le iscrizioni delle Alpi Marittime e quelle delle Canarie e del Marocco, non nega fra le une e le altre una certa parentela (p. 255). (41 Cf. Montelius, La civilisation primitive. I5) L noto che cosi gli Ebrei e i Fenici chiamavano certe pietre tagliate GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 205 se ne trovarono non pochi al di là dal Giordano, nel Iaulan e nel-1'Hauran, e sulle coste settentrionali dell’Affrica, per nulla differenti da quelli dell’Europa occidentale (i), tanto che qualcuno credette vedere anche in essi l’opera d’un medesimo popolo, che da tempi remotissimi fino ed epoca storica, avrebbe effettuato senza posa una migrazione lungo le coste del Mediterraneo e dell’Atlantico (2). ' Per cui se si mettono accanto i monumenti megalitici, le iscrizioni rupestri, 1 e pindaderas delle caverne liguri, le cui impressioni furono riconosciute analoghe con quelle de’ monumenti megalitici (3), e gli altri oggetti di origine orientale, o affricana, rinvenuti nelle caverne stesse, è impossibile non ravvisare una non interrotta catena di civiltà affine, che si manifesta lungo tutte le coste mediterranee, civiltà, che, se difficilmente si potrà ascrivere ad una, ancor troppo problematica, razza comune, la Mediterranea, o a migrazioni protofenicie, o fenicie pure, che potrebbero aver occupati i principali punti della spiaggia, nessuno può negare derivi almeno da contatti e da rapporti commerciali, che necessariamente gli abitatori dell’Europa occidentale, e quindi anche delle coste liguri, devono aver avuto cogli abitatori più progrediti del bacino orientale del Mediterraneo (4). a colonna, o stèle, che avevano un significato religioso. Cf. Corpus inscript, semiticarum, I, p. 154, 155 e 194. Per monumenti affini cf. Fr. Lenor-MANT, Les Bétyles (Revue de I' Histoire des Religions, III, p. 31-53 e F. Berger, Note sur tes pierres sacrées (lotirnal Asiatique, 1887, p. 161). (t) Il primo dolmen siriaco fu avvertito da Irby-Mangles, Travels in Egypt and Nubia, Svria and Asia Minor, during thè years 1817-1818, p. 99-143. Più tardi ne furono descritti altri da F. DE SaulCY, Voyage en Terre Sainte, t. II, p. 312-315. Altri furono segnalati da Lartet, cf. Duc DE LuVnes, Voyage d’exploration autour de la Mer Morte, t. I, p. 134-137 e t. Ili, p. 233-240. Per quelli del Iaulan e dell’ Hauran cf. SCHUHMACHER, Across thè lordati, p. 62 sg. — The Iaulan, p. 123 sg. (2) Cf. MaSPERO, Histoire ancienne des peuples de T Orient classique, Paris, 1897, t. II, p. 162. (3) Issel, 0. c., p. 238. Il LETOURNEAU, Signes alphabétiformes des inscriptions megalittiques (Bull, de la Société d Anthropologie, Paris, 1893) trova stretta analogia fra i segni grafici dei monumenti megalitici e gli antichi alfabeti semitici. (4) L’ affinità di monumenti e di scritture rupestri e megalitiche nel bacino del Mediterraneo coinciderebbe colla distribuzione geografica della razza di 206 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA L’opinione de’ dotti è infatti concorde nel ravvisare nei miti il progredire dall’ Oriente del popolo fenicio, o per Io meno della sua civiltà. Il Kronos fenicio (El, Baal, Bel), che dalle coste di Siria migra a Creta (i), sulle coste della Grecia, dell’Affrica, fino alle colonne d’Èrcole, prima dette di Kronos (2); il Saturnus, che su d’una nave giunge in Italia (3), per scomparire quindi ad un tratto, formerebbe, a giudizio del Movers (4), nonché d’altri illustri orientalisti, il più antico ciclo di miti fenici, significante il primo svolgersi dell’attività di quel popolo verso occidente, come le migrazioni di Astarte, che secondo i vari paesi avrebbe assunto i differenti nomi di Persefone, Iside, Io, Elena, Europa, Armonia, Didone, o Anna, Artemis, indicherebbe il successivo raffermarsi di esso sulle coste elleniche ed affricane. Ma il più fecondo periodo di attività fenicia in Occidente sarebbe manifestato dalle spedizioni di Heracles, il Melkarth di Tiro (5). Secondo la leggenda punico-numidica (6) Eracle viene dall’Oriente con un esercito formato di varie genti (7), come vari erano gli elementi che costituivano le colonie. Tocca Creta, le coste dell’Affrica, della Spagna, le isole Baleari (8). La Sicilia, già visitata da Kronos (9), è raggiunta da Eracle inseguente Cro-Magnon conforme agli studi di A. De Quatkefages e E. T. ί IA M Y, Crania ethnica, Paris, 1873. (1) MosÈ di Corene, I, 15-16. Quanto al mausoleo di Kronos a Creta cf. Cic., de nat. deor., 3, 21; Arnob., adv. nat., 4, 14. (2) Schol. ad Dionys. Perierg., v. 64, p. 328 (ed. Bernh.) πρότερον Κρόνου έλέγοντο στήλαι. (3) Macrob., Sat., 1, 7. — (4) Die Phonizier, II, p. 58 sg. (5) I Greci identificarono Melkarth col loro Eracle. Philon di Biblos, fr. 2, 5, 22 in FHG., Ili, p. 568 Μελίκαρδος, ó καί Ηρακλής. Cf. a tale proposito Movers, o. c., Il, p. 48, 400 sg. e Maspero, o. c., II, p. 184. Ercole era infatti venerato sotto il nome di Makar o Malkar, cioè Melkarth, o re della città, a Malta, e sotto quello di Milichus presso gli Iberi. Cf. Silio, 3, 104. — (6) Sallust., Iug., 18. (7) Giustino, 4, 15, 64; Diodoro, 4, 19. I coloni delle Isole Baleari e della Spagna sono appunto considerati composti di varie genti. Cf. Diod., 5, 16, βάρβαροι παντοδαποί, πλεϊον.οt, δε Φοίνικες·. (8) Infatti la colonizzazione di quelle regioni ascrivevasi ad Ercole. Cf. LlV., ep. 60 e SERV. ad Aen., 7, v. 662. (9) Trapani infatti si considerava dagli antichi come il luogo dove Kronos GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 207 il vitello fuggiasco (i). Sardus, presunto colonizzatore della Sardegna, è detto figlio di Eracle, oppure di Makeris, nome che i Libi e Fenici attribuivano ad Eracle (2). Da Cimo, figlio di Eracle, si fa da alcuni colonizzare la Corsica (3), sebbene sembri probabile che nè i Fenici, nè i Cartaginesi l’abbiano occupata (4). In tutti questi luoghi, ma specialmente a Gades, colonia di Tiro, Eracle ebbe culto austero e purissimo (5). Un importante particolare di questo cammino trionfale del-1’ eroe, raffigurante, secondo gli Orientalisti, la marcia trionfale dei Fenici in Occidente, si riferisce appunto alle regioni ligustiche, ed è comunemente ritenuto come prova dell esplicazione commerciale e coloniale dei Fenici in questi luoghi. L eroe tirio passati, nella sua marcia trionfale, i Pirinei, non incontra difficoltà nel suo cammino per la Gallia meridionale, se non che alla imboccatura del Rodano, dove Albione e Ligure, figli di Nettuno, gli si oppongono accanitamente (6). Aspra fu la lotta, alla quale, essendo venute a mancare ad Ercole le armi, trova, come anche altrove abbiamo osservato, un inaspettato aiuto dal gettò via la falce (δρέπανον). Cf. Serv., ad Aen., 3, v. 707. Riguarda ai tumuli o tombe di Kronos cf. Patrocl. Thur. in Arnob., adv. nation., 4, 25. (1) DlOD., 4, 22 seg. In altre saghe Eracle appare'vincitore dell’isola e dei Sicani; cf. Diod., 4, 24. Nella regione degli Elimi, detta terra di Eracle, eransi rifuggiti i Fenici, fuggiasci davanti alle immigrazioni greche. Cf. TuciD., 6, 2. A proposito delle colonie denominate da Melkarth in Sicilia cf. Hertzberg, Eliade e Roma, I, p. 203. (2) Sardus è detto figlio di Makeris da PAUSANIA, 10, 17, 2. Altri lo chiamano figlio di Eracle. Cf. Sino, 12, 359; Solin., 4, 1, 2; Isid., Orig. 14 6 39. Per colonia de’ Tiri e data perfino Caralis, peio 1 influenza dei Fenici sulla Sardegna divenne grande solo nel tempo, nel quale i Cartaginesi giunsero all’apice della loro potenza, e solo’ a quest’epoca pare rimontino la più parte delle tombe fenicie scoperte nell’isola. Cf. Ebers, Annali del-ΐ In st., LV, p. 76-132. Helbig, Das homerische Epos (2a ed.) p. 27; PlETSCHMANN, St. dei Fenici, p. 362. (3) CALLIMACO, Hymn. in Del., v. 19, parla della fenicia Kyrno; pare però che egli confonda la Corsica colla Sardegna, e così formossi la leggenda che Cimo fosse figlia di Eracle. Cf. Serv., ad Ecl., 9, 30; Isid., Orig., 14, 6, 42. — (4) Cf. Movers, 0. c., II, 2 p. 578. (5) Il culto di Melkarth a Gades e i doveri del suo sacerdote sono esposti da Silio Italico, 3, 21-31. Cf. Kenrik, Phoenicia, p. 322-323. (6) Eschilo in Strab., 4, 1, p. 183. 2o8 GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA padre Giove, che uccide gli oppositori, mandando una copiosa pioggia di sassi. Pomponio Mela (i), anzi che Ligure, denomina Bergione il secondo figlio di Nettuno; ma è questo particolare di secondaria importanza; piuttosto va richiamata l’attenzione sulla lotta, che starebbe ad indicare l’opposizione degli indigeni liguri o celto-liguri, alla fondazione di qualche stabilimento straniero lungo la costa. Questo fatto mitico, riferito dagli scrittori, era sì radicato nella mente degli abitatori di que’ luoghi, che, secondo Ammiano Marcellino (2), lo tramandarono a’ posteri anche per mezzo di monumenti ed iscrizioni. Un secondo particolare riferentesi al medesimo mito è quello che riguarda la via che attraversa le Alpi Marittime. Eracle, desideroso di liberare quelle alte montagne dai predoni, che le infestavano, si volge a quella parte, ma il cammino è aspro ed angusto; l’eroe, per attestazione di Diodoro Siculo (3), lo migliora ed ingrandisce in modo da formare un’ ampia via, per la quale, d’ allora in poi, vi avrebbe potuto passare un grande esercito con tutti i suoi bagagli. Eracle vi combatte Taurisco (^feroce montanaro, e rende sicuro quel cammino dalle insidie degli alpigiani. Herculea era infatti denominata anticamente la via che dalla Spagna, costeggiando il litorale, attraverso i Pirenei, conduceva alla Gallia e da essa per le Alpi Marittime in Italia. Era probabilmente questa stessa la prima e più occidentale delle quattro grandi vie, che, secondo Polibio (5), attraversavano le Alpi, e sulla cui traccia costruirono in seguito i Romani la via Domizia (6) ; ed avanzi immani di essa sarebbero quegli aggeres alpini cantati da Vergilio (7) e da Silio Italico (8), del cui nome sarebbe rimasta traccia in Aggel o Argeau/x, luogo fra la Tur-bia e Roccabruna, dove al tempo del Gioffredo (9), esistevano, e forse esistono ancora, vestigia di opere che, attestano una potenza titanica. Che il mito, o meglio la figliazione di miti, riferentesi alle (0 5· — (21 15, I9- — (3) 4- Γ9· Cf. Dionis., i, 42. (4) Amm. Marcell., 15, 9. Il Celesta, I laghi delle Meraviglie, p. 18, riferisce ai Taurini delle Alpi Marittime questo combattimento di Ercole con Taurisco, che altri pongono al Rodano. — (5) 34, 10, 18. (6) Cf. Thierry, liist. des Gaulois, I, i p. 139 (9aEdiz.). (7) Aen. 6, 831 sg. — (8) B. p., 3, 50. (9) O. c., p. 23. Cf. Celesia, o. c., p. 22. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 20Q varie peregrinazioni di Eracle dalle coste orientali su tutte le spiaggie occidentali del Mediterraneo, contrariamente a quella scuola, che ne’ miti vede solo il risultato d’una speculazione scientifica posteriore, stia a significare, come ritengono tutti i più accreditati storici, le migrazioni de’ Fenici e lo stabilire di loro colonie fra popoli primitivi e rozzi, co’ quali dovettero venire a lotta, non io certamente lo nego. In altro mio lavoro (i) ho diffusamente studiato il mito erculeo per quella parte che riguarda il Lazio e l’Italia centrale in genere, ed ho dimostrato che nel tronco principale di questo mito furono innestati molti miti di varia origine e nazionalità, e come i Greci sostituirono in seguito di tempo il loro Eracle al Melkarth fenicio, così ascrissero al medesimo eroe anche le geste, che in origine erano assegnate ad altri, ed aveano un loro particolare significato. Perciò anche le imprese di Sancus, o Sanctus de’ Sabini, o dell Hercules latino, che, a mio credere, non indicherebbero che il sopravvenire della popolazione degli Italici, che colla forza e colla civiltà domano i rozzi indigeni raffigurati in Caco, furono dalla immaginosa mente degli scrittori greci ridotte ad un semplice particolare delle imprese erculee, allacciandole con quelle di Melkarth, che avea colonizzato l’Iberia, distruggendovi mostri micidiali come Gerione (2). Se non che a tutta prima potrebbe sembrare non facile impresa lo stabilire in quale punto della sua (1) Origine della plebe romana, p. 104 sg. Il sig. Premerstein nel-VAllgemeines Litteraturblatt (XI Iahrgang, p. 234 sg.), come trova a fare alcune osservazioni in genere agli argomenti da me proposti per dimostrare il dualismo etnico nella primitiva società romana, mi appunta pure che io non ho rilevato ciò che, a suo credere, ora diventa sempre più chiaro, cioè che la tradizione mitica e il prodotto di speculazione scientifica posteriore. Ala quanto poco fondamento abbiano le obbiezioni fattemi da quel signore, al quale devo pur esprimere la mia gratitudine per le lusinghiere parole dette a proposito di quello stesso mio lavoro, lo dimostrerò in un mio lavoro di prossima pubblicazione. (2) Infatti anche gli antichi erano discordi sulla diversa nazionalità dell’Èrcole di Gades, il cui culto è ritenuto egizio da Mela (3, 6), da SlLIO Italico (3, 25), da Filostrato (Vita Apollon., 5, 5), fenicio da Diodoro (5, 20), da ARRIANO (Anab., 2, 16), da GlUSTINO (44, 5), da APPIANO (6, 2) ed ellenico da altri, per cui ritenevano che tre Ercoli differenti fossero approdati nella Spagna, imo egizio, 1’ altro fenicio ed infine l’Alcide. Il Movers, 0. c., II, 2, p. 121, ritiene che rappresentino tutti tre il Melkarth fenicio. Giom. St. e Leti, della Liguria *4 210 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA peregrinazione, seguita da Diodoro (i), l’eroe cessi di essere il Melkarth colonizzatore e commerciale delle coste, per dare luogo all’Èrcole, o meglio al Sancus immigratore. Ho già avvertito che episodi vari del mito erculeo si riferiscono a tutti i passi delle Alpi Centrali e Orientali (2), e non certo a tutti questi si può connettere un presunto passaggio dei Fenici. Se quindi, com’io non dubito, 1’ Ercole italico, che è in stretti rapporti anche con Italo e con Latino (3), sta a significare l’immigrazione italica, la via da lui seguita non dev’ esser certo stata quella lungo il litorale Ligure ed Etrusco, che Diodoro gli fa seguire per il suo preconcetto di unire l’eroe dell 'ara maxima coll’uccisore di Gerione, che in sostanza rappresentano due fatti distinti, come un fatto distinto, da riferirsi al Melkarth fenicio, è appunto il viaggio lungo le coste dell’Italia occidentale, che non può che significare que’ rapporti commerciali co’ Fenici, che tutto concorre a far ritenere esistenti fin ' da tempi remoti (4). Credo tuttavia, che, se nel tenere di Marsiglia, come più chiaramente vedremo in seguito, possono esser stati posti de’ veri stabilimenti mercantili, per la Liguria propriamente detta ciò non si possa ammettere, e non prestandovisi l’interpretazione del mito, e perchè i prodotti del suolo non sono tali da autorizzare una simile supposizione, che non sarebbe del resto convalidata da alcun autorevole monumento ligure, che offra uno spiccato carattere fenicio. Alle medesime conclusioni dello stabilirsi di Fenici in queste (1) 4, 20. Cf. Pseudo Aristotele, de mirab., 83; Dionis., 4, 19; CORN. NEF., Hann., 3, 4; Lrv., 5, 34; PlIN., 3, 20; GlUSTINO, 24, 4. (2) Ai passi del Sempione e del Gottardo si riferisce Plinio, 3, 24, che riguarda i Leponzi ; nelle Alpi Tridentine è nota l’iscrizione ad Ercole Saxano (Cf. Crjìsseri, L’ ara trottina di Ercole Saxano) e per le Alpi Orientali valgano fra 1’altre la testimonianza di Apollodoro (Bibl2, 5). (3) Riguardo a questi rapporti cf. Origine della plebe, p. 112. (4) Oltre al Celesia, o. c., p. 14 sg., connettono col mito di Ercole 10 stabilirsi de’ Fenici nella Liguria e nella Gallia meridionale, il BargÉS, Recherches archéologiques sur les Colonies Phéniciennes (Paris, 1878) p. 7 sg.; 11 DESJARDINS, Géographie de la Gaule Romaine, II, p. 60 ; A. LefÈVRE, Les Gaulois, origities et croyances (Paris, 1900) p. 185, il Lenormant, Hist. ancienne de V Orient, VI, livre X; Castanier, /list. de la Provence dans l’antiquité, I, pag. 241 e 244. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 21 I regioni dovrebbe condurre, secondo alcuni (i), Γ esame di parecchi nomi di luogo, che rivelerebbero la loro origine orientale, e che non sarebbero se non che la traduzione greca del-l’originale nome fenicio. Secondo questa teoria, alla quale, a mio credere, si dà un’eccessiva estensione ed importanza, la prima città di qua da’ Pirenei, che testificherebbe, col suo nome, un’origine fenicia, sarebbe Pyrene (Port-Vandre), posta secondo Festo Avieno (2) nel territorio de’ Sordoni, sulle cui rovine sarebbe stata fondata una nuova città Illiberis (città nuova) anch’ essa già grande e florida per commerci, ma al tempo di Mela (3) e di Plinio (4) ridotta a piccolo villaggio. Il mito, raccolto da Silio Italico, di Pirene figlia del re de' Bebrici, amata da Eracle, e che dopo aver partorito un serpente si sarebbe rifuggita ai monti, dove sarebbe stata divorata da una fiera, onde ad essi e alla vicina città sarebbe rimasto il nome della infelice donzella, mito che dovrebbe convalidare la sua origine fenicia, non rappresenta per me che una delle tante tarde invenzioni per spiegare con un fatto straordinario il primitivo nome della città. Non si può tuttavia negare che l’attività de’ Fenici siasi esplicata in queste regioni. Le ricchezze minerarie di Gades, la ricca Tartesso, la Tarschisch di Ezechiele (5J, che i Fenici acquistavano in cambio del loro olio e delle loro droghe (6), non valsero a distrarre l’attenzione di questi da altri luoghi, dove la produzione mineraria poteva tornar loro di qualche anche mediocre vantaggio. Afferma Diodoro (7) che i Pirenei furono già coperti di fitte boscaglie, e che gli indigeni, all’ incendio di esse, furono meravigliati a veder scorrere ruscelli di purissimo argento disciolto al gran calore. Non conoscendo il valore di quel metallo, in cambio di mercanzia di poco prezzo, lo cedettero ai Fenici, che, trasportandolo in Grecia e in Asia, ne ritrassero immensi vantaggi, ma in seguito, osserva il medesimo storico, gli Iberi riconosciuto il vero valore del metallo, si diedero essi stessi a (1) Cf. Bargès, 0. c., p. 15 sg. ; Desjardins, 0. c., II, p. 135. (2) Ora marit., 5, 558-560. (3) 2i 5> vicus Illiberis jnagnae quondam urbis et magnarum opum tenue vestigium. (4) 3) 5) Illiberis magnae quondam urbis tettile vestigium. (5) 27, 12. Cf. Salmi, 68, 8 e 72, 10. (6) Pseudo Aristot., de mirai, auscult., 47. — (7) 5, 24. 212 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA lavorare le miniere, cavandone argento abbondante e di ottima qualità, con grandissimo loro profitto. È quindi ragionevole il supporre, che i Fenici nelle loro ricerche non siensi limitati solo al versante meridionale dei Pirenei, ma abbiano altresì percorsa la regione a settentrione de’ medesimi, trovandovi vene argentifere abbastanza copiose e già note agli antichi (i). Oltre a ciò non era ignoto l’oro al declivio settentrionale de’ Pirenei (2), di cui, nel fiume Adour, raccoglievansi pagliette, che gli indigeni, lavavano e lavoravano, commerciandole in seguito cogli stranieri. Tutte queste circostanze concorrono a far ritenere non avventata l’opinione che i Fenici abbiano contribuito a dare sviluppo alle città della costa celto-iberica, celto-ligure e ligure, o a stringere per lo meno rapporti di amicizia con loro. Così si spiega come gli Elisici, di cui a suo luogo abbiamo fatto parola, abbiano in seguito contribuito a formare l’armata che Annibaie figlio d’Annone re di Cartagine, mandò al tiranno d’Imera (3), come più diffusamente vedremo nel seguente capitolo. Per cui la loro capitale Narbona, sebbene per attestazione d’Ecateo (4) fosse d’origine celtica, per questa attività commerciale fin dal sesto secolo meritò il titolo d’ emporio, che conservò poi anche in epoca posteriore, quando, al tempo di Pitea, era frequentata da commercianti massalioti. Più sicura origine e nome da’ Fenici pare avesse la città di Ruscino (5) (Ύουσινων) (6), che sebbene, dopo esser stata ri- (1) Strabone, 4 p. 190, cf. A. Thierry, Hist. des Gaulois (9a ediz.) I, I, p. 133 e L. Bargés, 0. c., p. 140 sg. 2) Diod., 5, 27; 33, 23; Strab., 4, p. 190. — (3) Erod., 7, 165. (4) FHG., p. 19, Νάρβων έμπόριον κai πόλις κελτική. Il nome della città è da alcuni derivato dal celtico, da altri dal basco, il BargÈS, o. c., p. 27, lo deriva, non so con quanta ragione, dal fenicio, sebbene ammetta che non la sua esistenza dovea questa città ai Fenici, ma la sua prosperità. (5) Avieno, Or. mar., 5, 568, la chiama Roschinus. Liv., 30, 10. Tutti sono d’accordo nel riconoscere origine fenicia nel nome della città. Cf. GesENIUS, Scripturae linguacque Phoeniciae monumenta, p. 426. Il PuiGGARl, Recherches sur Illiberis, ritiene che abbia preso il nome da Ruscino d’Affrica presso Cartagine; il BargjÉS, o. c., p. 21, lo spiega colle radici fenicie ruscino (promontorio e angolo), annettendo il medesimo significato all’attiguo litus Cyneticum di Avieno (ora mar. 5, 567). Anche il Thierry, 0. c., IV, I, p. 439, ascrive questo nome ai Fenici, e dice la città colonia di Tiro o di Cartagine. Cf. anche Desjardins, o. c., II, p. 60. (6) Tol., 2, 10. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 213 dotta a poca cosa per le devastazioni dei Vandali e dei Goti, fosse stata completamente distrutta sotto il regno di Lodovico il Bonario (i), fu pur grande e potente ne’ tempi antichi, come attestano le sue rovine, la considerazione eh’ ebbe per essa Annibaie, che, forse come città di origine affine alla cartaginese, si fermò qualche tempo presso le sue mura nella sua marcia verso l’Italia, e ch’ebbe in seguito il diritto latino (2) e il titolo onorifico di colonia romana (3). In rapporto col significato attribuito al mito erculeo, si ascrive ai Fenici la fondazione di quelle città, che nel loro nome indicano esser stato ivi praticato il culto all’ eroe tirio, o di quelle che, secondo la tradizione, furono in qualche relazione col medesimo. Tali sarebbero Heraclea, alle foci del Rodano, sopra la quale sarebbe avvenuto il noto combattimento di Ercole con Albione e Bergione figli di Nettuno (4), Nemausus (Nimes), che sarebbe stata fondata da un discendente di Eracle (5), Heraclea Cacca-baria, l’odierna Cavalaire (6), il Portus Herculis Monoeci (7). Se però, non si può dare che un valore limitato a questi argomenti, non sono molto più convincenti le derivazioni fenicie che si danno ai nomi Sestius nions (Montagne de Cette), Magalona (Magnelone), Rhodanusia (Beaucaire?), Alonis (8) piccola isola e (1) Cf. WALCHENAER, Geographìe ancienne, II, p. 173. (2) Plin., 3, 4. — (3) Pomp. Mela, 2, 5. (4) Qualche scrittore moderno vede in questi nomi espressi i popoli che si sarebbero opposti alla venuta dei Fenici. Cf. MÉNARD, Histoire de Nunes, I, p. 45, nota 5; Thierry, 0. c., I, 1, p. 136; Bargès, o. c., p. 29. (5) Partenio di Focea in St. B.; voce Nemausus dice questa città fondata da Nemausus discendente di Ercole. (6) Cf. Walckenaer, <7. c., I p. II, 2 p. 281. Invece 1’ Histoire générale du Languedoc, tomo I, p. 4 e Thierry, o. c., I, p. 538, la pongono a Saint-Gilles in Linguadoca ed il MlLLIN, Voyage dans les départements de la France, II, p. 466 sg., a Saint-Tropez. Questi deriva il nome Caccabaria dal celtico, il BargÉs, 0. c., p. 39, invece dal semitico testa di cavallo, che ricorderebbe la testa di cavallo gettata a Cartagine (Verg., Aen., I, v. 445) ed impressa sulle monete cartaginesi. Egli ricorda anche una Caccabaria, città, sede episcopale nella Bizacene in Affrica- (7) Il BargÉs, 0. c., p. 53, fa derivare il nome Monaco non dal greco, ma dal semitico 'Menihh o Manohh equivalente ad Ercole tranquilizzatore. (8) È ricordato da Artemidoro in St. Β., Άλωνις. L’ itinerario marittimo lo colloca fra Heraclea Caccabaria e il Pomponianus portus. Il 214 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA città dei Massalioti, e al popolo de’ Beritini (i), per l’analogia del loro nome colla fenicia Berito, o il dire che l’Argentière, piccola riviera all’ovest di Cavalaire, debba essere stata abitata dai Fenici, perchè ebbe miniere esplorate anche da’Massalioti e dai Romani. Procedendo con questo sistema, si potrebbero trovare altre traccie più o meno sicure di stabilimenti e di rapporti coi Fenici su tutta la costa non solo celto-ligure, ma anche della Liguria italica. Fra le piccole isole del tener di Marsiglia Plinio (2) ricorda, come altrove abbiamo avvertito, una Phoenice, onde parrebbe che essa, come le isole vicine Sturium e Fhila, fossero punti d’approdo dei Fenici, il medesimo dicasi di Tyrus Maior, cioè l’isoletta del Tino all’estrema punta orientale della Liguria, che col suo nome ricorda ancora la Tinyas, isoletta segnata da’ portolani alle foci del Rodano. E non è priva d’importanza per il nostro argomento la circostanza che le bocche del Rodano erano anticamente dette Lybica. Il Celesia (3) fece osservare che il nome Mandraccio, che davasi alla parte più interna del porto di Genova, e alla piazza vicina, è voce fenicia e suona stazione marittima, e avverte che così chiamavasi anche il porto di Cartagine. Fra i molti altri esempi che potrei citare, ricorderò infine che la Tigullia ligure delle tavole itinerarie e dei geografi antichi, fa ricordare la Tegula di Sardegna, nome che ri-tiensi di origine libica (4), ed i luoghi di simile denominazione sulle coste dell’Africa (5) ; che Sestri (Segesta), in Liguria, rammenta il Sexti d’Iberia, dove, alcune tradizioni antiche ponevano le colonne d’Èrcole anzi che a Gades; e in ultimo che alla nota città e golfo di Luni fa riscontro, nelle colonie fenicie d’Iberia, Walckenaer, o. c., p. II, 3 p. 40, la colloca alla punta detta Gourdons, accanto alla quale è un’ isoletta, 1’ ile de la Fornigue. Il Bargés, o. c., p. 46, spiega il nome col semitico alon, città del dio, cioè di Melkarth. il) Che la iscrizione votiva ivi trovata, dedicata a Marte Iciisdrino, deb-basi spiegare col semitico, come vogliono il Papon, Voyage littéraire de Provence, p. 273, e Bargés, ο. c., p. 43, è da mettersi molto in dubbio. (2) 3. 5, il· (3) Della topografia primitiva di Genova (Giornale della soc. di letture e convers. scientif., IX, p. 553). (4) Cf. Movers, o. C., II, 2, p. 575, n. 70. (5) Tolomeo, 413» ricorda una θαγουλίς alle Sirti, ed è pur menzionato un episcopus Tegulatemis in Numidia (Hard., A età conc., I, p. 1203). GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 215 un promontorium Lunae, presso Cintra nella Lusitania, con un tempio al sole e alla luna (i), culto tutto caratteristico degli Orientali, ed un altro promontorium. Lunae, alla costa nordest dell’Iberia, noto per il culto orientale ivi praticato alle stelle (2). Tutti gli argomenti fin qui proposti sono eertamente di secondaria, o di troppo dubbia importanza, nè trovano un più solido sostegno in monumenti che rivelino un indiscutibile carattere fenicio. Questi non farebbero difetto per quella numerosa schiera di dotti (3), che ascrive al periodo dell’espansione commerciale di Tiro tutto ciò che ricorda anche lontanamente qualche motivo dell’ arte orientale. Per amore di accumulare prove in favore d’una supposta ampia colonizzazione fenicia delle coste liguri, s’ascrivono a’ Fenici cimeli marmorei con qualche accenno orientalizzante, che si possono tutt’ al più far risalire all epoca medievale, e si riportano all’ alfabeto fenicio lettere indecifrabili per la corrosione, e che per la loro incertezza sono da altri ritenute arabe (4). Condotti dallo stesso criterio s ascrivono a’ Tiri, e si ritengono consacrate a Baal, a Melkarth, a Taneith, a Cibete, stele, 0 meglio edicole funerarie, d’ arcaico periodo fo- (1) Tolom., 2, 4; cf. Movers, 0. c., II, 2, p. 625. (2) Tolom., 2. 5. (3) Cf. I. B. Grosson, Recueil des antiquités et des monuments mar-seillois, qui peuvent intéresser V histoire et les arts (Marseille, 1773)» BARGÉS, o. c., p. 85 segg. LentheriC, La Grèce et V Orient en Promence. F. De Saulcy, Des études phéniciennes — Mémoire sur tine inscription phénicienne déterrée à Marseille; E. Rouby, Le siège de Marseille par Iules Cesar (Spectateur militaire, 3, 1874); A. Saurel, Dictionnaire des villes, villages, et hameaux du département des Bouehes — du — Rhône, t. I, ch. XXVI. A questi vanno aggiunti molti altri che sono citati da P. Castanier, 0. c., II, p. 154 segg. (4) Il Bargés, 0. c., p. 95 segg., seguito da tutti quelli che condividono le sue idee, attribuisce ai Fenici un così detto altare marmoreo, che era già incastrato in un muro del forte di Notre-Dame de la Garde. L’incerta iscrizione, che sembra araba, è ritenuta fenicia dal Bargés, che la interpreta : Melkarth — Altare della Vittoria. Così pure fenicio è ritenuto un altro così detto altare che serviva anticamente di fonte battesimale nella chiesa di S. Lorenzo. Tutti e due questi monumenti sono medievali e perciò non se ne tenne conto nel Corpus Inscript. semiticamm. 2τ6 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA cese (i), e si riportano all’epoca più remota dell’attività fenicia nel bacino occidentale del Mediterraneo medaglie di tarda provenienza cartaginese (2), e il nome stesso di Marsiglia, mentre da altri è saviamente ritenuto greco, celtico, iberico, o ligure, è dall’abate Bargés creduto d’origine semitica, onde gli pare indiscutibile che la città, prima che da’ Focesi, fosse stata costruita, non ostante la viva opposizione degli indigeni (3), ed abitata da’ Fenici. L’unico monumento veramente importante, e di sicuro carattere fenicio, è la lunga iscrizione trovata a Marsiglia nel 1845, che contiene circostanziate prescrizioni riguardanti il culto di Baal (4). Ma per comune consentimento de’ più accreditati orientalisti essa è da assegnarsi a’ Cartaginesi, e per il carattere della scrittura, e per il contenuto non può ritenersi più antica del quinto secolo a. Cr., è quindi da ascriversi a quel periodo, abbastanza tardo, nel quale i Cartaginesi ebbero il dominio sul mar Tirreno, come più diffusamente vedremo, nel seguente capitolo. Non hanno maggior valore per ammettere in Marsiglia una città in origine fenicia le testimonianze degli scrittori antichi, poiché è bensì vero che Erodoto (5), Tucidide (6), Giustino (7), Strabone (8) e Pausania (9), parlano di battaglie intervenute tra Focesi e Cartaginesi nel mar Tirreno, ma nessuno esplicitamente asserisce che abbiano dovuto i coloni greci aprirsi colla violenza il varco alle coste celto-liguri. Solo la considerazione che essi non parlano di Tiri o di Fenici in genere, ma bensì di Cartaginesi, i quali, come vedremo nel progresso del lavoro, ebbero solo tardi vera importanza nel Tirreno, basterebbe a sfatare l’opinione, (1) Quelle che il Bargés ritiene stèle fenicie sono invece edicole sepolcrali focesi del periodo più arcaico. Perciò il loro stile orientalizzante poteva facilmente trarre in errore. Cf. P. Castanier, 0. c., p. 164. (2) Per le medaglie cartaginesi trovate a Marsiglia, cf. L’Ami du bien, II année, Ier cahier, p. 6 segg. (3) Cedreno, i, p. 225, Φοίνικες μαχιμώτατοι. Anche Pomponio Mela, i, 12, magnifica la disinvoltura militare degli antichi Fenici. (4) Per l’importante iscrizione a Baal e la sua interpretazione cf. Corpus Inscript. Semi/., p. 21S segg. dove è pure esposta la ricca· bibliografia rife-rentesi ad essa. (5) i, 166. — (6) i, 13, — (7) 43, 4. - (8) 4, p. 180. (9) 10, 18, 7. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 217 che ciò sia avvenuto precisamente al tempo della fondazione di Marsiglia. Anzi quanto a Erodoto è espressamente detto che l’attrito fra Focesi e Cartaginesi avvenne parecchio tempo dopo la distruzione di Focea e più di venticinque anni dopo la fondazione di Alalia in Corsica, dopo che Argantonio, che prima avea ospitalmente accolto i Focesi a Tartesso, era da tempo passato da questa vita, tutti fatti, come vedremo, sicuramente posteriori alla fondazione di Marsiglia. Giustino più chiaramente ancora dice che i Focesi fondarono Marsiglia inter Ligures et feras gentes Gallorum, non dunque nel tenere de’ Fenici; e le lotte coi Cartaginesi sono da lui poste dopo che la colonia era già salita a grande potenza, e dopo che i Marsigliesi erano di già gloriosi per molte altre vittorie riportate sui Liguri. Parrebbe far eccezione Tucidide se realmente, come credè taluno, affermasse avere i Focesi, nel mentre fabbricavano Marsiglia, vinti in battaglia navale i Cartaginesi. Ma vedremo che da sicure testimo nianze antiche si deduce, che, in certo tempo, Marsiglia dovette soccombere alla potenza cartaginese, ed i Focesi dovettero per parecchi anni restringere la loro attività commerciale alle coste liguri, e condividerla coi loro rivali. A quest’ epoca tarda vanno riferite le parole di Tucidide, perchè all’ epoca della fondazione di Marsiglia non erano ancora i Cartaginesi in grado di combattere nel golfo ligustico, ma più ancora perchè ciò risulta dallo stesso Tucidide, che pone la battaglia coi Cartaginesi, al tempo di Carabise, quindi quasi un secolo dopo la fondazione di Marsiglia. Con questo non intendo menomamente negare che 1 1' emci di Tiro avessero rapporti commerciali colla Liguria, nè che sulle coste, da' Pirenei alle Alpi, abbiano avuto dei punti di approdo ; anzi la circostanza stessa che i Focesi trovarono que luoghi adatti per stabilirvi una colonia è una prova, che se non proprio a Marsiglia, certo nelle vicinanze ebbero i Fenici centri di espansione nelle regioni mediterranee, celtiche e liguri. Quasi in tutte le spiaggie che prima erano percorse da emci, su e coste orientali d’Italia, in Sicilia, in Sardegna, a Tartesso nella Spagna eredi dell’attività dagli Orientali divennero i Greci : e ciò si comprende. Com’ avrebbero i Fenici, arditi ed intraprendenti com’erano, trascurato que’ luoghi, che poi i Greci ritennero migliori per la loro colonizzazione ? 2 I 8 GIORNALE STORICO E LETTERARIO UELLA LIGURIA Se egli è vero, come alcuni non dubitano (i), che quei Tursch, Scharkrusch, e Schardani, che con gran valore contendevano al re egiziano Merempthah (1281-1262 a. Cr.) (2) il dominio sul bacino settentrionale del Nilo, erano i Tirreni, i Siculi, i Sardi ed altri abitatori delle spiaggie del Tirreno, converrebbe anche ammettere che l’influenza fenicia fosse già grande in quel mare, poiché la forma singolare degli elmi ornati di penne, o con due corna salienti, dei diademi, delle corazze come sono raffigurate nelle rappresentazioni egiziane del tempo di Ramses III (1240-1208), al soldo del quale combatterono quei valorosi pirati, denotano fin da quell’ epoca remota un’ampio e già radicato influsso fenicio in tutto il mar Tirreno (3), e da questo non possono essere sfuggite le coste liguri. Aggiungasi a ciò la forma stessa delle navi dipinte col timone elevato, consistente in un forto palo terminante con una testa di uccello. Tutte queste forme orientalizzanti degli oggetti persistono lungamente e compaiono in monumenti sardi di epoca di molto meno antica, come l’antica forma delle navi, sebbene progredita, si travede ancora figurata sulle stele funerarie di Pesaro, appartenenti alla prima età del ferro, che per la loro tecnica si allacciano coi manufatti della necropoli di Dipylon presso Atene, e coll’ arte micenea in genere (4), il cui portato in Occidente può ascriversi ai Fenici, l’influsso dei quali si trova ampiamente nelle stazioni italiche del bronzo e della prima età del ferro, espresso anche nei pesi, nelle misure e nei segni numerici (5). Sebbene quindi più che vedersi si traveda, in causa della remota antichità, l’attività dei Fenici nel golfo ligustico, pur non si può dubitare che molto per tempo i rapporti dei Liguri coi Fenici furono stretti, e valsero ad improntare tutto il cammino della civiltà di quelli A questo punto mi pare tornino ovvie due domande. Che diffusione ebbe lungo la costa del mare ligustico l’elemento fenicio? La sua espansione di qua dalle Alpi ebbe carattere di occupazione territoriale, o fu puramente commerciale ? In se- (1) Cfr. Max MüLLER, Asien u. Europa nach altàgyptische Denkmalern, P· 375 segg. (2) Cf. Hommel, Gesch. des alten Morgenlandes. (3) Cf. Lindemann, 0. c., p. 679 segg. — Schliemann, Mykenae, p. 153. (4) Cf. Undset, Zeitschr. fiir Ethnologie, vol. 15, p. 209. (5) Cf. Lindemann, o. c., p. 686 segg. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 219 condo luogo, di che natura saranno stati i commerci di questi Fenici, e che estensione possono aver preso? Quanto sono frequenti nella toponomastica e nella mitologia i ricordi della civiltà fenicia lungo la costa celto-ligure onde non si può escludere che fossero vere fattorie in rapporto diretto con Tiro, altrettanto essi scarseggiano nella Liguria propriamente detta. Per quanto io abbia fatte minute indagini, non trascurando di esaminare anche le collezioni private di antichità, non mi fu dato, in tutto il tenere dalla Magra alle Alpi Marittime, di riscontrare alcuna cosa che si possa ritenere con sicurezza fenicia. Le ricche e numerose caverne liguri ci presentano 1 origine, lo sviluppo, il progresso della civiltà indigena; vi si scorge 1 influenza apportatavi dalle mutazioni etniche verificatesi al di là dall’Apennino, onde si passa dall’epoca litica, a quella del bronzo e del ferro, dai prodotti importativi delle civiltà italica, greca, gallica ed infine romana, senza che perciò si possa menomamente asserire che l’elemento ligure primitivo abbia subito radicali trasformazioni. Quindi in questa storia, dirò cosi, materializzata nelle stratificazioni archeologiche, non si riscontra una pagina che ci riveli un dominio anche transitorio fenicio. Giustamente quindi, a mio credere, un illustre geografo (i) scrisse, che mentre la Provenza fu in parte fenicia, poi greca, gallica e romana, il territorio di Genova rimase permanentemente il dominio dei Liguri. Genova stessa, che, per la sua favorevole posizione nel centro del golfo, e per esser divenuta per tempo il porto pri mario della Liguria, poiché, come nota il Mommsen (2), doveano fiorirvi i commerci fin da quando si cominciò a navigare il mar Tirreno, avrebbe dovuto esser prescelta da’ Fenici per stabilirvi una colonia, non manifesta per nulla, nel correr della storia, af finità con essi, essendo anzi noto che nella guerra annibalica, trovò Magone nei Genovesi sì aspri oppositori, che distrusse la città dalle fondamenta. D’altra parte mi par di poter con egual sicurezza ritenete che attivi devono essere stati i rapporti e gli scambi commerciali dei Fenici anche colle coste liguri. Com’essi dalla Provenza potevano ritrarre abbondanti prodotti minerari (3) e agn- (1) Desjardins, 0. c., II, p. 5°· ~ (2| CIL., 5, 2, p. 882. _ (3) Oltre che trarre profitto dalle ricche miniere d’ argento e d oro dei 220 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA coli, il carbonchio, che trovavasi ne’ monti vicini al mare ed era allora molto ricercato (i), il corallo, allora comune alle isole Stecadi (2), conchiglie, che fornivano la porpora, e eh’erano tanto abbondanti sulle coste del golfo gallico, che ancora al tempo de’ Romani eravi a Narbona una tintoria di porpora, baphium, la cui intendenza era una dignità dell’impero, procurator baphi Narbonensis, e piante tintorie, di cui molto si servivano gli antichi, specialmente i Fenici, che con esse tingevano a vari colori il lino (3), così trovavano nel golfo ligure non minori fonti di ricchezza, che non potevano sfuggire al loro cupido sguardo di attivi commercianti Vino, olio, lana, pelli, carni salate, miele, erano prodotti che dovunque ricercavano i Fenici, e, come altrove abbiamo osservato, abbondavano nella Liguria; quivi possono avere asportato legname per la costruzione delle numerose loro navi e pece per spalmarle. E anche noto che i Fenici possedevano sistemi speciali per marinare i pesci, in par-ticolar modo murene, anguille e tonni, che i Greci chiamavano ταριχεία, e che tutto il mondo teneva in grande considerazione. Fu quindi osservato (4) che difficilmente le miriadi di sardine, acciughe e tonni, che popolano il golfo ligure, non avranno dato incremento a questo principalissimo ramo dell’industria fenicia. Ma l’articolo d’esportazione che maggiormente richiama la nostra attenzione è 1’ ambra. Strabone (5) afferma che fra’ Liguri era essa abbondante, denominandosi λιγγούριον, eh’ è ciò che altri chiamano ήλεκτρον. A tale riguardo va pure ricordata la favola di Fetonte, alla cui morte si associano le sorelle cam- Pirenei e dei monti della Gallia meridionale, miniere di cui dianzi abbiamo fatto parola, i Fenici caricavano, nel golfo gallico, ferro fuso e laminato, che proveniva dal centro della Gallia POSIDONIO in ATENEO, 6, 4 ; Strab., 3, p. 146; Pseudo Aristot., De mirab. ause., p. 1115] e stagno che dalle isole Cassiteridi si portava alle coste della Gallia, e di là per via di muli, alle foci del Rodano (Diod., 3, 16). (1) Teofrasto, Delapid., p. 393-396. Il carbonchio gallico era molto ricercato in Oriente. (2) Plin., 32, II, coralium laudatissimum in gallico sinu circa Stoe-chades insulas. (3) Riguardo all’uso di tingere con prodotti vegetali cf. Iliade, 6, 291, Odissea, 15, 424. (4) Bargés, o. c., p. 146. — (5) 4, 6, p. 182. GIORNALE STORICO £ LETTERARIO DELLA LIGURIA biate in pioppi, e le loro lagrime in ambra, nonché Cigno re de’ Liguri, mutato in canoro uccello Tutti sanno quale e quanta ricerca facessero i Fenici dell'ambra, e come per acquistarla imprendessero lunghe e difficilissime navigazioni. Se quindi essa abbondava nella Liguria, è egli possibile che sia stata da loro trascurata? Se non che a tale proposito potrebbe sorgere un stituiva essa un prodotto indigeno in seguito esaurito o dimenticato, o non piuttosto vi veniva importata dal settentrione e accumulata in magazzini, per essere poi imbarcata sulle navi fenicie? Si sa che fin da tempi antichissimi le Alpi erano attraversate da vie che mettevano l’Italia in comunicazione col l’Europa centrale e settentrionale, e che per esse, specie per quella del Brenner, frequenti erano gli scambi commerciali m nell’ epoca preistorica. Nulla quindi di più probabile che come nello spazio di trenta giorni (i) per vie interne dalle tentrionali della Gallia, giungeva lo stagno alle foci del così per vie interne e in forza di continui scambi giung Γ ambra dalla Chersoneso Cimbrica alla Liguria. Questo sare dubbio fortissimo, cioè come possa essere stata l’ambra in quei tempi sì abbondante in una regione, dove ora non si trova. Co- (1) Diod., 3, 16; n. i8q e 194· (2) Cf. Olshausen (3) Cf. Helbig, dû -- 0. c„ p. 686. 222 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Brandaris, conchiglia del Mediterraneo orientale, della quale facevano gran ricerca i Fenici (i), e del quale un esemplare di una terramara emiliana (2) può provenire per scambi commerciali dalla Liguria, si riscontrano pure nelle così dette caselle, o rifugi attuali dei pastori, che sembrano il ricordo di edifìci preistorici (3). Essi sono costruiti di pietra greggia senza cemento, ed hanno per lo più la forma di due tronchi di cono l’uno sovrapposto all’altro, ed un tetto in forma di cupola schiacciata. La loro somiglianza coi rigùm dell’Arabia (4) e coi nuraghi della Sardegna (5), che ora si ritengono più comunemente di costruzione fenicia (6), autorizza ad ascrivere anche queste costruzioni alla serie degli argomenti che comprovano le antiche relazioni commerciali fra i Liguri e i Fenici, le quali devono essere state tanto attive da influire sul carattere stesso di quelli, tanto che al mercantile mendacio, di cui erano incolpati dai Romani i Liguri, fa perfetto riscontro il φοινικικδν ψεύδος, che era divenuto proverbiale presso gli antichi (7). Capitolo quarto. RAPPORTI COMMERCIALI DEI LIGURI COI GRECI, COI CARTAGINESI E COGLI ETAUSCHI. Dopo che i Fenici di Tiro aveano corso per lungo tempo le coste del mar Tirreno, influendo sulla coltura, sugli usi e costumi dei vari popoli, che abitavano alle sue spiaggie, in (1) Cf. Maspero, o. c., II, p. 203. (2) Cf. Strobel, Bull, di paletti, it., XX, p. 104. (3) Issel, o. c., p. 250. (4) A proposito di queste costruzioni e delle loro relazioni coll’arte fenicia cf. M. DoUGHTY, Travels in Arabia deserta, I, p. 447 e E. H. PALMER, The Desert of thè Exodus, I, p. 139-141. (5) Cf. G. Spano, Mem. sopra.i Nuraghi di Sardegna (3® Ed.) e E. Pais, Atti della R. Acc. dei Lincei, cl. di se. inor., 3* serie, VII, p. 277-301. (6; Alcuni li ritengono indigeni ; ma ora prevale 1’ opinione che siano opera dei Fenici. Cf. Pietschmann, o. c., p. 363. (7) Cf. Erod., i, 5, 104; Paus., 7, 23, 7; Plin\, 37, 11. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 223 particolar modo degli Etruschi, dei Liguri e degli Iberi (i), un nuovo ed importantissimo elemento etnico venne a modificare e a rendere più complessi i rapporti commerciali con queste regioni. Mentre Tiro, divincolantesi fra le spire del servaggio assiro e babilonese, perdeva in Oriente ad una ad una le sue colonie, ed infine il suo stesso splendore (2), e Cartagine era occupata nella sottomissione delle coste affricane (3)1 i Greci, ed in particolar modo gli Ioni, che fino allora avevano esplicata la loro attività coloniale e commerciale lungo le coste del mare Egeo, tentarono con fortuna anche le coste del mare Tirreno e Ligustico. I primi di essi che si avventurarono a sì lontane navigazioni, e su navi di gran portata percorsero il mare Adriatico e il Tirreno, visitando altresì l’Iberia fino a Tartesso, furono, per attestazione di Erodoto (4), i Focesi. Anche Focea, più eh ogni altra città della Ionia aveva alle spalle, come Sidone, come Tiro, come Genova, come tutte le città, che per tempo primeggiarono nella navigazione, una cerchia abbastanza elevata di monti, che le rendevano poco agevole l’espansione terrestre, fatta vieppiù difficile dall’ esser tutt’ attorno circondata a breve distanza da popolazioni eoliche. Onde, sebbene il suo agro non fosse così sterile come asserisce Giustino (5), egli è pur certo che la sua ristrettezza contribuiva ad invitare i suoi abitanti al mare, su quale traevano la vita, dediti alia pesca, alla mercatura ed an (1) Già fin dall’epoca delle tombe a pozzo i Fenici aveano cogl. Etruschi rapporti, benché scarsi, ma che andarono in seguito sempre più aumentando. Cf. Helbig, sopra la provenienza degli Etruschi (Annali deltInst. di corr. archetti., .884, pag. .42 segg.) e UNDSET, L'antichissima necrop tarquinese (Annali, 1885, p. 87). Quanto alle influenze fenicie alle coste guri c . capitolo precedente ~ (2) Salmanassar V sottomette la Fenicia; Sargon nel 724 *· Cr. pan l’assedio a Tiro, e s’impadronisce di Cipro, già colonizzata 1 e , Sennacherib occupa Tiro nel 700 a. Cr., la quale città decade rapidamente, dopo che nel 574 a. Cr. se ne impadronisce Xabuchodonosor (3) Sebbene la fondazione di Cartagine risalga all anno 813 a. Cr _ . Motors, *. II, >. r* »« **·> · — a Γ JtteTÌe col (822 a. Cr.), pure ne’ primi due secoli fu occupata a so oir. della Numidia, e a far riconoscere la sua egemonia sulle (4) i, ,63. Cf. Giustino, 43. 3, » 0ceani oram ' (5) 43. 3. exiguitate ac macie terrae coacti. 224 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA che, cosa in quei tempi non tenuta ignobile, alla pirateria (i). Col correr degli anni, quando specialmente la Magna Grecia e la Sicilia furono disseminate di colonie splendide e ricche, più frequenti e meno disagevoli devono essere anche divenute le imprese commerciali dei Focesi, che presso que’ loro connazionali, ancorché di stirpe diversa, potevano trovare temporaneo ricetto nelle lunghe peregrinazioni. Quando esse avessero principio, e quale fosse il loro graduale sviluppo non ci è chiaramente asserito dagli storici antichi, e non è tanto facile a stabilirlo con tutta precisione. Qualcuno (2) ritiene che il commercio focese fosse già fiorente sulle coste d’Italia fin dal 900 a. Cr., e che in seguito, sino al 700 a. Cr., andasse sempre maggiormente sviluppandosi. Credo tuttavia che il passaggio del monopolio commerciale dai Fenici ai Greci, nel bacino occidentale del Mediterraneo, non vada posto in epoca tanto remota. E bensì vero che la colonia calcidica di Cuma fu fondata verso il 73° (3)> e che quindi i Focesi, che, come già fu avvertito, furono i primi de’ Greci a visitare le spiagge tirenniche, devono aver navigato anche nel mare ligustico prima di quell’epoca, non credo però che si possano protrarre le loro navigazioni occidentali più in là della metà del secolo ottavo. Ad asserir questo m’induce la considerazione che nelle tombe etrusche a pozzo non anteriori all’ ottavo secolo, mentre non si riscontrano oggetti di fabbricazione ellenica, non mancano invece fibule adorne di perline di vetro a vari colori, balsamari di vetro, elmi di tipo orientale ed altri oggetti di sicura importazione fenicia e più particolarmente di Tiro (4), mentre i più antichi prodotti dell’industria greca appaiono nelle tombe a fossa, che seguono cronologicamente a quelle a pozzo e risalgono verso il principio del secolo settimo o la fine dell’ottavo. Tutto fa ritenere che il graduale sviluppo dei commerci focesi in Occidente proceda di pari passo col decadere di Tiro e coll'estinguersi dell’indipendenza fenicia. Il passaggio quindi da una civiltà all’altra avvenne molto lentamente e senza scosse, come ritengo che veri attriti non siano avvenuti fra Fenici e (1) Giustino, 43, 3. — (2) Cf. Diefenbach, Or. F.ur., 114. (3) Cf. Helbig, das homerische Epos, pag. 321-323. (4) Per questi prodotti fenici delle primitive tombe etrusche, e intorno alla loro epoca cf. Undset, o. c., pag. 75 segg. GIORNALE STORICO £ LETTERARIO DELLA LIGURIA 22 5 Greci, e che questi siansi stabiliti nelle località che prima visitavano quelli di mano in mano che le necessità della madre patria li costringeva ad abbandonarle. Così vediamo che, mentre in tutte le stazioni italiche dell’ epoca del bronzo e del primo periodo della prima età del ferro gli oggetti, specialmente metallici, di ornamento, nonché le situle, per la loro tecnica, forma, per le scene impressevi, accennano ad un largo dominio della civiltà orientale, che deve certamente aver corrisposto ad un non meno largo movimento commerciale dei Fenici in quelle regioni (i), in seguito i prodotti dell’industria orientale diminuiscono per dar contemporaneamente luogo a prodotti del-l'industria greca, la quale, per certo tempo, finisce per dominare completamente al principio del secolo sesto, con pregiudizio d’ altri popoli, che, nel frattempo, aveano condotto a perfezione le loro industrie indigene, specialmente degli Etruschi e dei Cartaginesi, che devono prendere speciali provvedimenti a difesa dei loro commerci nel Tirreno, come a suo luogo vedremo. Non è quindi improbabile che, ancora quando i Fenici im prendevano le loro spedizioni commerciali in Occidente, fossero, in sul declinare della loro potenza, imitati e seguiti dai Focesi, che frequentarono i medesimi empori commerciali e finirono, a cader di Tiro, per rimanere ne’ medesimi, senza scosse e quasi inavvertitamente, i successori dei mercanti Fenici. Così si spiega come i Greci ben difficilmente ponessero scali di concorre a’ Fenici, nelle regioni, o presso i luoghi da questi frequentati, ma succedessero precisamente nei medesimi empori, il cui commercio era prima sfruttato tutto dai Fenici; e così avviene che (i) I Fenici, come altrove fu avvertito erano non solo importatori e e loro proprie industrie, ed in pascolar modo vetrarie, ma erano anche gi importatori dell’ arte micenea. Del resto alcuni prodotti d. essa, nelle tombe del Dipylon e in tombe italiche, specialmente certe rapp e - tazioni plastiche di uomini su bighe ^no anche comum a sepolcri di Cipro e della Fenicia [Auftreten]. Cf. Mecklemburgische lahrbucher, IX X- Undset, dos erste Auteten des Eisens in Nord-Europa, p. 19, segg. parla dei carri di bronzo trovati nell’Europa settentrionale, e che, -n-harmo Lontro con bronzi italici, ricordano i carri di bronzo che^l fat.ro = di Tiro fece per il tempio di Salomone (Re, , /, 9) . 1Γρ„. »1 modv. —li P-etrici dell. terrecotte e de. brot» della necropoli Tarquiniese. 15 Giom. St. e Leti, della Liguria 226 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA anche medesimi fossero gli articoli d’ esportazione ed in origine anche di importazione, tanto de’ Fenici come de’ Greci. Anche su questi 1’ ambra ed i metalli esercitavano la principale attrattiva. Nella loro espansione verso Occidente è naturale che i Focesi visitassero prime le spiagge del mare Adriatico, come del resto risulta dall’ordine seguito da Erodoto nell’esporre le loro navigazioni. Prima quindi che i Corinzi fondassero, nel 710 a. Cr., la colonia di Corcira (1), e i Corciresi fondassero Epidamno (627 a. Cr.) e Apollonia (587 a. Cr.), ed i Dori colonizzassero, nel 568 a. Cr., Curzola (Corcyra nigra), quelle spiaggie illiriche, fino ai più settentrionali recessi del mare Adriatico, devono esser state visitate dai Focesi, come il mito di Ercole, approdato a que’ lidi (2), denota anteriori viaggi dei Fenici. Il racconto di Callimaco (3), secondo il quale gli Argonauti giunsero all’ Illirio, e fors’anco all’Istria, costeggiando l’Adriatico orientale, parrebbe alludere precisamente a questi primi viaggi commerciali, poiché men comunemente in essi sarà stata percorsa la spiaggia italica importuosa, sebbene le stele funerarie d’ arte micenea trovate a Pesaro (4) denoterebbero, che molto per tempo, anche quelle spiaggie erano frequentate da mercanti fenici o greci. Ma la vera meta de’ viaggi de’. Focesi devono esser state le spiaggie dell’Istria e della Venezia. Questo non ci è solo confermato dai frequenti rapporti di esse coi miti greci più antichi (5), ma altresì dalla considerazione che qui, più che altrove in tutto il bacino dell’Adriatico, poteva aver luogo un commercio attivo e veramente fruttifero. Abbiamo già precedentemente notato che alle bocche del Po (1) Curtius, G. G., i, 352. (2) Appolodoro, Bibliot., 2, 5 (FHG., 1, 140). (3) i, 2, 39. Quanto ai commerci dei Fenici colle coste Adriatiche cf. Be-NUSSI, L’Istria sino ad Augusto, p. 248 segg. (4) Cf. UNDSET, Zwei Grabstelen von Pesaro Zeitschrift für Ethnologie, XV). (5) Eratostene, Timagete, Apollonio Rodio, Valerio Fiacco fanno viaggiare gli Argonauti dal Mar Nero, per il fiume Istro, alPAdriatico. Frequenti sono pure i ricordi su tutte queste spiaggie degli eroi troiani, specialmente Antenore e Diomede. Riguardo alla parte che possono aver avuto nella diffusione di quessi miti i greci dell’ Italia meridionale e della Sicilia cf. Pais, st. della Sic. e della Magna Grecia, I, p. 1 segg. st. di Roma, I, 1, p. 139. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 227 vi era un emporio per il commercio dell’ ambra, che vi veniva portata dal settentrione. Com’ esso era visitato dai Fenici, la sua importanza non può essere sfuggita ai Focesi; e sebbene le antichità rinvenute ne’ pressi di Adria accennino a commerci coi Greci solo nella seconda metà del secolo quinto (1), pure non è verosimile che, al cessare de’ commerci fenici, rimanesse abbandonato così ricco cespite d’entrata. Il medesimo dicasi delle sP'agge carniche ed istriane. Sebbene anche per esse il commercio diretto colla Grecia non si svolgesse che nel secolo quinto, pure le ricche miniere d’oro che, secondo Polibio (2), erano presso Aquileia e nella vicina regione norica, e l’industria metallica fiorente nel goriziano non possono aver lasciato indifferenti i Focesi, che qui doveano approdare anche come ad uno de’ principali punti d'approdo, dove mettevano capo (3) i più ricercati prodotti, che dalle rive del Baltico, attraverso l’Europa centrale e per le vie costruite già a tale intento dagli Italici attraverso le Alpi, per mezzo di scambi giungevano nella nostra penisola. Convien però credere che nell’Adriatico non durasse a lungo l’attività de’ Focesi, che per tempo devono aver ceduto il campo a’ Corinzi di Corcira ed all’ altre colonie greche sullé coste illiriche, colle quali, per la loro vicinanza a’ luoghi visitati, non potevano esser in grado di far concorrenza, tanto più che all’azione de’ Focesi erasi aperto un campo più proficuo nel mar Tirreno. E verosimile che da principio l’opera de’ Focesi si esplicasse lungo tutte le coste italiche e delle isole vicine. Abbiamo già osservato che i Cartaginesi, nel secolo settimo, non erano ancora in grado di competere con altri popoli nell’espansione commerciale, tutti intenti com’ erano a ridurre in loro potere le coste settentrionali dell’Affrica. Anche gli Etruschi non (1) Cf. Schòne, Le antichità del Museo Bocchi di Adria, p. XII; Pauli, Die Inschriften des nord-etrusk. Alphad., p. 67 segg.; Helbig, Die Italiker in der Poebene, p. 120; BRIZIO, Antichità e scavi di Adria (Nuova Antologia, 18, 23, i Die. 1879, p. 446). (2) In Strab., 4, 6, 12. Per l’oro norico cf. Riedl, Die Goldbergbaue Kàrntens, p. 3. (3) Cf. GENTHE, Ueber den etrusk. Tauschhandel nach dem Norden, p. 120 ; Sadowski, Die Handelstrassen der Grìechen und Rò'mer, p. 79. Per le fonderie di oggetti di bronzo nel Goriziano cf. Bull, di paletn. it. Ili, 6 ; Czornig, Dos Land Gorz ecc. I, p. 141. 228 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA aveano di preferenza rivolto le loro mire al commercio marittimo. Anzi appunto perciò la necessità di dare uno sfogo ai prodotti de’ vasti loro commerci terrestri, come prima li avea messi in relazione coi Fenici, ora dovea render loro accetto il contatto coi Focesi, i quali potevano sopperire a quelle industrie, di cui mancavano gli Etruschi e delle quali doppiamente sentivano il bisogno, dacché, dopo esser divenuti per loro articoli di estrema necessità, avrebbero dovuto privarsene, allorquando i Fenici furono nell’impossibilità di visitare il loro litorale. Nessuno infatti de’ più conscienziosi archeologi pone in dubbio che prima che da Cuma o dall’ altre città della Magna Grecia, dai Focesi derivassero quegli oggetti specialmente ornamentali e fìttili, che nelle tombe etrusche succedono ai prodotti fenici. Ciò viene a conferma di quanto asserisce Erodoto (i), cioè che furono i Focesi che primi fecero conoscere ai Greci la Tirrenia, onde non è improbabile che da loro derivassero anche le prime cognizioni su quelle regioni, raccolte in seguito dagli storici greci. Il medesimo devesi dire del Lazio e di Roma stessa. Ancorché vogliasi relegare tra le favole che i Focesi abbiano avuto ricetto a Roma, a’ tempi di Tarquinio Prisco, allorché erano rivolti colla gioventù a fondare la loro colonia, come è detto da Giustino (2), pure è certo che questa tradizione afferma antichi rapporti almeno commerciali fra i due popoli, i quali sarebbero pure adombrati sotto l’altra notizia riferita da Strabone (3), che la statua di Diana Aventinese era simile a quella della stessa dea esistente a Marsiglia. Parrebbe quindi che i rapporti fra i Focesi e le coste del Lazio fossero così stretti e di lunga du- (1) i, 163. (2) Veramente Giustino, 43, 3, 4, dal quale deducesi questo particolare, dice che ai Massalioti fu dato ricetto a Roma, temporibus Tarquini regis, ma da tutto il contesto si capisce che lo storico intende parlare di iarquino Prisco, non già del Superbo. Infatti ponendo egli questo fatto immediatamente prima della fondazione di Marsiglia, non può ragionevolmente che ascriversi al tempo di Tarquinio Prisco. Nel qual caso tale espressione non ha il significato che qualcuno gli ascrive, cioè di tempi preistorici in generale (cf. CUNO, Vorgesch. Roms, l, p. 15), ma di una definita epoca storica, poiché, come vedremo, essa coincide precisamente colla data della fondazione di Marsiglia. (3) 4p. 180 C. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 22Ç) rata da influire perfino sulla religione. Qualcuno osservò (i), che, se relazioni fra i Focesi e Roma vi furono, ciò non può esser avvenuto precisamente al tempo di Tarquinio Prisco, o de Tarquini in genere, che sarebbe un periodo, nel quale a Roma avrebbero predominato gli Etruschi, che si mostrarono sempre fieri oppositori dei Focesi, e gelosi de’ loro progressi commerciali. Prescindendo però anche dal fatto che è iorte a dubitarsi che il regno de’ Tarquini indichi realmente, come alcuni credono, un periodo di predominio etrusco su Roma, non si può per questo solo negare, che anche in tali condizioni essa possa aver avuto buoni rapporti commerciali coi Focesi, dal momento che gli stessi Etruschi non erano ancora si forti nella navigazione mercantile da svincolarsi dall’influenza commerciale dei Focesi, i cui prodotti, come prima ho notato, appaiono nelle tombe etrusche e i cui contatti si rispecchiano nello svolgimento stesso della coltura etrusca. Se i Greci ritenevano, e noi abbiamo già notato quanta parte possono aver avuto i Focesi nella creazione e divulgazione delle prime leggende italiche, che Tarquinio discendesse da un loro connazionale, cioè dal corinzio Demarato, stabilitosi in Etruria, vuol dire che i primi loro rapporti coi Latini e cogli Etruschi stessi non furono cattivi. Ma piuttosto dobbiamo tener conto dell’azione, che, molto per tempo, devono avere esercitato, sul Lazio e sull Etruria meridionale, Cuma e l’altre colonie greche dell’Italia meridionale. E ben vero che Marsiglia ebbe una certa preponderanza su tutte le città focesi del bacino occidentale del Mediterraneo (2), ciò si spiega, come vedremo in seguito, colla maggiore anzianità di Marsiglia sulle altre colonie, ma non si ha 1’ esempio di attriti, o lotte avvenute fra i Focesi e le altre colonie greche, la cui espansione commerciale e morale anzi che impedita era da loro al possibile favorita. È quindi assai probabile che, come per altra ragione avevano fatto nell'Adriatico, cosi nel Tirreno, per non inceppare lo sviluppo e gli interessi delle città greche della Magna Grecia e della Sicilia, l’attività dei Focesi, dopo la loro fondazione, si svolgesse di preferenza a settentrione, cioè nel mare Ligu- (1) Cf. Castanier, 0. c., p. 17 e p. 137 segg. (2) Ciò risulta da un’ iscrizione trovata a Focea. Cf. CIG., 3413 ; Rei-nach, Bull. d. corr. héll., 1893, p. 37; Pais, st. della Sicilia e della Magna Grecia, I, p. 539. 230 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA stico. Se altre ragioni noi provassero, basterebbe solo questa, che prescelsero que’ luoghi per piantarvi poi la più fiorente loro colonia. Come infatti abbiamo notato per le spiagge venete, carniche ed istriane, anche alle liguri facevan capo le merci allora più ricercate, specialmente l’ambra, il cui commercio da’ Fenici ebbero in eredità i Focesi Veramente prove dirette di ciò non esistono, ma come sarebbe d’ altra parte possibile che un popolo riconosciuto dagli antichi come uno de’ più arditi nel navigare, qual’era il ligure, non abbia avuto rapporti, sia pur di pirateria, coi Focesi al loro primo apparire in quelle acque? La tendenza che i Focesi ebbero in seguito, di chiudere quasi in una corona di colonie il golfo ligure, ci dimostra il loro intento di serbarsene intiero il monopolio del commercio. La fondazione di Marsiglia segna uno de’ fatti più importanti nella storia de’ commerci liguri, sia perchè la colonia fu posta in territorio ligure, sia per l’influenza che essa esercitò anche sul traffico della Liguria italica. I proventi commerciali della quale devono esser stati di grande importanza, se, dopo cinquant’anni di peregrinazioni in tutto il bacino occidentale del Mediterraneo, i Focesi presero la determinazione di stabilirsi alla foce del Rodano. La fondazione di Marsiglia è posta comunemente dagli antichi (i) nel 6oo a. Cr., ed in generale vanno sotto questo riguardo d’ accordo anche gli storici moderni. Come molti anni prima (2) Coleo di Samo, spinto dalle correnti marine dalle foci del Nilo, lungo le coste della Libia, era stato benevolmente accolto a Tartesso (3), così i Focesi non trovarono ostilità sulle coste liguri, poiché racconta la leggenda riferita da Aristotele e da (1) Il primo scrittore che parli di Marsiglia è Ecateo, (FHGfr. 22 in St. B.) che la dice colonia de’ Focesi nella Ligustica. Timeo nello Pseudo Scimno Chio la dice fondata cento e vent’ anni prima della battaglia di Salamina. Va d’ accordo con lui anche Solino, 2, che pone la fondazione della colonia focese nel primo anno della 45a Olimpiade, data accettata anche da Eusebio, Chronic., 2, p. 124. (2) Non si può stabilire con tutta esattezza la data del viaggio di Coleo di Samo che Erodoto, 4, 152, facontemporanea colla fondazione di Cirene. Alcuni pongono la spedizione di Coleo nel 675 (cf. Raoul-Rochette, Hist. antique de I’ établissement des Colonies grequcs, I, p. 20) altri nel 655 (cf. Curtius, G. G., 1, p. 565). (3) Erodot., 4, 152. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 231 Giustino (i), che la gioventù focese condotta da Simos e Protis ebbe non solo amichevole ricetto da Nano, re de’ Segobrigi, ma Protis ottenne benanco in isposa Gyptis figlia del re. Senza dubbio è questa delle nozze di Protis una graziosa invenzione greca di tempi posteriori, ma essa, unita alla circostanza, riferita da un’ altra leggenda (2), che delle donne focesi solo Aristarche seguì, per volere d’Artemide, la spedizione, divenendo sacerdotessa della dea, sotto la cui protezione fu messa la colonia (3), ci prova almeno che i Greci non trovarono difficoltà nel fondersi, per mezzo di matrimoni, cogli indigeni Ifiguri, intrecciando alla gentilezza greca la robustezza ed energia ligure, dando così un nuovo e fiorente aspetto a quella regione. Poiché da Focesi appresero gl’ indigeni la pratica del viver civile, quella di coltivare i campi, onde d' allora in poi attesero a potar la vite e piantar l’olivo, e si radicò altresì l’uso di cingere le città di mura e regolarle con leggi Tanto gran lume, dice Giustino (4), fu, per la venuta de' Greci, accresciuto agli uomini e alle cose, che pareva non Grecia m Galliam emigrasse, sed Gallia in Graeciam. Sebbene l’azione commerciale dei Focesi continuasse, anche dopo la fondazione di Marsiglia, ad espandersi nel Mediterraneo, e si allacciassero attive relazioni fra la metallifera Tartesso (5), già sì cara ai Fenici, e Focea, non diminui percio 1 importanza di Marsiglia, che divenne anzi il centro della navigazione focese in Occidente. I suoi inizi furono bensì laboriosi, poiché, sebbene non incontrasse a tutta prima difficoltà da parte dei Liguri, i quali anzi avrebbero contribuito alla fondazione della colonia, quando questa prese in breve sviluppo, e stendeva le sue relazioni commerciali su tutte le coste vicine, e altresì nell interno della regione, sulla quale probabilmente voleva far pesare la sua egemonia, i Liguri, nel timore di perdere la loro indipendenza, si scossero, ed impresero una serie di rappresaglie e di guerricciuole colla nascente colonia, che sono adombrate sotto (1) In Ateneo, 13, 5. Il conduttore della colonia in Aristotele si richiama Eusseno e la giovane figlia di Nano è chiamata Petta, nome cambiato poi da Eusseno in quello di Aristossene. Da questo matrimonio sarebbe nato Protis, dal quale avrebbe avuto origine la dinastia dei Protiadi. A proposito di questa leggenda, ed al significato dei vari nomi cf. Cary, Dissertation sur la fondation de Marseille, p. 45, e Castanier, 0. c., 2, p. 219 segg. (2) 43, 3. — (3) Strab., 4, 1 p. 180. — (4) Strab., 1. c. (5) 43, 4- 232 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA la leggenda, riferita da Giustino (i), della spedizione di Cornano, re de’ Segobrigi, contro Marsiglia, guerre che presero in seguito maggiori proporzioni, di mano in mano che cresceva anche l’importanza della colonia (2). Essa finì però per trionfare e per rendersi temuta dominatrice su tutto il litorale vicino (3), dal quale tanti e sì grandi erano i frutti che ricavava, che Focea trovò utilità di piantare, nel 562 a. Cr., una nuova colonia, cioè Alalia (4), l’Aleria dei Romani (5), sulla costa orientale della Corsica. Questo fatto indica che, nello spazio di menò quarant’ anni, i Focesi erano divenuti i veri padroni del mar Tirreno, sul quale conservarono il dominio ancora per lo spazio di venticinque anni. Poiché racconta Erodoto (6) che, essendo caduta Focea in po- (1) Erodot., i, 163. Alcuni pongono i primi viaggi dei Focesi a Tartesso prima della fondazione di Marsiglia, cioè nel 629 (cf. Raoul-Rochette, o. c., 3, 406) o nel 630 (cf. Curtius, o. c„ 1, p. 565). Pare però più vicino al vero la data assegnata dal Grote (Hist. of Oreece, 4, p. 362) cioè il 59°· Poiché è ben vero che il favoloso Argantonio, dal quale sarebbero stati benevolmente accolti i Focesi al loro primo arrivo a Tartèsso, regnò, come dice Erodoto, ottant’ anni, ed era morto già quando cadde P'ocea in potere di Ciro (542), ma non è però detto che i Focesi arrivassero a Tartesso precisamente il primo anno di regno di Argantonio, il quale viveva ancora quando i Persiani cominciavano a minacciare la libertà della Ionia. Nulla poi autorizza a ritenere, come fa il Masson (De Massiliensium negotiationibus, p. 11 seg.), che Argantonio morisse nel 622. Del resto lo stesso Masson afferma (o. c p. 13, n. 1) esser difficile stabilire, se i Focesi visitassero Tartesso prima o dopo la fondazione di Marsiglia. Mi sembrano convincenti le ragioni proposte dal Castanier, o. c., 2, p. 143 segg., per dimostrare che Tartesso non deve esser stata visitata dai Focesi prima del 590, cioè dieci anni dopo la fondazione di Marsiglia. L’ attento esame del passo erodoteo conduce infatti a questa conclusione. (2) 43. 4· (3) Giust., 43, 5. Post haec magna illis (Massiliensibus) cum Liguribus, magna cum Gallis fuere bella: quae res et urbis gloriam auxit. Il nome di Cornano pare indichi una vittoria sui Sali Comani, che avrebbero riconosciuto il dominio di Marsiglia. (4,1 Giust., 1. c., virtutem Graecoritìti, multiplicata victoria, celebrem inter finitimos reddidit. (5) Erodoto, i, 163, pone la fondazione di Alalia, vent’anni prima della presa di Focea da parte dei Persiani. (6) Cf. Plin., 3, 12, 6; Flor., 2, 2. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 233 tere de' Persiani (542 a. Cr.), la città fu abbandonata da’ suoi abitanti, che con tutte le cose loro navigarono a Scio. Non avendo gli isolani voluto vendere le isole Enusse ai Focesi, di questi parte tornarono in patria, parte invece si recarono ad Alalia, dove stettero insieme cogli altri Focesi, che, vent’anni prima, aveano fondato la colonia, per lo spazio di cinque anni, arricchendo la città di nuovi templi. Ma di poi, facendo invasione ne’ vicini popoli con ostili maniere, contro di loro presero le armi i Tirreni ed i Cartaginesi, navigando con sessanta navi ciascuno. Anche i Focesi misero in mare sessanta navi, e nel mare Sardonio vennero a navale combattimento; ma con grave loro danno, poiché quaranta delle loro navi perirono, e 1’ altre venti furono rese inutili, perchè rimasero coi rostri spezzati; quanti Focesi caddero in poter de’ nemici furono lapidati. Perciò tornati i superstiti ad Alalia, imbarcati i figliuoli, le mogli e quanti poterono de’ loro averi, ripararono a Reggio, e di là usciti, fondarono la colonia di Gela nell’Enotria (1). Con questo fatto incomincia un nuovo periodo nella storia dei commerci nel mar Tirreno, nel quale l’azione di altri popoli recano un considerevole mutamento al precedente stato di cose. Prima però di procedere nello studio de’ vari eventi ivi operatisi, che possano aver diretto rapporto coll’argomento da noi preso ad esame, credo opportuno ricercare quali fossero i rapporti fra i Liguri d’Italia e i Massalioti, durante i sessantatre anni che questi, dopo la fondazione della colonia, tennero 1 indiscusso dominio sul mar Tirreno e specialmente sul mare Ligustico. Di una espansione coloniale di Marsiglia lungo le coste della Liguria italica non è il caso nemmeno di parlare. Ne primi decenni di vita la colonia dovea rivolgere tutte le sue energie nel sostenersi contro i Liguri vicini e nel rassodarsi all interno. I rapporti colla nuova regione erano così scarsi, che i monumenti stessi che domandavano il culto e la pietà dei maggiori, dei quali volevasi perpetuato il ricordo, recavansi direttamente dalla madre patria. Se la statua di Artemide massaliota (2), quella di (1) i, 156. (2) Erodot., i, 166 e 167; Antioco Sirac., in Strab., 6, 1, 1, e Pseudo Scimno Chio v. 250-252 in Grog!', graec. min., 1, p. 26-27. 234 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Afrodite (t), non che le numerose e pesanti edicole sepolcrali'(2)v ricordi della più arcaica arte focese, venivan imitate, o portate, con che difficoltà e perdita di tempo si può immaginare, direttamente da Focea, come denota la qualità della pietra, ciò indica che ancora ad essa erano di preferenza rivolti tutti gli affetti, tutte le aspirazioni, e che la colonia non possedeva ancora tanta vitalità artistica ed industriale da bastare a sè stessa. Non è però a dubitare che fin da quell’epoca vi fossero stati rapporti commerciali colla Liguria. È ben vero che questa regione erasi fin all’epoca romana conservata in uno stato di semplicità primitiva, da far ritenere che non fosse molto accessibile alle raffinate industrie greche. Ma le asserzioni degli scrittori romani, che decantano la pertinace barbarie de' Liguri, vanno intese con una certa moderazione, poiché, come vedremo più innanzi, esse vengono in parte smentite dalle recenti scoperte archeologiche. È certo che ivi gli abitatori della campagna continuarono per lungo tempo a vivere in grotte e capanne, conservando usi semiselvaggi, ma egli è pur da ritenersi, che ne’ maggiori centri ab'tati, che devono aver subito l’influenza delle altre regioni italiche più avanzate in civiltà, fosse stato accolto il mer-cadante greco, come prima aveavi messo piede quello fenicio. E l’ambra dovea continuare ad essere il principale articolo di esportazione. Abbiamo già altrove osservato, che alcuni scrittori antichi ritenevano eh’essa fosse indigena della Liguria, dove portava il nome speciale di lincurio o ligurio (λυγκούριον, λιγγού-ριον, λι,γκοΰριον, λαγγοϋριον^ (3), nome, il cui vero significato era già (1) Fu trovata a Marsiglia nel 1838 e figura nel Museo Calvet d’Avignone. È copia romana di un tipo arcaico. Cf. lievite archéologique, 3a série, t. Vili ; Castanier, 0. c., 2, p. 232 segg. Par tuttavia che il primo originale fosse stato direttamente portato da Focea. (2) Fu trovata nel sec. XVIII a Marsiglia nella rue des Consuls e ritiensi di vera produzione focese del secolo sesto. Ora conservasi nel museo di Lione. Cf. Hipp. Bazin, L’Aphrodite marseillaise du musée de Lyon. (3) Di queste edicole, ritenute dal Bargés e da altri sostenitori deH’origine semitica di Marsiglia, come opera fenicia, abbiamo fatto breve menzione nel capitolo precedente. Esse sono quarant’ una e furono trovate a Marsiglia nel 1863. Γre 11 tanove di esse presentano uomini o donne sedute, una rappresenta una figura femminile in bassorilievo, ed un’ altra, la più grande, un personaggio colle braccia levatt: al cielo. Esse nono simili a scolture trovate GIORNALE STORICO e LETTERARIO UKLLA LIGURIA 235 ignoto agli antichi, che polemizzavano sulla sua provenienza, mentre Plinio (i) dubitava perfino della esistenza di tale sostanza in Liguria, dove dice non essergli mai stato dato di vederne nemmeno una gemma. Sebbene non si possa escludere, che qualche piccolo deposito siasi ivi ritrovato di ambra fossile (2), ed altri ancora se ne possano rinvenire, difficilmente essa sarà in tale quantità da doverla ritenere in que’ tempi la fonte donde attingevano tutti i popoli del Mediterraneo, nè del colore e qualità, che erano ricercate dagli antichi, tanto più che Diodoro afferma non trovarsi essa che nelle regioni settentrionali. Per cui è molto più probabile, come asserimmo già, che questo prezioso prodotto affluisse in Liguria, come ad uno de’ più accessibili punti d’imbarco, venendovi importato dal settentrione per le vie che già in tempi remoti attraversavano le Alpi. Il Genthe (3) osserva a Cuma, in Sicilia, a Samo ed in altri luoghi abitati da Greci. (Cf. Bulletin de correspondance hellénique, t. VI, 13e année, 1889, p. 545*54^-e P· 5S°"55I) ed offrono i caratteri dell’arte arcaica greca (cf. Heuzey, Catalogne des figurines antiques du Musée du Louvre, p. 239"240)· Alcuni le ritengono rappresentazioni di idoli (cf. Heuzey, 0. c., p. 239 e CIS., p. 208) altri monumenti funerari e rappresentazioni di defunti (cf. Clermont-Ganneau, Revue critique, 1879, t. II, p. 148). La pietra non appartiene alle cave provenzali, ma bensì corrisponde a pietre de’ monti che circondavano Focea (cf. Castanier, 0. c., 2, p. 170 segg.), come di tale pietra sono alcuni monumenti di Cuma (cf. Reinach, Bulletin de correspondence hellénique, 1889, p. 545-548). (1) Teofrasto, de lapid., 72 (Plin., 37, 33) dice che era trovata in Liguria. Sudines e Metrodoro (lo Scepsio o il Lampraceno?) dicono che ricavavasi da un albero che i Liguri chiamano λύγ§ (Plin., 37» 34)· Altri fanno derivare λυγκούριον da λύγξ ed oùpov (Plin., 1. c.). Tale nome rimase presso i Greci fino all’ epoca di Strabone, e il poeta Zenotemi, m Tzetz. Chil., 7, 684 riferisce che il λαγγούριον derivain Italia da animali, che vivevano presso il Po e chiamavansi λάγγοα (cf. Plin., 37, 2, 11): Noto a puro titolo di curiosità, la corrispondenza di questo nome con quello delle Langhe, regione montuosa in antico territorio ligure, e del castello Langasco nelle vicinanze di Genova, ed i Langenses della tavola della Polcevera. (2) 37, 3, 13, de lyncurioproxime dici cogit auctorum pertinacia ed in seguito ergo falsum id totum arbitror nec visam in aevo nostro gemmam ullam ea appellatione. (3) Il ZannONI, Reale galleria di Firenze, s. IV, voi. 2, p. 210, fa-ferma essersene trovato e C. A. Napione, memoria sul lincurio, lo ritiene prodotto indigeno. 236 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA che la parola lincurio, il cui significato primitivo era ignoto a’ Greci e a’ Romani, può derivare dalla corruzione della parola λιγούρ'.κον (δάκρυ) il che varrebbe a significare che non da’ Greci, che piuttosto λιγοστικόν l'avrebbero appellato, ma dagli Etruschi sia stato portato in Grecia. La corruzione della parola in λιγγοόριον sarebbe derivato in causa delle interruzioni e difficoltà d’ogni genere, che dovea subire, in questi viaggi commerciali, il transito della merce che, passando da un paese all’altro, finiva per avere il suo nome quasi irriconoscibile. Io ritengo non improbabile, che il nome esistesse già in tal forma corrotta in questo primo periodo del commercio focese. Forse in origine tale prodotto, veniva direttamente portato in lontane regicni, dov’era ricercato di preferenza, dagli stessi Liguri sulle loro agili scialuppe, e da ciò avrebbe ricevuto il nome di λ’.γύρ'.ον (ηλεκτρον), oppure veniva portato da’ Fenici sulle coste della Grecia, conservandogli il nome della sua origine, che, in bocca straniera, potè venire così sconciamente ridotto a forma greca (lÿ. I Focesi quindi avrebbero continuato a conservare quel nome, oramai divenuto tenico, e del quale era scomparso il primitivo significato. In cambio dell’ ambra, del legname per costruire navi, della pece per spalmarle, dell’acero, delle pelli, del miele, anche i Focesi, come già i Fenici, avranno introdotto in Liguria oggetti d'ornamento, e più probabilmente oggetti di prima necessità, come tuniche di lana, ed armature. Nola infatti Strabone, che dalla foggia delle armi, e specialmente degli scudi di bronzo di forma greca, alcuni degli antichi ritenevano che i Liguri fossero Greci d'origine (2), il che significa, che già per tempo attivissimi devono essere stati i commerci coi Focesi, che valsero a dare quasi un’impronta greca alla regione. Ma a facilitare il commercio, prima esercitato per mezzo di scambi, oltre modo valse l’uso della moneta, e spetta precisamente a’ Massalioti il merito di averla introdotta nelle loro relazioni commerciali nel bacino del mare Ligustico e del Tirreno in genere. Dopo Argo, o dopo la Lidia che prime adottarono le (1) O. c., p. 102 segg. 2 ' Di tali stranissime trasformazioni anche odierne di nomi di prodotti stranieri, entrati nella vita abituale di un altro popolo, potrei citare numerosissimi esempi. Ma ciò è tanto nolo che credo di potermene esonerare. giornale storico E LETTERARIO DELLA LIGURIA 237 monete (i), Focea fu una delle prime città a far uso (2) di monete d’oro e di monete divisionarie d’oro e d’argento. Di queste fecero uso anche i Massalioti, al principio del secolo sesto, pe loro commerci coi vicini Liguri Ì3). Ma non passarono molti decenni, dopo la fondazione di Marsiglia, che essa coniò monete sue speciali (4), le quali del resto hanno già una considerevole diffusione, nella seconda metà del secolo sesto, non solo nella Liguria, ma altresì in tutta l’Italia settentrionale, dove monete massaliote furono trovate in depositi mortuari dell’ età del ferro, e dove, ne’ secoli seguenti, divennero, per lunga pratica, sempre più diffuse, tanto che eran quelle che di preferenza circolavano ne’ mercati, onde i Salassi, i Reti ed altri popoli alpini coniarono le loro monete a somiglianza di quelle di Marsiglia (5) e i Romani, divenuti padroni della pianura padana, furono costretti a pareg- ^ giare il trioboluti massaliota al victariattis, introducendolo nel loro sistema monetario (6). Però dopo la sconfitta toccata ai focesi di Alalia anche il commercio massaliota subì un temporaneo ristagno, eh’ ebbe per conseguenza il diffondersi d’ altra civiltà lungo le coste del mar Tirreno e della Liguria. I Cartaginesi, raffermatisi su tutta la costa settentrionale del-l’Affrica, ebbero ben tosto ridesto l’antico spirito navigatore della loro razza, e come Marsiglia era divenuta in Occidente 1 erede dell’attività di Focea, così Cartagine approntavasi a divenir la degna erede di Tiro (7j, e annidatasi da prima in Sicilia, _ Jk.· e. :'■>■>.!. a 'n(*Ì_4, 6, 2, p. 180. (2 Erodot., i, 94, ascrive ai Lidi il merito di aver primi adottato monete sonanti. {3) Cf. Brandis, Münz - Maas - und - Gerxichtswesen VortUrasiens, P- x73 seg»· LEXORMAST, La monnaie dans Γantiquité, I, p. 125 segg. •i'4 ' Nel 1867 fu trovato ad Auriol presso Marsiglia un copioso deposito di monete, la più gran parte delle quali sono d’ origine dell’Asia Minore. Cf. L. BlaxcaRD et M. LaUGIER, Iconographie des monnaies du trésor d’Auriol ed E. HuCHER, Mélanges da Xumümatique, I, 1874-187 Quanto alle varie monete greche trovate in territorio ligure ed al loro tipo cf. Cast AN 1ER, 2, o. c., p. 50 segg. LaüGIER. Les monnaies massalwUs e ΜίΟΧΛΈΤ, ΠΙ, p. I.'6 ■ Suppi., VI. p. 285 segg. 5 II Castaxier, 0. c., 2, p. ;8, ritiene che già verso l’anno 560 Marsiglia avesse monete proprie, delle quali trova traccia nel tesoretto d'Auriol. (6) Cf. Oberzixer, I Reti, p. 227 segg. i-j Cf. Mommsex, R.G., i, p. 846. 238 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA estende poi la sua operosità commerciale su tutte le coste occidentali d’Italia, dove al periodo, nel quale si manifestano i prodotti industriali greci, succede un secondo periodo di carattere fenicio, e più spiccatamente cartaginese (1). A questo appartengono gli oggetti usciti dalle tombe del gruppo Regulini-Galassi presso Cere (2), dalla grotta dell’ Iside presso Vulsci (3), dalla tomba prenestina degli scavi Bernardini (4), da tombe di Vei (5), di Chiusi (6) e di Corneto (7), insomma tutti i ricchi manufatti d’oro e d’argento usciti da tombe di quest’età, che, mentre non hanno affinità coll’arte greca, mostrano invece una certa connessione coll’ arte orientale ed egizia, e che risalgono precisamente al secolo sesto, e più particolarmente alla prima metà del medesimo. I risultati archeologici s’ accordano infatti mirabilmente colle notizie storiche, dalle quali appare chiaramente questo graduale estendersi de’ rapporti commerciali dei Cartaginesi lungo le coste italiche del Tirreno, con pregiudizio e diminuzione del-l’orbita commerciale focese. L’invadenza del mercante greco era divenuta sì dannosa agli interessi de’ Fenici occidentali, che questi trovarono la necessità d’unirsi in lega cogli Etruschi per abbatterne il dominio. Infatti Etruschi e Cartaginesi troviamo uniti, nel 537 a. Cr., a’ danni di Alalia, che fu da questi completamente distrutta, fatto nel quale denotarono non minore accanimento i Tirreni de’ loro alleati, imperocché ci afferma Erodoto, che gli Agillesi, non contenti della vittoria, fecero anche de’ prigioni aspra vendetta, poiché, trattili nel loro territorio, tutti li lapidarono, lasciandone i cadaveri a pasto degli uccelli. Il che (1) VeLLEIO, 2, I 5 ; Id maiores cum viderent tanto potentiorem Tyro Carthaginem, Massiliam Phocaea, Syracusas Corintho, Cyzicum ac Bysan-tium Mileto, genitali solo, diligenter vitaverunt, ut civis Romanos ad censendum ea provinciis in Italiam revocaverint. (2) Cf. Helbig, das homerische Epos, p. 67 e Undset, l’ant. necr. tar-quiniese. p. 89. (3) Cf. GRIFI, Monumenti di Cere antica. (4) Cf. Micali, Monum. ined., tav. IV e V, 1-2 ; 6-8. (5) Fra gli oggetti degli scavi Bernardini in Preneste è notevole una tazza con iscrizione fenicia con particolarità cartaginesi. Cf. Helbig, Annali dcl- l Inst., 1876, p. 197-257 I Renan, Gazette archéologique, 1877, p. 18. (6) Cf. Garrucci e Wylie, On the discovery of sepulchral retnains at Veii and Praeneste, nell’Archeologia, 41, I, p. 187-206. (7) Cf. Undset, o. c., p. 27. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA / ha dubbio che Diodoro confuse Κάλαρις cou Alalia. ÏSj'iCf. IACOBI, Hist. de la Corse, t. I, p. 9 e Perrot e Chipiez, Hist. de I’ art dans l’ antiquité, t. Ili, p. 186. Ma forse questi monumenti si riferiscono ad epoca posteriore, quando cioè dal dominio degl. Etruschi la Corsica passò sotto quello dei Cartaginesi ; se pure anche questo fu un vero dominio anziché una supremazia commerciale. Cf. MOMMSEN, R.G., 1, p. 412· ’Ç) - Q.VÙ- t ’ e 24O GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA degli uni, nè degli altri, poiché espressamente Erodoto, parlando del numero delle navi, dice quante furono allestite da Alalia, quante dagli oppositori, senza far parola di altri alleati. Ancora più è da meravigliarsi che al combattimento stesso non abbiano preso parte i Massalioti, in favore de’ loro connazionali, tanto più, che ben era evidente che la rovina di questi non dovea lasciar indifferente Marsiglia che avrebbe per essa perduto il suo primato commerciale nel mar Tirreno. Non è d’altra parte ammissibile che e Liguri e Massalioti siano rimasti, senza ragioni essenzialissime, inerti spettatori d’un avvenimento, che passa come la più antica e imponente battaglia navale combattutasi in quelle acque, e che ebbe una concatenazione cogli eventi di tutto il Mediterraneo anche orientale (1). Quanto a’ Massalioti c’è chi crede (2) che avessero peso parte, in favore de’ loro Connazionali d’Alalia, al combattimento navale del 537 e che, in seguito a quella sconfitta, che Erodoto (3) chiama vittoria cadmea, subissero le medesime sorti de’ loro alleati nella sventura, che con loro si fossero recati a Reggio ed avessero poi contribuito alla fondazione di Gela. Marsiglia sarebbe stata occupata dai Cartaginesi, i quali vi avrebbero anzi tutto fabbricato il tempio a Baal, al quale, e a questo tempo, apparterebbe la lunga iscrizione fenicia, contenente le tariffe pe’ sacrifici al dio (4), iscrizione trovata a Marsiglia nel 1845. I Massalioti, prima d’abbandonare la città avrebbero avuto Γ avvertenza di nascondere accuratamente sotterra le statue de’ loro dei e le edicole sepolcrali de loro antenati, che aveano portato dalla madre patria. Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che queste furono trovate nel 1863 tutte allineate, colla faccia scolpita rivolta verso il suolo. I Cartaginesi, rimasti i veri padroni del mare Ligustico e di Marsiglia stessa, avrebbero esplicata la loro attività in piantare scali, e nel rinnovare quelli già fondati da' loro antenati di Tiro: una nuova era di prosperità si sarebbe preparata, e Pyrene, Ruscino, Narba, Heraclea Caccabaria, e a tutte le altre stazioni fenicie, che aobiamo ricordato nel precedente capitolo, fino a Monoecus (5). Tale stato di cose avrebbe durato per lo spazio (i) Polib., 3, 22. — (2) Cf. Mommsen, o. c., i, p. 412. (3) Castanier, o. c., 2, p. 86 segg. e p. 247 segg. — (4) 1, 167. 15) C/S., p. 218. È ascritta al 50 sec. a. Cr. "\ ' 1 ì GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 24I di circa sessant’ anni, cioè sino al principio delle sciagure dei Cartaginesi in Sicilia, per le quali i Focesi sarebbero stati messi in grado di tornare in patria, e di riacquistare il perduto dominio sul mare Ligustico. Non si può negare che questo ragionamento sia molto ingegnoso, e che se tutto quanto vi è asserito fosse realmente vero, porterebbe un nuovo ed importante incremento anche al soggetto da noi preso in esame ; poiché se fosse provata la conquista e l’insediamento dei Cartaginesi sulle coste liguri, ciò non sarebbe tornato indifferente allo svolgersi de’ commerci liguri, ai quali sarebbe anzi stato dato un avviamento caratteristico o tutto nuovo. Io credo però che un sì radicale mutamento nelle condizioni storiche delle coste ligustiche, in questo periodo del predominio cartaginese sul Tirreno, non si possa menomamente ammettere. Nessuna prova concreta abbiamo, che ci dimostri che anche le navi di Marsiglia abbiano preso parte al combattimento del 537 e che, in seguito alla sconfitta, la citta sia stata abbandonata dai Focesi. La narrazione di Erodoto è troppo organica per ammettere, come fa il Castanier, che in essa vi sia una lacuna. Se la potente armata navale de’ Massalioti, che, come si sa, tenevano allora il dominio sul Tirreno, si fosse unita a quella di Alalia, non poteva esistere tanta disparità di numero fra le navi delle due parti e lo storico d’Alicarnasso non avrebbe potuto chiamare una vittoria cadmea quella di Alalia, nè avrebbe trascurato di parlare della disgrazia di Marsiglia di tanto più importante di Alalia. Disgrazia che non si può nemmeno dedurre dalle attestazioni confuse, od errate, di Antioco Siracusano (1) e dello Pseudo Scimno di Chio (2), dalle quali non risulta con chia- £*) Il Castanier, 0. c., 1, p. 241 e 2, p. 101, come già il Bargés, 0, c., p. 152, il Lenormant, Hist. ancienne de V Orient, t. VI, 1. IO, fa distinzione fra il Portus Herculis, che chiama portus Melkartis e Portus Herculis Monoeci. Il primo corrisponderebbe alla rada di Villafranca, il secondo a Monaco. Ma ho già osservato che questa distinzione deriva da un errore di Tolomeo, o forse de’ suoi amanuensi, mentre non si tratta che di un solo luogo, cioè Monaco. Altro nome era dato alla rada di Villafranca \cf. Ober-ziner, Le guerre di Aug., p. 120 seg.). (2) In Strab., 6, 11. Egli afferma che essendo stata presa Focea da Arpago, luogotenente^di Ciro, quelli che poterono montarono, colle cose loro, Gioiti. St. e Lett. della l iguria (al - c), ·; ' - v, ;0) V ><**]' ■' . 242 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA rezza che fra i fuggitivi vi fossero anche i Massalioti, e che quindi anch’essi avessero contribuito alla fondazione di Gela. Non tornano a maggior conforto di questa opinione i monumenti, poiché se fossero stati sotterrati per sottrarli alla profanazione dei nemici, i Focesi, al loro ritorno in patria, li avrebbero rimessi alla luce, poiché non era passato tanto tempo che i vecchi non ricordassero ancora il provvedimento preso prima della partenza, specialmente i sacerdoti, che di ciò avrebbero dovuto tener continua memoria. L’esser essi stati rinvenuti così allineati, colla faccia lavorata rivolta al suolo, indicherebbe piuttosto che essi avrebbero servito di. materiale da costruzione, che può aver servito di fondamento a qualche edificio medievale. Poiché del resto come mai a gente sconfitta ed inseguita, e che avrebbe anzitutto cercato di salvare gli averi e le famiglie, sarebbe rimasto tanto tempo da compire, con tale ordine ed accuratezza, un’operazione così difficile e lunga? Non sono più convincenti gli argomenti proposti per dimostrare il ritorno dei Focesi a Marsiglia (i), verso il 480 a. Cr., epoca, nella quale incomincia la decadenza dei Cartaginesi. Abbiamo già osservato che il passo più importante, chiamato in aiuto per dimostrare ciò, quello cioè di Tucidide (2), non prova nulla in favore di questa supposta seconda fondazione di Mar-siglia, poiché egli asserisce soltanto che t Focesi di Marsiglia vinsero 2 Cartaginesi in battaglia navale. Ora questa battaglia navale non può essere la vittoria cadmea, che sarebbe stata causa della loro rovina, e non sarebbe quindi menzionata come una vittoria riportata sui Cartaginesi. Non si può nemmeno pen- sulle navi, navigarono da prima verso Corsica e Marsiglia, sotto Creontiade e di lì respinti fondarono Elea o Gela. Come si vede in questo breve passo sono concentrati e confusi fatti diversi, ed avvenuti in epoche diverse, perciò non si può dedurne alcuna seria conclusione. Forse giustamente il Cary (Dissertation sur la fondation de Marseille, p. 27 seg.) pensa che il passo sia corrotto e che m luogo di Marsiglia debbasi leggere Alalia. (I) In Geographi Graeci min. (Ed. Didot) 1, p. 26-27, ▼· 250-252. Peggior confusione è questa della Pseudo Scimno di Chio che chiama Elea ittà dei Massalioti Focesi, che fondarono 1 Focesi fuggenti il giogo per-. Del resto anche se fra i fuggiaschi vi fosse stato qualche Massaliota, non risulta perciò che Marsiglia abbia subito la stessa sorte di Alalia. CaSTANIER, o. 2, p. 256 segg_ GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 243 sare ai Focesi di Gela, poiché, se essi fossero stati i vincitori, la battaglia non sarebbe avvenuta a Marsiglia, come risulta da Tucidide, ma nell’Italia meridionale. E come sarebbe ammissibile che i Focesi intenti a rifabbricare la loro patria distrutta, riportassero vittorie sui Cartaginesi, che ne erano divenuti padroni? Ad ogni modo queste avrebbero dovuto conseguirle prima. In ultimo un’importantissima circostanza di tempo toglie qualsiasi valore a tale supposizione. Ho già osservato altrove che Tucidide parla di questa potenza dei Focesi e degli Ioni in genere, al tempo di Ciro e di Cambise e specialmente di quest’ultimo (529-522), durante il regno del quale avvenne la vittoria dei Massalioti sui Cartaginesi. Non si può quindi riferirla al presunto momento, nel quale i Massalioti sarebbero tornati in patria e avrebbero ricostruito la città, cioè fra il 480 e il 475 a. Cr. Non differentemente si può interpretare il passo di Pausania (1), dove in sostanza altro non si asserisce, che i Focesi di Marsiglia, divenuti per mare superiori ai Cartaginesi, colonizzarono la regione da loro occupata, e conseguirono grande prosperità. Vedremo infatti che, solo dopo le lotte sostenute dai Massalioti contro i Cartaginesi, furono fondate le varie colonie lungo la costa ligustica. Per la stessa ragione non si possono ritenere come un accenno al ritorno de’ Greci a Marsiglia, e ad una seconda fondazione della città, i passi d'Isocrate (2), d’Arpocratione (3), di Dionisio Periergete (4), di Timagene (5), d’Igino (6), benché in forma confusa, e commettendo anacronismi del resto spiegabili se si tien conto del modo succinto, col quale si occuparono (1) i, 13, Φωκαεΐς1 τε Μασσαλίαν οίκίζοντες Καρχηδονίους· ένίκων ναυ-μαχοΰντες. Abbiamo già osservatoche Γ οίκίζοντες ha qui significato di οίκοΟντες. (2) ίο, 8, 4. (3) P. 85 dell’ ediz. Didot. Egli dice solo che i Focesi, fuggendo il giogo del gran re, abbandonarono l’Asia e si recarono a Marsiglia. (4) Ediz. di Bekker, t. VI, p. 176 seg. Egli commentando il passo di Isocrate, osserva, che già prima di quel tempo Marsiglia era stata fondata dai Focesi come prova Aristotele έν τη Μασσαλιωτών πολιτεί^. Che la parola άπώκησαν indichi un cambiamento di sede non basta per ritenere che questo sia avvenuto trasferendosi da Marsiglia a Gela, anzi che da Focea a Marsiglia, come fa ritenere chiaramente il testo. (5) i, p. 4-5 v. 75-77· — (6) In Amm. Marc., 10, 5. 244 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA della cosa, non asseriscono di veramente sicuro, se non che quello che da Strabone (i) e da Pomponio Mela (2) e da tanti altri è affermato, cioè che Marsiglia ebbe origine dai Focesi. Oltre tutto ciò non si comprenderebbe come i Massalioti, dopo aver goduto 1’ ospitalità di que’ di Reggio, ed aver in seguito abitato nuove colonie nell’Italia meridionale, che fiorivano per arti, lettere, commerci, ed erano invidiabili per la splendida vita e socievole eh’ ivi conducevasi, sentissero dopo sessan-t’anni, ne’quali avrebbero messo in oblio fin i più sacri ricordi della loro religione, nascosti nelle viscere della terra, la necessità di tornare a Marsiglia, ancora occupata dai Cartaginesi, mentre agli abitatori di Alalia non sarebbe suggerito il medesimo desiderio di ricostruire le patrie mura. Con tutto questo io non intendo affatto negare che il combattimento d’Alalia, che segna la vittoria cartaginese sui Greci, restasse senza riflesso nelle acque del mare Ligustico, e che le conseguenze di quel fatto non si risentissero anche dai Liguri e dai Massalioti. Abbiamo già notato che fra questi e quelli non era stato mai buon sangue, e che anzi i Greci aveano dovuto guadagnarsi il dominio sul territorio, dove aveano piantato la colonia, al prezzo di continui combattimenti coi Liguri. Nulla quindi di più probabile che, anche in quest’ occasione, i Liguri, come gli Etruschi facessero parte della alleanza stretta coi Cartaginesi, e mentre Etruschi e Cartaginesi combattevano contro Alalia, Cartaginesi e Liguri fossero occupati nel tenere a bada e nell’osteggiare Marsiglia, con che si spiega come essa non potesse correre in aiuto dei suoi compatrioti d’Alalia. Questo apparisce da Giustino (3), che, dopo un primo periodo di lotte coi Liguri vicini, fa cenno di un secondo periodo di grandi guerre sostenute da Marsiglia contro i Liguri ed i Cartaginesi, i quali, se non riuscirono a distruggere la rivale, il che sarebbe alla fine tornato dannoso ai loro stessi interessi commerciali, ne soffocarono bensì l’espansione. Se Marsiglia, con vero prodigio di valore, riuscì a mantenersi gloriosamente contro i nemici, e sono queste le vittorie delle quali parlano Tucidide e Giustino (4), (1) In Aulo Gellio, Noci, att., 10, 16. — (2) 4, 1, 4, p. 180. (3) 2, 5· (4) 43> 5· P°st haec magna illis cum Liguribus magna cum Gallis fuere bella. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 245 dovette però permettere che essi dividessero con lei i vantaggi commerciali, che avessero scalo su quelle rive, ed occupassero fors’anco un quartiere della stessa città, dove i Cartaginesi eressero un tempio a Baal, come denota l’iscrizione di cui più volte abbiamo fatto parola (i). Non v’ha dubbio infatti che in Provenza e in Liguria i Cartaginesi reclutarono anche milizie per sostenersi contro i loro nemici di Sicilia, come appare da Erodoto (2), che fra quelli che combatterono contro Gelone tiranno di Siracusa, sotto la condotta di Amilcare, figlio d’Annone re di Cartagine, pone Fenici, Libi, Iberi, Liguri, Elisici, Sardi e Corsi, formando un esercito di trecento mila uomini, il che indica esser divenuta grandissima l’influenza fenicia in tutto il bacino occidentale del Mediterraneo. Ma fu anche questo l’ultimo anelito di questo primo periodo di predominio cartaginese, poiché il giorno stesso che i Greci vinsero i Persiani a Salamina (3), Gelone pose in fuga l’esercito Cartaginese, e d’Amilcare non s’ebbe più alcuna notizia, sia eh’ egli rimanesse sul campo di battaglia, sia, come s’ era sparsa la voce, che, dopo che sacrificò e libò, abbruciando le vittime intiere in una pira grandissima, visti i suoi volti in fuga, siasi, gettato nelle fiamme (4). Quest’ è certo che i disastri subiti dai Cartaginesi in Sardegna e in Sicilia mutarono nuovamente le condizioni commerciali del mare Ligustico. Uno de’maggiori proventi era dato ivi dalla pesca; perciò fra Massalioti e Cartaginesi molte contese erano sorte, cattu- (1) GlUST., 43, 5, virtutem Graecorum, multiplicata victoria, celebrem inter finitimos reddidit. Con lui si accorda anche Tucidide, I, 13, che fa cenno di una vittoria riportata dai Marsigliesi sui Cartaginesi durante il regno di Cambise. (2) La pietra in cui è incisa 1’ iscrizione non appartiene alle cave liguri o provenzali, ma bensì alle cartaginesi (cf. Masson, 0. c., p. 5), onde non potendosi in alcun modo ammettere, che vi fosse stata portata dai Massalioti stessi, come trofeo di vittoria riportata contro Cartagine, non constando che ciò sia mai avvenuto, convien ritenere, che ve la recassero i Cartaginesi stessi in questo periodo del loro predominio, forse perchè non trovarono a Marsiglia un artista abbastanza esperto della lingua e scrittura cartaginese da cui farla eseguire. Essa è infatti una delle iscrizioni fenicie più lunghe che si conoscano. Cf. C/S., p. 218. (3) 7, 165, i- (4) Erodot., 1. c. ; altri pongono il fatto il giorno del combattimento alle Termopoli. 246 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA randosi vicendevolmente le barche peschereccie. Queste rappresaglie aveano dato luogo ad una serie di guerricciuole, che finirono con altrettante paci (1). La rotta toccata ai Cartaginesi in Sicilia finì per prostrare completamente la loro baldanza anche nel mar Ligure, del quale, forse dopo una più decisiva battaglia, forse perchè non più sicuri in que’ luoghi, li abbandonassero spontaneamente, divennero di nuovo dominatori commerciali i Focesi. Insieme con questo cambiamento d’egemonia subentrò anche un nuovo periodo di predominio greco nell! arte. 1 vasi attici dipinti si riscontrano nelle necropoli dell’Etruria, del Lazio, dell Italia centrale in genere e della Venezia, ed insieme con essi tutti i prodotti dell’industria greca. Di pari passo con questa nuova vitalità artistica, diffusasi in tutta la penisola, va pure sviluppandosi un arte nazionale, specialmente l’etrusca, che, mentre per impulso tradizionale, anche ne’ prodotti nazionali, come ne vasi di bucchero, conserva ancor sempre caratteri orientalizzanti, che pure appaiono ne’ lavori d’avorio e nelle stesse foggie del vestiario (2), pur tutto assume un’ impronta speciale e nuova, un’impronta tutta italica, che fa in sè rivivere tutta 1 attività intellettuale de’ secoli passati, ed è il crogiuolo delle varie civiltà, che fino allora s’erano 1’una all’altra sovrapposte. Per ciò che riguarda la Liguria, sotto l’aspetto della civiltà, si trovava quindi in favorevole condizione, poiché, mentre da mezzodì ed oriente s avanzavano i prodotti della civiltà etrusca, che rappresentava la fusione dell’ arte tiria, micenea, greca e cartaginese, da occidente progredivano i prodotti più puramente greci dei Focesi di Marsiglia. Gli uni appaiono di preferenza nelle tombe liguri di Ameglia (3) e di Savignone (4), gli altri nella necropoli trovata a Genova nella costruzione dell’ attuale via Venti Settembre igià via Giulia) (5). Le due prime infatti, insieme con fittili a dentelli di carattere ligure, ci presentano un materiale abbastanza copioso di carattere etrusco ; ma mentre tutte 1’ altre tombe della parte orientale della Liguria, anche dell’ epoca ro- Ί) Erodot., 7, 167. — (2) Giust., 43, 5. (3) Cf. Helbig, das homerische Epos, c. 3. (4 Cf. F. Podestà, di un monile d’oro scoperto in una tomba di Amelia in provincia d, Genova (Giorn. ligust. di arch. st. e lett., 14, 1887, p. 293 segg. (5) Cf. Ghirardini, di un arcaico sepolcreto ligure scoperto nel territorio d, Genova (Rendic. della R. Accademia dei Lincei. Seduta /5 aprile ,894). GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 247 mana, ci dimostrano che i Liguri mantennero l’antico rito funebre dei loro antenati di Bismantova, di Velleia, di Golasecca; ad Ameglia invece riscontriamo predominante l’influenza etrusca. Lo stesso dicasi del sepolcreto di Savignone, dove specialmente la fibula del tipo Certosa è chiara prova di quanto asseriamo. Più importante per la storia dei rapporti commerciali dei Liguri con altri popoli è la necropoli genovese. Le tombe, che sorpassano la ventina, hanno forma di pozzi scavati in un banco di marna pliocenica, alla profondità di circa m. 3.45 sotto il piano della via. Esse sono singolari per il materiale funebre racchiusovi, che consiste in fittili di arte attica a figure nere su fondo rosso. Fra questi va notato un cratere a colonnette, sul quale è rappresentato Apollo, che suona la lira, Latona, che gli offre una corona, Hermes e Artemide con a lato la cerva. Per i confronti fatti con simili vasi della Campania si ritiene che esso sia di fabbrica ateniese. Oltre questo vaso molti altri simili uscirono dalla necropoli, la quale è ricca di prodotti dell’industria greca, e, risalendo il sepolcreto, come risulta dall’ attento studio del materiale contenuto, alla metà del secolo quinto, esso forma una prova palmare dell’ attività de’ commerci fra Liguri e Greci in quell’età. Genova dovea fin d’allora essere il punto centrale della Liguria, ed ivi naturalmente più che altrove doveano affluire le merci greche, importatevi, per la via di mare, probabilmente dai Massalioti. Insieme con esse si trovano anche oggetti di pura arte etrusca, come la fibula del tipo della Certosa, e 1’ elmo eneo, così che appare che in quella piazza doveano incontrarsi i prodotti delle due fiorenti civiltà. Non esistendo ancora la via Postumia, anche gli Etruschi doveano comunicare di preferenza con Genova per mare. Per questi contatti con gente straniera, e forse per lo stabilirsi nel seno della Liguria di famiglie di mercadanti, si trova ivi in alcune necropoli, com’ è precisamente il caso di quella or ora accennata di Genova, sostituito all’ avito uso del-l’inumazione quello dell’ incinerazione. Cambiamento che fra gente sì tenace delle proprie istituzioni, come si dimostrò sempre fino a tarda epoca romana (1), vale di prova sicura che (1) Cf. D’Andrade, tombe a pozzo con -vasi dipinti appartenenti ad un sepolcreto romano della necropoli deir antica Genua (Notizie degli scavi, 1898, p. 395-402 ; Ghirardixi, di un sepolcreto primitivo scoperto a Genova (Rendic. della R. Acc. dei Lincei. Seduta 19 marzo 1899). 248 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 1 attività commerciale e le relazioni coi vicini popoli greci ed etruschi devono esser state grandissime (1). Qualcuno ritenne perfino che la colonizzazione greca si diffondesse su tutta la Liguria e che Genova stessa, portasse allora nome greco (2) che alcuni, basati su di un passo oscuro dello Pseudo Scilace (3), ritengono fosse Άντίον, altri invece, fondandosi su di un controverso passo di Artemidoro in Stefano Bizantino (4), che fosse Ιταλία, ed altri infine, sulla fede d’un corrotto (1) E noto che il rito dell’ umazione era talmente radicato in Liguria che in una tomba scoperta a Borgio-Verezzi, lo scheletro era stato riposto in un anfora romana. (Cf. Issel, Liguria geologica, II, p. 14g segg., c p. 155). Per la perseveranza de’ Liguri nel rito dell’ umazione cf. Colini, il sepol-cieto di Renie dello-Sotto nel Bresciano e il periodo eneolitico in Italia (Bull, di paletti, it., XXIV, p. 3-4-7 ecc.). — (2) voce Γένοα. (3) Oltie gli oggetti della necropoli genovese, per minute indagini eli’ io abbia fatto, non mi occorse di vederne altri di sicuro carattere greco, che si possano dire con certezza trovati in Liguria. Corre voce fra qualche cultore delle memorie locali, che vasi simili a quelli di via Venti Settembre fossero molti anni addietio venuti in luce in uno scavo praticato nel giardino del Duca di Galliera a Voltri. Recatomi sul luogo seppi da persona degna di fede, che mi indicò il luogo preciso, che realmente ciò è avvenuto, e che i vasi furono rimessi a posto, e non se ne parlò allora, per paura d’ aver disturbi da pai te degli archeologi. Due iscrizioni greche conservate in Liguria \i sono state poi tate in tempi non molto lontani. (Cf. due iscrizioni greche in Atti di st. patria, III, p. 750 segg.). Di un bassorilievo ritenuto greco, e che rappresenta Marsia e Apollo, già esistente a Molassana ed ora conser-vato nel museo di Palazzo Bianco, parla il Podestà (Escursioni in Val di Aisa^no, Genova, 1878). Il Varni [di un sepolcreto romano scoperto nel- l anno MDCCCLXIII e di alcune altre antichità. Lettere due, Genova, 1869) dice (p. 20) che nella villa già Cuneo a S. Francesco d’Albaro vedesi un grande capitello di marmo greco, il quale essendo stato svuotato, serve attualmente ad uso di truogolo. Il medesimo è adorno di grandi fogliami, che escono da un vaso baccellato, e si girano a guisa di voluta, mentre due paloni, 1 quali stanno in atto di beccar delle sementi, sono indizio molto probabile che esso dorvea tramarsi adoperato in qualche monumento sacro a Giunone. Ai lati del vaso poi stanno due altri animali assai frammentati e che parrebbero conigli. Di questi e d’ altri monumenti ricordati ne’ libri c da memorie manoscritte, eh’ io esaminai, e che diconsi greci, non si conosce la sicura provenienza. (4) Petipl. in Geogt. gtaec. mm., I, p. 11. Che Antium fosse chiamata in origine Genova ritennero il Walkenaer, o. t., e il Desjardins, o. c., II, p. 58. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 249 frammentodi Polibio, che fosse Μεγαλία (i). E’ però per lo meno ardito il cavane qualche deduzione da notizie di così incerta autenticità e chiarezza (2), intorno alle quali si è, finora senza frutto, esercitato l’acume di parecchi dotti. Egli è ben certo che Marsiglia, libera dalla concorrenza dei Cartaginesi, si diede ad espandersi lungo la costa celto-ligure, che fu disseminata di floride colonie, sia ponendone essa stessa le fondamenta, sia rinnovando que’ punti, eh’erano già stati favoriti scali de’ Cartaginesi. In tal modo un fecondo soffio di vita greca animò Tauroentum (Ταυρόεις·), oggi Tarente; Nicaea (Νίκαια) Nizza; Antipolis (Άντίπολις) Antibes; e più tardi Olbia (Όλβία) Al-manare; Athenopolis presso l’odierna Saint-Tropez, nell’antico sinus Sambracitanus; e l’altre città e borgate di que’ dintorni (3). I vicini Iberi erano lieti di godere l’amicizia di sì prosperosa metropoli (4), onde essa potè senza sforzo domare le ultime riscosse dei Liguri Sali (5) ed assistere tranquillamente al passare dei Galli, che sotto la condotta di Belloveso si recavano in Italia (6). Ma di un vero dominio materiale sui Liguri d’Italia, o di espansione coloniale nel loro territorio non si ha il più piccolo cenno nè in scrittori antichi, nè in monumenti. Anzi Strabone (7) afferma che Monaco Μόνοικος, era la più orientale -delle città greche ed era un antemurale contro le invasioni de’ Liguri. È infatti naturale che i fieri Intimili ed Inganni, che troviamo (1) Cf. Grassi, importante frammento di Polibio. (Atti di st. patria, IV, p. LXNVI - LXXIX). (2; Intorno all’ inverosimiglianza di queste deduzioni cf. Lttmbroso, se Genova abbia avuto un doppio nome (Giornale ligustico, I, p. 203 segg. 1. (3) Una delle più antiche pare fosse Tauroentum, che secondo Artemidoro, in St. B., v. Ταυρόεις avrebbe avuto il nome dalla nave focese Ταυροφόρος, sospinta a quelle spiagge Stef. Biz., 1, p. 372_373> la dice colonia dei Massalioti. Quanto ad "Αμπελος nominata solo da Ecateo (fr. 24), che la chiama città della Liguria, ho già osservato che, contrariamente all’opi-nione generale, io ritengo essere Ànfipoli. Quanto agli altri stabilimenti fondati dai Massalioti in Provenza, al di là dai Pirenei, e perfino nelle isole Baleari cf. Castanier, o. c., II, p. 113 segg.). Il Mannert, 1, p. 89, riteneva che Olbia, Athenopolis e Telo Martius fossero il medesimo luogo cioè Tolone. (4) GlUST., 43, 5, cum Hispanis amicitiam iunxen/nt. (5) Queste sembrano velate nella leggenda di Catumandus o Caramandus, riferita da Giustino, 43, 5. (6) Liv., 5, 34. - (7) 4, 6, p. 202. 250 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA sempre uniti ai danni dei Romani, ed alleati di Magone nella guerra annibalica, non doveano così facilmente permettere che fattorie straniere si stabilissero nel loro territorio, mentre è più probabile che nelle loro piraterie non risparmiassero le ricche coste abitate da’ Massalioti. Buone invece pare fossero sempre state le relazioni fra Marsiglia e Genova. Come più volte abbiamo notato era questo il principale emporio de’ Liguri, atto per la sua posizione a ricevere le merci più fruttifere dalla pianura padana e dall Europa settentrionale in genere, onde non è improbabile, che molti mercanti massalioti avessero preso ferma stanza a Genova stessa. Così si spiega facilmente, perchè i Romani ricorressero a’ Genovesi per essere messi in rapporti d’amicizia e d alleanza coi Massalioti, come nella guerra annibalica Genova prendesse attivamente le parti de’ Romani contro gli altri Liguri occidentali, ed infine come per i meriti formatisi verso i Roman;, anche dopo la sottomissione della Liguria al loro dominio, essa continuasse, come abbiamo visto ne’ capitoli precedenti, col loro favore, ad essere non solo il principale emporio commerciale di queste spiagge, ma altresì di tutta l’Italia settentrionale. Giovanni Oberziner VARIETÀ LA PRIMA STAMPERIA IN MASSA DI LUNIGIANA. Massa ebbe la prima stamperia da Carlo I Cibo. Ve l’aprì per suo comando e col suo favore Francesco Delle Dote, che mandato in rovina da un tipografo romano del quale era socio (i), dovette chiudere nella nativa Pisa la propria stamperia (2) (1) R. Archivio di Stato in Massa. Lettere del S.r Cardinal Cybo al S.r Principe Carlo et al S.r Duca Alberico dall’anno 1640 al i64ç e loro risposte; lettere del 13 settembre e 10 ottobre 1643. (2) Il IANFANI Centofanti [Stampatovi che hanno esercitato in Pisa l’arte tipografica dal secolo XVal secolo XVIII, Pisa, tip. Vannucchi, 1898 : p. VIII] afferma che il Delle Dote tenne aperta in Pisa la tipografia dal 1636 al 1639. Ve Γ aperse prima del 1636, come sta li a farne fede l’opera seguente pubblicata co’ suoi torchi in Pisa nel 1635, che è divenuta assai rara e appartiene a quelle citate dagli Accademici della Crusca. Uscì dalla penna di Benedetto Buommattei che per bizzarria volle nascondere il proprio nome sotto quello di Benduccio Riboboli da Mattelica. Porta scritto nel frontespizio : Le tre Sirocchte \ cicalate | di BENDVCCIO Riboboli | da Mattelica. | GIORNALE STORICO £ LËTTËRARIO DELLA LIGURIA 25I e trovare altrove un rifugio e uno scampo contro le persecuzioni dei creditori. I patti stretti allora tra Carlo I e il Delle Dote furon questi : Il Principe di Massa. Per il continuo desiderio e pensiero che habbiamo d’ accrescere in questa nostra città di Massa nove industrie et arti, le quali sogliono aportare ad essa et a’ cittadini honore et utile, et essendo fra 1’altre risguardevole l’esercizio dello stampare; et essendo venuto in questa città messer Francesco Delle Dote, cittadino pisano, et havendoci supplicato di volerlo accettare e di permettere che possi esercitare in essa la stampa, ci siamo risoluti, per le cause suddette et altre, non solamente d’ accettarlo, come 1’ accettiamo, ma di favorirlo e di concederli 1’ infrascritti privilegi, grazie et esenzioni per anni dieci, per sè e suoi successori et heredi, da incominciarsi dal giorno d’ oggi et di osservarseli per patti espressi e inviolabilmente. 1. Se li farà pagare la pigione della casa dalli heredi del Colombini, dove hoggi habita, per anni dieci dalla Comunità di Massa. 2. Si fa libero, franco et esente lui e suoi successori et heredi da ogni sorte di dazio, gravezza o gabella, imposta e da imporsi, sì per le persone, come per gli arnesi et altre robbe di loro uso, per il detto tempo. 3. Sì fa esente, come sopra, per tutte le robbe che faranno di bisogno per detto suo esercizio di stampare et anco per la carta bianca o stampata che esso facesse venire o mandasse fuori, per detto tempo. 4. Si li dà libero e franco salvacondotto per detto tempo, tanto a lui, come alli suoi heredi e successori, come a tutti quelli che condurrà per servizio del suo esercizio, che possano stare et habitare in questa città, et di non esser molestato per debiti civili forastieri di qualsivoglia sorte, sì nelle persone come nelle loro robbe. 5. Si li concede privilegio che nessuno per detto tempo possa esercitare nè fare esercitare stampe in questo nostro Stato di Massa o di Carrara. 6. Che nessuno anco possa vendere nè far vendere libri d’ alcuna sorte, istorie et altre carte stampate, se prima non haveranno licenza da detto messer Francesco, il quale la doverà dare se di quella sorte di libri non si haverà nella sua bottega o stamparia. Dall’ altra parte detto messer Francesco promette e s’ obbliga, per detto tempo, per patto espresso, come sopra, di tenere in sua bottega libri stampati di varie sorte e secondo il bisogno della città, e di farne venire di fuori se ne farà smaltimento; secondo il quale doverà regolarsi alla giornata. Item, che farà venire persone atte all’esercizio della stampa per stampare libri piccoli e grandi e fogli, secondo il suo bisogno, e bisogno della città, et uso che vederà alla giornata e che saperanno leggersi detti libri, et altro se ne farà bisogno. Fatte da lui in dii/ersi tempi in occasion di \ generale strauizzo nella Nobilissima I Accademia d. c. \ Coti la Declatnazion delle Campane. | [Arme medicea col motto: Perchè’l ben nostro | in questo ben s’affina] | In Pisa, I Per Francesco delle Dote. 1635. | Con licenza de Superiori ; in-4. di pp. 1-72, oltre 8 in principio n. n. Precede una lettera dedicatoria di Francesco delle Dote « All’ Illvstrissimo Sig. Giovanni de Medici Marchese di Sant’Angelo Governator di Pisa, e della medesima città e suo Stato luogotenente generale dell’armi, ec. », scritta da Pisa il 25 giugno 1635 ! segue una lettera di Bonduccio Riboboli « Al Signor Dottor Buonavita Capezzali » e un’ avvertenza al « Lettore ». 252 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Con dichiarazione, che detti privilegii, grazie et esenzioni si intendono bavere luogo ogni volta che detto messer Francesco e suoi successori eserciteranno per il detto tempo la detta stampa e nel modo contenuto come sopra, altrimenti tutto si intenderà revocato. Non hanno data, ma son del 1642. Poco, peraltro, si trattenne a Massa e ben poche cose vi dette alla luce. Si riducono alle seguenti; se pure qualcheduna non me n’è sfuggita di quelle minori, facili come sono a rimanere ignorate o andare disperse. i.) Constitvtion.es || synodal es || ab III.”·0 et Rever.mo D.\\ D. Prospero Spinvla || Lvnensi Sarzanensi Episcopo, || et comite. || Editae, ô° promulgatae in Ecclesìa Baptismali II Sancti Andreae ob impedimentum 11 Cathedralis. || Die IV. Maij M. DC. XL1I. || Massae M. DC. XLII. || Typis Francisci delle Dote. Superior, permissu. In-4. Le prime 44 pp. non sono numerate e contengono 1’ occhietto ; il frontespizio ; 1’ Introdvctio \ ad primam Synodum \ Lvnensem Sarzanen-sem I In Civitate Sarzana, in Ecclesia Baptismali | Sancti Andreae Die Il . Mai] I M. DC. XLII, incoeptam, | 6^ Die VI. eiusdem | Mensis àf Anni | absolutam ; ed il Sermo ) ad Clervm ] habitvs pro comitiis syno— I dalibvs. Ab lllustriss. & Rene || rendiss. D. D. Prospero \ Spinvla— Episcopo Lu — | nen. Sarzan. in Ecclesia \ Baptismali S. An— | dreaae \ die V. Maij M. DC. XLII. Seguono 1-291 pp. numerate, poi dopo una p. bianca e senza numerare, altre pp. 1-105 numerate. Nelle prime si legge la lettera pastorale con cui Monsig. convoca il Sinodo, poi le Constitutiones synodales, autenticate e sottoscritte dal notaio G. B. Garibaldi ; nelle seconde si trovano le Acclamationes, 1’ elenco degli esaminatori, de’ giudici, degli officiali e ministri sinodali, la tassa della Curia vescovile, de’ notai, dei vicari e del cavalerio et nuntio publico della Curia stessa, non che 1’ elenco de’ casi riservati, varie bolle papali, gli editti del Vescovo Spinola sulla Dottrina cristiana e « per 1’ osservantia delle feste », quindi « De ferijs in quibus ius non redditur », il « Decretum de residentia », il « Decretum de his quae servanda sunt a promovendis ad ordines », il « Decretum super praecedentia inter canonicos ecclesiae cathedralis », Γ « Ordo praecedentiae », la « Distributio horarum pro diversis anni temporibus », il « Decretum Congregationis Sacrorum Rituum » e 1’ « Index capitum ». Intorno al sinodo tenuto dal cardinale Prospero Spinola offre delle particolarità minute e curiose Andrea Soccini nelle sue Memorie notabili di cose accadute in Sarzana e suo distretto et anche in altre parti d’ Italia, che cominciano dall’ anno 1620, delle quali possiede Γ autografo Alessandro Magni Griffi di Sarzana. « Monsignor Prospero Spinola, nostro Vescovo », (così scrive) « avendo terminale le visite della sua Diocesi, si risolve fare il suo sinodo primo diocesano in Sarzana con il permesso del Serenissimo Trono, essendosi per 1’ addietro di longo tempo da’ suoi antecessori fatto alla Spezia, luogo di meno gelosia. Ne diede parte a’ Signori Anziani, quali unitamente con Monsignore ne scrissero in Senato, di dove venne risposta doversi fare dove più aggradiva a Monsignore. Con decreto stampato sotto li 13 febbraio del corrente anno [1642] fece ingiongere che in Sarzana volea fare il sinodo diocesano per li 4 di maggio prossimo, giorno corrente di domenica. Avvicinandosi il suddetto mese di maggio, per comandamento de’ Signori Anziani e de’ Signori Censori della città, furono fatte da' macellari grosse provvigioni d’animali bovini, vitelle e castrati per macellare, dagli osti provvisioni co- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DJ£LL· A LIGURIA 253 piose di letti, come pure da’ locandieri moltissime camere ben fornite si prepararono, e di viveri in abbondanza per potere bene alloggiare e trattare i religiosi concorrenti al sinodo ; e per le robe mangiative furono deputate persone assistenti, a che non fossero maltrattati nel prezzo, Il primo e terzo giorno di maggio gionsero in Sarzana ottocento preti, e maggior quantità ne sarebbe venuta se Monsignore non fosse stato facile a compatire chi adduceva scuse di non potere venire. Tutti portarono le loro cotte e berrette, secondo gli era stato ordinato. La mattina poi, giorno di domenica, delli 4 maggio si convocarono tutti assieme col clero della città nella chiesa di S. Andrea, non potendosi officiare nella chiesa cattedrale di Santa Maria a caosa della nuova fabbrica del coro. Monsignore anch’ egli, a ora di terza, venne in detta chiesa di S. Andrea, e con le solite cerimonie cantò pontificalmente la messa solenne dello Spirito Santo, e poi a metà della messa salì in pulpito un prete e con voce alta lesse i decreti del Sacro Concilio di Trento, quelli però che trattano dell’ obbligo che hanno i Vescovi per i Sinodi diocesani. Terminata la detta lettura, prosegui la messa, e quella finita s’ inviò la processione di tutti li preti con cotta e berretta. Il clero di Sarzana et anco ogni minimo chierico della città procédé a tutti li forestieri, etiam canonici, ossia Collegiata di Massa, ancorché pretendessero aver il luogo dopo i canonici di Sarzana ; e pure bisognò che cedessero a tutti i preti e chierici della nostra città. Concorse in Sarzana gran popolo da tutte le parti circonvicine per vedere questo solenne cerimoniale. D’ordine del Sig. Commissario » [Negrone de Negri] « vennero in Sarzana due Compagnie di Scelti, quali mentre si faceva la processione si trovavano squadronati nella piazza. Rientrata la processione, licenziati si portarono alle loro case. Il secondo giorno, che fu il lunedì, a ora di terza, dato il solito segno delle campane, si ritornò alla chiesa, e Monsignore Vescovo, salito in pulpito, fece un virtuoso discorso in latino, quale si vede stampato nelle Costituzioni Sinodali, in cui mostrò quanto sii glande 1’ obbligo de’ Vescovi et anco de’ Rettori, et anco parlò della purità e candidezza sacerdotale. Finito il discorso, cantò un canonico la Messa solenne di Maria Vergine, e finita, furono chiamati tutti quei Rettori che per anco non avean fatta la professione della Fede Cattolica dall ultimo Sinodo che fece Monsignor Saivago, che fu dell’anno *623, sino a questo giorno; e molti furono che si avvicinarono all’ aitar maggiore e fecero la professione della Fede in mani del Vicario Generale, stando alla sua sedia assistente Monsignore. In far questa funzione accadde un caso miserabile, da tutti fortemente compassionato. Seguì che il Rettore di Bagnone, vecchio di anni ottantadue e molto corpolento, abbenchè scusato e licenziato da Monsignore, volle tuttavia intervenire a questa funzione ; seguì, dico, che volendo il medesimo avvicinarsi per far la professione, si trovò vicino agli scalini per i quali s’ascende all’aitar maggiore, gli sfuggì un piede e cadde addietro da quelli j non potendo essere riparato, diede della testa in uno di essi in tal maniera, che restò quasi morto. Fu subito portato in una cella del convento, e posto sopra un letto, in mezz’ ora spirò 1’ anima. Il giorno seguente fu portato a seppellire nella chiesa cattedrale, accompagnato da un grosso numero di preti con le cotte, e gli cantarono onorevole funerale. L’istessa mattina si pubblicarono da un religioso molti Capitoli sinodali, salito sul pulpito, e P istesso dopo pranzo. Il terzo et ultimo giorno, che fu il martedì, convocatisi assieme, presente Monsignore, si cantò Messa solenne da morto ; qual finita, di nuovo si pubblicarono altri Capitoli ; e dopo pranzo, ritornati in chiesa, si compì 1’ ultima pubblicazione de’ Capitoli sinodali, quali furono da tutti i preti accettati con la voce, dicendo : placet nobis, ma con moderazione di molti, ed alcuni affatto esclusi e cancellati. Dato, con quiete, compimento ad ogni cosa, Monsignor Vescovo in seguito assolvè tutti i sacerdoti da tutte 254 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA le censure in cui ignorantemente fossero incorsi, e diede la benedizione a tutti, e sciolse il sinodo. E dopo la dimora de’ preti in Sarzana per quattro giorni, tutti soddisfatti e contenti ritornarono alle loro case ». 2.) Bandi per il Marchesato di Carrara e Capitoli del Collegio de’ Dottori, In Massa, appresso Francesco delle Dote, MDCXLIII ; in 4. Questa importante raccolta venne fatta per ordine di Carlo I, come apparisce dal seguente decreto, che sta in fronte al volume : « D. Carlo Cybo Malaspina Principe del Sacro Romano Imperio, di Massa, Marchese di Carrara, Duca di terentillo e Ajcllo, Signore di Padulo, Barone Romano, etc. Desiderando Noi che li nostri fedeli e amati sudditi et habitanti dello Stato Nostro di Carrara vivino cattolicamente e con quella quiete e pace che si conviene, e restino abbondantemente provveduti di quelle vettovaglie che sono necessarie al vitto umano, et che la giustitia (nervo de’ Stati ben regolati) habbia il suo luogo, ci siamo risoluti, per riformare anco gli abusi che po-tesseio essere stati introdotti in detto Nostro Stato, per la moltiplicità dei bandi per 1 adietro fatti, e per togliere le difficoltà che per detto rispetto nascessero, di fare una scelta di essi, che da Noi sono stati stimati più profittevoli al ben publico e necessari al buon governo, e di nuovo farli pubblicare e poi stampare, ordinando che sieno inviolabilmente osservati da qualsivoglia persona, di che stato, grado e conditione si sia, et che habbino, e ciascuno di essi ne’ suoi propri casi habbi forza di legge perpetua, non ostante etc. Esortiamo però li nostri amati sudditi che vedendo loro con quanto zelo procuriamo di provvedere al buon governo, corrispondino essi ancora con l’osservanza di essi Bandi, che in questa maniera non ci sforzeranno al castigo et a porre in esecutione 1’ obbligo che habbiamo di giusto Principe, et si confermeranno nella nostra buona gratia. Et acciò questi ordini pervenghino a notitia di ognuno, e che non possano iscusarsi con l’ignoranza di essi, comandiamo al Commissario che li facci pubblicare in giorni festivi, nel maggior concorso del popolo in Carrara, nel luogo solito, e di poi in ciascheduna delle terre del Nostro Marchesato. Et quest’ istesso ordiniamo che si osservi in avvenire nella pubblicatione di altri Bandi, che da Noi e da’ Nostri Ministri, d’ ordine Nostro, saranno fatti, sotto pena della Nostra disgrazia. Dato in Massa li i6 Maggio 1643, Carlo Principe ». I Bandi ascendono al numero di trentanove. Eccone le rubriche : 1. Per li Commissari, Fiscali e Notari criminali circa il loro officio. 2. Sopra la bestemmia. 3. Non lavorar le feste. 4. Sopra le armi. 5. Alteratione delle pene imposte dal Statuto nel Cap. 35 de Venefitiis e nel Cap. 25 de poena percutientis aliquem cum armis, lib. 3 circa le pecuniarie. 6. Sopra V estrattione. 7. Sopra la fiera di S. Cinese di Carrara. 8. Sopra la pesca del Fiume di Carrara. 9. Sopra la caccia. 10. Contro banditi. 11. Sopra 1 contratti illeciti col patto della ricompera. 12. Contro quelli che si obbligano a far marmi, et della gabella, di essi et altri luoghi. *3- Pena corporale in materia de’ furti quando li delinquenti non possine pagare la pecuniaria. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 255 14. Di non potere andare al soldo di Principe straniero. 15. Di non andare a testificare per forastieri fuori di Stato. 16. Sopra il giuoco. i 7· Libelli famosi, scritture ingiuriose. 18. Di non offendere Offitiale, nè opporsi a Ministri di Giustitia. 19. Contro il Bargello e Famigli in materia delle esecutioni. 20. Per li Ebrei. 21. Di 7ion andare per la città senza lume. 22. Di non dar danno ne' luoghi di S. E., et anco in generale, e contro li raspolatori. 23. Sopra affronti a giovane e donne maritate, stupri et espositione di parti. 24. Di non potere andare alle osterie e fraschette, et alli osti di non poter comprar vino da terrieri. 25. Che non si possi entrare per altri luoghi in Carrara che per le porte ; e di non batter grani, migli ed altro, e di non macerar lino. 26. Che non si possino far tamburate ai vedovi. 27. Decreto sopra la pia dispositione della Sig. Taddca \_Malaspinci\, concessione di sussidio dotale. 28. Di non alienar beni in persona di forastieri, nè meno fra terrieri, senza nostra licenza. 29. Approvazione dell* inosservanza dello Statuto sopra li Constituti. Et che nelle cause criminali non corra instanza ; che li Consoli siano tenuti denunziare li delitti ; e li Cerusici dar relatione delle ferite. 30. Che non si possino radunare Vicinanze senza licenza, e sopra le ■ Conventicole. 31. Che da Notari si mettino gli istrumenti al libro. E non possino rogarsi se non hanno certa cognitione de* contrahenti. 32. Sopra li bettollieri. 33. Sopra gli incendii per le montagne. 34. Che non si possino unire li frantori. 35. Sopra le robbe e legnami gettati dal mare alla spiaggia. 36. Di non levare i processi originali dal Banco della Raggione. 37. Che non si possino cassare gli istrumenti da altro notaro che da quello che V avrà rogato. 38. Ordine al Commissario sopra le pene arbitrane a lui e sopra il quarto delle condanne. 39. Dichiarazione del Bando della Caccia in materia di Lepri. Il volume si chiude con i Capitoli del Collegio de’ Dottori, che hanno questo titolo : Capitoli, Privilegi, Esentioni, Giurisditioni et emolumenti del Collegio de’ Dottori di Carrara. E’ un libro rarissimo ; Γ unico esemplare che sia a mia notizia lo possiede il sig. Carlo Passani di Carrara, che Γ ereditò dal notaro Dionisio Giandomenici suo avo. 3.) Pro Illus.ma et Excell.ma Principissa D. D. Fulvia Pica Cybo, etc. Responsum acutissimi I. C. D.nI Antonii de Rusticis, etc. Massae, Typis Francisci delle Dote, 1644; in-fol. di pp. 28. A me non è riuscito trovare quest’allegazione del giureconsulto genovese Antonio Rustici; n’ho desunto il titolo da una Nota di molti libri di stampa massese raccolti e posseduti da me Carlo Frediam, che si conserva autografa nella Biblioteca del R. Archivio di Stato in Massa [Miscellanea Massese raccolta da Giovanni Sforza, n. 21]. 256 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Fulvia figlia di Alessandro I Pico Duca della Mirandola e di Laura d’Este sposò nel 1626 Alberico II figlio di Carlo I Cybo. 4.) De Sanctissima Misericordiae Virginis effigie in suburbiis Civitatis Massae gratiis insignita, votivum carmen a Guidone Vanninio decantatum, ad Illustriss. et Excellentiss D. Carolum Primum Massae Principem, Massae, apud Franciscum Delie Dote, 1644; in-4. 11 canonico Odoardo Rocca nelle sue Storie antiche di Massa di Carrara raccolte da autori antichi, delle quali possiedo 1’ autografo, così descrive la chiesa e l’immagine di Nostra Signora di Misericordia: « Si trova ad occidente fuori della città, poco distante e quasi nel principio della bella strada che conduce al lido del mare. Questa chiesa è di bella architettura, consistente in una bella cupola sostenuta, da quattro gran pilastri, d’ architettura del canonico Raffaello Locci sacerdote di Lucca (1). Questa chiesa è molto ricca ed è dedicata alla Santissima Vergine di Savona, detta comunemente di Misericordia. Vi gettò la prima pietra 1’ Ecc.1110 Sig.r Principe Carlo I il novembre dell’anno 1628 e li 14 aprile » [1629] « vi fu trasferita la SS. Immagine di Μ. V. con solenne processione generale, intervento elei li Ecc.mi Principi e delli otto Consoli, che furono : Giuseppe Berti, Girolamo Gio. Domenici, Iacopo Ayola, Gio. Battista Bonaiuti, Antonio tinelli, Bei-nardo e Rocco Ceccopieri e Cristoforo d’Ayola Aniboni. Tal funzione fu diretta dal Dott. Lattanzio Finelli di Massa, canonico della cattedrale di Sarzana (2). Dipoi fu detta chiesa consecrata li 2 marzo dell’anno 1637 dall’Em.mo Sig. Cardinale S. Cecilia, allora Vescovo di Sarzana (3). Detta Sacra Immagine è copia dì quella di Savona, e fu fatta dipingere in certa muraglia de’ Piccioli, quasi dirimpetto al luogo ove è la chiesa suddetta, dal nobile genovese Gio. Francesco Maggioli, che privo di beni di fortuna s eia ridotto in Massa ad esercitare l’arte del sartóie circa gli anni 1626. Alla quale Immagine essendosi sempre più accresciuta la devozione del popolo non solo di questi Stati, ma de’ paesi vicini e lontani, i quali conducevano a Nostra Signora infermi ed ossessi da spiriti maligni e restavano risanati, fu perciò giudicato, a maggior gloria di Dio e culto della SS. Vergine, collocarla in questa chiesa, e perciò li cittadini di Massa, assistiti dalla generosa pietà dell’ Ecc.n'° Principe Carlo I e coll’elemosine de’ pii benefattori diedero mano alla fabbrica della suddetta chiesa, come dice Gio. Battista Alberti, Chierico Regolare Somasco, nel suo libro dell’Apparizione della SS. Vergine di Savona e delle sue miracolose immagini in Italia al capitolo XV, foglio IQ. Delta chiesa, come si vede, ha tre magnifici altari di marmi oltramontani, è ricca d’ entrate, ornata di molte argenterie e preziosi arredi e servita da dicci sacerdoti cappellani e due chierici, che vi officiano con somma divozione nelle (1) Quando papa Urbano Vili con la bolla Sacri aposto/atus ministerio de! 1. giugno 1629 inalzò la pieve di S. Pietro di Massa alla dignità di Collegiata con un abate e nove canonici, il Locci ebbe il canonicato istituito dal Principe Carlo I Cybo. (2) Il Finelli venne fatto canonico della cattedrale di Sarzana e dal vescovo Saivago ebbe la prebenda teologale : fu poi pievano del Mirteto. Il Landinelli, non facile^ lodatore, scrisse di lui : « ha posto in luce due trattati utilissimi e dotti sopra i Casi riservati a’ Vescovi e della materia de’ Monitorii ». Il P. Angklico Aprosio [La Biblioteca Aprosiana, passatempo autunnale, Bologna, Manolessi, 1673 ; p. 336] registra la prima di queste opere, che è cosi intitolata : Selectio aurea casuum reservatorum omnibus Curatis coeterisque Confessariis apprime necessaria. In qua declarantur etiam casus reservati Episcopo lunensi Sarzanensi, auctore A. A’. D. Lactantio Finkllio de Massa S. Γ. D. Cathedralis Ecclesiae Lunensis Sarzan. Canonico Theologo, Lucae, apud Octavianum Guidobonum, 160S ; sumptibus Bathassaris Peregrini Genuensis; in-4. (3) Gio. Domenico Spinola. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELL·A LIGURIA 257 giornate prescritte. E’ frequentata quotidianamente da molto popolo, stante che è molto comoda alla città. Quattro delli suddetti cappellani sono dell’ Em.™ Sig. Cardinale Alderano Cybo, di gloriosa memoria ; uno dell’ Ecc.llla Principessa Donna Brigida (1 j ; due della chiesa; uno d’Ascanio Bonotti, ed uno ne conferisce la Ser.ma Casa ». Il Rocca nell’ altra sua opera, parimente manoscritta, intitolata : Varie memorie del mondo ed in specie dello Stato di Massa di Carrara dal 1481 all’ anno 1738, che si conserva a Modena nella Biblioteca Estense, aggiunge che nel 1647 « essendosi scoperta nel piano di Seravezza una immagine miracolosa di Μ. V. loco detto in Quercieta, si voltò il concorso e molto si raffreddò alla Madonna di Misericordia ». Guido Vannini, l’autore del Votivum carmen, nacque a Lucca nel 1571 ì prese gli ordini minori il 4 aprile dell’88, ma poi, depo-to 1’ abito' ecclesiastico, tolse in moglie Alessandra Santi, che gli portò di dote mille scudi d’oro e gli partorì sette figliuoli. Fu un latinista valente ed un abile maestro di rettorica. Il P. Bartolommeo Beverini così lo dipinge: « aiutava quest’ uomo, oltre la fama della letteratura, una bella presenza, una voce chiara e sonora, un parlar facondo e copioso, con che in bocca sua ogni cosa, benché mediocre, compariva del doppio : peraltro ostentatore delle sue cose, e in tutte le sue operazioni magnifico, non senza qualche apparenza di vanità ». Il 18 decembre del 1598 la Repubblica di Lucca lo elesse primo umanista nelle sue scuole, con la provvisione di 144 scudi 1’ anno. Grande era il concorso della scolaresca che vi accorreva fin da Venezia, da Padova e da altre delle principali città e grande era il favore che godeva presso i concittadini, e ogni volta che veniva a finire il tempo della sua condotta, sempre restava confermato. Avendo però fatto pratiche presso il Granduca di Toscana per essere eletto professore d’ eloquenza nello Studio di Pisa, la Signoria Lucchese ne provò fortissimo dispetto, e sebbene 1’ Uffizio sulle Scuole proponesse al Consiglio d’essergli « grazioso della sua rafferma», il partito restò perduto. Per la terza volta messo ai voti il negozio, il 16 maggio del 1635, al solito si perdette. Essendo peraltro il Consiglio ritornato sulla proposta, venne finalmente confermato con lo stipendio consueto, « da cominciare il giorno che spirò la sua elezione ». Fu così lieto il Vannini di questa vittoria, tanto lungamente contrastata, che in versi espresse al Senato la propria riconoscenza, e grazie-caldissime rese anche all’Uffizio sopra le scuole, che l’aveva animosamente pigliato a difendere (2). Nella gioventù conobbe a Roma Torquato Tasso, e 1’ ebbe lodatore de’ suoi primi saggi poetici. Lo racconta lui stesso a Giulio Guastavini nell’ intitolargli la traduzione in versi esametri del canto XVI della Gerusalemme liberata; traduzione che dette alle stampe a Vicenza, l’anno 1624, nella seconda edizione de’ quattro libri de’ suoi versi latini, che avevano già visto la luce a Lione nel 1611 e che ristampò a Lucca nel 1646 con aggiunte. Vagheggiava il disegno di voltare in latino l’intiero poema di Torquato, ma fuori del canto già detto, de’ sei primi e del dodicesimo, a niun altro pose le mani. Datosi a emulare Ovidio, ne conseguì più la facilità che 1’ eleganza. E facile, ma in generale poco elegante, è questa traduzione della Gerusalemme (3); facili sono gli epitalami con cui nel 1609 prese a festeggiare le (1) Brigida figlia del cav. Giannettino Spinola di Genova, moglie di Carlo I Cibo, al quale portò in dote centoventimila ducati. (2) R. Archivio di Stato in Lucca. Consiglio Generale, reg. 81, c. 252; e reg. 114, c. 32, 83 t., 106 e 106 t. — Offizio sopra le Scuole, reg. 1, part. 2, c. 32 ; reg. 2, c. 36. (3) La traduzione de’ primi sei libri e del dodicesimo però non vide la luce. L’autografo che era intitolato : Hierosolymae liberatae Torquati Tassi libri sex priores et duodecimus latine redditi andò a finire nella Biblioteca di Francesco Maria Fiorentini che poi fu acquistata da quella Pubblica. E’ uno de’ manoscritti che perirono nell’ incendio del 1820. Giorn. St. e L'ett. della Liguria 17 2 58 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA nozze di Lorenzo Cenami e di Iacopo Cittadella. In occasione di nozze tornò a scrivere nel '15 e nel '37, cantando quelle di Romano Garzoni con Eleonora Buonvisi, e di Paolo Santini con Domitilla Arnolfini. Celebrò 1’ esaltamento di Mattia all’ Impero ; pianse la morte di Adolfo Re di Svezia ; festeggiò la venuta a Lucca del cardinale Marcantonio Franciotti e 1’ ingresso a Bologna del cardinale Durazzo ; esaltò 1’ amenità degli orti di Galeazzo Poeta. Col titolo di Luca Felix fece un panerigo in lode del patrio Senato ; sparse lagrime d’affetto sul sepolcro di Alessandro Massei (1). La sua opera di maggior lena s’intitola: Amatoria Divina; è divisa in tre parti : De arte amandi Deum, De arte amandi Angelum Custodem, e De arte amandi Virginem ; ciascuna delle quali si compone di tre libri (2). Scritta con vena « più fluida e corrente che pura » la giudicarono i dotti , avendo egli (al dire del Beverini) « seguito quell’ impeto d’ ingegno che era suo proprio, amando tutto ciò che scriveva, come perfetto, senza altra cura di polimento e di lima ». Ne conseguì però molta lode, e « portatosi a piedi del pontefice Urbano VIII per presentargli le sue opere » (è il Beverini stesso, contemporaneo suo, che lo racconta) « fu da quel grande e dotto Principe onorato col titolo di Ovidio cristiano ; di che egli, e con ragione, sommamente si pregiava; facendolo ancora suo cavaliere, e donandogli un’Ape, per inserirla nell’ arme della sua famiglia : poiché ricercandolo il pontefice a chiederli qualche grazia, dicesi che il Vannini soggiungesse che contentandosi egli della sua fortuna, di altro non lo supplicava che di un po’ di fumo per la sua musa. Seguì il giudizio del suo Principe il Popolo Romano, e lo creo cittadino, onde egli nell’ avvenire si diede sempre il titolo di cittadino lucchese e romano » (3). In età di ottant’ anni cantò in tre libri la venuta a Lucca del Volto Santo (4) ; opera che offrì al Senato, dicendo : « futura norint saecula meam Calliopem Reipublicae Lucensis tubam semper non fuisse vulgarem ». Vi pose in fronte il proprio ritratto, accompagnato da questi versi. Luca fuit genitrix, fecit me Roma poetam Milita quidem cecini, sacra fuisse, leges. Dumque bis octavum lustrum torva Atropos urget Hoc Crucis extremum Musa peregit opus. L’ accoglienza cortese ricevuta da papa Barberini, 1’ averlo creato cavaliere dell’ Ordine di Cristo, col dono dell’ape, per giunta, da inquartare nello stemma, gli fecero nascere il desiderio e la speranza d’ ottenere una cattedra nello Studio di Bologna; e quando Urbano Vili, nel 1639, la ruppe con la Repubblica, e adoperando « per interessi al tutto secolari quelle armi spirituali date da Dio all’ apostolica sede pel mantenimento della Chiesa e per di- (1) Cfr. Sforza Gio. Francesco Maria Fiorentini ed i suoi contemporanei lucchesi, saggio di storia letteraria del secolo XVII, Firenze, Menozzi, 1879 ; PP- 295-304. (2) L’ edizione migliore e più compiuta di quest’ opera, venuta fuori in più tempi, è la teiza che Guido ornò del proprio ritratto e la volle intitolata alla Repubblica Lucchese. Eccone il titolo : Amatoria divina. De arte amandi Deum, Virginem et Angelum Costodem libri novem. Auctore Guidone Vanninio I. C. et equite, cive Incensi et romano. Iertia editio ab ipso auctore recognita et aucta. Addito lib. Sacrarum Epistol. Illustriss. Prciesidibus Academiae Ardentium dicato, Bononiae, typis Io. Baptistae Fer-ronii, 1640 ; in-8. (3) Beverini B. Settantatrè elogi di uomini illustri lucchesi; mss. nella Biblioteca Governativa di Lucca. (4) Historia Sanctiss, Crucifixi Lucensis qui in tempio divi Martini celeberrimo auguste et pie colitur, poetice descripta, auctore Guidone Vanninio, Lucae, apud Piermiu et Pacium, MDCLII ; in-4. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 259 fesa del cattolicismo » (1), scagliò 1’ interdetto contro il Popolo lucchese (2 1, il barbarineggiante Vannini abbandonò volontario la nativa città. Le speranze svanirono e gli convenne tornare a Lucca e pregare il Senato lo rieleggessi/ di nuovo suo primo umanista. Invece d’ottenere la grazia s’udì rispondere che si costituisse prigioniero e manifestasse la cagione del suo esilio volontario. Fuggì a Massa dove fu preso a proteggere dal Principe Carlo I Cibo, che gli accordò licenza d’ aprire scuola. Insegnava la grammatica, 1’ uinaniLà, la poetica e la rettorica ; ed ebbe trenta scolari, che gli davano una mezze pezza per ciascuno ogni mese. Seguitò a farla dal 2 decembre 1642 al 15 inalzo 1644, nel qual giorno ritornò a Lucca, essendogli riuscito di placare lo sdegno della Repubblica e riacquistarne la grazia. Il 13 settembre del IO52 ebbe la sua giubilazione con 1’ intiero stipendio « in recognitione della virtù sua et ottimo e longo servitio di primo humanista » (3). Morì due anni appresso, avendo avuto una lunga non meno che prospera e vigorosa vecchiezza. Giovanni Sforza ANEDDOTI UN GIUDIZIO ARTISTICO DI POMPEO ARNOLFINI. I pochi frammenti che si veggono ancora sulla fronte a mare del Palazzo di S Giorgio appartengono al grande affresco dovuto al pennello di Lazzaro Tavarone-, affresco che doveva sempre trovarsi in buone condizioni a tempo di Raffaele Soprani, il quale ce ne ha lasciato questa descrizione (4): « Doppo d'haver fatti intorno le finestre bizzarrissimi ornamenti d’architettura, fece ne’ framezzi di esse molte figure di huomini così togati, come armati, e sopra i cartellami e cornicioni pose alcuni putti carrichi di bandiere, di ancore, di timoni et altri simili marinareschi stro-menti, accomodandovi ancora certe femine significanti le virtù, che reggono le Armi della‘Repubblica Serenissima. Ma più di tutto degna d’encomio riuscì la storia di mezzo, dove sopra d’uno spiritoso destriero vedesi S. Giorgio con la lancia alla mano combattere animosamente l’horribil Dragone, strano di positura, e di fattezze stravagantissimo, dal cui pestifero veleno e voracissime fauci assicurata ne resta in modo certa Donzella che fuggendo il pericolo, camina con passo veloce verso la città vicina. Et è questa figura molto leggiadra e colorita con gratia, sì come vago oltre modo vien giudicato il paese, che per abbellimento dell’opera, e per pompa d’ingegno vi fu dal pittore (1) Tommasi G. Sommario della storia di Lucca; p. 560. (2) Racconta il cronista Odoardo Rocca, che, durante Γ interdetto, i mentignosini (che allora facevan parte dell?. Repubblica Lucchese) « venivano a Massa per li Sacramenti ». (3) R. Archivio di Stato in Lucca. Consiglio Generale, reg. 131, c. 261. (4) Le vite dei pittori seoltori et architetti genovesi. Genova, Bottaro e Tiboldi, 1674, p. 152 sg. 2ÔO GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA colorito ». Ma rimase ignoto a quel biografo che su quella facciata aveva dato prova primamente del suo valore singolare Andrea Semino, poiché là dove parla di questo pittore non fa cenno alcuno di affresco siffatto. Nè altri dopo di lui lo ricordò, salvo Federigo Alizeri, il quale venne a conoscenza di questo lavoro dopo la pubblicazione della sua prima guida, quando si rifece con grande diligenza alla ricerca della nostra storia artistica nelle carte d’ archivio. Infatti egli, descritta la sala magna dell’insigne palazzo e gli adornamenti e le statue che vi si veggono, soggiunge (i) : « Discopro dai razionali che Andrea Semino fin dal 1590, per allocazione in lui fatta dai Protettori, si sobbarcò all’ ardua impresa di storiare la smisurata fronte, e le carte discorrono i venti impetuosi e la sferza della canicola ond’ era affaticato quel prode artista durante il lavoro di presso a due anni. Ma nocque più ancora la salsedine all’opera, e in breve età se ne andarono a vuoto le lire seicento promesse e sborsate al pittore >. Nulla ei dice intorno ai particolari dell’opera, ed è a credere non ne trovasse notizia, sì come a noi non ci è avvenuto rinvenirne negli atti della cancelleria, dove pur si leggono i conti diversi pagati agli operai che apprestarono a uopo dell’ artista la facciata, fabbricarono i ponti e misero tutto in assetto affinchè potesse lavorare senza troppe molestie, avendo altresì provveduto a pagare la mercede « a cinque marinari per haver accomodato al tetto di esso palazzo una tenda, a ciò sotto essa possino stare il pictore et altri » ; la qual tenda era in sostanza una grandissima vela (2). Tutte queste spese furono fatte tra il settembre e il novembre del 1590 (ammontarono in tutto a L. 175.18.8) e nell’ottobre dell’anno successivo il lavoro del Semino era compiuto; ciò vuol dire che non v’impiegò « presso a due anni », ma un anno solo. Ce lo attesta una lettera di Pompeo Arnolfini indirizzata a Domenico Tinello, uno de’ cancellieri delle Compere. Eccola (3): Molto M.co S.r mio oss.mo Sabato andai a vedere il S. Giorgio da tutti li ponti, et non ha dubbio che da quello della mercantia non pare così bene come da quello delle legne, ma questo non è colpa del Pittore, perchè non poteva farlo di maniera che paresse egualmente bene da tutte le bande. Nel resto dico che così la figura del S. Giorgio, come del cavallo con tutto che siano così grandi mi sono parse molto buone, et delle belle opere che habbia fatto m. Andrea. La lancia non fa la botta che sogliono fare i giostranti, ma questo non è errore che renda la pittura manco bella, et di maggiori se ne vedono in quelle di Michelangelo, et Raffaello dove ho notato qualche volta delle figure mancine per farle parere più belle; oltre che il Drago, non solo non li viene all’incontro ma fugge, et li imbarazza ancora il cavallo. Insomma a me pare che m. Andrea si ha portato molto bene, et credo che parrà così ancora a chi (1) Guida illustrata di Genova. Genova, Sambolino, 1876, p. 41. (2) Arch. di S. Giorgio, Cancell. Domenico Tinello, Actorum, 1589-92. (3) Arch. cit., Actorum cit. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 261 non ha passione, et se mi paresse altramente lo direi molto liberamente obli-gandomi così la verità, come 1’ obligo che tengo a tutti quelli Sig.ri . Nel resto sono poco pratico in tutto, et mi potrei ingannare, però mi rimetto a più saldo giudicio et prego V. S. per parte mia faccia sapere quanto scrivo a cui bisogna, che per trovarmi occupatissimo non vengo in persona a far questa relatione, et a V. S. m’ offero. Di casa a 21 d’ottobre 15 91. Di V. S. S.re Pompeo Arnolfini Dal tenore di questa lettera sembra che l’opera del Semino non sia piaciuta all’universale, ed abbia dato luogo a critiche, e che perciò i Protettori siano stati indotti a domandare il parere dell'Arnolfini. Era questi un letterato lucchese, figlio naturale di Vincenzo, nato intorno al 1545, e morto affogato nella Magra nel 1598 all’età di cinquantatre anni, mentre si avviava alla patria (1), Aveva da prima vestito 1’ abito ecclesiastico, ma non sappiamo se prendesse gli ordini, e si trovava allora in ufficio di segretario del principe Gian Andrea D’Oria, al quale si mantenne fedele fino alla morte, avendo perciò anche ricusato di seguire Alessandro Farnese, che ne lo aveva richiesto. Autore di versi latini ed italiani, pubblicò prima nel suo originale, e poi tradusse la vita di Andrea scritta da Carlo Sigonio(2); fu amico del Chiabrera (3), e conobbe molti di quelli artisti contemporanei che vennero adoperati da Gian Andrea per abbellire il suo splendido palazzo; onde non è meraviglia se, e per ragione d’ufficio, e per inclinazione, fatto esperto nella dottrina e nell’estetica dell’arte, fosse a preferenza d’altri richiesto del suo avviso intorno al dipinto del Semino. Il quale, a quanto pare, ebbe commissione soltanto di decorare la facciata della imma- (1) Lucchesi™, Opere. Lucca, Giusti, 1833, XVI, 152-3. Venne asserito per errore (Merli e Belgrano, il Palazzo del principe D'Oria, in Atti Soc. Lig. di Stor. Pai., X. 61) che mori nel luglio del 1599, mentre dalle carte dell’archivio D'Oria risulta che ciò avvenne sulla metà del 1598 (Atti cit., IX, 3831, e d’altra parte Simone Menochio, che pubblicò la traduzione della Vita d’Andrea del Sigonio, fatta dall’Amolfini, scrive nella dedica in data 22 dicembre 1598 : « essendo egli morto senza potere ultimare l’opera è toccato a me, per mia buona sorte a darle perfettione ». Il Lucchesini affermò inesattamente che l’Arnolfini fu segretario di Andrea, anziché di Gio. Andrea. (2) Questa versione usci in Genova dalle stampe del Pavoni nel 1598, a spese di Gian Andrea (Atti cit., IX, 249, 382), il quale aveva pur fatto imprimere il testo latino dal Bartoli nel 1586 (Atti cit., IX, 185, 367-8) con le cure dell’Arnolfini, che vi premise la dedica e un epigramma, da lui stesso ridotto poi in un sonetto e stampato nella citata traduzione. Un suo epigramma si legge in Uberti Folietae, De sacro foedere in Selim. Genuae, 15S5, e venne poi riprodotto, con la giunta di un altro nell’operetta dello stesso autore Clarorum Ligurum elogia. Genuae, Bartoli, 1588, 264, 265. Nella Scelta di rime di diversi moderni autori. Genova, Bartoli, 1591, si legge un suo sonetto « per la sepoltura di Vergilio e del Sannazzaro, e per la venuta del Tasso a Napoli » (P. 91), un altro è ne La Semiramis boscareccia di Mutio Mani-redi. Pavia, Bartoli, 1598, p. 135. Versi latini ha in Carmina illustrium poetarum italorum. Florentiae, 1719,1, 362-72, e dodici distici intitolati : Thyrsis, cui segue la traduzione (un’ ottava e una sestina), sono nel cod. mise. 204 (c. 39.V, 40.r) della R. Biblioteca di Lucca. Si citano rime di lui in Rime di Giuliano Goselini, ed epigrammi fra : Carmina del Bargeo, ma nellr edizioni da noi vedute non esistono ; cosi ci è rimasto ignoto un altro carme Pro Christianorum conti a Tureos victoria ad Echinadas, uscito a Lione per il Grifio nel 1572. Sembra dettasse altresi dei dialoghi filosofici rimasti forse inediti. (3) Cfr. Chiabrera, Lettere a Bernardo Castello. Genova, 1838, p. 68, 88, e Opere, Venezia, Geremia, 1757, I, 276. 2^2 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA gine di S. Giorgio, nulla leggendosi nella lettera intorno ad altri adornamenti. Secondo l’Alizeri, i gravissimi danni cagionati dalle intemperie e dai sali marini a quell’ affresco, indussero i Protettori a chiamare nel 1606 Lazzaro Tavarone affinchè rinnovasse interamente il perduto lavoro. Ora a nostro avviso in quindici anni l’opera del Semino non poteva essere ridotta a tale da doversi in tutto rifare, mentre quella del Tavarone ha trapassato il secolo, ed anche oggi se ne veggono le reliquie. Noi crediamo invece che le critiche mosse al primo pittore, di cui pure è chiaro indizio nella lettera deH’Arnolfini, sopite per allora, risorgessero più tardi quando i Protettori vennero nel proposito di decorare tutta quanta la facciata; e poiché v’aveva da metter la mano un altro artefice, reputatissimo scolaro di Luca Cambiaso, deliberarono di cancellare ogni cosa e condur Γ opera sopra un nuovo disegno. Gli originali contratti d’allocazione potrebbero meglio chiarire le cose, ma, per quanto sappiamo, questi non furono noti all’Alizeri, il quale trasse le notizie dai registri finanziari, nè occorsero a noi in ulteriori ricerche. Ci siamo soltanto avvenuti nella supplica seguente (1): Molto 111.ri SS.ri Fu li mesi passati da predecessori di VV. SS. Molto Ill.ri data cura a m. Lazaro Tavarone pittore di dipingere la facciata verso il mare conforme al dissegno approntato con ordine e decreto loro, il che con molta speza e studio esseguì etiandio con sodisfattione e gusto loro. Occorse anco che di fatto e ridotto quasi a perfettione detta pittura con non poco travaglio e pericolo suo e perdita del tempo cattivo, altri Molto Ill.ri S.ri deputati con ordine pure di tutto il molt’ 111.re Officio fecero non solo diruare la pittura già fatta, ma anco riformarla sotto altro modello e pittura come si vede, dove che esso Lazaro ha avuto eccessiva speza tanto di colori quanto di diversità di dissegni e far tingere le ferrate e tutto per ordine loro. Di modo che le L. 1450 staiteli offerte da Molt’ Ill.ri s.ri deputati non sono il suo pagamento dell’ ultima pittura perchè sarebbe un levarli la metà della sua mercede. Significandole anco che 1’ è convenuto in d.a Pittura usare grand’ arte per ingannare 1’ occio rispetto alle disuguaglianze eh’ è tra finestra e finestra, e anche di partecipare per ordine loro questa cura col S.r Gio. Batta Paggi. Supplica perciò d.° Lazaro VV. SS. M.to Ill.ri ad haver risguardo e consideracione al tutto e darli presta e buona spedicione come spera. Che N. S. li conservi. I Protettori del Banco non si lasciarono commuovere dalle ragioni del pittore e con decreto del 29 febbraio 1608 ordinarono il pagamento delle lire 1450, detratto quel tanto che il Tavarone aveva ricevuto in anticipazione. Il qual prezzo, più del doppio di quello pagato al Semino, ci fa accorti trattarsi qui di affresco più ampio e complesso, riuscito certamente molesto e travaglioso, se l’artista si vide costretto a disfare l’opera propria ed a rimaneggiarla conforme a nuovo disegno con l’aiuto del pennello (1) Arch. cit. Cancelliere Godani, fil. 1607-1608 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA di Giambattista Paggi, sottoponendo il libero genio dell’arte alle esigenze ed al gusto degli ufficiali che si succedettero in quel periodo al governo del Banco. Nè pur troppo le maggiori fatiche trovarono equo ed adeguato compenso. A. N. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Gli ultimi giorni della Repubblica di Genova e la comunità di Nove tratti da documenti inediti per Anton Francesco Trucco. Milano, Aliprandi, 1901 ; in-8, di pp. 464. I. La caduta della antica repubblica di Genova non ha ancora trovato una storia completa, esauriente, ma se ne vanno accumulando sempre più i materiali, sicché è sperabile non tardi molto che li presenti al pubblico riuniti in un racconto cne sia insieme un’opera d’arte. Già nel 1897, nel Giornale Ligustico, precessore del nostro, il prof. Guido Bigoni pubblicò un bel lavoro su questo argomento; egli tuttavia, pur lasciando travedere profonda conoscenza del soggetto nei particolari, non narra questi, se già noti, ma piuttosto con profondità di vedute ne fa una sintesi. Narratore invece è il Trucco, e perciò il suo lavoro corredato di documenti inediti riesce un utile contributo alla storia della Liguria per questo periodo. Comincia il suo racconto col passaggio per Novi diretta a Genova di Giuseppina Bonaparte, il ‘26 Novembre 1796. Sventuratamente questa è per lui l’occasione d’una lunga digressione, d’ oltre cinquanta pagine, dove ci parla dei teofilantropi, della Tallien, della Recamier e di molte altre cose ancora, egualmente estranee all’argomento, e tuttociò per tentare una giustificazione delle virtù coniugali di Giuseppina. Della famiglia Bonaparte all’epoca del primo Napoleone non si può davvero ripetere la seconda parte dell’elogio che si fece d’un’altra famiglia di regnanti; che gli uomini eran tutti valorosi e le donne tutte oneste ! E strano tuttavia che le poco degne compagne di Napoleone in questi ultimi tempi, mentre in Francia le ricerche storiche rese facili dalla tendenza dell’ attuale governo ne misero a nudo il poco valore morale, in Italia trovino infervorati difensori. Già l’anno scorso una gentile scrittrice cercò riabilitar la memoria di colei che V esigilo coronò del córso d’ austriache corna, ora il T. non pago di una lunga perorazione sopra Giuseppina in principio del suo lavoro, ritornerà sull’argomento nell’ultimo capitolo per deplorare il divorzio ! Ci permetta 1’ egregio autore di esser piuttosto dell’ opinione del Bouvier del bel lavoro del quale, Bonaparte en Italie, il 264 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA primo volume finora soltanto, per quel che sappiamo, pubblicato, fa desiderare ansiosamente i seguenti. Egli (p. 594) dopo averci descritta Giuseppina a Parigi che trovava drôle Bonaparte tanto ingenuo da amarla sul serio, e gli preferiva lo stuolo degli scialbi adoratori, gli zerbinotti dalle parrucche bionde, gli attillati ufficialetti che non s’affrettavano a correre al fumo delle battaglie, i deputati galanti che fiutavano già brumaio e i fornitori, a des vrais rustres mais dont les grosses mains chargées de blagues savent si joliment glisser des gros pots de vin n ; dopo ciò in una nota osserva che Giuseppina nel 1809 non ebbe che quello che avrebbe meritato sin dal 179B. E osserviamo noi che se Napoleone tanto stranamente indulgente con quella donna l’avesse ripudiata prima, avrebbe evitato gli urti col papa, causa che pure contribuì alla sua caduta, perchè Giuseppina pei primi otto anni non fu maritata a Napoleone che con la semplice formalità civile, nodo per la legislazione e più per i costumi d’allora facilissimo a sciogliere, ed il matrimonio religioso non fu contratto che nel 1804, segretamente ed in fretta, perfino senza testimoni, di notte poco prima dell’ incoronazione. La difesa che il nostro A. tenta di Giuseppina fa onore a’’ suoi sentimenti cavallereschi ; ma non sappiamo se la ripeterebbe in una ristampa del suo lavoro, allorché avesse avuto la pazienza di scorrere quei 10 o 12 volumi, di études napoléoniennes che il Masson scrisse sulla vita intima e la famiglia del nuovo Cesare. Era essi ve ne sono tre esclusivamente dedicati allo studio di Giuseppina ; nell’ ultimo, Josephine repudiée, pubblicato nel 1901 il Masson nota (p. 12) che dei primi quattro anni del suo matrimonio con Napoleone essa ne passò al massimo uno con lui e due almeno col Charles ! La preoccupazione di rialzar la figura di Giuseppina induce ancora ΓΑ. a supporre uno scopo politico a quella sua scappata a Genova, ma a dir la verità gli indizi che cerca raccogliere per avvalorar la sua tesi son così pochi ed evanescenti che non vai la spesa di fermarvisi sopra, nè la frivolezza del carattere di quella donna rende poco probabile la supposizione. Senza cercar movente di calcoli politici, si comprende come la passione delle distrazioni e la vanità femminile la conducessero a Milano, a Venezia, a Genova ove su lei riverberava la gloria, recente ma già gigantesca agli occhi degli italiani, del marito, dove ammiratori sinceri e timorosi adulatori di lui s’ univano per tributarle onori quasi a sovrana, dove pure raccoglieva la sua parte delle spoglie sotto forma di doni, che le prodigavano i governanti spaventati, per propiziarsi il temuto consorte. Era il tempo in cui molti calati dietro all’ esercito francese faceano bottino in Italia, e il futuro arcivescovo di Lione e cardinale di S. Lorenzo in Lucina, deposta la sottana, come commissaire des guerres s’adoprava alacremente GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 265 allo spoglio delle nostre chiese e musei a vantaggio della Francia e anche suo particolare, che riuniva una magnifica galleria. Nulla di strano che la moglie del nipote per conto suo raocoglieese vo-lontieri omaggi e gioielli; Genova era ricca e potea sperale che il suo governo fosse tanto generoso con lei quanto lo era stato quii di Venezia. Lasciamo pertanto da parte Giuseppina il di cui soggiorno a Genova non fu che un’ episodio senza importanza, e seguitiamo coll’A. lo svolgimento dei fatti che condussero alla fine dell’ antica Serenissima. È la vecchia favola del lupo e dell’agnello : il governo genovese con tutti i suoi difetti, combattuto fra gli interessi del suo commercio e le simpatie dell’ aristocratico reggimento, era tuttavia leale nei suoi propositi di neutralità. Ma ormai nulla poteva arrestare la rovina. Già il Bigoni ha rilevato molto giustamente che l’antitesi, stabilita dal Botta, fra la caduta delle repubbliche di λ e-nezia e di Genova non corrisponde alla verità storica. Nessuno degli stati italiani d’ allora, meno il regno di Sardegna, dimostro vigoria. L’aristocrazia genovese che avea sempre palesato minoti attitudini di governo della veneziana, nel 1716 s’ era addimostrata del tutto impari alla gagliarda esplosione del popolo ; nè in questi cinquantanni avea mig'iorato. Nel 1768 avea compiuto col trattato di Versailles l’atto più vergognoso della politica italiana del secolo; ora conscia, si direbbe, d’aver finito il su^ tempo, sfuggiva i pubblici uffici; l’ultimo duce, meschina figura, dovette essere insediato suo malgrado. Si direbbe che tuttora allarmata di quella rivelazione d’antiche tendenze ed antiche energie eh’ era stato il movimento del 1746 temesse quasi più della ricca e colta borghesia, del secondo ordine, come allora dicevasi che non dello straniero; pochi anni prima preoccupandosene il governo avea ordinato un’ inchiesta per indagare perchè avvenisse che tanto scarse fossero le domande di ascrizione alla nobiltà che pur significava partecipazione al governo. Incomparabilmente maggior energia che a Venezia era invece in quella che or chiamiamo borghesia e nel popolo : ne avea dato prova la prontezza con cui queste due classi nel 1746 aveano ordinato un governo che nei giorni più critici surrogò il governo legale eclissatesi per ignavia. Ma di queste classi la prima per tradizioni mai del tutto spente, per nuove idee aleggianti dovunque, era in gran parte contraria al governo e con essa taluni dei più colti della stessa nobiltà; gli scritti del prete Accinelli son pur anteriori alla rivoluzione francese! Energia pure conservava la plebe e questa era devota al governo ; il fatto mostrò che la conservava anche nel regno di Napoli; che se da noi non trascorse ad eccessi sanguinosi come la, fu perchè più civile essa e più civile e soprattutto 266 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA più onesti i governanti, incapaci della ferocia ributtante onde si macchiarono i Borboni di Napoli pochi anni dopo (1). Ma la plebe avrebbe potuto fornire uno strumento efficace a governi vigorosi, di surrogarli da se era incapaee; nè potea per farlo trovar capi nella borghesia ricca e colta, perchè questa era incline alle nuove idee. Il nostro autore ci ia vedere Giuseppina a Genova dove giunge col patrizio Gio Carlo Serra (di cui il Bigoni pubblicò una lettera donde appare che sin dal 1797 faceva voti per l’unità d’Italia ancora lontana ma che il genio di Bonaparte avrebbe potuto accelerare!), ci fa conoscere il caratteristico episodio delle apprensioni governative per l’annuncio nella Gazzetta Patria del cerimoniale con cui era stata ricevuta Madama Bonaparte, ci dà particolari tolti dal Gaggero o nuovi sulle accoglienze che le fecero varie famiglie pati izie, e il negoziante Calvi, e 9opratutto sul ballo offerto dal laipoult, e i nuovi allarmi di cui fu cagione. Da questo punto, gli ultimi del novembre 1796, salta al maggio del 1797, ed è qui veramente che comincia il racconto. Dir che sia completo sarebbe tioppo, ma quel che ci apprende e interessante ; molti particolari nuovi, i documenti ufficiali che l’A. pubblica ci permettono di seguir le ansie di quegli sfortunati reggitori d’ un piccolo stato quasi ineime contro una potenza che ha tutto per se, la scaltrezza e la malafede de’ suoi agenti, ufficiali o secreti (la morale d’ un giacobino di cui poco prima vantavasi il Saliceti), la corrente delle nuove idee, la gloria delle armi. Noi vediamo i timori, le titubanze, i piccoli ed inadeguati espedienti del governo della Serenissima ; taluni documenti, come il verbale della riunione del Minor Consiglio del 26 e 27 maggio, ci danno il color dell’ ambiente meglio di qualsiasi descrizione; e a tal uopo servon pure moltissimo i biglietti di calice (avvisi anonimi) che l’A. riporta in buon numero, di pai te de quali forse sarebbe stato sufficiente un breve sunto, ma che nel complesso giovano a render più chiara la luce che emerge dai documenti officiali. Così, documentando il racconto, giunge al momento in cui il Minor Consiglio, il 31 maggio, decide l’invio d una deputazione al generai Bonaparte. Qui (p. 294) 1 autore apre una lunghissima parentesi per esporci le vicissitudini di Novi dalle sue origini al 1797. Confessiamo che 1 idea non ci par felice, e perciò prima di parlar di questa parte del suo lavoro, riprenderemo a p. 413 il racconto degli ultimi giorni della Repuhlica di Genova: le conferenze della deputazione genovese col General Bonaparte, la convenzione di Mombello, la instaurazione (i) V. nella Nuova Antologia, i. Ottobre i. Novembre 1901 Napoli nel terrore di Michelangelo d’Ayala. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 267 della Hepublioa Liyure il 14 ninnilo. E pur troppo anche nuovi tumulti, indecenti gazzarre fra le quali la rottura delle statue dei Dorili, occasione al Bonaparte di quella celebre lettera che sarebbe bastata da sola a far indovinar l’energia dell’ uomo di governo nell’antico demagogo di Ajaccio, tenente-colonnello elettivo di un di quei battaglioni di guardie nazionali (1). Riassumendo, il lavoro dell’ egregio autore non ostante le frequenti e lunghe digressioni fin dal principio e non sempre giustificate, e un’ utile contributo alla storia della caduta del governo aristocratico di Genova; aggiungiamo che ha un inerito non comune in questo genere di pubblicazioni, quello di iarsi leggere anche da coloro che alla serietà degli studi storici son meno inclinati. Π. Come ho detto l’A. a p. 294 abbandona il racconto degli avvenimenti di Genova nel momento più importante per esporci ab initio la storia di Novi. Noi siamo convinti fautori dell’ utilità di simili monografie, materiale utilissimo che la devozione figliale di scrittori alla terra nativa prepara per la storia nazionale. E nessun, da quel che se ne può giudicare, più adatto del T. che alla perfetta conoscenza dei luoghi unisce quella della bibliografia locale e di numerosi documenti e raccolte private ad altri o ignote o non facilmente accessibili. E speriamo che un giorno ci fornirà la storia di Novi fatta con garbo, come mostra di pote.'e, in modo da essere una lettura interessante anche per coloro che a quella cittadina sono estranei. Per ora contentiamoci di quel che ce ne dice in codesto suo volume, limitandoci a deplorare che non l’abbia diviso in due parti distinte. Già a Novi l’A. avea dedicato una diecina di pagine al principio del volume riportando il proemio d’un lavoro del Capelloni non tacile a trovarsi. Ora prendendo pretesto da un dispaccio di quel governatore Gian Benedetto Pareto al governo della Serenissima ritorna a quella città per esporcene le vicende cominciando dalle ipotesi sulla fondazione e le incerte notizie e leggende sui primordi della sua esistenza. Con diligenza degna d’ogni encomio il T. ha raccolto ogni cenno di quella terra che potè trovare negli scrittori, pubblica documenti che, seppur in gran parte già pubblicati, tuttavia riesce molte comodo aver raccolti sottocchio ; sebben di taluni, come il privilegio di Ottone dall’A. riconosciuto apocrifo, non si comprenda la ristampa; e dei due col comune di Genova del 1135 e 1157 non in- (1) Marcaggi, La Genèse de Napoléon. Paris, Perrin, 1902. 268 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA dichi che furono pubblicati nel Liber Jurium (I, 48, 203; Μ. H. P.) e preterì trascriverli da un M. S. Interessantissimo invece è il doc. del 1447 ch’egli desunse dall’Arch. di St. di Genova e non fu mai pubblicato integralmente per quanto sappiamo. Così dagli oscuri primordi della corte di Novi vediamo le successive vicende della terra che passa alternativamente sotto i Marchesi di Monferrato, il Comune di Tortona, i Visconti, il Comune di Genova ma neppur sotto questo dapprima rimane lungamente, perchè la più avida tra le grandi famiglie di Genova, molte delle quali a gara tentavano usurpar brani di territorio del comune, i Fregoso, tenta farsene una signoria particolare, come di Sarzana e della Corsica, ed è soltanto nel 1548 che quella terra è unita definitivamente alla repubblica genovese. La storia intima dei piccoli comuni come Novi, la storia del loro sviluppo sociale delle loro industrie, dei loro ordinamenti municipali, delle loro famiglie, può riuscir interessantissima pei fornirci un concetto della vita di tutta una regione nella successione dei tempi, come lo spaccato di un edificio di cui la storia generale non dà che il disegno esterno. Questa parte dal T. è alquanto trascurata; ci riferisce, è vero, gli statuti riformati del 1589 ; ma non cerca d indagare quali fossero le istituzioni comunali anteriori. Ci parla di quattro consoli, d’un podestà e d’un officio di credenza o consiglio di nobili anziani che cessarono di eleggersi a seguito delle nuove convenzioni con Genova del 1548, ma non cerca quali fossero le instituzioni con cui si resse sino a quell’ epoca il comune. Eppure dai documenti, sia notarili che d’indole politica, dalle raccolte private come quella del Pernigotti, dalle memorie manoscritte ch’egli ebbe agio di consultare, si può credere che quella ricostruzione non debba riuscire impossibile. Già nelle convenzioni del 1447 eh’ egli i ipoita troviamo menzione dei trentasei presidenti ne’ negozi della comunità di Novi, d’ un podestà deputato dal duce di Genova con mero e misto imperio, d’un capitano della terra, di un consiglio dei dieciotto sapienti. In qualche documento notarile trovammo cenno di patti fia gli alberghi per il riparto fra essi delle cariche comunali (1). Delle industrie che fiorivano a Novi non ci parla il T., appena accenna alla introduzione della stampa ; le famiglie che si levarono successivamente in fama non indica mai che incidentalmente (eppure nelle storie locali ciò ha una grande importanza) e per quel poco (i) i452> 27 settembre. Frane. Maseardo e Pietro da Cunio per se e come procuratori amicorum de squadra nobilium de la Cavana de Novis (atto not. Luciano de la Cavana) fanno a lor volta procura a vari individui per ogni lite, ora e in futuro, coll’ albergo illorum de Parmerns e qualunque persona interveniente per essi occasione vocium duarum ex vocibus consilii dicte terre {Not. Xro de Rapallo, F.a 7, n. 175). GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA fidandosi alla guida dell’Aecheri, autore che non ha altro valore che quello di un elenco dei cognomi degli ascritti agli alberghi del la'2* e successivamente al patriziato di Genova sino alla line della repubblica. E poiché accenniamo agli alberghi ci giova soffermarci alquanto su questo punto sinora non ben chiarito della storia di molti comuni dell’alta Italia, del Piemonte e della Liguria sovratutto. Generalmente per quel che riguarda Genova, ove gli alberghi nobili si costituirono prima dei popolari e solo si trovano tenuti a calcolo nel riparto degli uffici e delle tasse, si credette che l’albergo fossi- una instituzione essenzialmente nobiliare; recentemente uno scrittore straniero che vuol parlare anche delle cose nostre trovò che la costituzione d’ un’ albergo “ semble avoir en originairement 1’ exploitation d’un fief en comun n (1). Nel fatto la cosa è ben diversa. 1 albergo in Liguria corrispondente all’ ospizio in Piemonte, è sinonimo di domus, casato, parentela, riunione di famiglie legate da un vincolo d’agnazione, fossero esse nobili o popolari non monta. In ciò discordiamo dal Cibrario, che parlando appunto degli ospizi ed alberghi che fiorirono non solo in Chieri ma in Torino, a bavigliano e poi a Genova li considera come un’istituzione nobiliare: in un pregevole registro a catena che ancora anni sono possedeva il comune di Ga-ressio trovammo menzionati in un documento del XIII secolo parecchi ospizi di terrazzani di quelle località, popolali ed in opposizione ai signori feudali, e la parola equivale a parentela, individui che portano lo stesso cognome e son legati fra loro d agnazione ( l ). Nel registro della Curia Arcivescovile pubblicato dalla nostra Società di St. patria trovasi menzione del domus de Caschifellono, (1) È notevole invece che, almeno in Liguria, nessuna delle grandi famiglie feudali come tale costituì albergo; i Fieschi lo formarono come Fieschi nobili genovesi e non come conti di Lavagna ; gli altri rami dei conti di Lavagna vi rimasero estranei se non aggregati da essi: Scorza, Biançhi, Secchi, Becchi, Ravaschieri, Camezana, S. Salvatore, Faba, de Asisto, Conte, Bargoni, gli stessi Fieschi di Rapallo. I Torre o della Torre e tanto meno i Federici credo non appartengano a quella schiatta comitale. Quanto agli alberghi nobili genovesi de’ Pallavicini e Lomellini non avean nulla di comune, i primi cogli omonimi marchesi obertenghi, gli ultimi coi conti palatini di Lomello. (2) È un atto molto interessante del 2 dicembre 1276 con cui i signori de Garexio, de Perlo, Scarella, de Marvino, castellani di Garessio e vassalli degli aleramici marchesi di Ceva, assediati nella rocca da quei terrazzani concludono pace salvando la vita e gli averi e confermando ad essi tutti i loro privilegi fra i quali 1 elezione annuale di tre consoli. Per gli uomini di Garessio, oltre il loro sindico Lanfranco Gelino per la comunità, ricevono la promessa lo stesso Gelino prò se et hominibus de hospicio suo, Gio. Lomello, id. mag. Raimondo e Guill.o Faber prò se et omnibus de eorum hosfiicio et parentela, Enrico Amadeo, Calcagno, Caldile Gazanio, Aresche, Feniolo Becho, Gio. Perlo, sempre tutti anche per il loro hospicio et parentela. I signori d Olmeta (Ormea; accedono solennemente all’ atto ratificato poi dal marchese Nano. 270 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA sempre nel sec. XIII trovammo a Diano menzione dell’ albergo sire domm dei Rulia; anche dopo che cessò a Genova l’uso della parola albergo per sinonimo d’agnazione par che siasi conservato nella riviera; nei rogiti di un not. Bellerono, di Sestri Levante del secolo XV tutte le casate delle ville circonvicine sono indicate come alberghi seti parentelle, la stessa espressione alla fine di quel secolo trovasi in qualche caso in atti rogati a Rocco. Pertanto originariamente V albergo e conseguenza di un’agnazione, lo troviamo chiaramente indicato nell ’ istrumento di fondazione dell’albergo Squar-zafico. Ma questo albergo dirò cosi naturale col tempo si allarga a comprendere o affini per es. Raffaele di Leca, còrso, nei Doria) o amici (un de λ ineis, popolare, negli Imperiali), talora anche stranieri. In seguito ancora alberghi ridotti esigui s’appoggiano ad altri rimasti più numerosi e forti e si confondono con essi. Presso a quest’albergo che è un’estensione del vincolo agnatizio e conserva il nome della famiglia che ne formò il nucleo, ne vediamo sorgere un altra forma che diremmo conrenzionale. E l’associazione di diverse parentele che tutte abbondonano gli antichi cognomi per assumerne un nuovo comune che già in se per Io più ci rivela che si tratta d un cognome d’albergo e non di famiglia: tali sono a Genova nei nobili i cognomi di Gentile, Cattaneo, Imperiale, de Columnis, Centurioni, Scipioni, Campioni, Italiani (poi Interiani). Lo stesso doppio processo di formazione si nota negli alberghi popolari allorché a Genova cominciarono a formarsi: agglomerazione intorno ad una famiglia quale a nucleo, come avvenne poi Patinanti, Promontorio, Adorni, Fregosi: accolta di individui, di cognomi e origini disparate e numerosissime che adottano un nuovo cognome comune,come i Giustiniani, de Franchi, Sovrani (poi Soprani) gli Stella. Ora I albergo sia come sinonimo di vincolo agnatizio, sia come conseguenza di patto convenzionale crediamo abbia avuto molta maggiore estensione di quella che il Cibrario ci ha indicato. Già notammo quel- I espressione a l)iano nel sec. XIII e nelle riviere nel XIV; altrove accennammo d’un albergo dei Ratti a Finale, trovansi molti indizi di un albergo ed ospizio fonnato dalla famiglia Gentili di Tortona. Ma '·■ specialmente in due terre dell’ oltrappennino, 1 OUregiogo come allora dicevasi, che potemmo notare più sicuri cenni di alberghi, in Voltaggio ed a Novi. Λ V oltaggio alla parentela numerosa e potente degli Scorza che deve aver tatto poche adozioni perchè a noi non riuscì di trovar in quell’albergo che nn Ravaria, si opponeva quella dei terrarii che adottò molti dei Buzalini e dei de Magistri. Posteriormente fra le due parentele od alberghi rivali si formò quella dei Costanti nella quale entrarono individui delle famiglie Verro, GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 27 I Cochella, Grillo, Bocca, Bozio, Masoco, Saivago e probabilmente altre ancora. Cosi a Novi nel XY secolo.troviamo gli alberghi formati per convenzione da individui di famiglie diverse; due fra gli altri più numerosi, quello dei Pellegrini ove troviamo Marcuchi, Bovone, Conti, Clecha, Rezenenli e quello dei Cattanei di cui ci occuperemo un po’ più particolarmente. Premettiamo che la formazione di questi alberghi che chiameremo convenzionali per distinguerli da quei di famiglia, ha gli stessi caratteri tanto nell’ Oltregiogo che a Genova, si tratti d’alberghi nobili o popolari. Negli alberghi nobili, antichi alberghi ridotti a piccolissimo numero ne formano in un unico nuovo o si fondono in uno già esistente; negli alberghi popolari (e tali son quei di Voltaggio e di Novi), si riuniscouo individui dai casati più disparati ; in entrambi i casi cercano nell’unione la forza, intendono assicurarsi una partecipazione negli uffici pubblici. Il T. sulla fede dell’Ascheri ha creduto che i Cattaneo di Novi fossero gli antichi de Bragheriis, ma nel fatto tal famiglia non fu che una frazione dell’ albergo. Il cognome di Cattaneo tanto a Genova fra i nobili quanto fra i popolari di Novi è nome di albergo e non di famiglia : 1’ etimologia è nota, è una contrazione della parola capilaneo, qualifica onorifica che troviamo nel medio evo in tutta la vasta regione che chiamavasi allora Lombardia (cf. coi caporali in Corsica) e diede origine ai numerosissimi gentilizii Cattaneo che si trovano tuttora nell’Alta Italia. Nell’albergo dei Cattaneo di Novi oltre ai Bragherii fecero parte individui dai cognomi meno curiosi. Ponsiliono, An fanno, Garino, Lodolo, Pezzolo, Bocia. Paolo da Novi, che fu duce, apparteneva ai Cattaneo e non ai Cavanna come erroneamente stampò l’Ascheri e ripetè da lui il T. Nella seconda nota del secolo XV gli individui di Novi si trovano numerosissimi a Genova : ve ne sono in tutte le arti, lo più elevate e le più umili: giureconsulti, medici, sacerdoti, militari, notari, farmacisti, barbieri ecc., ma specialmente fra i tintori di seta perchè in quel tempo gli individui d’ una località, trasferendosi nei grandi centri, si applicavano di preferenza alla stessa arte; cosi per esempio a Genova quei di Castel-lazzo erano di preferenza calzolai e zoccolai, del lago Maggiore e valli bergamasche, facchini ; del lago di Lugano, muratori ; quei del comasco calderai e chiappussi, quei di Ronco Scrivia, feudo degli Spinola, conciatori di pelli fra i quali sono a notare i Balbi della villa di Cipollina, appunto in quel di Ronco, che s’ elevarono rapidamente dalla condizione di vassalli degli Spinola al patriziato nel 1528. A Genova moltissimi di tali immigrati erano designati molte volte unicamente coll’ indicazione del luogo di provenienza, de Novi, per esempio, senza indicazione del nome di famiglia e talune famiglie anzi 272 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA ritennero questo casato in luogo dell’antico. Così avvenne pei Balbi ascritti al patriziato da principio col nome di Cipollina, così per la discendenza di Paolo da Novi. E gli individui che a Genova in quell’epoca si trovano indicati corno de Novi son di molte più famiglie di quelle che ha creduto il T. sulla fede del Serra e delPAecheri. Ma ch’esso fosse dei Cattanei, sebbene non sappiamo qual cognome la famiglia portasse prima d’ entrare in tale albergo (1), e non dei Cavaima come avea asserito senza alcun fondamento l’Ascheri, già lo avea rivelato lo Stagliano sempre esattissimo nelle sue indicazioni in una pregevole nota non conosciuta dal T. inserita nel Vol. XIII degli Alti della Soc. di S. P. ove si contengono alcune importanti indicazioni intorno al supplizio dell’ infelice duce e sopra la sua discendenza. Lo Staglieno induceva.che fosse della famiglia Cattaneo da un atto notarile ove così è qualificato suo fratello Giovanni pure tintore in seta: aggiungeremo che gli atti notarili in cui tale Giovanni do Cattaneis de Novis q. Jacobi, tintore, è menzionato sono più d’uno e che oltre a ciò trovammo menzione esplicita di Paolo de Cattaneis de Novis figlio di Giacomo in un atto del Not. Oberto Foglietta del 1451, ί( agosto F.a 8.» n. 489) e dei fratelli Paolo e Giovanni de Cattaneis de Novis come consiglieri e prossimiori di un Gio B. de Cattaneis de Novis qu Stephani, in atto del 148ÌJ (d. Not., F.* 83, n. 229. Paolo era pure assegnato ai Cattanei di Novi da L. A. Corvetto nelle sue monografie sulle famiglie genovesi di cui incominciò la pubblicazione sul Cittadino negli anni passati. Egli si valse evidentemente delle ricerche dello Staglieno, ma v'aggiunse dei particolari interessantissimi ricavati da una relazione sincrona sul supplizio dell’effimero duce. E deplorevole che il Corvetto non abbia indicato quel documento altrimenti che come quello che coneer-rati nelle carte dell’Arch. gorcrnatiro (!) sicché non è davvero facile il ritrovarlo e dobbiamo contentarci degli scarsi estratti che re ne ha fornito. Secondo questa relazione « il lo giugno (1.Γ><·7) è stato con-dutto Paolo da Nove prigione a Genova il quale fa messo in Castelletto, (da ?) uno Corsetto abitatore a Pisa con un suo breguntino che lo dovea condurre a Roma, toccato SIKI senti da nobili per condurlo a Genova Che il traditore fosse un tal Corsetto « accettato concordemente: si dubitò se cosi si chiamasse per esser còrso d'origine o non piuttosto Corzetto, cognome genovese tuttora sparso in Liguria, ne con sicurezza sapremmo decidere. Notiamo però una sin- (1) Come lieve indi/io c Irarna per ricerche ulteriori nolo soltanto che in un atto del not Nie. Raggio. 18 Ottobre 1469 troviamo no Pautìnm Gaiinus de Captnneu de Strini fratello di q. Bartolomeo e q. Giovanni, e risulta che il q. Giovanni avea bottega da tintore a Genova. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 273 golare coincidenza. Nel 1505 Pasquale Lomellino podestà di Bonifacio che voleva anzitutto impedire a Ranuccio della Bocca di passare dalla Sardegna, ove trovavasi, in Corsica, e poi, s’era possibile, consigliava di farlo uccidere col figlio come il miglior mezzo per poter estinguere queste camere (sic) » dice d’ aver commesso a un Corseto di Pisa patrono di un brigantino partito il giorno piima per la Sardegna di prendere e bruciare una barca che Banuccio teneva a Porto Torres per recarsi in Corsica « salvo se potesse fare meliore trato in caxo che fosse assonato (ricercato) da lui de doveire passare in Corsica che ve Io menasse chi (qui) et li havemo promesso darli un buon presente et lui ha acceptato "t promesso a sua possanza farlo se sarà possibile dicendo dito Banuccio fidarsi molto di lui. Tamen in questo non mettiamo troppo speranza; ma (soggiunge da buon servitore che risparmia i denari dei padroni) non li avemo speiso salvo parole » (Arch. St. Carte di S. Giorgio, lett. di Pasquale Lo-mellini podestà di Bonifacio, del 13 Ottobre 1505). La indicazione che Ranuccio fidavasi molto del Corseto potrebbe fare credere che questo fosse còrso almeno d’origine, ma il fatto che era di Pisa, che era patrono d’ un brigantino e soprattutto la strana inclinazione che si vede avea per la parte di Giuda, non lasciano in noi nessun dubbio che ci troviamo aver da far collo stesso sciagurato che allora voleva vendere 1’ ultimo dei grandi ribelli cinarchesi a S. Giorgio, e non riuscitogli il colpo, vendette meno di due anni dopo il duce popolano di Genova 0 al re di Francia, o ai nobili genovesi perchè glielo offrissero in dono (1). Secondo questa narrazione i nobili genovesi avrebbero comprato il Corsetto acciò compisse il tradimento ; il fatto non è improbabile perchè essi erano partigiani del re di Francia ; alcuni anni prima allorché era venuto a Genova uomini e donne erano andati in sol- li) La propensione del Corseto ai loschi guadagni appare anche da un’ episodio narrato dal governatore di Corsica Lazzaro Pichenoto in una lett. al M. Ofl. di S. G. del 25 luglio 1504. Gli abitanti del Capocorso e dell’isola di Capraia s* erano ribellati contro Giacomo de Mari; non ostante il parere dei successivi governatori i primi dovettero ritornar sotto il dominio del Mari protetto dai Fieeehi de’ quali era sua madre. Se ne sottrassero invece per sempre auei di Capraia che ripetutamente dichiararono risoluti che piuttosto avrebbero incendiato la terra ed emigrato. Essi avevano anche allora spedito a Genova un'ambasciata all'Officio di S. G., un leudeto con 5 uomini, per chiedere protezione. Il Corseto trovatolo col suo brigantino lo catturò e diede in mano, barca ed uomini, a Giacomo de Mari. Ch'egli, patrono d’un suo brigantino, godesse molta fiducia presso taluni officiali nobili, poiché questi s' avvicendavano coi popolari, risulterebbe anche dal fatto che nel 1506 fu incaricato in Sardegna dall’Ottobono Spinola di recar lettere ed informazioni a voce circa l’accordo stabilito con Giampaolo di Leca al governatore Ambrosio Saivago e da questo poi di far pervenire 1’ importante rapporto, poiché egli personalmente ritornava a Pisa, o al comm. David Grillo o al capitano (per l'Off. di S. G.) di Sarzana. (Arch. di S. G. lett. di d. A. Saivago 18 gennaio 1506). Giorn. St. e Le/t. della Liguria 18 274 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA luchero per Γ onore di servirlo; una delle più nobili dame della città, Tomasina Spinola, s’era inamorata pazzamente di lui; in questa seconda occasione non si regolarono diversamente, e il oervetto nella citata monografia nota con amara ironia che Luigi Xll partendo da Genova il giorno dopo la decapitazione di Demetrio Giustiniani de-gnavasi « di creare quei nobili che l’aveano ospitato e ricevuto nei loro palazzi e servito a mensa, suoi valletti, con privilegio di andare armati ed esenti pei loro delitti dai giudici ordinarii. I valletti reali potevano "portare il giglio di Francia Capo della cospirazione in favore del re di Francia era Gian Luigi Fieschi il Seniore, ammiraglio genovese, conte di S. Valentino ecc. che gli storici della famiglia chiamarono il grande per distinguerlo dall’omonimo autore della famosa cospirazione. 1 Fieschi come i Grimaldi erano sempre stati devotissimi alla Francia: furono una delle razze più nefaste fra quelle delle grandi famiglie di Genova, nobili o popolari che allora si chiamassero, sebbene poi la tradizione popolare, che sempre si lascia commuovere dalle sventure dei grandi, dopo la fine tragica del secondo Gian Luigi e l’implacabile persecuzione di Andrea Doria contro la famiglia, ne abbia quasi riabilitato il ricordo arrivando al punto di farne un martire della libertà popolare. Gian Luigi Fieschi st-niore che rientrò poi con molti nobili nella sua città al seguito del re di Francia era stato l’anima della congiura dei nobili ili Genova in favore di questo. Scacciato egli e Gio Ambrogio Fieschi dalla città sulla fine del luglio 1506, nei pochi giorni in oui si trattenne nel suo castello di Montoggio prima di avviarsi ad Asti, riuniva colà i delegati della nobiltà genovese per ordire la trama che dovea reintegrare in Genova l'autorità regia e quella della nobiltà; la stipulazione formale da cui risulta l’accordo ed il noni·· dei delegati dei nobili è conservata nei rogiti del notaro Vesconte de Platono, il cancelliere di Gian Luigi, al n. !>1 : per la stia importanza la trascrivo perchè, credo, inedita : Die Ione 3 augusti 1506 in castro Montobii videlicet in camera li. Io Ludovici de Flisco, circa vesperos. In nomine Domini. Amen. III. D. Io Ludovicus de Flisco ecc. D. lo de Amia mile» auratuü, D. Ciprianus de Mari, D. Nicolaus Spinula q. P., D. Dominicus l.crcniitis q. D. S., Ansaldus de Grimaldis D. Io B.te et Augustinus Lomellinus I). B. nomine et vice Franc. Lomellini q. C. Deputati a tota nobilitate prout constai diversis apodisììs subscriptis manibus diversorum nobilium. Scientes datam ipsis fuisse magnam et amplissimam bayliam vigore tam dictarum apodixtarum quo aliquovis modo,concorde» pervenerunt ad iiifmscrifitam tassam seu partimentum inter ipso» nobiles pro recuperatione et seu rcintcgi atinne status Christianissimi Regis et dicte nobilitatis in civitatis ianue, cuius copia dicti par-timenti exibtla non fuit penes infrascriptum. Reservantes ipst deputati bayliam de uovo tassa tuli dictos tassatos et alios quos non tassassent, lassando toc iens quoctcns eis videbitur et placuerit. GIORNALE STORICO E LETTERARIO JJ1ÌL.L·A LIGURIA 275 Declarantes et volentes quod illi qui realiter non satisficient eorum tassam incurrent in dainpnum et ad interessa cAmbiorum et recambiorum usque ad integram satisfacionem predictarum tassarum et cuiuslibet ipsorum. — Ad dictamen sapientis. — M.eus Ό. Lucas Spiuula. — Testes: Io Ambrosio de Flisco, Io Frane. Spinula q. D. Cassani (1). Paolo da Novi povero vecchio, duce per pochi giorni, fu decapitato sulla piazza ducale come Demetrio Giustiniani lo era stato sulla piazza del Molo un mese prima, colla mannaia, in presenza di immensa folla, e i francesi videro come una novità funzionare la lugubre macchina, che battezzata poi con nome francese dovea trovare fra loro quel largo impiego che fortunatamente non ebbe mai da noi. La sua testa fu infilzata sopra una picca, il corpo squartato ed i quarti appesi alle porte della città. Secondo la relazione pubblicata dal Cervetto le ultime sue parole sarebbero state un’ esortazione al popolo a non fidarsi ne de’ nobili nè del popolo grasso. Quanto a quei del popolo grasso, cioè agli ottimati popolari, dobbiamo tuttavia notare che se trovammo qualche indizio che taluni possano aver favorita la cospirazione nobilesca, altri presero parte al governo popolare. Silvestro Giustiniani era stato collega di Paolo da Novi all’assedio di Monaco, Demetrio Giustiniani avea lasciato la testa sul patibolo e mentre molti popolani furono impiccati, molti altri condannati pure a morte, non si riscattarono che a prezzo di denaro Fra questi ultimi un Parentucelli di Sarzana, della famiglia papale. La narrazione comunemente accettata riferisce che Paolo da Novi, già riuscito a ripararsi a Bologna, imbarcatosi a Pisa per trasferirsi a Roma dove da Papa Giulio II era certo d’ ottenere protezione, sarebbe stato consegnato dal patrone della nave, il Corsetto, al capitano delle quattro galere di Luigi XII, il Prégent de Bidoulx di cui gli italiani storpiarono anche il nome in prete Gianni. Jean d’Anton, un cronista francese contemporaneo, ci da invece un’ altra versione del fatto, particolareggiata molto e che ha pure molte apparenze di (1) I nobili continuarono sino all’ ultimo ad osteggiare il governo popolare e a favorire l'azione del re di Francia. Il comune avea spedito ad arruolar soldati in Romagna ed in Corsica ; i primi non giunsero in tempo, dei còrsi se ne trovarono meno di quanto speravasi ; a spiegazione dei fatto il governatore Fr. Giustiniani scriveva all’ Officio di S. Giorgio il 14 aprile 1507; « Poiché le S. V. si meravigliano che il Damiano Canatio non abbia potuto ingaggiare più fanti mentre ordinaron di favoreggiarlo in cii> notifico che per la reverenza e obbedienza che ora è nell' isola si sarebbero trovati non solo 1000 fanti ma molto più ma i nobili e prelati (pure Giulio II era favorevole !) che sono nell’ isola usarono ogni arti per impedire tale effetto spargendo voce che li arruolati sarebbero o impiccati o messi alle galere ; ciò che seppi recentemente e pel posto che tengo 11011 feci mostra d' aver tale incarico lasciindo vedere che l’incarico spettava al Damiano Canacio ; questo dico perchè loro sappiano che se avessi dimostrato a nome delle S. V. di impegnarmene si sarebbero trovati non mille ma molto più fanti ». 1 Giustiniani «'erano schierati col partito popolare; sotto le sue parole par di sentire l'ironia, che voglia far sentire che pur volendo aver 1’ apparenza di coadiuvare gli si impedì di aiutare francamente il reclutamento. Nella stessa lettera dice che è « assai gravato di intendere li travagli occorrono in la città nostra per opera de li nobili ». Noto per incidenza che capitanava i difensori di Genova contro Luigi XII un Giacomo còrso. 276 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA attendibilità. Per nou esser stata raccolta sinora, eh’ io sappia, dai nostri storici la riproduco testualmente (1): Plusieurs des Génois qui â la vénne du Roi s’ étaient absentés et fui de Gênes, sachant comme au jour que les autres avaient fait le serraeut, leur grâce avait été déclarée s’en retournèrent où ils purent ; dont les aucuns furent pris et entre autres le duc de Gênes, nommé Paul de Nove, lequel s’était enfui en l’île de Corse, cuidant être là bièn à sur. Mais le Roi sachant qu' il ôtait là, avait donné charge à un nommé Prégent de Bidoulx, capitaine de quatre de ses galères, de s’ en aller vers la dite île de Corse et de prendre le dit Paul de Nove, s’il pouvait le trouver en lieu pour ce faire. Lequel Prégent avec d*-ux de ses galères armées, s' en alla vers la dite île le plus couvertement qu’ il put. Or avàit celui Prégent connaissance à un des patro*is d'aucunes barques de Gênes, son bien familier et ami, qui souvent allait de Gênes en Corse et de la Corse à Gênes, mener vivres et marchandise ; auquel parla le dii Prégent et lui découvrit son enterprise. « Signor, le Roi m’a donné charge d’une chose laquelle je vous dirai volontiers, pourvu que me promittez aider en mou affaire et que vous tenissiez la chose secrète; et, en ce faisant, feriez un bon service au roi et à moi un singulier plaisir et à vous même un grand profit: car si vous m’aidez à pai achever mon enterprîse j’ en ferai un tel rapport au Roi que toujours serez en ver lui recom-mendé. Et en outre j’ ai deux cents écus, tout prêts à vour bailler, si en ce me voulez secourir ». Lorque le dit Génois (!) ouit parler de deux cents écus, aprocha l’oreille en disant: « Signor Prégent vour savez que je suis tout an Roi et à vous. Et touchant ce que vous m’avez dit, s’ il y a chose su quoi je puisse servir le roi et à vous faire plaisir, soyez tout sur en me tenant promesse qu’ à mon pouvoir tant sûrement et a secret que faire le pourrai, à ce je m’emploierai »*. Le dit Prégent lui dit son intention, et comment il était là par le commandement da Roi pour vouloir prendre Paul de Nove qui était dedans l’île de Corse ce qu’ il ne pouvait bonnement faire sms l’aide de quelqu ’un, disant: «s'il sait aucuuemut Γenterprise il s'absentera ou mettra en lieu qu’ on ne pourra le trouver». Taisez-vous, dit le patton, m vous voulez me bailler les deux cents écus je vous le mettrai entre les mains el pour le moins en lieu où vous pourrez le prendre sans faillir ». Ce dit, le dit Prégent promil par sa fAi bailler les deux cents écus tout incontinent qu’ il aurait pris son homme Tant que le dit patron s’ en alla en Corse où trouva le dit Paul de Nove bien ébahi : et A tant demanda au dit patron qui venait de Gênes, comment allait du tout. « Non guère bien, dit le patron, car le Roi est demeuré màître et a fait Itannir plusieui s de** nôtre* et trancher la tête à Dimitri Iustinian ; et crois que s'il vous tenait très mauvaise compagnie vous ferait. Mais vous êtes ici bien sûrement et je crois qu’ il < uide que vous soyez fui en Grèce « Après plusieurs autres paroles le dit oatron tiou/a manière de mener le dit Paul de Nove par manière de passeteinps sur la rive de la mai ine où avait plusieus barques, naux et galères de Gênes et d’ailleurs el entre autres étaient celle de Prégent deguisées, où le dit Prégent était, lequel sitôt qu' il le vil et scs gens en si beau gibier, mit hors quelque nombre de ses geus, armés sous leurs mantes et leur montra le dit Paul de Nove, disant que soudainement le prissent et menassent A bord, ou il serait prêt de le croquer et mettre en sa galère. Ce qui fut fait car tout en 1 heure les gens du dit Prégent sortirent comme pour vouloir quérir eaux doures (1) Nelle sue Croniques da Louis XH pubblicate integralmente dal ÌMC*mx nel ι*Λ4. Vol. IV, p. 76 sgg. Recentemente lo ZkllER (///j/. dr France raccontai par Us contemporaine - Paris, Hachette) coordini in un unico racconto estratti da Jean d'Auton con altri da Iean de S. Gelais (Hist. dr Louis XII p/re du peuple.) e dal ls>yal .Serviteur (biografia del Bajardo di un anonimo). Ci valiamo di questa collezione rhe è un utilissimo complemento al racconto troppo sobrio dei nostri storie», aggiungendovi important issimi particolari sui fatti d'armi, il ricevimento del vincitore ec· GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 277 011 autres provisions pour mettre en leur vaisseaux et peu à peu approchèrent tellement, qu’ ils lui mirent la main sur le collet et à coup le guiderent devant Prégent qui le fil mettre en sa galère et fit bailler l'argent au dit patron qui Pavait fait prendre. Il cronista seguita narrando che il povero vecchio sbalordito scoppiò in lagrime, dicendo che la sua testa avrebbe pagato: sebben noi meritasse, perchè in ciò ch’era avvenuto la sua volontà non era entrata; Γ avea fatto per calmare il furore del popolo, il quale, se non avesse accettato, avrebbe ucciso lui stesso. E così fu condotto a Genova e condannato a morte come reo di lesa maestà: per aver mantenuto il popolo in stato di ribellione e come esempio agli altri in futuro. Dal racconto francese parrebbe che la esecuzione fosse stata fatta il 5 giugno, ma forse deve variarsi la punteggiatura e intendersi che fu decapitato il quinto giorno dopo la promulgazione della sentenza. (Après la Sentence par la justice donnée le cinquième jour, du nini de juin, mettendo la virgola dopo la parola jour anziché dopo la parola donnée come fa lo Zella). Il cronista aggiunge ancora che il re ebbe la magnanimità di non confiscarne tutti i beni lasciandone la maggior parte alla vedova che sempre l’avea dissuaso dal-1’ accettar il ducato e osserva che : laquelle execution donna crainte à tous Ics QÎnoU et merveilles à plusieurs autres. Nella narrazione del cronista francese il Prégent avrebb’ egli stesso trovato il Corseto che conosceva già da tempo e i nobili genovesi non avrebbero parte nell’atto vergognoso. Conviene tuttavia notare che il suo racconto per quanto molto particolareggiato presenta una lacuna importantissima, perchè non indica in qual porto della Corsica sarebbe avvenuto il fatto. D’altra parte che il Corseto bazzicasse per l’isola abbiamo visto prima, e se pur còrso non era dovea avervi molte aderenze, perchè come vedemmo Ranuccio della Rocca se ne fidava molto; che Paolo da Novi a sua volta vi avesse amici non è molto difficile ad ammettere, per la quantità di genovesi che allora dimoravano colà nei porti di mare. Individui cognominati de Aori* in Corsica ne trovammo parecchi ed anzi uno precisamente collo stesso patronimico, Paolino da Novi, soldato nel 14*rt nella comitiva di un conestabile Giovanni Greco, e poi nel 1406 e 1497 Paolo da Novi stipendiato a Bastia. Potrebbe essere anche un nipote dello sventurato tintore genovese. Non ci sentiamo di giudicare fra la versione dell’anonima relazione citata dal Cervetto e quella del cronista francese: potrebbe pure esservi del vero in entrambe e credersi che nobili genovesi, i quali conoscevano il Corsetto per esser stati come officiali di S. Giorgio in Corsica, l’abbiamo additato al Prégent; forse dai documenti dell’arch. di S. Giorgio (carte di Corsica) emergerà un giorno qualche luce (1). (i) Nei documenti dell'Officio di S. Giorgio di quest'epoca che ho potuto esaminar 278 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Noi ci indugiammo pivi a lungo di quel che la natura di questo scritto avrebbe voluto sulla figura dell’ efimero duce popolano perchè è certo la personalità storicamente più importante tra quelle che trassero origine da Novi, non tanto per le sue qualità individuali, quanto per la tragica sua fine, e come sintesi d’un’ epoca importantissima nella storia di Genova. La fine del secolo XV ed il principio del XVI segnano una crisi di trastormazione nella società europea; l’effetto non ne è risentito a Genova meno che altrove. Il comune spossato per le lunghe discordie intestine è caduto tanto basso quanto mai non fu; il popolo genovese mobile, portato alle fazioni, ebbe sempre fortissimo il sentimento dell’ individualismo, debolissimo quello politico, sicché le energie ond’ era assai ricco anziché volgersi a vantaggio dello stato concorrevano ad indebolirne la compagine; la repubblica è tanto fiacca che non solo passa dall’una all’altra dominazione straniera, ma si sente incapace di pur tentare la difesa, non solo delle lontane colonie dell’ oriente, ma anche della vicina Corsica e le atfida all’Officio di S. Giorgio: del pari i territori delle riviere, Sarzana, Levanto, la valle dell’Arroscia, Ventimiglia, affida allo stesso Officio per sottrargli alla rapacità delle sue famiglie potenti. A questo s’ aggiunge una profonda modificazione dell’ elemento etnico della cittadinanza; l’immigrazione fortissima nell’ultimo mezzo secolo di gente venuta dall’Oltreappennino, da tutti i paesi della valle padana, ha alterato 1’ antico fondo del comune genovese; moltissime delle famiglie che entrarono nel patriziato del 1528 e talune assursero al grande splendore e potenza, nulla aveano di < omune con le antiche e gloriose tradizioni del comune iti ed ioevale. Questa singolare figura d’un povero vecchio tintore, completamente illetterato, che per quindici giorni ha un’effimera dignità ducale e sconta col capo l’onore non ambito, è un fenomeno caratteristico della storia di Genova di quest’epoca. Merita perciò che altri colla scorta della pubblicazione dello Staglieno, coll'aiuto degli sinora non trovai nulla che giustifichi la narrazione del iean d'Auton. Tuttavia giova notare che egli dice che le galere del Prégent cran dtguUits, clic pertanto egli stesso se fu in Corsica celò la sua qualità, elle sendo il governatore favorevole ai popolari a lui pm che ad altri si dovette nascondere lo stratagemma, dato che siavi sialo. Gli unici cenni della presenza di francesi in Corsica in quell’epoca trovai in alcune lettere dello stesso governatore : del ,5 giugno, un P. S. del .6. in cui parla d' una insta proveniente da Napoli che diede la caccia a due brigantini genovesi d’incarico, pretendeva, dal capitano Peron lohan (Prégent) del 7 luglio; accenna allo sbarco in Corsica di alcuni francesi con Xforo Cattanio cognato de Ranuccio della Rocca e latore ili un salvocondotto per queste, del re di Francia, presentato al capitano delle forze di S.G., Andrea Dona : del 12 agosto ove si parla dell’arrivo a Rastia il 6 de' due brigantini francesi diretti per Candia e che toccarono ivi per ordine del detto Piero» lohan per farvi incetta «li falconi, a (juauto asserivano. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 279 storici francesi, ma sopratutto con nuove ed accurate ricerche archivistiche, ne faccia oggetto di studio storico che ci metta dinanzi lo condizioni della Liguria in quel periodo. Speriamo che lo stesso T. completando codesto suo abbozzo della storia della comunità di Novi, sciogliendola dal legame poco naturale in cui ce l’ha presentato, s’accinga al lavoro, rifondendo in esso quel che nel volume citato non e che una lunga parentesi. Ugo Assereto ANNUNZI ANALITICI. Giovanni Flechia. Poesie giovanili inedite [per cura di Giuseppe Flechia], Torino, Baglione e Brajotto, 1901 ; in-8, di pp. 16. — Il nipote dell’ illustre glottologo ba dato fuori queste poesie per festeggiare il quarantesimo anniversario dell’insegnamento di Graziadio Ascoli, il quale riconosceva nell’amico «fantasia vividissima», ed anima piena « della poesia di tutti i tempi ». Di che è testimonianza eziandio ne’ presenti versi della giovinezza, dove si leggono alcuni frammenti in isciolti di un poemetto sopra Dante, ed oltre a traduzioni dall’ inglese di Campbell e Rogers, un sonetto Nostalgia scritto a Londra nel 1839, notevole per bella e soave ispirazione. Carlo Petri. Commemorazione di Salvatore Bongi nel pruno anniversario della sua morte XXX decembre MCM. Lucca, Giusti, 1901 ; in-8, di pp. 66 (Estr. dagli Atti d. R. Accad. Lucch. di Scienze, Lett. ed Arti). — Non e questa una delle consuete scritture, ampollose nella forma e vuote nel contenuto ; ma 1’ esatta é geniale rappresentazione dell’ uomo in tutti i suoi aspetti nelle diverse fasi e contingenze della vita. La lunga consuetudine, la stretta amicizia del P. con il Bongi, lo chiarivano meglio d ogni altro disposto a far opera savia e duratura, sì come gli studi e 1 acume critico a giudicare, quantunque sommariamente, delle svariate pubblicazioni storiche di lui. Perciò ebbe mano felice l’Accademia nel commettergli 1 incarico di ricordare quegli che tenne assai tempo ufficio di vicepresidente. Il lavoro uscito dalla sua penna elegante è notevolissimo e commendevole per chiara esposizione, opportuna distribuzione, ed economia generale. Giustamente egli si ferma con larghezza sul primo periodo della vita in cui 1 attività del Bongi si \ede consacrala ad un alto fine patriottico, ed è quindi posto innanzi, e con efficacia lumeggiato, come cospiratore, come giornalista e come soldato. Ma quando nel i8jo si chiude la vita politica, incomincia quella dello studioso, del bibliografo, dell’ erudito, dello storico, dell’ archivista. La quale vien qui divisata secondo 1’ opera varia e molteplice con piena conoscenza, e con dicevole metodo, ponendo in rilievo ciò che meglio tornava conveniente a dar contezza della importanza e del valore di tutti quanti gli scritti del Bongi, o dei testi da lui pubblicali. Nè in questo novero si trascura di accennare a quelle scritture di ragione amministrativa, le quali rifulgono del pari per esattezza storica, e per acuta e vigorosa dialettica. Non dimentica infine il P. di presentarci 1’ uomo nelle sue qualità fisiche e morali, ricordando le doti dell’animo e della mente, dell’indole c del carattere. E’ l’ultima pennellata che occorreva a dar risalto alla figura che rimarrà viva e vera in queste pagine dettale in ottimo eloquio con affetto d’ amico, e con imparzialità di critico. Dino Cai.i.eri. Statuti del comune di Trevi/le nel Monferrato. Alessandria, Piccone, 1901 ; in-8, di pp. 48 (Estr. dalla Riv. d. Stor. Arte, GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Arc/ι. iii Alessandria). — Nessun vestigio d’ antico rimane in questo paesello posto sulle colline del Monferrato, che non conta ora più di 839 abitanti, mentre nel 1861 ne aveva 768, e 618 nel 1777. Poche carte ha l’archivio del comune che non risalgono oltre la fine del secolo XV. In un pacco di carte indicate come inutili, fu trovata la copia degli statuti che recano la data del 1303, con giunte del 1495. Il C. ha fatto opera savia nel darne una trascrizione esatta. E vi ha aggiunto a corredo la concessione e conferma de’ medesimi capitoli fatta nel [521 da Anna di Alençon marchesa del Monferrato ; e il giuramento di fedeltà prestato dagli uomini ilei comune a Gu-glielmo IX Gonzaga, il quale riconferma gli statuti, che successivamente vennero approvati da Carlo II e .da Ferdinando Carlo ultimo marchese. Questo castello venne eretto in feudo nel 1590; concesso indi a Giulio Strozzi, da questi passò agli Andreasi, e poi ai Gonzani. Tre facsimili adornano la pubblicazione ; due riproducono alcune rubriche degli statuti, la terza la concessione della marchesa Anna. Giuseppe Fdjzi. Dizionario di citazioni latine ed italiani·. Palermo, Remo Sandron, 1902. — « Io... sono venuto raccogliendo e ordinando questi pensieri che I osservazione acuta e la riflessione profonda hanno ispirato a tanti, scrittori latini e stranieri. E, cosi raccolti, m' è parso che pò-tessero riuscire utili e graditi a non pochi, cui piaccia nella sapienza degli alti intelletti trovare, come direbbe un cinquecentista, la lezione delle cose ». 11 queste parole sembra l’A. condensare l’idea informatrice del suo libro, 1 ea che egli, certamente con molto studio, con molta pazienza e fatica, è Renuto svolgendo in un modo così degno da procurarsi meritatamente le lodi eg 1 intendenti. Lavori consimili se ne avevano di già, <■ uro, ■· italiani e mg esi e tedeschi, ma gli studiosi oltre a non pochi difetti vi trovavano non poche lacune, che li facevano risultare manchevoli ed inefficaci. Bene ha |)cn-sato unque il F. di raccogliere in un vero e proprio dizionario tutti- queste citazioni di detti proverbiali, di frasi e versi curiosi, di versi leonini e versi e emistichi della scuola salernitana, di detti memorabili, di motti storici e a egorici, di iscrizioni, di massime di diritto rom. no, etc. Raggiungono esse 1 numero di 8560, raggruppate sotto titoli particolari ; appartengono ai più svariati scrittori antichi e moderni, i cui nomi vedi mo succedersi ed intrecciarsi >e lamente come in gaio torneo; è il fior della sapienza antica e mo erna c ìe sboccia da queste pagine ; sono lampeggiamenti della fantasia di tanti scrittori, che guizza nei mille e svariati ridessi dell’«mori,mo , del pessimismo , sono pensieri, sentenze, avvertimenti che servono ad assodare 1 nos ro pensiero, ad affrancarlo, ad avvivarlo, a spingerlo a nuovi conce-pimenti, a nuovi giudizi, od a giudizi più pieni e più -(Tirari. Non priva di u 1 1 a e c unque quest opera, sia che si volga agli spiriti contemplativi, c .me osserva I A., sia che si volga ai dottrinari, o ai professionisti della etteratura e della stampa, agli oratori della cattedra, del foro, del Paramento, ti comizi, agli studiosi in genere. « Sarà insomma un Mentore * soccorrevole ° quanto meno un suggeritore discreto di idee e di argomenti, non meno che di scorci, prospettive ed atteggiamenti .lei pensiero ». a e ricerca poi è resa facile dall’ indice sistematico (pp. 905*967), die in fondo al volume alfabeticamente raccoglie in specificate rubriche inni i ron--tu principali, a cui si riferiscono fé citazioni. Il volume è preceduto, ol- V ,e Λ. Una mtroduzione dichiarativa dell'A, da una lettera dedicatoria a Tullo M* ssaram. (ALFREDO Ctrl) , -ί' nuCASTKIÌ'NI· Abbatta di N. S. di Miseri.nrdia in Canuto (C/un. •a I). .hiavari 1 ip. Edu. Artigianelli, 1902; in-*, -li [ \ ,,j4 ben noto per altri e parecchi scritti di storia specialmente ecclesiastica, ha GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA dato in queste poche pagine una succosa notizia dell’Abbazia fondata sul cadere del secolo XVII da Francesco Pinelli. Il patronato è anche oggi, per passaggio di proprietà, cagione di lite pendente da parte dell'Arcivescovo di Genova, a cui per lascito di Giuseppe Maria D’Oria si ritiene devoluto. Le Princ Eugène et Murat 1813-1814. Opérations militaires, négociations diplomatiques. Par M. H. Weil, Paris, Abb. Fouternoing ed. 1902. E’ uscito il 3° volume, p. 695, con quattro carte, di questa interessantissima pubblicazione; comprende il racconto degli avvenimenti dal 9 novembre 1813 al 4 febbraio 1814, documentato punto per punto. Inoltre una voluminosa appendice ci fornisce notizie biografiche su tutti i principali attori di quegli avvenimenti, rapporti militari, documenti diplomatici, un vero tesoro archivistico riunito per chiunque voglia studiare quel periodo della nostra storia. Avendo già parlato di questo lavoro ci limitiamo per ora ad annunciare la pubblicazione del 30 volume attendendo con impazienza quella del 40, per riparlarne forse ancora e più diffusamente. La sfera del fuoco secondo gli antichi e secondo Dante. Nota dei p. Giuseppe Boffito. In-8, di pp. 24. (Estr. dagli Atti del R. Istituto Veneto, LXI). — E’ una dimostrazione scientifica condotta dall’A. con la consueta dottrina. Dante certo, seguendo la dottrina del tempo suo, ciedeva alla esistenza della sfera del fuoco ; ma debbono ad essa riferirsi i vv. 58-63, 79-81 del Paradiso, c. I? Ecco il quesito che il B. si propone di risolvere. Esamina da prima le opinioni dei commentatori, e fra le contraddizioni e le sottigliezze, rileva che pur un forte manipolo di essi escluse qualunque accenno nelle citate terzine alla detta sfera. Egli fra questi si schiera e dimostra come Dante, seguendo il sistema cosmico d^j filosofi anteriori e contemporanei, non poteva descrivere qaello che era considerato invisibile. La conclusione è, secondo il B., che in que’ versi debba intendersi la luna : rincalzo e via a sì fatta interpretazione egli ritrova nel contesto stesso del canto ond’ essa apparisce assai piana e plausibile. Enrico Carrara. Studio sul teatro ispano-veneto di Carlo Gozzi. Cagliari, Valdes, 1901 ; in-8, di pp. 61. — Sono ben noti gli impresiiti attinti dal Gozzi alle commedie spagnuole; egli stesso li accenna preludendo ai suoi componimenti teatrali, ma nelle sue affermazioni c è poca verità ; poiché mentre pretende di aver fatto opera diversa dai modelli eh egli ha seguito, si riscontra invece che i suoi rimaneggiamenti sono in gran parte mere traduzioni con giunte e intrusioni di personaggi per lo più oziosi o poco convenienti all* argomento. Il C. Ita preso in esame ed ha messo a confronto sì fatte commedie, rilevando passo pisso con acutezza le strette relazioni esistenti fra loro, e quel poco che il Gozzi v’ ha messo di suo, travolgendo e contaminando gli originali spagnuoli, i quali nelle sue mani perdono tutta la bellezza intrinseca, e quel profumo peculiare di poesia onde vanno giustamente lodati. Di quest’opera gozziana non può dirsi abbia tratto vantaggio il teatro in Italia, nè rispetto all’arte, nè rispetto alla morale, e perciò appariscono per lo meno inesatti i favorevoli giudizi che di essa portarono scrittori stranieri. Dopo questo studio, condotto con ottimo metodo critico, e con sicura conoscenza del soggetto ; svolto con lucida sobrietà ed opportuna economia, ninno vorrà ancora ripetere gli encomi compartiti con so\ercliia leggerezza allo scrittore veneziano. Vittorio Pooc.i. Discorso pronunziato nell' inaugurazione della Pinacoteca Civica di Savona. Savona, Ricci, 1002 ; in-8, di pp. 21. Giustissime e ben ponderate osservazioni espone l’A. intorno ai musei ed alle raccolto artistiche in generale, rilevando quanta importanza esse abbiano, e qual 282 GIORNALE STORICO fi LETTERARIO DELLA LIGURIA prezioso contributo rechino alla storia. Egli dimostra come la moderna tendenza a specializzare riesca di grandissimo vantagggio, e quanto perciò vincano per importanza le collezioni locali, a petto dei grandi musei. Del pari considera di quanta utilità torni all’ indagine scientifica il mutato criterio nel dar vita e ordinamento alle singole raccolte, dove nulla viene trascurato, si tratti pur di oggetto tenue o frammentario, o rappresentante atteggiamenti artistici da prima tenuti in poco conto. Così mentre si apprestano i materiali migliori per ricostruire la storia ne’ suoi vari elementi e nelle sue molteplici manifestazioni, si provvede alla pubblica educazione porgendo all’ occhio ed alla mente utile pascolo a svolgere 1’ energie individuali. Anche Savona, che tiene il primo posto negli inizii dell’ arte in Liguria, vanta adesso il suo museo, la cui ricca suppellettile già fu descritta nel Catalogo di cui abbiamo già dato 1 annunzio in queste pagine dall’A. di questo bel discorso inaugurale. Alfredo Culti . Enrico Bmdi e il suo epistolario. Note ed impressioni con tre lettere di lui. Pistoia, Niccolai, 1901 ; in-8, di pp. 28. — Da quanto il C. dice qui garbatamente del Bindi, e dai brani di lettere ch’ei pubblica, e dalle tre per intero, ci viene desiderio di veder posto ad effetto 1’ augurio onde si chiude il suo scritto ; che cioè alcuno mandi fuori 1’ intero epistolario , chè, considerando 1’ uomo, i suoi lavori, e i saggi portici dal C., davvero avrebbe ad essere « dei più interessanti ed attraenti ». C’ è la festività tutta toscana, e 1 umorismo di buona lega, con qualche punta d’ ironia amichevolmente amabile; nè manca il giudizio serio e franco dell’uomo che non ama nascondere il vero, ma lo sa dire con forma propria e moderata. L’ animo candido di lui, la mente perspicua, il pensiero profondo appariscono anche nel poco che ne leggiamo in cniesto grazioso opuscolo,, così quando bonariamente si presta a far da compare all’ improvvisatore, come quando arriva il nipote o disserta intorno all’interpretazione del Tasso. La lettera all’Arcangeli sopra questo argomento è invero notevolissima nè può sfuggire agli studiosi del poeta. v 66 6 Sebastiano De Navasquès. Del fiume Serchio. Lucca, Laudi, 1899 ; in-8, di pp. 90. - Importante monografia che per più ragioni ci interessa, poiché tocca della vallata che comprende parte del territorio lunigianese (ne’ suoi antichi confini) e della Garfagnana. E’ condotta con buon metodo scientifico, e fondata sopra una esatta conoscenza dei luoghi, e un largo studio delle fonti riguardanti l’argomento, siccome è chiarito dalla bibliografia posta a coiredo del lavoro. Il quale si divide in sei capitoli ; destinato il primo al nome del fiume che dall 'Aesar di Strabone divenuto Auser in Plinio assume nel medioevo 1’ appellativo di Serclo, Ausarlo donde il moderno Serchio; il secondo a ricercare le sorgenti e a determinare il corso ; il terzo a discorrere de ponti e delle strade ; il quarto a divisare le magistrature che s’ avevano specialmente ad occupare di quel fiume ; il quinto a descrivere le vallate da esso bagnate ; il resto ad esporre qual fosse il suo antico corso. Un’ appendice rende conto della deviazione del Serchio nel ramo di Sillano, e della scomparsa dell’ antico paesello ci Piazza a Serchio. Questa operetta geografica degna d’encomio, ci fa desiderare di veder presto pubblicata l’opera maggiore, più importante e più ampia che FA. ci promette sulla vallata del ' Cerchio, singolarmente sulla Garfagnana. Prospero Peragallo. Cintra. Carme Latino tradotto in versi italiani. Genova, Papini, 1901 ; in-8, di pp. 3,. - Cintra è il delizioso luogo dove sorgono le villeggiature de signori portoghesi ; ricca d’ ogni attrattiva della natura, secondata dall arte e dalla mano dell’uomo. Il cardinale Domenico lacobini che fu nunzio a Lisbona cantò nel 1895 in un bel carme latino GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA tutta sì fatta bellezza, ed ora il P., non dimentico d’ aver trattato con fortuna altra volta la musa, e, per la lunga permanenza conoscitore perfetto di que’ luoghi amenissimi, volge in endecasillabi i versi del defunto porporato, mantenendone la proporzione, e andando di pari passo con 1’ originale. Sono dettati con buon gusto e bella facilità e possono stare degnamente a fronte degli esametri. Ci piace ricordare come il P. abbia felicemente compiuto in ottave alcune parziali versioni dai Lusiadi di Comoens, assai più fedeli di quelle de’ traduttori antecedenti, 1’ ultima delle quali, il tratto cioè in cui viene rappresentato 0 gigante Adamastor, vide la luce in splendida edizione nel 1898. Giovanni Lanz\lone. Brevissimo trattato dì letteratura. Salerno, Iovane, s-a ; in-8, di pp. 60 e 40. — L’A. si è proposto di mettere dinanzi ai gio-» vanetti non un voluminoso trattato, ma una guida breve ed ordinata, la quale consentisse di richiamare e far ritenere le spiegazioni ampie ed esemplificate del maestro. L’ operetta ha due parti ; la prima tratta della < locuzione, del-1’ invenzione, dello stile, la seconda dei generi del dire. C’ è quanto basta all’ ufficio cui è destinata. L’ esposizione piana, le definizioni determinate ; poche le suddivisioni e strettamente necessarie. L’ A. non pretende di aver fatto lavoro originale, chè dice chiaro donde ha attinto la materia ; ma il metodo è suo e non ci sembra disprezzabile. Manuale della letteratura italiana compilato dai professori Alessandro D’Ancona e Orazio Bacci. Vol. V. Nuova edizione interamente rifatta. Firenze, Barbera, 1901 ; in-8, di pp. 851. — Anche questo volume, come già il quarto del quale abbiamo parlato, esce interamente rifatto secondo il nuovo disegno adottato dagli autori e con giunte notevolissime. Si avvertono > queste fin da principio nelle notizie storiche, dovute al Giuliani, che ha ri- preso in esame il suo pregevole lavoro, e lo ha di molto arricchito, conducendolo fino allo spirare del secolo. Sono rimaste invece quasi uguali le notizie letterarie, per quel ragionevole riserbo impostosi dai compilatori nella prima edizione. Sono stati invece introdotti nuovi nomi fra gli scrittori, e cioè il Pananti, il Maffei, il Guadagnoli, il Cantù, il Bini, il Tabarrini, il Ferrari, il Bonghi, il Cossa, il Bartoli, il Ferrigni e il Cavallotti. Accresciuti gli esempi del Monti, del Capponi, del Carrer, del Prati. Nuove cure ebbero le biografie, corredate di copiosissimo apparato critico e bibliografico, dove si veggono additati gli studi recentissimi. Se gli autori e 1’ editore si mettessero d’ accordo per raccogliere in un giusto volume tutto quanto in quest’ ottimo manuale (quando anche i primi volumi saranno rifusi) si riferisce alla bio-bibliografia, siamo certi che ne uscirebbe un’ opera ugualmente utile ed accetta alle scuole ed alle persone colte. Proprio per iscrupolo di esattezza rileveremo che il D’ Isengard non « aggiunse altre » liriche (p. 232) al Canzoniere di Lorenzo Costa edito a Genova nel 1892 (tip. Artigianelli, non Artigiani) ; ma indicò in una nota alcune delle mancanti in quella raccolta. Del quale scrittore era forse da toccare delle prose e poesie latine e anche delle lettere sparsamente pubblicate ; siccome per la biografia citare il succoso articolo di Giulio Rezasco nelle Effemeridi della P. S., a. 1861, il. 45. Così diremo che per equivoco si accennano lettere di lommaso Grossi in Natura ed Arte (p. 378), poiché si pubblicano invece lettere a lui dirette (Porta, Manzoni, Prati, Guerrazzi, D’Azeglio). * \ 284 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA e SPIGOLATURE E ΝΟΤΓΖΓΕ. .·. Isabella Mendoza, moglie di Alessandro Appiani, principe di Piombino, dopo la morte del marito, avvenuta per tradimento, in seguito a congiura, nella quale essa e don Felice d’Aragona, capo del Presidio spaglinolo e a quanto apparisce suo amante, ebbe parte principale, si ritirò a Genova. Quivi era in qualità di ambasciatore di Spagna Pietro di Mendoza, a lei fratello, col quale, secondo, affermava Alamanno d’Appiano fratello dell’ ucciso, conduceva vita disonesta ed incertuosa 1 Teresa Smali, La morte di Alessandro Appiani, Belluno. 1901, p. 45). .·. P. Kehr (Papsturkunden in Mailand, Lombardei, Ligurien ecc. Gòttingen, 1902) lia reso conto delle ricerche fatte con la cooperazione di L. Schiaparelli negli archivi e nelle biblioteche di Milano, della Lombardia e della Liguria, intorno a documenti pontifici. Egli, oltre a molte preziose indicazioni attinte in Genova, Ventimiglia, Albenga, Noli, Savona, Sarzana e Brugnato, pubblica .per intero alcuni documenti ancora inediti, ed altri ορροίtunamente ne integra. Notiamo la composizione fra il vescovo ed i cano-!j!ci ' Luni a proposito delle contese insorte per la cappella di S. Gemignano 1 ontremoli (1152) conclusa dal cardinale Nicolò d’AIbano, mentre si recava in Norvegia legato apostolico; quel Nicolò che, di.enuto poi papa col nome 1 Adriano IV, tre anni più tardi ne fece conferma, secondo il breve che qui si registra. Un altro breve inedito è di Urbano III ai vescovi di 1 equi e i Savona con il quale, questo secondo è nominato in luogo del vescovo di Vercelli, ad esaminare una lite insorta fra i canonici di Genova e.. a 0 leSl1 1 1 S· Maria di Castello. Importante integrazione è quella del breve di Urbano III del 1186 pubblicato lacunoso dal Desimoni. Manfroni in una succosa nota storica, dal titolo: Il figlio 1 ama / /a (in Scritti vari di filologia, Roma, Forzani, 1901; p. 95 sgg.) ricerca donde il Petrarca, in una delle sue lettere, abbia tratto l’aneddoto di .a™. a. . ®na> quale alla battaglia di Curzola veduto cadere estinto a’ suoi piedi il figliuolo, ne avrebbe baciata la salma, e poi fattala gettare nelle acque esclamando che non poteva trovare più degna sepoltura. Egli indica di- nn!vi? e .-Utte Ì0, ’ 6dlte ed inedite’ do',e era ragionevole rinvenire una F e me"z!ont ® fatto, mentre non ve 11’ ha il più lontano accenno. Si a in ispecie sugli scrittori genovesi, e sui genealogisti della famiglia D’Oria, riuscendo a questa conclusione, che il Petrarca non abbia attinta la notizia mi f nov®sl> presso 1 quali non è rimasta alcuna tradizione di quell’episodio, dafmarma: Provenzali, i quali confusero probabilmente il D’Oria con . ~Capl ani an»lo*ni cui fu ucciso il figlio nella battaglia navale di Ponza. Eç/èn.in^Ta!"0.™a importante monografia di Giovanni Zirolia sulla ΙΓ 7Γ ternt?rud* deSh statuti del comune di Sassari (in Studi Sassaresi, minLion. ,Pern,n01r rÌmenti ««'i statuti di Castel Genovese, e alla do- uno s udi Γ/ /" ar8-7<) ed preda di una ηΐ Γ CUne ge"0VeSÌ elUrate nel P0,t0 recando la di Genova di ^1'° SUCCeSSÌVa mÌSSÌone ad Ancona Per parte nLk e ll desÌ I da,P’etrarossa’ e di Andrea Micheli per conto di Ve- 11 destregg,arsi degl, anconitani per non disgustare nè gli uni nò gli GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 285 altri. Infine si riferisce un privilegio di Tommaso da Campofregoso a favore di Antonio Giacomo Stracca anconitano, che aiutò i genovesi nella difesa di Famagosta nel 1441. Avvertiamo che il doge Nicolao de Thoarzo sarà da correggere in de Goarco. La chiesa di S. Giorgio in Montalto Ligure è descritta brevemente, ma con ogni opportuno rilievo, da Girolamo Rossi (in Arte e Stona, n. 9-10) così nella sua architettura, come ne’ dipinti e nelle decorazioni che ancora si veggono. Notevoli le reliquie di affreschi, il soffitto a crociera del sancta sanctorum e un pregevole trittico attribuito a Ludovico Brea, sul-1’ altare maggiore. Ma, ahimè ! tutto in deplorevole stato ; urgente quindi il bisogno di riparazioni e di cure da parte di chi sopraintende ai pubblici monumenti. .*. Nel Bollettino sanitario annuale per il 1901 che ha testé pubblicato 1’ Ufficio d’ igiene municipale della Spezia, oltre alle notizie demografiche e sanitarie che concernono il Comune, è contenuto un capitolo, nel quale sono ampiamente riassunti gli studi sulla orografia, l’ubicazione, la topografia, la costituzione geologica e i prodotti minerali del suolo del Comune, e, in generale di tutto il bacino del Golfo della Spezia. 11 Bollettino contiene pure un cenno storico-statistico della popolazione del Comune, con importanti dati e raffronti. E’ dedicato alla memoria del defunto sindaco della Spezia Giulio Beverini, di cui è fatto un elogio, e si chiude con un cenno necrologico-biografico del dott. Andrea Luciardi di Ricco del Golfo. Questa pubblicazione, che vede la luce da quattro anni, è redatta dal dott. cav. Stefano Oldoini, ufficiale sanitario del Comune. .'. Giovanni Cybei di Carrara fu autore, come è noto, della statua di Francesco III di Modena innalzata nel 1774> e dei busti di Ludovico Antonio Muratori e Carlo Sigonio, che appartengono al tempo medesimo. Intorno a queste opere d’arte ed all’autore si intrattiene A. G. Spinelli (La Provincia di Modena, a. V, n. 105) giovandosi della corrispondenza del Cybei con 1’ ingegnere Francesco Zannini conservata nel privato archivio Salsi a S. Lorenzo di Sorbara. .·. Da una pregevole monografia del Peroni, L’assedio di Pavia nel 1655 (in Boll della Soc. Pavese di St. pat., II, 143) rileviamo che nell’ archivio di stato in Modena esiste una Relazione sopra l’assedio di Pavia di GlO PlEIRO Spinola, con la data 19 settembre 1655. .·. Nel The Italian Renaissance in England, di Lewis Einstein, stampato dalla tipografia dell’ Università di Colombia si discorre di quell Orazio Pallavicino genovese, che si fece protestante, intorno al quale s era intrattenuto il Rosi (cf. Giornale, I, 47) attingendo da documenti dell archivio di Genova. }< .·. Il Numero unico pubblicato in omaggio a Mons. Edoardo Pulciano nuovo arcivescovo di Genova, in occasione del solenne ingiesso nella diocesi, contiene parecchie scritture le quali si riferiscono alla storia e che vogliono essere qui ricordate. Luigi Augusto Cervetto discorre de I ricevimenti degli Arcivescovi, de La metropolitana di S, Lorenzo, dei Privilegi e diritti dell’ arcivescovo di Genova, de L Episcopio, delle Villeggiature arcivescovili, di Monsignor Giacomo Filippo Gentile, de La Basilica di Santa Maria di Castello; scritti questi più o meno ampi, secondo uopo e opportunità, ma tutti condotti sopra buona conoscenza delle fonti edite ed inedite; persino in quella breve descrizione della copertina, onde si chiude la pubblicazione, degna di lode altresì dal lato artistico e tipografico, troviamo la notizia d’un fonditore del 1222. Del pari sui documenti, per la massima parte inediti, sono dettate le notizie intorno alle Relazioni tra Genova e Novara nel secolo XIII, di Arturo Ferretto, succose e dense dì fatti ; e così quelle 286 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA che riguardano II Seminario dovute alla penna diligente del sac. Giuseppe Capurro. Troviamo infine rilievi storici nel Rimembrando.... del sac. Giuseppe Parodi dove si parla di Pietro Petrozino de Georgiis, pavese, trasla-tato dalla diocesi di Novara a Genova nel sec. XV, e nelle note sull’Arci-vescovo di Genova considerato come Legato trasmarino da G. D. A. ; o Gran cancelliere del collegio Teologico di S. Tomaso d'Aquino dal p. Giovanni Giacinto Cereseto ; oppure Abate perpetuo della Basilica di S. Siro da Gregorio Rapallo. APPUNTI DI BIBLIOGRAFIA LIGURE. Arcivescovi (Gli) di Genova e il Santuario di N. S. della Guardia in Val di Polcevera (in La Λ/adonna della Guardia, 1902, n. 2). Autore (L ) dell’ inno di Garibaldi (in II Giornale del popolo, IV, n. 902) [Si parla del maestro che ne scrisse la musica : Alessio Olivieri]. Albertoni-TagliaviNT (Silvia). Colloquio d’Anime, inaugurandosi il monumento a Umberto I in Porto Venere, 29 luglio 1902. Spezia, Zappa, 1902, in-8, d. pp. 2. Balbi Angelo. I Liguri nell’arte moderna (in Rivista Ligure, fase. Ili, Maggio-Giugno 1902, p. 107-119). Bollettino sanitario annuale dell’ Ufficio d’ Igiene municipale della Città della Spezia. Anno IV, 1901, Spezia, Argiroffo, 1902, in-8, di pp. 87. Bustico Guido. Un mazzetto di lettere inedite. Napoli, Melfi e Ioele, 1902 ; in-8, di pp. 8. — [Lett. di Giovanni Ruffini e Felice Romani]. C. P. C. [Castellini], Memorie patrie. Il « Corpus Domini » a Chiavari (in II Cittadino, XXX, n. 155). — Il Santuario di N. S. dell’Orto in Chiavari (ivi, n. 181). Calvin:i Alarico. Buzana : Spigolature storiche (continuazione) (in L’ Eco del Santuario del S. Cuore di Gestì in Bussana, I, n. 4-5). Caselli Carlo. Diavolino burattino misterioso e le sue avventure alla Spezia. Libro per i ragazzi, con acquerelli del pittore Cav. F. del Santo. Palermo, Sandron, 1902, in-16, di pp. 168. Castellini C. P. Abbazia di N. S. di Misericordia in Carasco (Chiavari). Chiavari, tip. Artigianelli, 1902 ; in-8, di pp. 7. [Pubblicata prima in II Cittadino, XXX, n. 139]. Cenni Storici sulla S. Effigie di N. S. delle Grazie in Megli (in La Ala-donna della Guardia, 1902, n. 1). Cervetto L. A. Megli e N. S. delle Grazie (in II Cittadino, n. 157). — San Giambattista (ivi, n. 173). Chiesa (La) parrocchiale di Megli (in La Madonna della Guardia, 1902, n. 1). GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 287 --!_ »____—- Codice diplomatico dei Santuari della Liguria edito a cura di A. Ferretto (Anno I, n. 1-2). » Cogo Gaetano. La Società Ligure di Storia Patria (MDCCCLVIII-MDGCCC). Genova (Roma, Artigianelli) 1902 ; in-8, di pp. 54· — Tre antichi annalisti genovesi. Roma, Colombo, 1902; in-8, di pp. 8. Colonna De Cesari Roca. La réunion de la Corse a Gênes. Lettre au directeur de la « Revue historique ». (in Revue Historique, Juillet-Aout, 1902, p. 417-419)· CoLUcci Giuseppe. La Repubblica di Genova e la rivoluzione Francese. Corrispondenze inedite degli ambasciatori genovesi a Parigi e presso il Congresso di Rastadt. Opera postuma. Roma, tip. delle Mantellate, 1902 ; in-8, voi. 4. Donaver Federico. La madre santa [Eleonora Ruffini]. Medaglione con lettere inedite. Genova, Capurro, 1902 ; in-8, di pp. 23. Ferretto Arturo. Relazioni tra Genova e Novara nel secolo XIÎI. Genova, tip. arcivescovile, 1902 ; in-8, di pp. 8. Gallois L. Toscanelli et Christophe Colomb. Paris, I902> in-8, p. 14 (Estr. dagli Annales de Géographie, Paris, 1902, n. 56). Horstel W. ’ Die Riviera (Monographien zur Erdkunde hand und Lente) Mit 126 Abbildungen nach photographischen Aufnahmen und ciper farbigen Karte. Rielefeld und Leipzig-Verlaz, voli Velhagen & Klasing, 1902 ; in-8, di pp. 132. Mameli Goffredo. Scritti editi e inediti. Ordinati e pubblicati con proemio, note e appendici a cura di Anton Giulio Barrili. Genova, Sordo-Muti, 1902 ; in-8, di pp. 527. — Una lettera (in Giornale del Popolo, 1902, n. 937)· Marcel Gabriel. Toscanelli et Christophe Colomb d’après un ouvrage recent (in La Géographie, Bulletin. Paris, 1902, n. 4, 15 avril, p. 267-272). Mazzini Giuseppe. Lettere inedite [per cura di Giuseppe Tambara] (in Rivista d' Italia, aprile 1902, 562-581). Memorie storiche Chiavaresi. San Giacomo di Corte (in La Sveglia, Chiavari, 1902, n. 8-9) ■— Le prime origini del culto di N. S. di Caravaggio nella diocesi di Chiavari (ivi, 11) A Velva (ivi, 13) — A Mezzanego (ivi, 14) — A Borgonovo (ivi, 15) — A Prato sopra la Croce (ivi, 16) — A San Colombano (ivi, 18) — A Zerli (ivi, 19) — AS. Maria del Campo sul monte Orsena (ivi, 23, 25). Olschki Leo S. Due nuove traduzioni francesi della leggenda Aurea di Giacomo di Voragine (in Bibliofilia, III, 301-308). Parodi E. G. Studi Liguri : Il dialetto di Genova dal secolo XVI ai nostri giorni (in Archivio Glottologico, vol. XVI, puntata i", in continuazione). PlEROTTET Adele. Porta Pila e la sua Madonna; notizie. Genova, tip. Gioventù, 1902, in-8, p. 62. 288 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Foggi G. Origine storiche di Chiavari e Lavagna (in Rivista Ligure, XXIV, di pp. 69-83). — La rigullia : origini storiche di Chiavari, Lavagna, Rapallo, Portofino, Sestii Levante, Moneglia, Anzio e Levanto. Genova, tip. F.lli Pagano, 1902, in-8, p. 123. Rossi Girolamo. La chiesa di S. Giorgio in Montalto Ligure (in Arte c Storia, XXI, n. 9-10). Sforza Giovanni. Alberico I, Cibo Malaspina e Tommaso Costo (in Archivio Storico Italiano, Ser. V, T. XXIX, p. 45). S. L. S. Antonio Maria Maragliano scultore. Osservazioni intorno alla sua vera patria (in II Cittadino, XXX, n. 151). Solenne (Nel) ingresso di sua Ecc. Rev.ma Mons. Edoardo Pulciano nella sua sede metropolitana di Genova, XI maggio MCMII. Numero unico. Genova, tip. Arcivescovile e della Gioventù, 1902 ; in fol., di pp. 24, fig. Spadolini Ernesto. Ancona e Genova (Bricciole d’Archivio). Fano, Montanari, 1901 ; in-8, di pp. 12. — Statuti antichi di Albenga (1288-1350) pubblicati da Paolo Accame. Finalborgo, Rebbagliatti, 1901 ; in-4, di pp. 479. Statuti di Albenga dell’ anno 1413. Finalborgo, Rebbagliatti, 1901 ; m-io, di pp. 57. Tallone Armando. Appunti sulle relazioni tra Innocenzo IV e il Co- T.11116 ( 1 ®IceHi (I243'I254) (*n ■4#* dalla R. Accademia delle Scienze di 2orino, XXXVII, 90). Λ ORAGINE (de) Jacques. La légende dorée traduite du latin d’après les plus anciens manuscrits, avec une introduction, des notes et un index alphabétique par Théodore de Wyzewa. Paris, Perrin e C-, 1902. . Borico (Lo). Giuseppe Mazzini al cospetto dell’Antropologia criminale (in Rivista popolare, 1902, 15 giugno). Zucco M Note bibliografiche su Maria Pellegrina Amoretti (in Strenna o icse a eneficio del Patronato per gli alunni delle scuole elementari, Bobbio, Cella, 1902). Giovanni Da Pozzo amministratore responsabile. PUBBLICAZIONI RICEVUTE Gl ANFRANCESCO Sommi Picenardi. Un rivale del Goldoni. L' abate Chiari e il suo teatro comico. Milano, Stamp. Editrice Lombarda di Mondaini, 1902. Cogo Gaetano. Tre antichi annalisti genovesi. Roma, Colombo, 1902. COGO Gaetano. La Società Ligure di Storia patria (MDCCCLVIII-MDCCCC). Genova, (Roma, Tip. Artigianelli), 1902. Cogo Gaetano. Di alcuni caratteri del pensiero storico nel medio evo. Prolusione al corso libero di Storia moderna letta nella R. Università di Genova il 30 novembre igoi. Genova, Sordomuti, 1902. Alfredo Chiti. Il Maramaldo nel territorio pistoiese. (Documenti inediti). Pistoia, Fiori, 1902. Podestà Emmanuelis. Spes meal Speranza mia! libera versione di Luigi d’Isengard. Spediae, Argiroffo, 1902. Podestà Emanuele. Versione popolare del carme « Spes mea! ». Spezia, Argiroffo, 1902. Antonii Bargensis. Chronicon Montis Oliveti (1313-1450) edidit Placidus M. Lu-GANUS. Florentiae, Cocchi et Chiti, 1901. Federico Asinari conte di Camerano, poeta del secolo XVI. Memoria di Ferdinando Neri. Torino, Clausen (tip. Bona), 1902. PIETRO Verrua. Studio sul poema « Lo Innamoramento di Lancilotto e di Ginevra » di Nicolò degli Agostini. Firenze, Ducci, 1901. — Per la biografìa di Nicolò degli Agostini. Firenze, Ducci, 1901. A. GALLETTI. Le teorie drammatiche e la tragedia in Italia nel secolo XVIII. Parte /a 1700-1750. Cremona, Fezzi, 1901. Alfredo Comandini. L’ Italia nei cento anni del secolo XIX giorno per giorno illustrata. Milano, Vallardi ; 1900-1901 ; disp. 29, 30. Federico Donaver. La madre santa. Medaglione con lettere inedite. Genova, Ca-purro, 1902. Achille Mazzoleni. Nel campo letterario. Bergamo, Gatti, 1902, Emilio Bertana. Vittorio Alfieri studiato nella vita, nel pensiero e nell'arte con lettere e documenti inediti, ritratti e facsimile. Torino, Loescher, 1902. FERDINANDO Gabotto. Le origini e le prime generazioni dei Conti di Cavaglià. Genova, Sordomuti, 1902. ECO DELLA STAMPA' ROMA — Piazza in Lucina — ROMA Telefono 32-97. Gli artisti, i letterati, gli uomini politici, le associazioni, le amministrazioni pubbliche e private, i municipi, i giornali e le riviste speciali, ecc. ecc. possono avere nell’ Eco della Stampa (Ufficio Estratti) un potente collaboratore, che fornisce loro, a prezzi mitissimi, tutto quello che la stampa mondiale pubblica su qualsiasi argomento 0 personalità L’ Eco della Stampa ha succursali in tutte le capitali del mondo. TARIFiA — Per ogni estratto ritagliato.....L. 0,25 per 100 estratti .... L. 20 TARIFFA ridotta a pagamento anticipato 1 » 250 » . ...» 45 senza limite di tempo j » 500 » . ...» 80 ' » 1000 » .... » 150 Si tratta a forfait per un mese, un trimestre, un semestre, un anno. Forti 1 iduzioni alle amministrazioni pubbliche e private. AVVERTENZE Il giornale si pubblica in fascicoli bimensili di 80 pagine. Il prezzo dell’ associazione annua è di L. 10 Per l’estero fr. 11. — I soci della Società Ligure di Storia Patria di Genova, e quelli della Società d’ Incoraggiamento della Spezia godono di uno speciale abbonamento di favore a Lire SEI. La Direzione concede ai propri collaboratori 25 estratti gratuiti dei loro scritti. Coloro che desiderassero un numero maggiore di esemplari potranno trattare direttamente col tipografo. N.B. - In Genova il recapito dell’Amministrazione è presso il Negozio librario de! Sig. Stefano Chiappori di Bartolomeo, Via XX Settembre N. 16. Il presente fascicolo consta di 8 fogli e costa L. 3 00 Giornale storico E LETTERARIO DELLA M. Sterzi: Iacopo Cicognini. Cap. I. Cenni biografici, pag. 289. Cap. II. La lirica, pag. 310 (Continua) — G. Sforza: La vendita di Portovenere ai Genovesi e i primi Signori di Vezzano, pag. 338 — VARIETA’: A. Ferretto: La prigionia di Francesco I re di Francia a Genova, a Portofino e alla Badia della Cervara, pag. 369 — BOLLET. TINO BIBLIOGRAFICO : Si parla di A. della Sala Spada (G. Flechia), pag. 383 — ANNUNZI ANALITICI : Si parla di G. Rossi (U. A.), Cr. Boffito, ecc. — SPIGOLATURE E NOTIZIE, pag. 390 — APPUNTI DI BIBLIOGRAFIA LIGURE, pag. 391. DIRETTO DA ACHILLE NERI e ANNO IU. 1902 FA SC. 8-9-/0 Agosto-Settembre- Ottobre SOMMARIO DIREZIONE Genova - Corso Mentana 43-12 LA SPEZIA Società d'Incoraggiamento editrice AMMINISTRAZIONE La Spezia - Amministrazione del Giornale Tip. di Francesco Zappa AVVERTENZE Il giornale si pubblica in fascicoli bimensili eli 80 pagine. Il prezzo dell’ associazione annua è di L. 10 — Per 1 estero fr. 11. — I soci della Società Ligure di Storia Patria di Genova, e quelli della Società d’ Incoraggiamento della Spezia godono di uno speciale abbonamento di favare a Lire SEI. La Direzione concede ai propri collaboratori 25 estratti gratuiti dei loro scritti. Coloro che desiderassero un numero maggiore di esemplari potranno trattare direttamente col tipografo. PREZZO DEL PRESENTE FASCICOLO: L. 2.80 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 28g JACOPO CICOGNINI Capitolo I. CENNI BIOGRAFICI. Chi ancor oggi si reca a contemplare gli avanzi anneriti del- 1 antichissima ròcca, che Caro, imperatore dei Romani, secondo ima leggenda del luogo, avrebbe edificato due secoli dopo la venuta di Cristo, salendo attraverso Castrocaro l’erta strada della Pusterla, si ferma davanti a una casupola (i), che colle mura oscure, varieggiate da larghe infiorescenze di crittogame, e coll antico stemma nobiliare trasporta la mente dell’ osservatore in tempi passati e lontani. Sotto il tenue velo, che i secoli han disteso sui colori, quest’ arme dice allo studioso di memorie paesane, che l'umile edifizio fu un tempo il palazzo de’ Cicognini o Cicognani, casata castrocarese, illustre per antichità d’antenati e per censo avito. Fu essa anche di nobiltà dogale? Il leone alato di S. Marco col motto simbolico ed il Corno ducale veneto sovrastali gli stemmi, che di questa famiglia si conservano in due quadri d’altare. D'altra parte lo affermò il Negri (2)., pubblicando pel primo un documento, con cui il Doge Marin Grimani ai 6 d’agosto del 1602, dietro domanda d'Jacopo, avrebbe riconosciuto: i° - esser la famiglia de’ Cicognani o Cicognini di Castrocaro discendente in linea diretta della nobil casata veneta de’ Cicogna, che nel 1585 aveva dato a Venezia un doge in persona di Pasquale Cicogna: esser avvenuta questa discendenza per mezzo d'alcuni dei Cicogna, che meritamente cacciati di Venezia, fermatisi in Romagna, avevan dato origine ai Ciconiani « corrupto vocabulo Cicognini » di Castrocaro; 2° - aver perciò Jacopo (il nostro) e quelli di sua famiglia il diritto d’esser ammessi a qualunque carica della Serenissima, e di sormontar la cicogna gentilizia col leone di S. Marco. Questo documento, pervenuto al Negri per mezzo di Jacopo Cicognini, cugino in terzo grado e posteriore d’un secolo al nostro, non (1) Numero Civico 6. 12 ) Negri, Istoria degli scrittori fiorentini. Ferrara, 1722, p. 323. Giorn. St. c Lett. della I igtiria '9 290 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA è menzionato nè in quelle poche righe, che a Jacopo ebbero a dedicare gli editori del Parnaso Italiano (i), nè dal Trucchi (2), che, parlando del nostro, fece una confusione straordinaria di nomi e di date. Fra il 1720 ed il 1726 ne faceva menzione invece in una sua lettera a G. B. Casotti quel medesimo cugino Jacopo Cicognini (3), che ne avea concessa copia al Negri ; nel I727 Giuseppe Manni (4), dedicando a questo stesso Jacopo il quinto volume delle opere di Francesco Redi, lo lumeggiava con tutti i colori, che la rettorica dell’adulazione gli suggeriva; e tre anni più tardi se ne valeva il Crescimbeni (5)· Ai nostri giorni, tacendo dell’inconcludente memoria, che su Jacinto, primogenito di Jacopo, pubblicò A. Lisoni (6), l’abate castrocarese Giovanni Mini (7) studioso di memorie paesane, e diligente ri-costruttore dell'albero genealogico dei Cicognini, continua a ritenerlo autentico. Senonchè il Malagola (8), direttore dell’Archivio di Venezia, al quale comunicammo il documento in questione, ci scrisse « a parer suo ed a giudizio del Predelli » (professore di paleografia in quell’Archivio) esser « completamente da escludersi l’ipotesi dell autenticità, e da qualificare quella ducale per una delle non rare mistificazioni, che si fecero nel ’6oo ». Fra i motivi, che lo portavano a queste conclusioni, noi trascriveremo i principali, come più convincenti : (1) Parnaso Italiano. Venezia, 1788, Zalta, toni. ΧΧΧΓΙΙ. (2) ÌRUCCHì. .Poesie inedite di dugento autori. Prato, 1846-471 lit*. IV, p. 274. 1 3) Guasti. Icodici della Imncioniana di Prato, in Propugnatore, t.IV, p.2. (4) Opere di Franc. Redi, gentiluomo aretino, toni. IV, dedicato al-Γ III.mo Signor Jacopo Cicognini, gentiluomo faentino, consigliere e medico ordinano della Maestà del Re di Sardegna. In Firenze, 1727, per G. Manni. (5) Crescimbeni. Commentarj intorno all’ Istoria della Volgar Poesia. Venezia, 1730, v. IV, 1. in, p. 189, n. 42 e lib. V, p. 259 della Istoria d. Volgar Poesia. (6, Lisoni. Un famoso commediografo dimenticato. G.A. Cicognini. Parma. (7) Mini. Monografia delle famiglie Cicognini di Castrocaro, Firenze, Piato e Lugo, 01 iginarie dai Cicogna di Venezia. Castrocaro, 1900. (8) Egli ci rispondeva per lettera il 27 Nov. 1900 con sollecita cortesia : abbia perciò i nostri ringraziamenti. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 2QI i° - che non i Dogi, (come apparirebbe dalla ducale) ma i membri del « Maggior consiglio erano incaricati di sorvegliare sulle aggregazioni alla nobiltà, anche nel caso nostro di riconoscimento di diritto avito; e che i Cicognini non potevano appartenere alla nobiltà veneta, perchè non compaiono nè nei libri delle nascite dell’Avogaria del Comune, nè nei registri delle famiglie ammesse alla nobiltà originaria, nè tra i cavalieri di S. Marco; 2° - che nella forma, integralmente pubblicata dal Negri, questa ducale s’allontana in parecchi luoghi del contesto dalla forma ufficiale, e che più particolarmente la chiusa, non mai adoperata in simili documenti, dimostra trattarsi d’una falsificazione; 3° - che lo strumento del 9 settembre 1492, ricordato dalla ducale, con cui la Serenissima avrebbe dato pubblica lode al proavo Ciconiano (degnazione molto improbabile da parte di Venezia verso un semplice conestabile fiorentino) non è stato rinvenuto; e che infine fra i nomi de’ notai, che rogarono in quella città per tutto l'anno 1602, non comparisce assolutamente quel « Valerianus Vincenti Porta », che come tale si sottoscrive, nel documento in questione. In forza delle quali ragioni e di altre, omesse per brevità, non si può adunque accettare senz’ altro questa ducale per autentica: anzi per ora dev’esser ritenuta falsa. Chi ne può esser stato l’autore? La risposta è ardua; e noi ci contenteremo di dire, che, pur ammettendo che il nostro se ne potesse servire nei primi anni della sua carriera, quando frequentava le corti dei grandi, tuttavia ne escluderemmo fin d’ora il nome pel carattere popolano e bonario della sua produzione, ed anche perchè da parte di Jacopo non ci restano nemmeno accenni di relazioni colla Serenissima. Invece inclineremmo a supporre, che qualche parte nella redazione e nella compilazione del documento potesse avere avuto il figlio suo primogenito Giacinto-Andrea, il quale, perseguitato dall’invidia (1), partitosi di Firenze, si rifugiò proprio in Venezia, dove finì i suoi giorni l’anno 1660. (1) Oltre al Negri, che nell’op. cit. adduce come causa della partenza di G. A. per Venezia « una notabil offesa », vedi anche la strofe 44 dell’ode, composta da Frane. Maria Gigante in morte di Fulvio Testi in vol. II, p. 245 de Le Poesie Liriche del Conte D. F. Testi. Brescia, Venturini. 2Q2 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Che Cicognani o Cicognini fosser detti indifferentemente gli avi del Nostro è indubitato; ma quando la seconda delle due forme prevalse? Ognuno comprende esser cosa impossibile il rispondere a questa domanda con esattezza cronologica, perchè si tratta d'uno di quei mutamenti, che avvengono, e si determinano a poco a poco sulla bocca di chi parla. Certo è, che in un atto di nascita del 1565 si trova menzionato come compare un Cicognani (1), mentre nello stesso libro dei battezzati della parrocchia di Castrocaro trent’anni dopo s’usavan promiscuamente le due forme, finché col progredir degli anni la seconda prevalse. Fosse discendente o no dai Cicogna, questa casata nel secolo XVII contava già parecchie generazioni, ed i primi documenti storici, che parlin di loro, risalgono all’ aprirsi del secolo XV, e precisamente a un Jacopo, bisavolo del Nostro, iorse da identificarsi con quel Jacopo, ricordato dal Casotti, come vessillifero di Prato nel 1423 (2). Quando nacque Jacopo, la sua famiglia, se non aveva dato dogi a Venezia, da un secolo e mezzo almeno aveva veduto alcuni suoi membri salire alle più alte cariche del patrio Comune, mentre altri datisi alle armi, eran stati eletti parecchie volte dai Medici capitani delle bande della provincia tosco-romagnola. Non solo, ma erano anche imparentati coi più nobili di quelle terre: coi conti Bianchi, coi Paganelli, coi Portinari e coi Biondo, donde era uscito lo storico Flavio. Da Baccio Cicognini, cultore per indole più che per istudio della poesia (3), il 27 marzo 1577 (4) nasceva il nostro Jacopo: della madre non si ha notizia alcuna. Al qual proposito, sebbene finora non sia stato sollevato alcun dubbio, per la testimonianza d’un suo discendente, e per altri motivi noi siamo 1 1) Libro dei battezz. dulia parrocchia di Castrocaro « 25 febbr. 15^5 Bastiano di Barone di Bastiano da Marradi dimor. a Castrocaro fu battezzato, e fu compar Jacopino di Ser Bart.meo Cicugnani » - Di questa ricerca andiam debitori alla cortesia dell’ ab. Giov. Mini, al quale ci è grato tributar qui i più sentiti ringraziamenti. (2) Biblioteca Roncioniana di Prato — Spogli di famiglie pratesi di G. 8. Casotti — MS. n. 105, 1. IV, 31, 285. (3) Nel manoscritto della Bibliot. Nazion. di Firenze dalla segnatura cl. IX, 66, in fol., tom. L-A-G : il Cinelli parlando di Baccio, di Jacopo e di (j. Andrea dice : « parve che la poesia in questa famiglia fosse ereditaria et andasse per descendenza in segno che se tutti e tre avessero stani- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA indotti a credere eh' egli fosse il frutto d’un libero amore piuttosto che di legittimo matrimonio. Infatti quello stesso Jacopo, cugino del Nostro a larga distanza di tempo, di cui già toccammo, e che insieme col Parini era oggetto delle antipatie del duca Serbelloni (i), nella lettera citata a G. B. Casotti così scriveva : « Jacopo suddetto fu figliuolo naturale, credo poi legittimato di Baccio, fratello di Marco Antonio » : 1 affermazione è recisa, e non ammette di per sè alcun dubbio. Se a queste parole poi s’aggiunge il fatto che, mentre i Cicognini di Ca strocaro godevano abbondanti ricchezze, il nostro Jacopo, come vedremo, supplicava Ferdinando II a soccorrer la miseiia della sua famigliuola, e l’allusione, che si può ricavare da certe sue rime al volere di Baccio, di consacrarlo fin da bambino alla vita ecclesiastica, si vede quanto sia conforme al vero la notizia, che sulla sua nascita ci lasciò 1’ amico del Parini. Grande aiuto, anzi argomento decisivo sarebbe stato senza dubbio il modo con cui si dovè esprimere il parroco del luogo nel i egistrare il battesimo del nostro poeta, ma la perdita del libro dei battezzati dall’anno 1568 al 1581 viene a toglierci a questo proposito ogni speranza. Passata probabilmente la sua infanzia nella nativa Castrocaro, poco più che decenne si recò a Firenze, dove lo troviamo ascritto al ruolo dei giovani della Compagnia di S. Antonio da Padova (2), e dove dimorò forse fino al 1596, nel quale anno dedicava alcune sue rime (3) alla granduchessa Cristina dei Medici, cui si palo si potrebbe dire di loro ciò, che il Verino disse della famiglia Pulci : si tres producat fratres domus una, poetae. Ma non avendo dato Baccio vermi de’ suoi componimenti alle stampe 11011 si può dar di esso maggioi notitia ». (4) Così una postilla, aggiunta di propria mano da Anton Maria Salvim ai pochi cenni biografici del Negri, già citati, e conservata in una copia, che dell’ Istoria degli scrittori fiorentini possiede la Biblioteca Marucelliana di Firenze. 1 1) CARDUCCI. Storia del Giorno di Gius. Panni. Bologna, Zanichelli, pag. 24. (2) Bibliot. Riccardiana di Firenze — Cod. 2576: « Jacopo Cicognini 1^86-1587 in ruolo de’ giovani della Compagnia di S. Antonio di Padova in Firenze ». 13) Canzone \ per ta Sant.’»« \ ArunMta \ di Fiorenza j alla Seren.«‘« 294 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA diceva debitore per obbligo naturale, « come anche per l'infiniti meriti sui e particular benefitii ». E Baccio? tutto dà a ci edere che coi cinque fratelli se ne stesse in patria, intento alle cure del patrimonio e dei figli suoi legittimi, se il 12 aprile del 1592 indirizzava da Castrocaro (1) una lettera di raccomandazione al Gran Duca di Firenze. Il primo omaggio, che il nostro poeta offiì a Cristina, furono dunque delle rime d’argomento sacro in onore dell Annunziata, alla quale in Firenze era fin d’allora dedicato un magnifico tempio. Il Chiabrera cominciava allora ad acquistar fama- colle sue « eroiche » alla maniera di Pindaro, ed il giovanetto Jacopo volle seguire le nuove forme del grande maestro, di cui più tardi doveva divenire intimo amico. E nella canzone, artisticamente infelice, dopo aver narrato la leggenda, secondo la quale il viso della sacra immagine sarebbe stato dipinto da un angelo, egli passa a un ricordo personale, di cui giova tener conto: un ricordo d’infanzia, espresso con versi, ne quali il sentimento soave della tenerezza filiale s’intreccia e si tempera col dubbio d’una sventura imminente. Infatti il poeta non ancora ventenne, un anno prima di scrivere certi brani dei Novissimi, che più sotto riporteremo, ricordandosi d un giorno lontano, in cui aveva visto quell’immagine, scriveva: giorno felice, in cui Γ amato viso vidi svelato e le sue luci sante che parve al cor venisse messo d’amor, che mi facesse amante; e mentre godea in terra ’l paradiso ambe volgendo a me le luci fisse 1’ amato genitor così mi disse : « Unico figlio mio, che dalla cuna bramai farti di lei servo devoto l’instabil mente e l’occhio insieme aduna: prega lei che ad amarla ’l cor t’ allume ! indi baciommi, e lacrimogli ’l lume, e in me fermo ed immoto svegliò cortese invito confuso affetto nel mio cor sopito : al fin santo tremor ’l cor m’ avvinse e di bianca paura ’l volto tinse. I Granduchessa di Toscana \ di Jacopo Cicognini. | (qui è riprodotta 1’ immagine dell’Annunziata) I In Fiorenza * nella Stamperia di Giorgio Marescotti I MDXCVI 1 Con Licenza de’ Super. | In quarto, consta di 5 carte. (l) Bibliot· Nazion. di Firenze — cod. XXIV — 6-108 in fol., car. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 2Q 5 Che cosa posson voler dire l'ottavo ed il nono verso, se non che il padre intendeva dedicar Jacopo alla vita ecclesiastica fin dal giorno, in cui era venuto alla luce? Dando a quelle parole « servo devoto » il senso di semplice credente, di fervido cristiano, come si spiegherebbe allora la commozione, che invade in quel momento e padre e figlio? D’altra parte anche dal lato pratico della vita il seminario offriva a Baccio la strada più sicura e più facile da far percorrere al giovanetto. Perciò noi siamo indotti a supporre che fin dal 1586, l’anno in cui trovammo Jacopo appena decenne inscritto alla compagnia di S. Antonio, Baccio, condotto il fanciullo a Firenze per la festa dell’Annunziata, consacratolo da sè stesso al culto della Vergine, se ne tornasse solo al paese, lasciando il figlio rinchiuso in un seminario della città. Si noti come nei versi citati, scritti dieci anni dopo, il giovanetto cerchi quasi di scusarsi da una voce ignota che lo rimproverasse di qualche errore : a lui parve in quel giorno lontano, che un « messo d’amore » lo facesse amante di quell’immagine, ed il padre, quasi indotto da un triste presagio, scongiurava il figlio a drizzar bene « l’instabil mente », e infine Jacopo in quell’istante non sentì nascere in cuor suo un sentimento ben distinto, ma un « confuso affetto », misto a paura e terrore, che solo col tempo avrebbe potuto determinarsi. Un anno dopo la composizione di questi versi egli inviava da Pisa un secondo omaggio a Maria Cristina, la gran duchessa sua benefattrice, quattro poemetti manoscritti sui Novissimi (1). Come mai da Pisa? Nulla che ci rischiari su questo punto, tranne alcuni di questi medesimi versi. Nella prefazione si fa un vago accenno a « compagni malevoli », nelle strofe a qualche cosa di più particolare. Notiamo subito, che un’armonia triste governa dal principio alla fine questa seconda non numerate: contiene lettere di varj a diverse persone autorevoli. La decima lettera contando a ritroso, a partirsi dall’ultima è scritta da Bart. Cicognini a Niccolò Gaddi, in data del 1592 · (1) Bibliot. Nazion. di Firenze — cod. palat. 140 — cl.. 7 — cart., legato in pergamena, in-8, con quattro miniature in principio a ognuna delle quattro divisioni: ha per titolo: / Quattro Novissimi I cioè \ Ipensieri della \ Morte I Giudizio \ Inferno \ Paradiso | alla Seren.>"« Gran Duchessa di \ Toscana I Λ'Jacopo Cicognini — La prefazione porta questa data: « Di Pisa il dì 4 di Marzo 1^97 ». 2g6 GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA produzione del ventenne poeta, ispirato al più desolante pessimismo cristiano, cosa tanto più notevole se si considera l’età dell’autore. Il figlio dei nobili Cicognini, forniti di grandi ricchezze e d’autorità nel paesello natio, parla a Cristina d’una sorte crudele, che non cessa di perseguitarlo, le parla d’un amore tacciato colpevole, ma in realtà puro e santo nelle aspirazioni, d’un amore, che fu causa di tutte le sue miserie. Ma perchè Jacopo aveva proprio bisogno di confessare la purità de suoi amori alla granduchessa di Toscana? Perchè quel pessimismo nel giovanotto, che vedremo più tardi uno dei poeti più scapigliati e burloni? Perchè per giustificarsi contro « i compagni malevoli > si sentiva obbligato a mandare un omaggio così lugubre a Cristina? Deh piaccia al Ciel eli’ io possa ai falli miei trovare in tanto horror qualche perdono, e s’ io vissi in altrui e mi perdei hor non mi lasci al tutto in abbandono, che non furo i desiri indegni o rei se ben fu troppo di mia vita ’1 dono, don che a me fu rapito e noi donai : che mi restorno sol affanni e guai ! (lì. Qui il poeta non solo confessa apertamente un fallo, ma si scusa, e tenta di muovere a pietà l’alta benefattrice. E più sotto, dopo le atroci considerazioni sulla morte, quasi ad attenuare i colori troppo foschi, egli rievoca la figura d’un adolescente di Palestina, ridotto in fin di vita da un amore contrastato; ed i versi con cui lo fa lamentare son tanto esuberanti di passione, da parer quasi che il poeta coi suoi dolori, e colle sue sventure si sostituisca realmente al fantasma evocato. Iddio, egli dice, lo voleva unire con eterno nodo d'amore anche in terra: vi si opposero i desiderj degli uomini: ultimo suo conforto fu d’uscir di questa vita: nè un amore terreno poteva piombarlo tra i reprobi, perchè ebbe in dispregio ogni pensiero disonesto, ed è degno di salire in cielo « ....chi ben amando muore * (2). Così sentenziava il poeta, e tutto commosso riprendeva la strofe seguente, accomunandosi nella storia pietosa d’amore al povero amante di Palestina: (1) Cod. cit. Del Giudizio, c. 4 v. (2) Cod. cit. l)ell anno in cui da Pisa indirizzava i suoi versi a Cristina, fin al 1600, nel giugno del qual anno vi conseguiva la laurea in utroque, di cui rinvenimmo il diploma nell’Archivio della Curia Arcivescovile di questa città. Dottore in legge, dov’ egli andasse non sapremmo affermar con precisione. Infatti nel settembre di quel medesimo anno parrebbe si trovasse a Prato, perchè vi dovè comporre tra l’altro la canzone: « Nella venuta della Cristianissima di Francia in Prato per veder la S.S. Cintola il dì 8 di settembre 1600 » (1); e nell’ottobre successivo doveva presumibilmente trovarsi a Firenze, se con un’ ode s’ univa al coro dei poeti, ben auguranti alle nozze di Maria Medici con Enrico IV (2). In uno dei tanti zibaldoni di versi, corretti e ri-corretti mille volte, e di prosa, nel quale Antonio Malatesti, che conobbe molto bene il Nostro e fu allegro compagno alla vita scapata di Jacinto, fermava i fantasmi poetici ed i pensieri così come gli si presentavano, a tergo d’una carta non numerata, ma che sta tra le ultime, sotto alcuni versi sulla morte di Jacopo, lasciò scritto di lui: « fu molto amico nostro, s’addottorò in Pisa e, partitosi di Firenze col cardinal Sauli, servì a Roma altri cardinali, e l’ebbe caro in particular modo il Montalto : governò Segni: disgustossi in palazzo e tornò nel 1616: entrò in Mercanzia: è morto ch’era cancelliere » (3). Nè di qui si può (1) Rime I in lode | Della Cristianissima. \ Maria Medici \ Regina di Francia \ e di Navarra \ di Jacopo Cicognini | (lo stemma mediceo) | In Fiorenza | Per Giovanantonio Caneo | 1601 1 Con licenza de’ Superiori | dedicate I il 26 Gennaio | al Ser.m° Don Cosimo | Medici | Gran Principe di Toscana - unico suo signore 1 da Fra Pietro Pientini. (2) Biblioteca Nazionale di Firenze — Cod. cl. VII, 345 — « Varie Poesie »: nella prima carta si legge « Indice del pfite libro fatto l’anno 1611 a X febbraio j Del Sig.or Marcello Macedonio, alla Sig.a Barbara Turca | piastre 20 » È una specie d’antologia molto copiosa. L’ode del Cicogn. c a c. 239 t. : così intitolata: « Oda | nelle felicissime nozze delle .Regie | Maestà delli Cristianissimi | di Francia | all’ Ill.mo et Ecc.mo Signor Don | Giovanni Medici I di | Jacopo Cicognini ». (3) Bibliot. Nazion. di Firenze — Raccolta Malatestiana — cod. VII j 10 ! 220, cm. 20 x 13: è composto di molte carte numerate irregolarmente, 30θ GIORNALE STORICO lì LETTERARIO DELLA LIGURIA arguire, se il Nostro fosse a Firenze l’anno i6oi, in cui fra Paolo Pientini, pubblicandone alcune rime in lode di Maria de’ Medici, lo diceva « giovane copiosissimo di varie e rare virtù ». Del servizio invece che prestò al cardinal Sauli troviamo la conferma in un codice delI’Ottoboniana di Roma (i), nel quale tra le molte altre rime del Nostro si trova una canzone sulla natività di Cristo, composta per augurare buone feste natalizie al suo signore. Ma sul soggiorno in Roma, sebbene in modo vago, ci illumina lo stesso autore nella lettera (2) da lui premessa alla parafrasi poetica dei treni di Geremia profeta. Dalla quale sappiamo, che dal servizio del cardinal Sauli passò a quello del cardinal Borghese; che poi fu famigliare, favorito di larga protezione, di Don Virginio Orsini, duca di Bracciano; e che più tardi prestò l’opera sua in servizio del duca Sforza, come vice-duca di Segni. Ma questa non fu certo la sola occasione, in cui resse il governo d’una città poiché Giano Nicio Eritreo (3), il quale lo conobbe e lo frequentò proprio in quel tempo, lasciò scritto che tenne il comando d’alquanti castelli (oppida). Nella stessa lettera dopo il governo di Segni, ricorda il servizio prestato al cardinal Montalto, e infine la sua dimora in Bologna del 1615 col cardinal Capponi che lo teneva impie- e talora senza numerazione, come questa, in cui rinvenimmo i pochi cenni biografici. ( 1) Biblioteca Vaticana: cod. Ottob. 2315, cartaceo, sec. XVI1 ; cm. 27x20; carte 164 numerate, più quattro carte interamente bianche, non numerate. Contiene gran numero di poesie del Cicognini — A c. 1 è scritto: « Buone feste al Sig. Card. Sauli », ed a c. 2 segue una canzone : Nella Natività ili Ar. S. Gesù Christo | linone feste ali’ III.’"11 e R.mn Sig. Cardinal San/i : a cc. 7-13 due canzoni, cc. 28-35 due egl°gllei cc. 56-94 Madrigali: cc. 95-123 Ottave del Cicognini; cc. 130-149 trentotto sonetti; cc. 150-158 Scherzi del Cicognini, e cc. 159-161 Ilinno al Sole. (2) Lagrime | Di Geremia | Profeta | Del Dott. Jacopo Cicogmni Accad. Hnmorista \ Dedicato \ al/’ III.'"» Signor | conte facopo Strozzi | Colonnello e Cameriere di Sua | Maestà Cesarea j (l’insegna deH’Accadeinia d. Umoristi ) | In Fiorenza appresso Zanobi Pignoni | 1627 con lie. de’ Sup. La lettera cui alludo è a pp. 8-10. I 3 ' Janj NlCII EiìYTHKAEJ. Pinacotheca imaginum illustrium Doctrina vel ingenii laude virorum, qui an/ore superstiti· diem sitam obierunt. Apud Thomam Fritsch, anno MDÇCXII Pinae. III, p. 688. GIORNALE STORICO £ LETTERARIO DELLA LIGURIA 301 gato « in honorate cariche e negli studi d’Astrea ». Sulla dimora del Poeta in Roma ci dà informazioni assai copiose il già citato Eritreo, e senza dubbio sarebbe stato interessante conoscerlo più da vicino, innalzato al grado di vice-duca, senonchè l’averci gentilmente avvertiti il Sindaco (1) di Segni della mancanza di atti pubblici e privati, per gli anni 1600-1614, ci fece subito rinunziare a qualunque indagine su questo proposito. In Roma il nostro Jacopo fu ascritto all’Accademia degli Umoristi, dove tra l’altro recitò una cicalata, piuttosto che un discorso sul « sospiro » (2); ed ebbe amici mons. Ciampoli, che oltremisura superbo di sè, s’atteggiava a poeta e riformatore della poesia; Romolo Paradisi, che insieme a Jano ÌNicio Eritreo (pseudonimo di Niccolò Rossi), altro amico del Cicognini, era più erudito che poeta; il cardinal Barberini, che fu poi papa sotto il nome d’Urbano VIII, e certamente dovè esser ben noto alla pleiade di poeti, che perseguiva meschini ideali d’ arte al-1’ ombra dei porporati. Infatti se si deve prestar fede (e non so perchè si dovesse negargliela) alla lettera (3), con cui Romolo Paradisi dava ragguaglio a G. B. Strozzi del melodramma, se così può chiamarsi, composto dal nostro Poeta per le nozze principesche di Michele Peretti, fratello di papa Sisto V, con Anna Maria Cesis, dobbiam credere che Jacopo riportasse nella fastosa rappresentazione di questo componimento uno straot -dinario trionfo. Dev’esser stato un bel giorno di sua vita allorché si vide innanzi il popolo plaudente, e, sicuro all ombra di tanto benefattore, avrà udito le congratulazioni dei cardinali, dei nobili e dei letterati ! Da Roma adunque si trasferì 1 anno seguente (1615) a Bologna, e questa notizia, tratta dalla lettera agli Umoristi, è confermata nella prefazione che Giulio Cesare Allegri indirizzava « ai cortesi lettori », offrendo loro per le stampe nel 1 1) Con lettera del 12 Νυν. 1900: anche a lui vadano i nostri ringraziamenti. (2) Ce lo fa sapere l’autore stesso nella lettera, già cit. premessa alle La-grime ecc. (3' Ouesta lettera è aggiunta come appendice all’ediz. in-12, che fu latta dello Amor Pudico \ Festino e Balli \ Danzati in Roma . Nelle Nozze \ Degli III.mi ed Ecc.»" I 5. Michele Peretti | Principe di Venafro | ί Sig. Principessa D. Anna Maria Cesis \ Nel paiamo della Cancelleria, l’anno 1614 , Del Sig. JACOMO CICOGNINI, ne l'Accademia degli Rumoristi di Roma il Con fidente I In Viterbo | Presso Girolamo Discepolo | 1614 | con lie. de Sup. 302 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 1622 l’Aunlla feritrice innocente (1), un graziosissimo idillio tessuto da Jacopo. Quale ufficio esercitava egli in Bologna? Queste sono le sue stesse paro'e: « Ma subito che daH’humanità dell’Ill.ino Sig. Card. Capponi mi fu in Bologna l’anno 1615 concesso tempo di' richiamar le Muse, e con quelle dar talvolta tregua agli studi d’Astrea, come impiegato nelle honorate cariche, conferitemi da sua Signoria 111.ecc. » (2), e nient’altro di più preciso. 11 Malatesti, « spinto (come egli dice) più dalla verità che dal-1’ affezione », in una lunga dedica al nostro poeta ancor vivo, lo diceva « uno dei primi professori di poesia », aggiungendo che « le cattedre da lui acquistavano onore » (3) : potrebbe darsi perciò che il cardinal Capponi gli avesse dito l’incarico d un qualche insegnamento nello studio bolognese. Siamo ormai sulla fine del 1615, e secondo i pochi cenni biografici lasciati dal Malatesti, Jacopo, disgustato della vita di palazzo, se ne tornò in Firenze. Non si creda però, che da quindici anni (chè nel 1601 lo trovammo ancora in questa città) non l’avesse rivista, perchè la moglie sua Isabella Berti, che doveva aver sposata fin dal 1605 (4), ed i figli che gli eran nati, lo dovettero richiamare alla patria sua d’adozione ogni 1 I ) Aunlla | Feritrice innocente \ Battagliola | Del Sig. Jacopo Cicognini I Nell’ Accademia degli Incostanti | /' Illuminato | all' III."10 c liez·.""’ Sig.or Abbate Honorato Caetani | Data in luce per Giulio Cesare Allegri I detto l’Estinto nell’ Accademia de’ Ravvivati \ 111 Bologna j presso Teodoro Mascheroni j e Clemente Ferroni | MDCXXII | Con Lie. de’ Sup. (2) Lettera agli Umoristi già cit., pag. 9. (3) Bibliot. Nazionale di Firenze — Raccolta malatestiana, cod. cl. VII, 391 — C. 177 sotto il sonetto in morte di Jacopo sta la seguente epigrafe: « Al Signor | Jacopo Cicognini | Cicogna nella fedeltà, cigno nel canto | il quale a giudizio dei savi | tiene oggi il primo j luogo Ira i professori di . poesia | Accademico Ardente, Infiammato, Instancabile | dal cui talento prendono norma I tutte le Accademie d’Italia | i teatri acquistano splendore | le cattedre onore | la commedia giocondità | la tragedia venustà | gli spettatori utile e diletto | senza il cui canto le Muse non potrebbero contendere ! con le l'ierie senza pericolo di restar superate la cui Fama s’ è condotta davanti il | Tempo domato e incatenata I l’invidia j Antonio Malatesti mosso più dalla forza della verità | che dall’affezione consacra questi versi» - Il Malatesti 11011 lesinava davvero le parole! (4) Biblioteca Marucelliana - Cod. A. 161 - « Cicognini da Castro Caro I Mes. Jacopo di Baccio Cicognini da Castro Caro in Firenze | con | Isabella di Domenico Berti l’anno 1605 in gali, n, 628 ». GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 303 qual volta non ne fosse ,’mpedito : prova ne sia che certamente vi si trovò nel 1605 (1), nel 1611 (2) e nel 1612 (3). Nel 1606 era venuto alla luce Giacinto-Andrea (4), il primogenito, che perciò ora contava nove anni, ed a lui seguiron certo altri figli, se, pur essendo morto un di loro, Baccio (5) nel 1618, sette anni dopo alcuni cittadini di Firenze potevano attestare per iscritto esser Jacopo carico di famiglia con quattro figli maschi (6). Firenze allora era abbondante di ricchezze, e se i privati cittadini non erano forse più in grado d’aprir credito ai regnanti d’Europa, le principesse però di casa Medici venivano desiderate dai potenti specialmente per le migliaia di fiorini, che si portavano in dote. Ma la misera morte d'Eleonora, l’ignota figlia d’un falegname fiorentino, divenuta l’arbitra delle cose di Francia, e lo strazio, che di suo marito, assassinato sulle scale del Louvre sotto il nome pomposo di maresciallo d’Ancre, avevan fatto i Parigini, erano gravi indizj della tempesta, che s'addensava sul capo regale di Maria de’ Medici, vedova da sei anni d’ Enrico IV. Perciò Cosimo più che ai poeti, pensava (1) Vedi la nota precedente. (2) Nell’Archivio di Stato fiorentino si conserva un Libro civile del nostro Jacopo colla data di Firenze per l’anno 1610-1611. (3) Relazione \ d’una festa \ fatta il carnevale del 1612 ni Firenze \ per trattenimento | dell'Arciduchessa Maria Maddalena d’Austria \ scritta da Jacopo Cicognini. È inserita anche dal Baldinucci nella vita di Giulio Parigi, e citata in Bigazzi. Firenre e Contorni. Firenze,-Ciardelli, 1893, pag- 122. (4) Opera del Duomo di Firenze — Libro dei battezzati dell’anno 1606 Riferiamo la fede di nascita per intero per 1’ importanza letteraria, die seppe conquistarsi Giacinto Andrea : « Giovedì a dì 16 Novembre Jacinto Andrea di mes. Jacopo di Bart.mi0 Cicognini e di Isabella di Domenico Berti del popolo di S. Trinità nato a dì 13 di Novembre, e battezzato a dì 16 di detto: compare il Clar.mo Sig. Bart.'neo Corsini: comare la Madama Ser.ma et per lei il Cavalier Ornat.1110 Francesco Alamanni ». (5) Arch. di Stato di Firenze — Libro di morti 1601-1625 : « Baccio di Jacopo Cicognini, sepolto nel Carmine — 20 Sett. 1618 ». (6) Pisa — Arch. di Stato — Filza di negozi dello Studio e Ruote dal 1623 a tutto il 1626 - 11. 21, c. i«8-189 — Michele Baudiui, Andrea di Silvestro, Antonio Mani, Ant. Cervoni, Innocenzo Rucellai nel 1623 dichia-ravan per iscritto che Jacopo non possedeva « alcun bene stabile in questo mondo, era carico di famiglia con quattro figli et la moglie gravida di 6 mesi, che perciò non poteva mantenere a studio suo figlio ». 304 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA allora a por pace tra le due case d’Austria: d’altro canto Maria Cristina, l'antica benefattrice di Jacopo, ormai vecchia, si preparava alla morte sovrastante, dedicandosi completamente alle pratiche religiose, mentre don Giovanni, 1’ altro suo protettore, cui aveva dedicato quindici anni prima l’ode per le nozze della sorella Maria, si godeva ora sulla riviera ligure i facili amori di Livia, la materassaia genovese, che dal lupanare innalzata al talamo principesco, cinque anni più tardi doveva scontarne l’usurpazione in un carcere, soffrendo le vendette di Maddalena, arciduchessa d’Austria, vedova di Cosimo II. Che cosa faceva intanto il nostro Poeta? ambiva egli d entrar in corte? A giudicare da una supplica (i), scritta molto tempo dopo quest’ anno (1616) parrebbe di sì, ma è a credere che queste parole fossero dettate dalla necessità momentanea d’aiuto, piuttosto che da un sentimento sincero; tanto più quando si pensi che nell’ animo suo era recente il disgusto della vita di cortigiano. D’altra parte poi egli sapeva benissimo che Andrea Salvadori, favorito e stipendiato dai Medici e suo nemico acerrimo, non gli avrebbe mai permesso d’entrare in palazzo Pitti. Piuttosto è probabile, come del resto risulta dal modo in cui s’esprime l’amico suo Malatesti, che il Nostro entrasse fin d’allora in qualche umile uffizio della Mercanzia, dal quale non ricavava un guadagno sufficiente nemmeno per la sua famigliola, che andava aumentando di anno in anno. Ma questi pensieri, per quanto gravi non gli impedivano di darsi agli studi prediletti, e nel 1617 tesseva un componimento drammatico in versi sul mito d’Andromeda (2), che, unito alla musica, fu rappresen- (1) Firenze — Bibliot. Nazionale — Cod. malatestiano 356, cl. VII; sul frontespizio sta scrino in diversi cerchi a penna concentrici Poesie | di diversi non I ancora stampate \ Raccolte da più manoscritti ! 1650: in tutto carie 491 : a c. 23 r. sta la supplica di Jacopo « Al Ser.mo Granduca » — Anche i primi versi : « Signor io supplicai 1’ anno passato di sedere e posar per gran stanchezza » ci fan supporre che il componimento sia stato scritto negli ultimi anni di sua vita. (2) Firenze — Biblioteca Riccardiana — n. 2792: cartaceo in fol. contiene di Jacopo una commedia: L’Amor filiale, cc. 1-73, e L'Andromeda | favola marittima di JA.COPO ] CICOGNINI | Scorso di penna in mi corso di sole | Poesia drammatica \ del Sig. GIACOMO ClCOGNIN 1 | con la quale si descrive la favola d'Andromeda \ Rappresentata musicalmente con reai grandezza \ alla GIORNALE STORICO E'LETTERARIO DELLA LIGURIA tato alla presenza di Leopoldo, granduca d’Austria, nel palazzo Rinaldi dagli accademici Storditi, il console dei quali allora era Jacopo Corsi. Questo colto gentiluomo dell’aristocrazia fiorentina era notissimo ai poeti ed in ispecial modo ai musici del tempo suo, perchè attorno a lui era venuta aggruppandosi la famosa « Camerata de’ Bardi », da quando Giovanni, conte di Vernio, che n’era stato il fondatore, chiamato da Clemente Vili, s’era trasferito a Roma. Stabilitosi adunque il Cicognini a Firenze, non sappiamo nulla di lui dal 1618 al 1622, nel quale anno G. C. Allegri pubblicava in Bologna l'Aurilìa, di cui già toccammo, e dalla prefazione ch'egli mandava innanzi all idillio si capisce che dovevan esser decorsi molti anni dal tempo, in cui Jacopo aveva preso stanza in Bologna. Nel 1623 invece per via indiretta abbiamo notizie più precise di lui e della sua famiglia. In questo tempo infatti Jacinto-Andrea, già da quattro anni (1) intento agli studi in Pisa, spinto dal padre, che non poteva più oltre mantenerlo fuori di casa, si rivolgeva alla granduchessa Cristina ed a Ferdinando II supplicandoli a volergli concedere un posto gratuito nel collegio mediceo, affinchè non si vedesse costretto per insufficienza di mezzi a troncare la sua carriera; e tra le altre carte, colle quali corredava la supplica, a noi giova riportare la seguente dichiarazione, firmata da sei fiorentini : « Noi infrascritti facciamo fede per la verità come mess. Jacopo Cicognini non ha alcun bene stabile in questo mondo, et che è carico di famiglia con quattro figli et la moglie gravida di sei mesi, che per ciò in alcun modo non può mantenere a studio suo figlio, et per esser la verità haviam soscritto di nostra propria mano » (2), e seguono i nomi. Nè le misere condizioni, nelle quali doveva trovarsi allora il nostro poeta, migliorarono in seguito, tant’è presenza del Ser.»‘° Leopoldo Arciduca d’Austria \ nel palazzo dell’ 111.’"·° Sig. Rinaldi l’anno \ 1617 : In Firenze | Da Z. C. messa m luce e dedicata a | (il luogA dove avrebbe dovuto seguire il nome è lasciato in bianco) c. 130 - c. 167. (i ; Pisa — Archivio di Stato — Negozj dello Studio e Ruote — anno 1623 12 lug. 1626 - cod. n. 21 - a c. 190 t. sta la copia della matricola di scolare dello studio, rilasciata 1’ anno 1619 a Giacinto Andrea Cicognini da Agostino Tristano, rettore dello Studio. (2Ì v. Nota 45. Giom. Si. e Lett. della Liguria 306 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA vero che alcuni anni dopo, stanco d'una vita stentata, si rivolgeva allo stesso Granduca descrivendogli così il suo stato. però che i miei passati non mi lasciaro erede d’ una sorba colla decima sol della tiorba : sorte maligna ed orba eh’ altro terren 11011 diede al Cicognino che ili un terrazzo un cedro e un gelsomino ! Per seguir mio destino or la lira or la tromba io tratterei, ma noi consente ’l campanel de’ sei. Compongo i versi miei allo squoter (sic) di corde di prigioni condotti con gran furia dai garzoni. Non mangio due bocconi in pace seuz’ haver qualche villano, che di lite proponga un caso strano : cent’ opre a mano a mano ho già composte ed ho tre protocolli che non gli miro mai senz’ occhi molli : miei guadagni son frolli ho nove bocche e dieci scudi al mese che servon dieci giorni per le spese ; e chiudeva la supplica, facendo umilmente osservare al suo signore che: questo e ogni altro male puote un rescritto ristorar benigno e trasformare una Cicogna in Cigno (1). Furono esaudite queste preghiere? La supplica fu scritta certamente quando Jacopo da molti anni occupava negli uffici della Mercanzia un misero impiego, perchè vi si fa accenno ad un’ altra supplica diretta alcun tempo prima al Granduca per esser messo a riposo, e quando ormai la sua famiglia contava tanti membri, quanti ne troviamo nel censimento, che nel 1632, un anno prima della sua morte, fu fatto in Firenze. Dopo il 1630 senza dubbio J°.copo scrisse al Granduca un’ode entusiastica, in cui esaltava la pietà di Ferdinando II verso i sudditi, colpiti dal flagello della peste : forse oltre questo sentimento di riconoscenza pubb'ica, un altro di gratitudine sua particolare per l’ottenuta promozione a cancelliere ispirava il poeta a cantare (1) v. Nota 46. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 307 di lui. Dal 1624 al 1633, in cui morì, è a credere ch’egli se ne stesse in Firenze, pubblicando a poco a poco ciò, che aveva composto prima, e componendo nuovi lavori : così usciron per le stampe II Martirio di S. Agata (1), La celeste Guida o L Arcangiolo Raffaello (2), Il Natale di Cristo (3) e La finta Mora (4). Nel 1627 al colonnello Jacopo Strozzi inviava la parafrasi dei treni di Geremia (5); l’anno seguente poneva in scena II trionfo di David, e nel 1629 apriva con un discorso inaugurale l’Accademia degli Infiammati, di cui era stato eletto censore (6). Del 1632 è una epistola (7) in terzine all’ antico suo benefattore Jacopo Strozzi, e fu l’ultimo lavoro: infatti quando il suo corpo riposava già da cinque mesi nella chiesa (il II Martirio \ di S. Agata | Rappresentazione \ Dei Dott. Jacopo Cicognini I Accademico Incostante | Dedicata all' Ilt.mo Sig.or Cau.eye | Andrea tioli 1 Segretario di Stato del Ser."!» | Gran Duca di Toscana \ e Gran Cancelliere deli III.ma e \ Sacra Religione di S. Stefano ] In Firenze | appresso i Giunti I con Licenzia de’ Superiori | MDCXXIV. (2) La Celeste Guida | ovvero | ΐ Arcangiolo Raffaello j Rappresentazione sacra \ Recitata nella Veneràbile Compagnia dell’Arcangiolo Raffaello, detta la Scala | In Firenze fanno 1623 \ Del Sig.or \ Dottor JaCOPO Cicognini | Agli Ilonorandi Padri e \ Fratelli della medesima Compagnia ' Con Licenza de’ Super, e Privilegio | In Venetia MDCXXV [ appresso Bernardo Giunti. 13' Il I Gran Natale di \ Christo \ Salvator Nostro | dedicato al Ser.mo Ladislao | Principe Maggiore | di Pollonia e Svezia \ Del dott. Jacopo Cicognini I Accademico incostante \ 111 Firenze | Appresso i Giunti | 1625. (4) La I Finta Mora \ Commedia \ del Dottor JACOPO CICOGNINI [ Accademico Intronato \ dedicata \ al! Ilt.mo Sig. \ Roberto Capponi | Marchese di Monte Carlo in Regno | In Firenze | Appresso i Giunti | 1625 | Con lie. de’Sup. (5) v. Nota 31. (6) « Agostino Coltellini nella prefaz. alla — Lezione dell’ Imprese di Francesco Equini — dice che il Sig. Jacopo Cicognini il vecchio nel 1629 fu censore dell’Accademia degli Infiammati, posta nella Compagnia di San Giorgio alla Costa, e che fece 1111 altro discorso pubblicamente introduttivo alla riapertura delFAccademia, ma non gli sovveniva dopo tant’ anni che argomento si pigliasse : gli pareva solo così in confuso che si valesse di quel — rubrum quem viderat Moyses incombustum — ma non si ricordava più dell’ applicazione ». Riporto integralmente dalla Storia letteraria rns. del Ci-nelli già citata. (71 Lettera \ d'avviso \ delle Nozze \ Del Sig. Agnolo Galli j con la Sig.a I Maddalena Carnesecchi \ del Dott. Jacopo Cicognini | Firenze | per Francesco Onofri alle Scale di Badia | Con licenza de’ Superiori | MDCXXXIÏ. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA di S Simone, Antonio del Soldato pubblicava il Trionfo di David (i), opera degli estremi anni dd nostro Jacopo. Dal Cinelli fino a Cesare Levi (2), 1 ultimo au o recentemente a farne menzione, tutti posero la mor e cognini nel *38, ma le nostre ricerche d’Archiv.o g in ^rado di collocare questo avvenimento nel 1633 (3J· treo pur conoscendone l’indole bizzarra, mostrava di non c dere alla voce, giunta sino a lui, del pazzo suicidio, co qua il poeta castrocarese troncò i suoi giorni, ma 1 epigramma, Orazio Persiani (4), suo amico compose sul triste avvenimen , ed il sonetto dell’Adimari : Sopra il Cicognini precipitatosi c a una finestra (5) non ci lasciano alcun dubbio intorno alla sua misera fine. Il giorno seguente al suicidio un ignoto contempcrane forse il Malatesti, ne fermava così il ricordo : * a dì 28 ottobre 1 33 — Jacopo Cicognini, poeta insigne e raro comico: quest, impazzo d’anni 56; si buttò da una finestra e morse » (6). Ί nste destino. non molto più tardi di lui un altro poeta, Lorenzo Panciat.chi, taceva la stessa fine, sì che fin d’ allora, quando non esistevano (1) Trionfo I di David \ Rappresentazione | Sacra | del Dottor JACOPO CICOGNINI I Accademico Instancabile \ Recitato nella Venerabile Compagnia | del-ΓArcangelo Raffaello \ detta la Scala \ Alla presenza delle Altezze Serenissime i di Toscana \ 'l’anno 1628 \ In Fiorenza | Dedicata agli Honorandi Padri e Fratelli | Di essa compagnia \ In Firenze | Appresso Zanobi Pignoni 1 Con licenza de’ Superiori. ( 2 ì Levi. Letteratura drammatica. Milano l tyOO, pag. 1 j ■ D&li dice Jacopo nel Irionfo di David imitò un dramma di Lope, ma credo sia un abbaglio, generato dal fatto che Ant. del Soldato nella prefazione dice aver Jacopo oltrepassato in questo dramma il corso di 24 ore, come nelle Sacre Rappresentazioni Spagnole, spinto a far ciò anche per lettera da Lope de Voga, ma non dice che questo dramma sia imitazione d’un altro del grande spagnolo. (3) Firenze — Arch. di Stato — Necrologio 1620-1634; a. c. 194 si legge: « 27 ottobre 1633 Messer Jacopo di Baccio Cicognini sepolto in S. Simone ». (4) Firenze — Bibliot. Nazionale — cod. Cl. VII, n. 74 — si trova a c. 72, ed è così concepito: « Giace sepolto in quest’oscura cassa — il tosco Cicognin poeta pazzo — fu cagion di sua morte una bardassa — che fe’ gettarlo a terra da un terrazzo ». (5) Firenze — Bibliot. Nazionale — cod. cl. VII, n. 358, c. 99 t. (6) Firenze — Bibliot. Nazionale — cod. magliai)., n. 27, cl. 25. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 309 ancora lo. moderne scuole di psichiatria, Giovanni Gelsi poteva sentenziare : tien pur che a corte il vivere e ’l morire sia tutta una minestra e un condimento come Γ esser poeta e 1’ impazzire. Il carattere vivace, l’indole sua di poeta gentile e schiet-tamente popolano, l’ingegno acuto, la parola abbondantissima, lo spirito gioviale, di cui il Nostro era fornito, gli acquistarono 1’ amicizia di molti letterati di grido e la protezione, dei grandi. tra i primi il Chiabrera, il Rinuccini, il Ciampoli, il Malatesti, il Preti; tra i secondi il principe Michele Peretti, il duca Sforza, Cristina e Giovanni de’ Medici, forse Uladislao di Polonia, e vari porporati della curia di Roma. Ma più che dei potenti a noi piace di ricordarlo quale amico di Galileo, più vecchio a lui di tredici anni. Nel 1631 quando il grande matematico fiorentino, dopo aver sopportati e rintuzzati gli assalti maligni, inevitabili per chiunque nasca di troppo superiore ai contem-porauei, si recava a Roma per abiurare « la dannata opinione », Jacopo Cicognini gli indirizzava un’ ode foggiata sullo stile chiabreresco pindarico (1). Vespucci, gli diceva, per aver scoperto nuove terre, ha consacrato il suo nome all’ eternità : tu, sdegnando la terra, hai rivolto lo sguardo al regno di Dio : lassù il sole, la luna t’han rivelato la causa del loro vario aspetto; e per le stelle da te scoperte il navigante può misurare i mari, che percorre: ma il tuo nome è colpito dalla calunnia! E qui è bello il sentire il poeta, commosso di sdégno, alzar la voce in difesa del grande perseguitato, e farsi ammo-nitor dei suoi tempi : Tacciasi ’l volgo stolto o chi 1’ invidia punse ! nè spirto umano a suo valor mai giunse che ricercò per fulgide contrade quant’ era ignoto alla trascorsa etade. (1) Alla Sacra \ Maestà Cesarea | dell’ Imperatore \ In lode del famoso Signor I Galileo Galilei \ Matematico del Ser.»‘° | Gran Duca | di Toscana | 1Canzone \ del dottor Jacopo | Cicognini | (sotto un bel fregio la dedica seti guente): « Cesare, a voi consacro in brevi carte | di singoiar virtù gloria verace | tributo umil de la mia penna audace | ricca d’aftetto e sol povera d’arte » | In L 310 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Galileo ha strappato la scienza dalle illusioni paurose del tempo passato. Le fallacie disperse or discatena e scioglie la nuda verità, che splende eterna e lei sua sposa a fiero mostro toglie. Così un anno prima· di morire cantava il nostro poeta, comprendendo quasi per intuizione la grandezza del venerando scienziato ! Sette accademie, e tra queste principali quelle degli Umoristi, degli Infiammati e degli Intronati, lo vollero socio, e di qualcuna ottenne anche cariche ragguardevoli. Perseguitato dalle miserie d’una vita stentata non si smarrì, ma cercò nell’arte sua popolana un’ occupazione, che gli facesse dimenticare i dolori ; e mentre il rivale Andrea Salvadori dilettava le incipriate duchesse ed i principi sospettosi dejla famiglia medicea, il Nostro, sperimentate le amarezze della vita di corte, non ambiva che a ricreare e commuovere l’umile uditorio plebeo, che accorreva in folla alle sue sacre rappresentazioni. Ancor oggi nella chiesa di S. Simone in Firenze una lapide marmorea ricorda il luogo ove fu sepolto il poeta aristocratico, che chiamava a raccolta i decrepiti Numi d’Olimpo e d’Elicona per lusingare con più soave adulazione i suoi principi, ma del poeta popolare, che una sorte ingiusta aveva chiamato alla luce, e dopo una vita non lieta aveva condannato ad una misera fine, non croce, non parola. Capitolo II. LA LIRICA. Siamo sulla fine del '500, di quel periodo luminoso cioè, in cui s’è compiuta in arte la grande rievocazione delle civiltà d’Atene e di Roma, risuscitate nel secolo precedente sotto le Hrenze | 1631 | Per il Landini. Sta anche impressa in fondo al Dialogo intorno ai massimi sistemi stampati dal Landini nel 1632. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA cure degli Umanisti. Nella scultura, nell’architettura, nella pittura, nell' arte della parola, nella vita stessa insomma della gente italica domina quello spirito epicureo latino, che trova la sua più evidente manifestazione nell’arte pagana, intenta a cogliere il sorriso dalle iabbra dell'uomo, ed a ritrarre in forme plastiche la bellezza serena della Natura. Un simile principio informatore della vita, insinuatosi già da molto tempo nell’istituzione, da cui con maggior accanimento in altri secoli è stato combattuto e vinto, vi ha ormai posto salde radici, e da Roma papale s’è comunicato all’Italia tutta. Ma per l’inconciliabilità di questo sentimento di gioia terrena coll’ideale di premi e gaudi ultramondani, possibili ad esser conquistati solamente coll’abnegazione e col sacrificio, è sorta ben presto dal cozzo di convinzioni — fra loro opposte — la corruzione della Chiesa, dall'insensibile insinuarsi dell’elemento corruttore fatta immemore del suo decadimento. Solo 1’ agostiniano di Eisleben, vissuto ben lungi dalla nostra società, tornando dalla sacra capitale del mondo cattolico poteva essere in grado di misurare quale e quanta diversità corresse tra le idee e lo spirito puramente cristiano dei suoi compaesani d’oltr’ alpe, e la vita spensierata e gaudente della curia romana. Tarda ed inutile risposta alla voce di Lutero è ora il concilio tridentino, il quale non potendo più mutar la società, e ricondurla all’antica fede, tenta di coprire l’intima indifferenza dei cattolici coll’ esagerazione delle forme e delle pratiche esteriori. Di qui in gran parte quella discordia tra la parola e il pensiero, quella doppiezza di sentimenti, quell’ ipocrisia, che dal sorgere fino oltre il suo tramonto trionferà nel prossimo secolo XVII, e troverà la più eloquente espressione nel frodolento pietismo di Tartuffe. Ma torniamo sullo scorcio del '500: in tutto, nelle consuetudini stesse della vita, dicemmo, trionfa lo spirito pagano : in tutto, fuorché per una stridente contraddizione in quel genere di poesia, che più d’ogni altro ne avrebbe dovuto ritrarre i sentimenti; nella lirica amatoria voglio d're. Infatti per quanto all’amore idealizzato del poeta di Vaichiusa fosse venuto sostituendosi l’epicureismo greco e romano, il Petrarca rimaneva pur sempre il modello, cui quasi tutti ricorrevano per la materia e la forma. Perchè in generale la letteratura della Rinascenza ci mostra a qual punto possa arrivar 1’ arte della parola, ì GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA governata dal principio d’ autorità, canone che il seicento volle completamente ripudiare. Vero è che anche nel '500 non tutti vi si assoggettarono; e ognuno ricorda quella scarsa schiera di poeti ribelli, che talora in nome del buon senso, tal’ altra per piccole malignità personali bandirono colla parola e coll esempio la libertà d’azione nel campo dell’ arte. Così porgendo ascolto alle esigenze del pubblico, più che a quelle dei dotti il Tasso ed il Guarini da un lato, e fino ad un certo punto il Cecchi da un altro davano alle scene d’Italia due nuovi componimenti drammatici (1), non menzionati dalla poetica d’Aristotele, ed intanto il cantor di Goffredo cercava di porre in accordo nel suo poema la varietà romanzesca colle regole imposte dallo Stagirita. Sebbene più tardiva, questa ribellione si manifesto anche tra i cultori delle scienze morali con Bernardino Te-lesio, il quale osando muover guerra all’ aristotelismo, dava principio a quella serie di filosofi indipendenti, che doveva metter capo sull’ aprirsi del secolo al martire nolano, quasi foriera della riforma galileiana. In tal modo il dommatismo vien mancando man mano che ci si avanza ne tempi, finché sul cominciar del 600 mentre in apparenza trionfa colle fiamme lambenti i corpi del Bruno e del Vanini, viene recisamente negato ed abbattuto nell’ arte coi Pensieri diversi del Tassoni, nella filosofia e nella scienza coi libri di Galileo. Nel quale la scienza ebbe la fortuna di trovare il Genio, che, dopo aver dato l’ultimo crollo all’antico, seppe anche edificare un nuovo sistema, additando coll’ esempio luminoso la via feconda da seguire. Nella letteratura invece tra la generale negazione dei canoni antichi, degli ideali religiosi e cavallereschi, non sorse alcun grande, capace d’imporsi stabilmente a tutti i contemporanei; donde si spiega l’inusitato fermento, che agitò nei primi cinquant’anni del ’6oo l’arte letteraria italiana. Nella lirica da un lato il Marino cerca la poesia nella calda sensualità del-Γ amore ; da un altro il Chiabrera evoca le Grazie di Grecia per (1) Alludo alla « farsa » del Oecchi ed alla « favola pastorale » del Tasso e del Guarini. — So bene che 1’ autore dei due Verati si sforzò di dimostrare contro le argomentazioni di Jason de Nores esser il dramma pastorale un componimento condotto secondo le regole d’Aristotele : ma in questa dimostrazione non so trovare che uno sfoggio d’acuta dialettica, 11011 sodezza d’argomenti. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 313 cantare gli eroi del suo tempo; qua il Ciampoli vuol render la poesia espressione d’un popolo cristiano, liberandola dagli ornamenti mitologici, là l’Achillini ed il Preti esprimono 1 entusiasmo pel nuovo, facendo a gara per colpir maggiormente il lettore colla stranezza dei paragoni, coll’ inaspettato fulgor delle immagini e col ritmo armonioso del verso. E mentre la mitologia fa le prove sue più belle nelle canzoni del Savonese e negli splendidi festini dei principi, il Tassoni ed il Bracciolini la fan cadere sotto lo scherno. Nella drammatica se alcuni continuano a portar sulla scena intrecci di commedie plautine, il Chiabrera con larga schiera d’imitatori, cercando un teatro più consentaneo allo spirito de’ tempi, ricorre alle fonti romanzesche . altri (e il Cicognini n’ è a capo) volgendo 1’ occhio alla Spagna in-troducon presso di noi la massima libertà d’ azione e di sceneggiatura, prendendo per lo più da Lope i difetti, non imitandone i pregi. Non si dimentichi, che intanto attorno al conte Giovanni Bardi di Vernio veniva aggruppandosi in Firenze quell’accademia d’uomini illustri, che dette origine a ciò, che fu più tardi una delle più grandi glorie d’Italia: al melodramma. Nella prosa infine il massimo contrasto risulta tra 1 estrema semplicità, la rara trasparenza di pensiero e il· carattere puramente toscano degli scritti di Galileo e di quei di sua scuola e il periodo confusamente barocco e goffamente spagnoleggiante dei contemporanei. Tuttociò ho voluto premettere per mostrare quale attività insolita agitasse questo periodo di decantato avvilimento letterario, e per concludere che la decadenza artistica del ’6oo non è prodotta soltanto dalla corruzione degli elementi della civiltà precedente ma in massima parte dall inesperienza, con cui 1 arte nostra, che dal '400 in poi aveva mosso sotto la scorta degli antichi, ribellatasi finalmente a questa guida, che aveva finito per imporsele, tentava d’aprirsi da sola nuove strade, di spaziare per nuovi orizzonti: se ne calco di false, se ne fissò di fallaci, non gliene va data gran colpa, perchè ogni rivoluzione insieme a vantaggi più potenziali che effettivi porta seco errori esagerazioni numerose ed inevitabili. Difatti la poesia usci fortificata da questo laborioso fermento; cessò una volta d esser principalmente l’espressione d’un amore più spesso meditato che sentito, rivolgendosi alla nobile impresa di render migliore 314 GIORNALE STORICO £ LETTERARIO DELLA LIGURIA la società. Così iniziando questo nuovo periodo di vera grandezza, se non sempre nella forma, negli spiriti certamente, il Chiabrera tenta di scuoter l’Italia parlandole dei suoi eroi, morti 0 vissuti tra l’arme; sferzandola colla fine ironia o colla satira acerba: dal Savonese prende origine in particolar modo quell’arte di scopi eminentemente civili, che, trasmettendosi per mezzo del Rosa, del Menzini e del terribile Quinto Settano informerà tra un secolo e mezzo la poesia dalle classiche forme del Parini. Nella lirica invece il canzoniere di Torquato Tasso, il quale coll’opera sua poetica chiuse il glorioso periodo del Rinascimento, segna il punto di transizione tra le vecchie formule d’arte, che avevano cristalizzato la poesia in una gretta precettistica d’imitazione, e gli ideali de’tempi novelli. Leggendo 1 suoi sonetti amorosi, l’andatura melodica e sintattica del verso, la parola antiquata, perfino alcuni modi di dire, tutti proprj del Petrarca e dopo lui rimasti tradizionali, ci richiamano subito al pensiero forme ben note, mentre ci blandisce costantemente l’orecchio la musicalità dei versi del cantore di Laura. Ma in questa veste antiquata sentiamo parlare un poeta, che alla grandezza dell’ingegno congiunge una squisita sensibilità, sì che la forma, consacrata dall’uso, si rinvigorisce nel fremito del-1’ amore ; sì che al piagnisteo dei poeti sospiranti per una passione non sincera, o in ben altro modo sentita, succede di frequente in questi versi il pianto di Torquato, infelice anche in amore. E in luogo della natura convenzionale, invocata dalla maggior parte dei petrarcheggianti a udire le loro querele, le erbe verdi dei campi e gli alberi fronzuti ed i fiori dalle corolle variopinte vengono ad ornare coi profumi e colla loro selvaggia beltà le grazie della donna, sospirata dal poeta. Non solo, ma coi fantasmi dell’ispirazion petrarchesca scendevano alla sua mente e spiriti e forme dell’antichissima poesia greca di Saffo, di Pindaro, d’Anacreonte, di Simonide e di Teocrito (i). Non si creda però che l’idealità dell’amore cristiano sia ben fusa ed armonizzata colla natura terrena dell’amore antico, così com'era cantato in Grecia ed in Roma: che anzi in luogo di conciliarsi per le loro opposte tendenze sono in lotta continua, (f) Il Tasso medesimo ci fa conoscere queste sue fonti nell’edizione delle sue rime, fatta in Brescia l’anno 1593, e da lui stesso curata. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 3 I 5 tanto da costringere il Poeta a contraddirsi, ora professandosi « non impudico amante » (i), ed ora facendogli desiderare il voluttuoso amplesso della sirena, che lo ha stretto coi dolci nodi d’amore (2). Si noti ancora che anche nella metrica si rivela una modificazione tanto più notevole, se la si consideri in rapporto alla grande riforma chiabreresca. Il Tasso infatti ben comprendendo che, se non riescivano sempre facili alla mente e gradite all’orecchio de’ suoi contemporanei le stanze della canzone petrarchesca, erano divenute invece costantemente difficili e monotone nei freddi rifacimenti degli imitatori, e forse considerando la difficoltà, con cui il ritmo maestoso e poco agile dell’endecasillabo s’adattava al canto ed alla musica (che ognun sa, quale alto posto occupasse nella coltura del '500); il Tasso, dico, per queste e per altre ragioni dette non di rado una maggior sveltezza alla strofe del Petrarca, sfrondandola degli endecasillabi, e dandole in prevalenza il breve settenario. Questo soffio di novità di contenuto e di forma, che spira dal canzoniere tassesco, prelude a quell’ agitazione straordinaria, con cui, come già dicemmo, i poeti della prima metà del ’6oo andranno in cerca di nuove ispirazioni e di nuove forme. Primo tra questi ci si presenterà Gabriello Chiabrera, intento a trovare una nuova poesia, così come l’immortale suo concittadino aveva scoperto un nuovo mondo. E il Cicognini dovette esser stato uno de’ suoi prediletti : infatti, se ci mancano lettere (3), che ci provino questa familiarità, lettere, che sarebbero state per noi molto preziose, perchè in esse ci sarebbe dato modo probabilmente di scorgere quella diversità d’opinioni nel campo dell’arte, che pur è adombrata nei dialoghi a stampa del Savonese, i non pochi versi, che il Chiabrera volle indirizzare al nostro Jacopo e a quelli di sua famiglia, bastano a (1) Tasso. Opero. Firenze 1724, Tartini e Franchi : p. 394, n. 287. (2) Tasso. Opere. Firenze Î724, Tartini e Franchi: p. 383, n. 185. (3) Ho consultato le Lettere di Gabriello Chiabrera, seconda edizione, colla giunta di altre inedite e dite opuscoli. Genova, Pellas, 1829 ; e non vi ho rinvenuto nessuna corrispondenza con Jacopo. Solo a pag. 115 nella lettera 133 è menzionato il cognome del Nostro, ma evidentemente riferendosi ad un figlio suo, forse Jacinto, perchè quando la lettera fu scritta (16 luglio 1637) Jacopo era morto da quatta? anni. — Ho pure visto le lettere del Chiabrera, pubblicate dal Neri nel vol. XVI del tìiorn. Ligustico, fase. 9-10. 3l6 giornale STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA mostrarci la loro intima comunione d’affetti. Così il poeta ligure, cui più che le corti piacevano i boschi solitarj della sua Siracusa, errante sulle rive del Tevere, nauseato dal fasto, dal-l’ipocrisia e dalla cupidigia della curia romana, pensava con affetto al caro amico di Firenze e alle « rive d’Arno » e alle amene « piaggie fiesolane » (i). Altra volta in un momento di malinconia a Jacopo nostro parlava della caducità della vita, che scorre rapida come l’onda del torrente (2), mentre nel colmo della gioia, nell’ ebbrezza del canto dionisiaco correva col pensiero al poeta castrocarese, e lo invitava a votare nappi ricolmi di vino : O Cicognino, o caro della bionda Talia qui ne vien dove chiaro mormorando ruscello al mar s’ invia (3). In Firenze, indirizzando a Jacinto, il primogenito del Nostro, un sermone sopra un ignorante presuntuoso, che in pubblico aveva deriso il Varchi per essersi « perso » a scriver sonetti, gli ricordava il ritrovo, in cui eran soliti passar la serata, divertendosi « al bellissimo giuoco di picchetto » (4); e da Roma indirizzava alla « saggia Isabella », la pia consorte di Jacopo, il poemetto sul « Ratto di Proserpina » (5). In ultimo attestato di stima e d'affetto egli introdusse l’amico a ragionar di poesia nei due dialoghi (6), che dall’Orzatesi e dal Geri prendono il nome; ed a noi par di sentire in essi l’eco delle dotte conversazioni, nelle .quali s’intrattenevano il Chiabrera e Jacopo, passeggiando sotto i bruni cipressi delle sponde dell’Arno, o sedendo alle cene frugali, rallegrate dai vini del Bronzino, ed offerte dal Cicognini al grande amico savonese (7). (1) Opere di Gabriello Chiabrera e di Fulvio Testi. Milano, Bettolìi, 1834, p. 105, n. XLIII. (2) — ib. — pag. 105, n. XLIV. (3) — ib. — pag. 172, n. XLV. (4) — ib. — pag. 197. (5) — ib· — PaS· 343. η· xx· (6) — ib. — pag. 345 e 355. (7) Sulle rive d’Arno, sotto i cipressi il Chiabrera immagina si svolga il dialogo intitolato L’Orzatesi, e l’altro, Il Geri ha per scena appunto una cena frugale data dal Cicognini. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 31? Strano a dirsi! il poeta, che mediante la varia e sapiente combinazione armonica della rima seppe dare ad alcune sue odicine una musicalità straordinaria ignota fino al tempo suo, e posteriormente a lui solo talora raggiunta dal Metastasio, inizio la sua riforma, lottando contro il giogo imposto all’ epopea, e in genere alla poesia, dall’ ottava e dalla terzina, perchè, a suo giudizio, la rima era un vincolo, capace soltanto d’intorbidare e inceppare la libera ispirazione del poeta. Si reagiva contro il passato, e in quel momento tutto si volle rinnovare negli spiriti e nelle forme dell’arte, sì che il nostro poeta, nei primi tempi tenace ammiratore degli antichi, volgendosi all amico li gure, più che all’Orzalesi, col quale è introdotto nel dialogo, non poteva nascondergli la sua confusione : « Mi turbo, udendo che fra il confine di dodici sillabe, oggidì tutte le parole si hanno per verso, onde ne sorge una selva, che quasi diviene il verseggiar toscano un improvviso e domestico favellare; e di più compongonsi canzoni in versi fra loro in maniera diversi, che alle mie orecchie dimostransi anzi scompiglio che canto, e quale verso ha rima, e quale di rima senza; e uno ha rima su parola tronca, e altro su sdrucciolosa: ivi taluno fa sentire sua rima sul fine, e taluno falla sentire nel mezzo : chi la perde nella sua strofe, e poi la ritrova nella non sua, che piur La lingua toscana, la quale suole naturalmente finire tutte le parole in vocale, fassi per costoro cangiar costume, onde sentiamo le rime fornirsi in lettere consonanti alla maniera lombarda: insomma io vado pensando se l’armonia deggia tornare in confusione, e invece di crescere la nostra poesia, ella si voglia estinguere » (i). Tali erano le opinioni di Jacopo nel primo periodo della sua produzione letteraria, quando cioè da poco aveva inviato alla granduchessa Cristina le ottave sui quattro Novissimi, di pretta imitazion tassesca; quando sulla foggia delle canzoni del Petrarca aveva scritto quella per le nozze di Maria de’ Medici; quando in Roma ne’ primi quindici anni del ’6oo s’ era sbizzarrito a cantar gli amori suoi e quelli degli amici in un gran numero di sonetti, che ritraevano ancora gli spinti e le movenze delle strofe petrarchesche ; quando infine nell’ epitalamio cern- ii) L'Orzatesi, ediz. cit., pag. 345. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA posto per le nozze del principe di Venafro portava sulle scene il trionfo dell’amor platonico. E in Roma il cortigiano di porporati, ammesso alla familiarità di quel monsignor Ciampoli, reciso conservatore in fatto di metrica e superbo di sè stesso al punto di non rispondere al saluto, che per strada gli venisse fatto; ammesso, dico, alla conversazione di costui ed all’amicizia di Virginio Cesarmi, che aveva un culto speciale per 1 arte antica, si sentiva certo incoraggiato a rimaner sordo alle « nuove fantasie », colle quali i contemporanei cercavano di distruggere il passato. Come già accennammo i quattro poemetti, offerti a Maria Cristina in un bel volumetto manoscritto, e miniato forse dalla mano inesperta del poeta stesso, allora ventenne, hanno per argomento la Morte, il Giudizio Universale, l’inferno ed il Paradiso. La caducità della vita, il desiderio acuto d’una giustizia suprema, tremenda pei reprobi, ineffabilmente benigna coi miseri, inducono Jacopo in considerazioni ora tristi, ora liete di fervida speranza, espresse sempre in istrofe, dominate da una indefinita malinconia: il verso, se non sempre tornito e sonante è completamente immune dagli artifici rettoria, irrompenti allora nella nostra letteratura, ma l’ottava lascia talora a desiderare per una certa discontinuità del pensiero, sì che non di rado alcuni endecasillabi si sentono come fuor di posto, e vi compaiono per riempire la stanza. Ciò nonostante, se si consideri poi che l’operetta è un frutto giovanile, bisogna convenire che il poeta dette ben presto prova d’un ingegno poetico non comune, e mostrò che col tempo, se ne avesse avuto agio, avrebbe saputo far di meglio. Chi non vide, egli canta ad esempio, ad una graziosa donzella, fiorente di giovinezza e di beltà, tremar le membra, impallidirsi il viso, e cascar come fior svelto o reciso ? Le care membra, cui vestir P estate candidi veli e zibellin l’inverno, eh’ abitarono sol stanze dorate e havean di sorte ria gli oltraggi a scherno ; quelle, che con vivande al gusto grate tenner già vivo ognor lo spirto interno or son sotterra in chiusa, oscura fossa, e vermi e polve già la carne e 1’ossa (i). (i) Cod. cit., c. 2 t. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 3 19 Oppure s’osservi come tenti di descrivere gli ultimi momenti d’ un agonizzante : Deh rimirate quei, che all’ bore estreme sentono d’ogni intorno aspro dolore mentre lo spirto ancor nel guardo geme al palpitar del già tremante core ! con singulto penoso intanto freme la lingua mentre s’ ode all’ ultim’ hore nell·’ agonia di morte e nei tormenti tra le labbra agghiacciate i rotti accenti (i). o come suoni il verso fosco di terrore biblico temperato di pietà cristiana nell’ apocalittica predizione della vendetta di Dio: quel giorno Fian le madri infeconde, afflitte e meste et havranno di latte asciutto il seno, mentre, squarciando per dolor la veste, vedranno i cari figli venir meno ; e dei Regi 1’ altere aurate teste a terra caderanno, e nel terreno non fia chi dica con accesa face : ossa un tempo felici habbiate pace. Così morranno, e ne la morte cruda non haveranno alcun pietoso pianto, nè fia chi gli occhi per pietà lor chiuda o, pur li copra di funebre manto : né men sotterra il freddo coqio inchiuda : anzi i rapaci augei v’ andranno accanto, e ’l rostro acuto e le ferite crebre saran le meste lor pompe funebre, ed il pastore vedrà cadere a una a una le sue greggi, e ....s’udiran de’ semivivi i pianti tra i muggiti formar strano concento : altri con atti deboli o tremanti sovra un corpo sfogar aspro tormento e chi percosse ’l petto, e ’l crin si franse morto cader mentre che ’l morto pianse (2). Così pure nella canzon petrarchesca aveva dato prova d’ una forza di concezione poetica e d’un magistero del verso non davvero molto frequenti: a noi basti di riferirne una strofe, che può dare un’ idea del valore artistico della canzone e della vecchia filosofia platonica, che l’informa. Molti affermano, egli (1) Cod. cit., c. 3 r. — (2) Cod. cit., c. 8 r. e t. Ό GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA dice, che col tempo l'amore svanisce ma non potrà ma, spegnersi in me la fiamma, ond'ardo, pere e in css. grande ideale. Non è ’l mio fin goder mortale oggetto che nulla o poco dura : , tal’ amor han le belve : io sol 1111 van o trar da santi costumi alto diletto. Un’ angelica mente il cor mi fura . Là sovra’l sol m’innalza un dolce canto . e qual per chiusa via torna al suo fonte Γ acqua scesa dal monte sì la fiamma che chiusa il cor m accende 111’ innalza al fonte eterno ond’ ella scende ( · Considerando che Dio è stato detto da secoli fonte eterno d'amore, perdoniamo il contrasto stridente tia la am 1 fonte, racchiuso negli ultimi due versi, e che ad alti 1 po parere un artificio voluto dal poeta, e passiam oltre, m’importa, egli soggiunge alla sua donna, se la vecchiezza co prirà di rughe il tuo bel volto, e deformerà il tuo coipo. amo l’anima tua, nient’altro. Il tema non è certamente nuovo. già Erasmo di Rotterdam ne aveva fatto oggetto d’ uno de suoi Colloquia familiaria (2), e mentre il nostro tesseva la sua canzone petrarchesca, il Marino, il cantore della voluttà, da Erasmo traeva l’ispirazione per l’idillio tra Laurino e Selvaggia. i insistenti domande della fanciulla se 1’ amor suo sarebbe finito collo sfiorire della bellezza, il pastore rispondeva non poter ciò mai accadere perchè la luce maggior, che ’n te traspare de la bellezza interna eternando 1’ ardor 1’ amore eterna ; e forse ad Erasmo pensava anche il Chiabrera, componendo la graziosa odicina per confortare d’amore la donna sua invecchiata (3). (1) Firenze — Bibliot. Nazionale — cod. cl. VII, 359, pag. 355· frontespizio si legge in un riquadro, fatto a. penna : Poesie diverse \ che ancora I non sono alla | stampa di | diversi ecc.”n \ autori, messe insieme | da Astianatte .Molino. Questo è lo pseudonimo d’Antonio Malatesti. (2) Proci et Puellae. (3) Rime di Gabr. Chiabrera con aggiunta di altre inedite. Livorno, Bertani e Antonelli e C., 1841 ; v. I, pag. 276. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 321 Tornando alla canzone di Jacopo, a noi sembra, che in essa 1' argomento si rinnovi nella vena passionale sincera, quasi che un ultimo soffio dell’ idealità toscana di Guido e di Dante agitasse insensibilmente lo spirito del nostro poeta. Ma il Rinuccini prima, perchè di questi si professava imitatore fin dal 1614 (i), ed il Chiabrera più tardi gli parlaron di nuovi ardimenti poetici, di nuove teorie metriche; e dovettero riuscire a persuaderlo, giacché le poesie del secondo periodo, posteriore cioè al ritorno in Firenze, raccolte dall’amico Antonio Malatesti, eccezion fatta di pochi sonetti e di due o tre canzoni, son tutte anacreontiche, o per dir meglio, tessute coi nuovi metri, posti in uso dal Savonese. 11 quale per bocca di Giuseppe Orzalesi dimostrava a Jacopo esser doveroeo il progredire, o almeno il tentarlo, anche in arte, e lo convinceva non esser fantasie sue tutte le libertà e le innovazioni da lui concesse ai poeti, ma trovarsene già traccia negli antichi canzonieri italiani, quelli del trecento non esclusi. I nomi in parte almeno esser nuovi, ma da lungo tempo poste in uso le cose per essi significate sì che, ad esempio, l’antico sonetto petrarchesco avrebbe potuto esser chiamato canzone a strofe, antistrofe e doppio epodo. E perchè, gli domandava il Savonese, voi, che vi dilettate a leggere le anacreontiche francesi non volete imitarle ? E perchè preferite di cantar d’amore coll’ampia e severa strofe della canzone, se le donne non v’ intendono, nè si dilettano ? Se infine quasi, quasi 1 armonia d’un tale componimento supera nella maestosa e varia grandiosità il ritmo monotono dell’ ottava, che pure è la strofe dell’epopea? Perchè dover sempre cantar d’amore con quel metro elevato, confacente solo al modo come questa passione era stata concepita e sentita da Dante e dal Petrarca, dal momento che col volger del tempo alla loro idealità era venuto sostituendosi quello stesso sentimento voluttuoso e terreno, che un tempo aveva fatto battere il cuore d’Anacreonte ? 11 suono della lira ne accompagnava nei lieti ritrovi gli agili canti : perchè non (1) Cfr. la lettera, con cui Rom. Paradisi dava ragguaglio a G. B. Strozzi della rappresentazione, che si fece in Roma dell’.4 «w Pudico, lettera stampata in appendice al poemetto drammatico, a pag. 44 della quale sta scritto. « e il Sig. Rinuccini di cui si professa imitatore ». Giorn. St. e Leti, della Liguria 21 322 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA ritentarli ora, che i musici con tanta delicatezza sapevano affidare alle note le brevi strofe d’amore? (i). Jacopo, cui il Chiabrera nelle amichevoli conversazioni rivelava questi nuovi criterj e questi nuovi ardimenti artistici, si persuase, e mutò alla sua poesia e spiriti e forme. Così il tenace conservatore di pochi anni addietro, che alle idee nuove deH’Orzalesi s’opponeva ostinatamente coll'appellarsi all’uso dei grandi artisti del passato, e che non voleva muovere un passo al di là della strada da loro battuta, si abbandonò a cantar d’ amore a quel modo, che la riforma chiabreresca esigeva. Ed era giusto; perchè quella passione ideale per la donna, d’origine puramente cristiana, manifestatasi prima coi poeti del « dolce stil novo », umanizzata più tardi col Petrarca aveva ormai cessato da più d’un secolo di commuovere il cuore degli Italiani, e, se un falso pietismo doveva farli comparire infervorati di spirito religioso, le intime lor convinzioni cadevano in realtà l’una dopo l’altra. Una simile società, d’animo eminentemente pagano poteva amare se non come i Greci de’ tempi d’Anacreonte ed i Latini di quelli d’Orazio? E fortuna volle che proprio in questi anni tornassero alla luce i canti ebbri di gioia del canuto poeta di Ceo. Il Petrarca infatti, che l’aveva accompagnato con Pindaro e Alceo e cogli altri spiriti nel Trionfo d’Amore, non ne poteva conoscere che quell’ode « Alla coppa >, inserita da Aulo Gellio nelle Noctes Atticae : le altre, rimaste lungo tempo ignote in un manoscritto furon date alle stampe in Parigi solo verso la metà del secolo XVI da Arrigo Stefano, che ne era stato nel 1553 il fortunato ritrovatore. Le traduzioni in latino ed in francese, ma più di tutto le eleganti odicine, ch’esse ispirarono al Ronsard ed ai suoi imitatori, incontrarono in Francia il massimo favore. In Italia, dopo aver arricchito di nuove movenze la poesia fidenziana d’Èrcole Fortezza ed alcuni sonetti di B. Guidi e di C. Tolomei, la poesia anacreontica ricomparve più agile e più leggera nell’imitazione, che ne fece F ilippo Alberti, risuscitando felicemente una combinazione ritmica di settenarj e d'endecasillabi, già usata nel principio del secolo dal Trissino: contemporaneamente all’Alberti, Anacreonte (1) Queste domande racchiudono in breve i principali argomenti, esposti nell’ Orzatesi e nel Gerì. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 323 cogli altri lirici prestava nuove ispirazioni al grande Torquato (i). 11 Chiabrera, passata la giovinezza in Roma, vi potè godere la conversazione d’Antonio Mureto esperto grecista ed erudito commentatore del canzoniere ronsardiano; e forse mentre il vecchio venerando leggeva le graziose odicine del poeta, da poco scoperto, o le felici imitazioni, che ne aveva fatto Γ amico suo Ronsard, l’adolescente Gabriello sognò per la prima volta di divenire un giorno l’emulo dell’anacreontico francese. Certo è che in quegli anni egli accolse in germe le idee artistiche, le quali, svolgendosi più tardi, dovevano informare la sua opera letteraria. Già da lungo tempo, adunque, s’amava come Anacreonte: ora anche nella canzone d’amore scompare ogni finta idealità, e la passione pagana, circondata di tutte le grazie terrene, resa meno acre da un senso di pessimismo, forse d origine cristiana, viene nuovamente ad ispirare la lirica nella prima metà del ’6oo. La vita? (si domandano i poeti). Acqua d’un torrente, risponde il Chiabrera, che fugge precipitosa verso il mare, il mistero : godi tutto ciò, che puoi, ma non fissare il tuo desiderio sopra nulla, perchè cominciando da tè stesso, tutto si tramuta, aggiunge il nostro poeta. Chi vuol, eh’ io m’ innamori mi dica almen di chi ! se d’ animati fiori un fiore che cos’ è ? se di begli occhi ardenti, ah che fian tosto spenti I la morte, ohimè, n’ uccide il. tempo tutto frange : oggi si ride e poi doman si piange I (2). Chi riconoscerebbe in messer Jacopo, rammaricantesi ora per la caducità della bellezza umana, l’amante platonico della canzon petrarchesca? Unico conforto in tale stato di cose è di godere negli anni giovanili : così il Ronsard aveva invitato coi (1) Per questo rapido accenno alla fortuna d5Anacreonte mi valgo dell articolo Di alcune rifioriture anacreontee nel secolo XVI, pubblicato da Sev. Ferrari nel vol. XX del Giorn. Stor. ili Let. It., ed al quale rimando il lettore. (2) Firenze — Bibl. Nazion., cod. cl. VII, 359, pag. 724. 324 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA suoi canti a coglier la rosa prima che, sfiorita, liberi i petali al vento, e il Chiabrera gridava al servo d’Amore: cavalier, se tu non cogli questi fior bianchi e vermigli fia che tempo o morte spogli il bel sen di rose e gigli : da rio male s’ assicura chi goder sa sua ventura (i); ed il Marino col vaneggiar· degli anni si dilegua la vita, e con 1’ età fugace il ben, che sì si pregia, il bel, che piace. cogli, cogli il tuo fiore che quasi in un sol punto e nasce e muore, e tra poco il Testi ripeterà a Cinzia .....ancor noi sai ? perduto ben non si racquieta mai ! godi mentre ancor hai guancie di rose chè ben presto verrà 1’ età del gelo (2). Davanti alla fantasia di questi poeti s’ agitava il fantasma pauroso della vecchiezza e della morte! Par quasi di sentire nei loro versi 1’ eco di tempi remoti, quando lo schiavo del ricco signore egiziano, dopo le orgie lussuriose del padrone e dei suoi amici, mostrando ai convitati, ancora distesi sui morbidi tappeti, tra le mense ingombre di cibi e bevande, 1’ effigie in legno d’un defunto: « guardate e bevete, diceva loro, perchè io vi dico che anche voi diverrete come ora è costui ». Incalzati da una legge così dura gli uomini del seicento non trovavano altro conforto che amare e gioire, fin che il tempo fosse propizio: Anacreonte aveva detto: duro è‘ 1’ amar : più duro 4 il non amar (3), (1) Chiabrera, Opere, ed. cit., pag. 113, η. XII. (2) Chiabrera, Opere, ed. cit., pagg. 422-423. (3) Anacreonte, Odi, trad. di Andrea Maffei. Firenze, Le Mounier, 1875, pag. 88. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 325 ed il Chiabrera confessava: vissi allor noiosa vita mentre gel fu ’l viver mio : poiché accese il mio desio bellezza alta ed infinita di dolcezza ho colmo il core (1). Così pure il nostro Cicognini, prendendo evidentemente le mosse da un’odicina del Savonese (2), rivolgendosi ai poeti innamorati, cantava: Io mi condolgo amanti (ma chi mel crederà?) per non versar più pianti per femminil beltà 1 e schiavo in libertà sospiro mia perduta servitù, e piango sol perch’ io non piango più (3). Chi fosse Aurilla, la donna' amata da Jacopo, non sapremmo dir precisamente. L’Eritreo accenna ad una sua passione per una « muliercula quaedam », ma secondo noi quel nome poetico nasconde parecchie donne, cantate dal poeta. Fra le quali fu probabilmente una forosetta, di cui s accese forse in un ballo campestre. Aurilla, anima mia vivo ardor, viva speme memoria in te ti serba qualhor tra i fiori e 1’ erba vicino alla capanna, danzando a suon di canna, io ti stringea pian piano la delicata mano, e tu bella e ritrosa, nell’ ira più vezzosa, mi parlavi coi guardi, mi ferivi coi dardi, in un pietosa e fiera, amorosa e severa, volevi, e pur negavi, ma, negando, bramavi ciò, che più ’l cor desia ? (4). (1) Opere cit., pag. 118, 11. XXVII. (2) Opere cit., pag. 112, η. XI. (3) Cod. cl. VII, 359 cit., pag. 439· (4) Cod. cl. VII, 359 cit., pag- 648. 32Ó GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Ma nulla più di questo perchè, come il Rinuccini (i), anche il Nostro teneva nascosti con cura gelosa i suoi sentimenti, ed agli amici, che pretendevano conoscerne gli amori, indirizzava una delle sue più belle odicine : Chi giura, eh’ io non amo ? E come ’l può saper ? Se a consigliarmi io chiamo appena il mio pensier ? O curiosi amanti pascetevi di vanti 10 godo nel tacer ! Da me non mai s’ approva 1’ interno discovrir : 11 saggio asconde e cova la gioia ed il martir. Se havrò diletto o duolo a me fia noto solo : non lo vorrò ridir ! Non vi die segno il viso di mia felicità : pallor, che scopra ’l viso indizio in me non fa. In mezzo al ben languire, in mezzo al duol gioire, o amanti ’l cor saprà (2). Certo è che la donna, cantata da Jacopo nelle rime di questo secondo periodo, cessa d’ esser oggetto d’ adorazione, cui eran degni d’ascendere solo i pianti ed i sospiri: Aurilla è una donna mortale, ed a costei come a Filli ed a Clori il poeta dedica le sue canzoni, nelle quali o freme la gioia, oppure la preghiera dei primi versi alla donna amata contrasta colle imprecazioni o col disprezzo delle strofe seguenti. In esse l’onda irrompente della passione s’agita pei brevi e saltellanti ottonarj, regolandone il vario ritmo, ma non la cura minuziosa dell’elocuzione e'del verso, quale si riscontra nelle liriche del primo periodo, quando la freddezza del sentimento dava alla mente maggior facoltà di compier l’opera sua di cesellatura, non di rado artificiosa. Tutto intento, come gli altri chiabrereschi ad esprimersi con dolcezza ed eleganza di forma, con melodia di rima (1) Vedi le poesie di lui edite in Firenze per i Giunti nel 1622, pag. 96. (2) Cod. cit., pag. 635 ; ed. dal CORAZZINI in Miscellanea ili cose inedite 0 rare. Firenze, Baracchi, 1853 ; con questa son pubblicate altre quattro anacreontiche ed una canzone di Jacopo. Stanno a pagg. 326-333. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 327 e d’ accento, non si può negare che talora sia riuscito a comporre delle odicine graziosissime, leggere come farfalle, soavi come musica. Il poeta, ad esempio, invita Filli ad amare: 10 so che trovasi, Filli, chi dice, che amando provasi sorte infelice : non è severo quel nume arciero, ma riso e gioco, Fillide, credilo, provalo un poco (1). Questi due quinari, che, a guisa di ritornello, chiudono ogni strofe, fan pensare alle parole che Corisca aveva detto a Mirtillo. Deh se una volta sola 11 provassi soave e cortese e gentile ! provalo un poco, provalo e vedrai (2), ed ai versi che il Chiabrera scriveva, par quasi alludendo a quelli dell’amico castrocarese : Lasso me ! quando 111’ accesi dire intesi eli’ egli altrui non afiìiggea, e che tutto era suo foco riso e gioco.... » (3). Ed a proposito di reminiscenze chiabresche non dobbiamo trascurare un componimento, a prima vista veramente strano, ma che si ricollega a una forma di poesia, abbastanza in voga a quel tempo. Di carattere prevalentemente ironico, esso è disteso in un centinaio di versi, per la maggior parte settenari tronchi in fine, e contiene le invettive, che il poeta immagina scagliate da Fatima, un' egiziana, contro Chiaus Occhiali, l’amante turco infedele. Fatima è una delle tante sventurate, che i cavalieri di S. Stefano rapivano come preda di guerra sulle coste e sulle galere dei pirati, e che portavano ad ornare i loro trionfi, (1) Cod. cit., 441 : ed. anche dal Corazzini in op. cit. (2) G. B. Guarino, Pastor Fido, At. Ili, se. II. (3) Chiabrera, Opere cit., pag. 116, 11. XX. 328 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA tornando vittoriosi in Firenze. Gli accenti aspri dei versi tronchi furon preferiti dal poeta forse perchè più adatti ad esprimer l’effetto, che dovea produrre su orecchi fiorentini l’idioma delle misere prigioniere, e le immagini furon scelte a bello studio per mantenere il colorito d’ambiente, direi quasi, di questo idillio barbaresco. Eccone il principio: Cane Chiaus Occhiali dove ti ficchi tu ? eh’ io non ti veggo più, crudel, notte nè dì. 10 ti fei Bilerbei della gran région dei pensier miei : tu sol del mio tormento mostro di crudeltà ti mostri ognor contento. Amurat, Iusuf, Mustafà ! Nella viva moschea del mio superbo petto tu fosti il Macometto 11 core era 1’ aitar, ove mai sempre ardea foco d’ immenso affetto : nè le gemme del malti mancaro per me, che in lacrime di fè, da quest’ occhi sgorgar, vedesti notte e dì. Cane Chiaus Occhiali dove ti ficchi tu eh’ io non ti veggo più, crudel, notte nè dì (Γ). Forse queste « Querele d’una schiava abbandonata », tale ne è il titolo, sono una parodia di quegli idillj d’amanti disperati, che dal teocriteo φαρμακευτριαί al Consalvo leopardiano han dato più o meno ai poeti d’ogni età argomento di poesia. Nè simili composizioni mancavano nei canzonieri de’ tempi di Jacopo: il Rinuccini aveva tessuto in sette stanze tetrastiche d’ottonarj piani e tronchi alternati il lamento d’ un pastorello, in preda a disperazione amorosa sulle rive della Senna (2); cd il Chiabrera, che già aveva posto in ottonarj il lamento di Venere sul corpo d’Adone (3), espresse in quello stesso metro prevalente nelle (1) Cod. cit., pag. 873. — (2) Ed. cit., pagg. 199-200. (3) Ed. cit., pag. 123, n. XLIX. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 329 invettive di Fatima il rimpianto d’una fanciulla sull amante lon tano (i). Non solo, ma il verso chiabreresco ove soggiorni tu ?, con cui la donzella sì rivolgeva idealmente all’amico del cuore, ci richiama alla memoria il grido, ripetuto a guisa di ritornello dalla schiava barbara a Chiaus: ove ti ficchi tu ? E 1’ altro settenario del Savonese . fammisi notte il dì riecheggia nel finale di quello stesso ritornello di Fatima: crudel, notte nè dì. Si osservi in fine il modo, come terminano questi tre componimenti: quello del Rinuccini. Sì di Senna in sulla sponda un pastor pianger s’ udì : a quei pianti uscì dall’ onda ogni ninfa e impallidì ; quello del Chiabrera Sì con note amorose ninfa gentil cantò : poi le guancie di rose di bel pianto rigò, e quello di Jacopo col volto lacrimoso così sull’ arsa sabbia del Cairo popoloso sfogò 1’ interna rabbia contro un turco infedele 1’ egizia Fatima e commossa a pietà Γ Eco dava risposta alle querele. Per questi raffronti particolari e per l'intonazione predominante di esagerata pateticità, noi crediamo che 1’ autore nello senv questi "versi, oltre a comporre uno scherzo, pensasse a paro- (lì Ed. cit., pag. 115, »· XVIII. 330 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA diare le dee, le ninfe e i pastorelli, introdotti dai poeti a sfogar l’avversità dei loro amori. Un saggio di satira invece, o piuttosto d’umorismo ci si presenta nella canzone (i) scritta da Jacopo nel primo ventennio del ’6oo, quando la moda per rendere più elegante la calzatura prescriveva di fermare un corno ritorto a mezzaluna sulla punta delle scarpe. Gridava il poeta popolano: Allegri, o pettinali, ecco che ormai materia all’ arte vostra non può mancar, che i sacri ganimedi oggi 1’ uso de’ corni han posto in piedi ! forse con più furore credon piaghe nocive far questi colle scarpe alle lor dive, nè potendo cogli occhi, con la punta de’ pie’ ferirli il core o per vantare ardore e far parer alle bramate donne eh’ un’ inferno amoroso in lor soggiorni portan di Pluto in sulle scarpe i corni. Ma non s’ accorgono, egli continuava, che ponendo sotto i piedi la mezzaluna, rinfocolano l’odio della « setta mussulmana », la quale prepara già gli archi per la vendetta, e finiva con una chiusa doppiamente sanguinosa per quei « sacri ganimedi », che senza spiriti bellicosi tenevan sempre la spada pèndente dal fianco, e che riponevano il sentimento dell’onore nelle parole, non nei fatti. Talun, che dal destino senz’ essere guerriero per man della consorte ebbe ’l cimiero, mette le corna ai piedi, e si crede così porle in cammino! Ma s’ inganna il meschino, e ben s’ accorgerà che sulle piante meglio germoglieran gli odiosi arredi, e cornuto sarà da capo a piedi ! Nella stessa occasione Carlo Dati, rivolgeva contro gli zerbini l’ironia del suo verso: li) Cod. cit., pag. 532. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 33I Ricci, nastri, calzoni e spade e ciarpe ogni cosa comporto, e sol m’ adiro che si faccian le scarpe come dovrebbon farsi i berrettini e che faccian le corna i ciabattini, ed invocando il favore di Clio cornuta, il poeta volgeva sulla società un pensiero, rapido come un lampo, ma pieno d’ altissimo significato morale : Canta, che chi cornute ha le sue piante mostra d’ aver ingegno ; poiché siamo ad un segno che senza corna andar non puossi avante ; però che tanti e tante calcan del mondo i dirupati balzi, perchè non han le corna, ignudi e scalzi! (1). È l’ironia del sermone chiabreresco, che mettendo capo al Parini, amareggerà tra un secolo e mezzo gli ozi beati del.... « giovin signore! ». Più che ad un bisogno dell’anima, concedendo alle consuetudini de’ tempi il poeta nostro volle rivolger l’opera sua ad argomenti sacri. A questo proposito quale strana e pur evidente contraddizione si nota quasi sempre nei canzonieri del tempo suo! Que’ poeti dall’animo incredulo, pei quali la religione, già lo dicemmo, non era un complesso di convinzioni, ma una consuetudine della vita; che nei canti d’amore mostravano come maggiormente potevano tutto il loro attaccamento alla terra ed al tripudio de’ sensi; che adornavano il peccato coi colori più seducenti della poesia, sentivano poi il bisogno di chiuder le raccolte di rime con declamatorie canzoni di morale, con sonetti di finti pentimenti e di simulati furori poetici pei beati e pei santi della Chiesa. Ma in tale discordanza tra 1’ anima ed il verso quali miseri frutti essi non danno! Il Rinuccini canta le Vergini ed i Martiri col tono panegirista dei sonetti dedicati ai grandi della terra; il Chiabrera dopo aver inutilmente invocata l’ispirazione delle vergini ninfe del Giordano, si scusa della sua incapacità con versi e concetti ancor peggiori di quelli delle canzoni : a cantar degnamente di sì fatta materia, egli dice, mi bisognerebbe (1) Bibl. Nazion. di Firenze: cod. palat. cl. VII, n. 356 ; c. 162 1. 332 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA e Γ arco di marmorea pietra e di selce la cetra d’ acciar le corde e di metal la mano (i). Anche Jacopo adunque sentì il bisogno di far prova di forte sentimento religioso, per quanto non sincero. In Roma dopo un discorso, o per dir meglio una cicalata sul « Sospiro », da lui detta nell accademia degli Umoristi, aveva promesso a quegli accademici, di cantare una qualche volta d’un soggetto pietoso, in cui la lacrima avesse la massima importanza! Così almeno confessa candidamente nella prefazione ai treni di Geremia : povera poesia, a qual punto era discesa! Incoraggiato dai consigli di mons. Ciampoli e di Romolo Paradisi, e da Roma, qual cortigiano del card. Capponi recatosi a Bologna, vi compose nel 1615 un’infelice traduzione, o per esser più esatti una parafrasi dei canti del triste profeta. Pochi anni prima i versetti latini eran stati musicati da Vincenzo Galilei, il quale volle con essi dare un saggio del nuovo stile recitativo, ritrovato in Firenze dalla Camerata de’ Bardi, dopo lunghi studj sulla musica greca. Nell avvertenza ai lettori il nostro poeta, dopo aver accennato succintamente a ciò, che si sa per tradizione del personaggio biblico, espone da sè stesso i criteri artistici, dai quali s’ era lasciato guidare: « Non ho già », egli scriveva, « seguitato il testo, poiché non voleva, nè m’ era lecito esser traduttore della Sacra Scrittura, ma liberamente mi son dilatato, senza uscir però dai debiti confini, avendo abbracciato, ristretto et esplicato quello che dottissimamente da varj scrittori era stato scritto »; e, riguardo alla forma adottata avverte: « se in questa mia fatica leggerete versi o parole, invece delle quali a voi paresse che se ne fusse potuto far scelta delle più nobili e peregrine e più sostenute « sappiate, egli dice », che ciò avviene perchè le usate da me sono le magistrali, le proprie e le significanti, che però ho voluto (siccome io doveva) degnamente anteporle a quelle, che potevano arrecare suono e gusto maggiore alle orecchie, e non vera e propria intelligenza del concetto ». Sebbene quest’ultima avvertenza, tanto più notevole se si pensi a tempi, ne quali fu scritta, ci predisponga favo- li) Ed. cit., pag. 79, η. IV. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 333 revolmente alla lettura, cd il lavoro di Jacopo fosse esaltato al suo apparire tra gli altri con un sonetto del Chiabrera, e con due madrigali del Preti (i) mi sembra non essere il castro-carese riuscito ad altro che a comporre una cosa men che mediocre. 11 lamento biblico, così denso d’ingenua poesia, si stempera in questa parafrasi in un mar di parole, che rendon grave e pesante la strofe petrarchesca, qui atteggiata a più ampie proporzioni. Le parole, le frasi del testo trovano in Jacopo più che il poeta commosso, il fiorito commentatore, che va in cerca di idee pellegrine, di descrizioni sovraccariche di colori e di parole sonanti, e che, perdendo di vista in tal modo il versetto dell’originale, fa dire a Geremia ciò che le Sacre Carte non contengono affatto (2) : insomma, a dirla in breve, non ne fa, ma ne trae argomento per le sue pesanti e rettoriche stro e. I pensieri, i concetti, coi quali parafrasa e commenta, in parte comuni, in parte pedestri sono espressi o con elocuzione ardita e smagliante, di cattivo gusto, o con frasi poetiche solo per metrica, non per l’intima loro essenza Di quanto sarà tra poco superiore la robusta terzina del Menzini!. Ci resta ancora da accennare in questo gruppo ad un’infelice raccoltina di poesia e, definite dall’autore col nome pomposamente pindarico di Inni (3). (1) Stanno stampati, insieme con un sonetto di G. C. Bazardi, con un altro di Girol. Moricucci, con un terzo di Pier Frane. Paoli e con ma riga 1 1 Cam. Lenzoni e di Girolamo Alcandi, nella prefazione alle Lagrime, ed. già cit., pagg. 14-21. TV (2) Ci limiteremo ad un esempio. Lamentat. lei. lroph., Lect. , 1 Ghimel « Sed et lamiae nudaverunt mammam, lactaverunt catulos suos : tilia populi mei crudelis quasi struthio in deserto »; cfr. Lagrime ecc., pagg. c 5- . « Ah chi non sa, che sotto il Cielo ardente - Dell’ arsa Libia le pm crude fiere — Nell’oscure caverne, e folte selve — Con affetti pietosi — porgono le mammelle a i figli loro - Per allattargli ? « noi - Se pur d, tutta la città dolente - Le più gravi miserie andrem cercando, - Saprem, che per le strade — Fur vedute le Madri egre e dolenti - Non solo abbandonar la cara Prole, - Come lo Struzzo suole, - Che copre 1’ huova sue con secca arena - Nè più torna a vederle e non le cura; - Ma per soverchia pena - D’ empia fame infinita - Rapire il cibo ai figli pargoletti - Per nutrir sè medesme Genitrici - Negando, anzi obbliando ogni lor cura - E le Leggi d’Amore e di Natura - Vero esempio d’horror, madri infelici ». (31 Inni I Per il Miracoloso | S. Antonio da Padova \ Donati | Alla Molto Reverenda | Suor Maria Lavinia Roffia \ Monaca nel Monastero \ Dell An- 334 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 11 primo, dedicato al sole, è, come tutti gli altri, una ben misera cosa, in cui la frase orpellata e rombante si sforza invano di coprire la vacuità del pensiero, del sentimento, della concezione poetica insomma, se si può usare un tal nome anche quando si tratti (è il nostro caso) d’una sequela di fantasmi deformi e bizzarri. L’astro diurno è detto « sentinella del cielo », « stilla del Sommo bene », « lumiera eterna dell’eterne scene », « vasta gemma reale — su corone rotanti — sempiterno fanale », « stella del Mar, che scorre in Paradiso », e già prima era stato battezzato coi nomi di « genitor spiritoso — delle nascenti fronde — tesorier luminoso della Terra e dell’Onde ! » È naturale che, posto su questa strada Γ autore non poteva concludere in modo meno peggiore di questo: Lingua di foco e d’ oro, che 1’ alme in vive tombe chiami al superno coro, finché il suon ne rimbombe, i tuoi raggi di Dio son tante trombe ! E questo basti al lettore per esprimere un giudizio, senza tema di cadere in errore, sugli inni, che seguono e sulle altre poche rime sacre di Jacopo, sparse pei codici. Solo là, dove non la religione, ma un profondo pensiero filosofico lo ispirava, riuscì ad essere efficace, quando diceva cioè della caducità umana: uno spirito del Purgatorio così parla ai vivi : Deh voi, che ancor vivete in questo basso mondo dal nostro duol profondo ormai senno apprendete ! Son fumi e vanitade giovinezza e beltade : ahi come nebbia al vento si dilegua il contento ! ahi come al sol le nevi son vostri giorni brevi ! nunziata | Nella città di S. Miniato | In Firenze | Appresso Zanobi Pignoni I MDCXXXIII. — Nella dedica « Alla medesima [ Suor Maria Lavinia | Giov. Roffia [ suo fratello | » dice che questi inni desiderati da molti signori eran stati detti da Jacopo « nel fine della tanto sua commendata Orazione, improvvisamente recitata in lode del Santo, nella Compagnia a lui consacrata, detta di S. Giorgio, nel giorno della sua festività ». GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 335 quasi lampo o baleno ogni pompa vien meno ; oggi in vita festosi, domali sotterra ascosi ! il) Lavoro non arduo certamente, ma tale che senz’alcuna utilità richiederebbe, molto spazio, è il dar ragione uno per uno dei venti diversi sistemi, o meglio combinazioni metriche, che usò il Cicognini, traendole in parte da altri, in parte inventandole. Solo diremo, che per la libertà di forme, concessa dal Chiabrera, i suoi imitatori adottarono qualunque sistema di versificazione, in prevalenza di metri brevi, differenti tra loro, variamente rimati ed accentati, purché ne risultasse una strofetta nel suo complesso di melodica musicalità, solo dipendente, secondo i precetti del Savonese, dal buon gusto dell autore. Perciò anche in Jacopo nostro troviamo una vera selva di metri, dal poco armonioso quaternario tronco, forse adattato al canto come ad esempio : Dissi già con ardir : libertà non partir, che per luce mortai io non posso penar. Ma ben sanno le genti per quest’ occhi languenti la mia piaga mirar nè si può più celar, nè si può più celar (2). al verso maestoso della stanza petrarchesca o dell’ ottava eroica, che, rivolta talora ad argomento giocoso, prende dal capitolo bernesco l’agile movenza dell’endecasillabo sdrucciolo. E del Berni il poeta nostro ereditava in parte 1’ allegria bonaria. Infatti mentre il Marino, intenerendosi al ricordo del voluttuoso abbraccio di Lilla, mostrava l’animo suo infrollito da raffinata corruzione, cantando d’un adu'terio fortunato (3), e mentre Ottavio Rinuccini, il gentiluomo dell’ alta società fiorentina, de- (1) Firenze, Bibliot. Nazion., Cod. cl. VII, n. 358, c. no r. (2) Firenze, Bibliot. Nazion., Cod. cl. VII, n. 459, pag. 438· (3) Marino, La Lira. Venezia, 1625 ; v. il sonetto, intitol. « Accidente Notturno ». 336 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA scriveva l’idillio sentimentale del suo innamoramento (i), Jacopo d’animo arguto e popolano, lasciando il sonetto o la svenevole strofetta rinuceiniana, affidava all’allegra ottava sdrucciola la storia del suo amore plebeo (2) Rigettato dal seno della sua nobile famiglia, sperimentata la superbia dei signori blasonati, egli si ritrasse tra il popolo, e più che alle aristocratiche feste, attese coi drammi sacri a distrarre gli umili, ed a sbizzarrirsi cogli amici nelle mascherate fiorentine, cantando agli effeminati zerbini : ........a noi non cade dietro le spalle inanellata ciocca, al fianco non portiam dorate spade con quel motto crudel : guai a chi tocca ! non passeggiali! sovra corsier le strade, bertucciando or con gli occhi or con la bocca, nè per gli ampj teatri o su pei canti laceriam fazzoletti o mordiam guanti. Siam pacifici e cheti cittadini (3). Nè questo vigore plebeo gli impedì di conservare un animo di squisita gentilezza; e se il Rinuccini s’ era invaghito sulle sponde dell’Arno d’una fanciulla sentimentale, il nostro Jacopo all’ombra de’ pioppi di quelle stesse rive veniva con Aurilla a ben (1) Rinuccini, Poesie cit., pagg. 143152; quest’idillio è disteso in 128 strofette tetrastiche d’ottonarj sdruccioli; risulta perciò molto prolisso e slavato. (2) Firenze, Bibliot. Nazionale, Cod. cl. VII, n. 244, cc. 51-67. — La piacevole narrazione si svolge per 65 ottave. (3) Palio e Mascherata, fatta in Firenze il 26 Ag. 162g. Firenze, Za-nobi Pignoni. Questo carattere di poeta popolano e bonario si rivela, oltre che dalla sua produzione drammatica, anche dalle stanze rusticali intitolate « Allegrezze di Pippo, lavoratore da Legnaia per la nascita del primo figlio ». Là dove il poeta fa esporre a Pippo le formosità sane e naturali della sua donna, in confronto delle pallide bellezze aristocratiche, par quasi che s’unisca al goffo lavoratore dei campi per esaltare la gioventù florida e selvaggia delle Nencie del contado fiorentino. Avrei parlato volentieri anche di queste stanze, attribuite a Jacopo nel t. XXXIII delle : Rusticali dei tre primi secoli. Venezia, 1838, pubblicate pei tipi di Ant. Zatta e figli, nelle Poesie pastorali e rusticali, raccolte ed illustrate dal Dott. G. FERRARIO. Milano, Classici, 1808; ed infine nelle note apposte da Orazio Marrini al Lamento di Cecco da Var-lungo del Baldovini. Firenze, Ricci, 1817, se l’unico codice, che le contiene (Marucelliano C. CCXIIj non le attribuisse a Jacinto. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 337 più dolci colloquj. Ma quando, violati gli antichi giuramenti, essa non ne volle più sapere, si oda con quanta delicatezza il poeta esprimesse i suoi rimpianti all' appressarsi del mese degli Più per me maggio non viene, primavera io più non sento, perchè ’l cor non è contento se perduto è ogni mio bene. Se chi fu mia vita cara fatta d’ altri, or non mi vuole, ben che sia ridente ’l sole i miei dì più non rischiara. Pur godete, o lieti amanti, · vostre donne in gioia e in festa . se per me speme non resta piangerò perch’ altri canti (i). Jacopo Cicognini era adunque un pacifico e cheto popolano al quale il trambusto della vita, consumata in compor liti r villani, a scriver protocolli, non impedì di coltivar la poesia, cm si sentiva inclinato per natura. Scrisse non per uc , diletto e per compiacere gli amici (2), sì che e sue r , cettuatene alcune poche, ch'ebbero l’onore di comPa"«tn* blico (3), rimasero sparse pei manoscritti. A raccogli : aveva pensato il Cinelli (4): lo alcune anacreontiche sono d una g tali da esser di poco inferiori a quelle del Chiabrera, Ρ la scarsezza del loro numero non giustificherebbero aparer nostro le cure J' un moderno editore. Certo e pero che per ess acopo nostro de.e esse, menzionato tra i migl.on seguac, de, Chiabrera, e pi» particolarmente viene a porsi^ ' saldo Cebà, sebbene un po’ al di sotto d, esso, dopo ,1 Rmuccmi, il quale fu secondo soltanto al grande Savonese. Mario Sterzi (continua) V(I) Firenze, Kbliot. Nazion., Cod. cl. VII, n. 359, pagg· «4, «5 e «6. i^iilfiri^üXediJacopo furon pubblicate ultimamente in nucciniana, 1900 : ma per essere una pubblicatoli F “ W*| (lice nella «dine da Ini delle poesie de, Cl.brer., F,· renze, Livi, 1674. 22 Giorn. Se. e- Lett. della l iguria 338 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA LA VENDITA DI PORTOVENERE AI GENOVESI E I PRIMI SIGNORI DI VEZZANO Quella parte della Lunigiana che, lungo il mare, si stende dalla grossa terra di Levanto, che la separa dalla Liguria, fino a Montignoso — il castrum Agilulfi del medioevo — suo estremo confine con la Toscana, ebbe molto a soffrire ne’ secoli XII, XIII e XIV per cagione delle rivalità di Genova e Pisa, che più di una volta scelsero a campo delle loro lotte fratricide i due castelli di Portovenere e Lerici, che fiancheggiano l’imboccatura del golfo della Spezia. Nelle vecchie traduzioni, in lingua latina, della Geografia di I olomeo, si trova rammentato, è vero, Portovenere insieme con Lerici: Veneris portus, Ericis sinus intima·, ma son però interpolazioni degli stessi traduttori, e nel testo greco non si parla di que’ due paesi; nè li ricorda Strabone, nè Mela, nè Stefano da Bisanzio, nè Giorgio Ciprio, nè la Tavola Peutingeriana, nè l’Anonimo Ravennate, nè il geografo Guido. Portovenere è peraltro nominato nell 'Itinerarium maritimum imperatoris Antonini Augusti, sebbene per uno sbaglio dovuto alla mano dell’ inesperto copista sia messo, non già tra Lima e Segesta [Sestri], ma tra Segesta e Portus Delphini [Portofino]. In quanto a Lerici che pigli il suo nome da un tempio dedicato alla Venere Ericina e al figlio di lei Elice, è un sogno addirittura (i). Quella parte del monte Caprione o Carpione, che da Lerici al Capo Corvo si stende verso il mare, nel medioevo si trova chiamato sempre Mons Illicis. (lì Al dire dello storico sarzanese Bonaventura De’ Rossi, vissuto tra il 1666 e il 1741, chi lo pretende fabbricato « da Ercole, figliuolo di Anfi-treone »; chi « derivato da Erice, figliuolo di Venere, ucciso da Ercole »; chi (ed « è 1’ opinione de’ più moderni ») « costruito dalli Pisani », e che « prendesse il nome dagli Erici, famiglia nobilissima di quella antica città e repubblica ». Cfr. De’ Rossi B. Collettanea copiosissima di memorie e notizie istoriche appartenenti alla città e provincia di Luni : ms. presso il cav. Alessandro de’ marchesi Magni Griffi di Sarzana, vol. II, c. 301 tergo e seg. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 33g Non è dunque nè da Venere, nè da Elice che trae la sua etimologia, ma dal quercus ilcx; pianta di cui era anticamente rivestito quel promontorio (i) e che anche adesso forma lo stemma parlante del suo Comune. Riguardo a Portovenere cambia caso; è un nome che parla troppo alto e troppo chiaro. Nè si venga a dire che Venere non c’entra per nulla, ma che invece l’eremita Venerio è il battezzatore del porto. Di S. Venerio se ne sa ben poco, a confessione degli stessi Bollandisti ; i quali, per quanto abbiano preso con ogni diligenza a chiarirne la vita, in sostanza non mettono in sodo che una cosa sola: potersi, per approssimazione, assegnar la sua morte verso la metà del secolo VII (2). Tra le lettere di papa Gregorio Magno ce n’è una a Venanzio, Vescovo di Luni, scritta nel novembre del 594, che dice: « statuimus diaconem et abbatem, quem de Portu Veneris indicas cecidisse, ad sacrum ordinem non debere vel posse aliquo modo revocari... In Portu autem Veneris, loco lapsi diaconi, alium, qui hoc officium implere debeat, ordinabis » (4). Dunque, anche prima che 1’eremita Venerio venisse al mondo, quel luogo si chiamava Porto di Venere, come ha poi sempre seguitato a chiamarsi. Negli Annales, attribuiti un tempo a Ei-nardo, che morì 1’ 814, e che, se non son di lui, son certo compilazione ben vecchia, si trova scritto che nell’ottobre dell’801 « Isaac iudaeus de Africa cum elefanto regressus Portum Ve- (1) Che Pisa si servisse del legname della Lunigiana per costruir le sue navi, lo attesta il poema De bello Balearico, a torto attribuito a Lorenzo Vcrnese, ma scritto da Enrico cappellano dell’ arcivescovo Pietro, clic resse la diocesi di Pisa dal I 104 al 1119. Nel descrivere l’apparecchio de’ ben trecento navigli con cui i Pisani mossero alla conquista delle Baleari piglia a dire : Quidquid tunc habuit nemorosi Corsica ligni Aut picis, innumeros ratium defertur ad usus, Lunensesque suo privantur robore sylvae. Arboribus caesis remanet curvar ia rara, Antennas quae vela ferant quod gestet easdem, Arborum robur celsae tribuere Mucellae. Cfr. De Bello Balearico sive rerum in Maiorica Pisanorum ac de eorum triumpho Pisis an. MCXIVlibri VII; in Muratori, Rer. ital. script. VI, 112. (2) De S. Venerio presb. eremita in Tyro maiore, maris Ligustici insula; in Acta Sanctorum mensis septembris; toni. IV, 13 sept. (3) Gregori I. Epistolarum [ediz. Gallicciollij lib. V, ep. 3. 340 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA neris intravit » (i). « Forse » (scrive il Promis) « dove è ora la chiesa diruta di S. Pietro, a Portovenere, sorgeva una volta il tempio cantato da Virgilio (2), e si può credere che fosse dedicato a quella divinità. È però falso che se ne conservino le vestigia, stantechè la chiesa che or vi si vede, indica in ogni sua parte lo stile del secolo XIII, della qual cosa volli cogli occhi miei pienamente accertarmi > (3). Delle tre isolette, la Palmaria, il Tino e il Tinetto, che fronteggiano l’imboccatura del golfo della Spezia, il Tino nel medioevo si chiamava Tyrus maior e vi sorgeva un monastero, che venne poi arricchito con una lunga serie di donazioni dalla liberalità de’ progenitori degli Estensi e de’ Malaspina. Adelberto Marchese, figlio della buona memoria del Marchese Adelberto, fu il primo di loro a darne 1’ esempio nel marzo del mille. Allora il monastero pigliava il nome dal nostro Venerio: monasterio beatissimi Venerii, quod est constructo et edificato in insula Ula, mare sita, loco qui dicitur Tiro maior; nel 1055 comincia ad accoppiare al vecchio nome di Venerio anche quello di S. Maria: ecclesia sancte Marie et sancti Vene rii, que sunt edificate in Tiro maiore infra mare (4). E quando i monaci, per le frequenti incursioni de’ Saraceni, nel secolo XV son costretti ad abbandonare il Tiro maggiore e a trovare un sicuro ricovero nel vicino seno delle Grazie, benché a volte venga chiamato monastero di S. Maria delle Grazie, pure fino al 1796 conserva il vecchio nome di monasterium Sancti Venerei de Portu Veneris ; ed è rimasto celebre per il suo ricco archivio, andato poi miseramente disperso alla fine appunto del secolo XVIII. (1) Einhardi Annales ; in Monumenta Germaniae historica, Scriptorum ; I, 190. (2) Cfr. Aeneid., Ili, 533. Lo scoliaste Servio, chiosando la descrizione che fa Virgilio dello scudo d’ Enea (Aeneid., Vili, 720), tra le altre cose, dice : « In tempio de solido marmore effecto : quod allatum fuerat de portu Lunae, qui est in Liguria ». (3) Promis C. Dell’antica città di Limi memorie, Massa, Frediani, 1857; P· 33· (4) Muratori L. A. Delle antichità Estensi; I, 84, 228, 230, .231, 236, 237, 238, 239, 241, 243, 253, ecc. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 341 Portovenere nelle guerre tra Genova e Pisa vien ricordato per la prima volta l’anno IO77; e chi lo ricorda è il Chronicon Pisanum, frammento d’autore incerto, che dal 688 arriva al 1136. Ecco le sue parole: « MLXXVI1I (1). Januensis stolus usque ad faucem Arni occulte devenit. Tunc strenui Pisani concite in eos surrexerunt et fugaverunt illos usque ad Venerem Portum. Hoc factum est in die sancti Cassiani », cioè il 13 d'agosto (2). Nel Vetus chronicon Pisanum, attribuito a Bernardo Marangone, si trova lo stesso racconto, parola per parola (3). Invece il Breviarium Pisanae historiae, compilazione fatta nel 1371 ^al canonico Michele da Vico, n’esce con dire: « Anno 1078. Pisani et Januenses guerram habentes, plura sibi damna invicem contulerunt » (4). Sulla fede de’ vecchi cronisti torna a raccontar la disfatta de' Genovesi il canonico Raffaello Roncioni, morto nel 1618. « I Genovesi » (son sue parole) « occultamente vennero.....alla foce dell’Arno, e vi fecero gran danno; ma più fatto ne avrebbono se non sopraggiungevano i Pisani, dai quali fuggendo essi furono perseguitati fino a Portovenere, termine dello Stato Pisano » (5). Afferma Francesco Bonaini che « Portovenere era nelle mani de’ Pisani a’ principii del secolo XII, e precisamente nel 1118 '1) I Genovesi contavano l’anno a nativitate, cioè dal 25 decembre; i Fiorentini, ab incarnatione, cioè dal 25 marzo ; i Pisani, ab incarnatione, ma desumendo il loro anno dall’ anno quarantacinquesimo giuliano ; per cui, mentre la differenza tra l’anno genovese e 1 anno volgare o comune, che comincia col primo di gennaio, è di sette giorni, la differenza tra 1 anno fiorentino e Γ anno volgare è di due mesi e ventiquattro giorni, e la differenza tra l’anno pisano e l’anno volgare è di nove mesi e sette giorni. (2) Chronicon Pisanum seu fragmentum auctoris incerti ab anno DCLXXXVIII usque ad annum MCXXXV ; in MURATORI, Per. Ital. script. VI, 108. (3) BERNARDI Marangonis Vetus chronicon Pisanum ex tns. codice Bibliothecae Armamentarii Parisiensis ; nelVArchivio storico italiano, VI, part. II, p. 6. (4) Breviarium Pisanae historiae auctius et emendatius nunc primum ex tns. Incensi; in Muratori, Rer. It. script. \ I, 168. (5) Roncioni R. Istorie Pisane ; m Archivio storico italiano ; ton». VI, part. I, p. 121. 342 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA allorquando approdandovi Gelasio II dedicò il magnifico tempio thè in onore di S. Pietro vi avevano edificato. Assalito da’ Genovesi, cadde di lì a non molto nelle mani loro » (i). I Pisani al principio del secolo XII nè furon padroni di Portovenere, nè vi costruirono la chiesa di S. Pietro, nè papa Gelasio la consacrò. Per testimonianza d’un contemporaneo, Caffaro, il più antico degli annalisti genovesi, che visse dal 1099 al 1163, papa Gelasio consacrò a Genova la chiesa di S. Lorenzo; la parrocchiale di Portovenere, dedicata essa pure a S. Lorenzo (2), non già quella di S. Pietro, venne invece consacrata da papa Innocenzo II tra il giugno e il luglio del 1130 (3). E fin dal 1113, per opera de’ Genovesi, (è pur Caffaro che lo attesta) era stato costruito il castello di Portovenere: « consules ad honorem civitatis Janue castrum Portus Veneris edificare fecerunt » (4). Osserva Luigi Tommaso Belgrano col solito acume suo e con quella piena conoscenza che aveva della storia della Liguria: I Genovesi acquistata, non sappiamo per quali imprese, o convenzioni, la terra di Portovenere, con le isole adiacenti di Tino e Tinetto, aveanvi nel 1113 fatto edificare un castello e costituita una colonia » (5). Soggiunge poi: « Il Repetti (6) dice che ^ T 1X1 Dipìntili pisani e regesto delle carte pisane che si tro- a Stampa; in Archivio storico italiano; tom. VI, part. II, supple-mento i, p. 109, nota 1. } ^ ' P)sta <( soPra il paese in bella posizione ; è di buona architettura e ricca di marmi e di alcune buone tavole ; ha tre navate e molti altari. Sul cornicione, che passa internamente sopra la porta di sinistra, si osserva un vec-C io tronco d’albero scavato, che venne trovato nei tempi di mezzo da alcun. marinai d. Portovenere, che pescavano in alto mare. Rimorchiatolo alla spiaggia e cercando spezzarlo per farne legna, lo trovarono pieno di nobili ehquie, ornate d, gemme, d’ oro e d’ argento. Alcune di queste reliquie si constano tuttora entro una nicchia dell’altare a sinistra del maggiore ». ^■appa, 1903 ; p. 161. 1 MCCjfrm ’ g6n0VeSl dl Caffaro « suoi continuatori dal MXCIX al 1 if Ϊ ~ ediZi0ne a cura di LUIGI ToMMASo belgrano ; vol. I PP. 16 e 26. - (4) Caffaro, Op. cit. I, i5. ’ ArciIsmüTgT L’ T> CartarÌ° Gcn0VeSe ed illusAzione del Registro ΤΓογ RrpËm E D R' '■ »3-34,. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 343 i Genovesi comprarono Portovenere da Grimaldo da Vezzano nel 1104 (1); e lo Stella ha invece 1204, con errore troppo manifesto. Il Liber iurium a stampa assegna la detta compra al 1139, ma l’atto non riguarda che la metà della terra, nè reca propriamente alcuna cronologica indicazione. Consentiremo tuttavia che la stessa debba posticiparsi al 1113, giacché un documento successivo parla del castello » (2). Giorgio Stella intese di assegnare la data della compra all’anno 1104 ed è un pretto errore della stampa quel 1204 (3). Il « documento successivo », ricordato dal Belgrano, porta questa intestatura datagli da Ercole Ricotti, il moderno editore del Liber iurium della Repubblica (4) di Genova: « Traditio territorii Portus Veneris, (1) Il Repetti non dice, come vuoie ii Belgrano, che i Genovesi comprassero Portovenere da Grimoaldo da Vezzano nel 1104. Afferma invece: « del castel di Portovenere non ci restano documenti anteriori al secolo XII, quando i Pisani signoreggiavano costà, dove nella seconda decade del 1100 quella Repubblica innalzò sopra un’ alta rupe, che precipita a picco sul mare, quel grandioso tempio di S. Pietro, falsamente creduto pagano, incrostandone le pareti a strisele parallele di marmo bianco lunense e di nero venato di Portovenere, secondo 1’ uso di quella età ; ed è quel tempio medesimo che il pontefice Gelasio II nell’anno 1118, approdando in Portovenere, a testimonianza dell’ annalista Caffaro, dedicò al Principe degli Apostoli, e che quattordici anni dopo Innocenzo II, a detta di qualche altro scrittore, consacrò. Ma in questo mezzo tempo il castello di Portovenere fu assalito e preso dai Genovesi scacciandone le genti di Pisa, dove, peraltro, furono fuse le due grosse campane che si conservarono nella chiesa parrocchiale di S. Pietro in Portovenere sino all’ anno 1808, per esser rifuse e convertite in altri bronzi sacri. Comunque sia, sembra certo che il castello di Portovenere innanzi al-1’anno 1118 non dovesse ofirire che una riunione di povere casupole di marinari, senza mura castellane e senza fortilizio. Altronde la situazione geografica di questa località indurre doveva la Repubblica di Genova alla sua conquista e fare ogni sforzo per acquistare Cotesta importantissima posizione ». (2) STELLA, col. 977. — Liber iurium; vol. I, col. 62. [Nota del Belgrano], (3) Le testuali parole dello Stella [Annales Genuenses; in Muratori, Rer. Itnl. script. XVII, 977] son queste: « Portus Veneris territorium et ubi castrum ipsius loci fuit per Januenses constructum MCCXIII, acquisivi! a Grimaldo de Vezano et sociis pro libris centum MCCIV ». (4) Fu sapienza de’ vecchi Genovesi, come nota 1’ Ansaldo \Atti della Società Ligure ; Γ, 16], il far redigere « delle cose importanti alla Repubblica doppio originale, da conservarsi in luoghi diversi, come sappiamo aver fatto ♦ 344 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA et terrae in qua constructum fuit castrum et burgum Portus Veneris, facta Communi Januae ab hominibus Vezani ». Anche a questo, come all’altro della vendita, attribuì la data del 1139, e lo fece seguire da un terzo documento, al solito senza data e da lui ritenuto parimente del 1139, che intitolò: « Homines Portus Veneris Consulibus Communis Januae se fideles et su-biectos futuros profitentur ». Invece di essere tre atti distinti, come vuole il Ricotti, sono un atto solo, ma disgraziatamente senza data. Lo ricavo da una copia che ne fece verso la fine del secolo XVIII il p. Gio Francesco Agostino Zacchia di Vez-zano, Provinciale de’ Minori Riformati di S. Francesco, il quale lo trascrisse di propria mano « ex Libro duplicato iurium Reipu-blicae Januensis, asservato in Archivio Secreto Genuae, pag. 60 », allorché « essendo teologo della Repubblica di Genova aveva avuto la comodità di andare in quell’Archivio Segreto ». Cosi attesta l’erudito sarzanese Domenico Maria Bernucci, che ebbe appunto quella copia dallo Zacchia; adesso grandemente preziosa, giacché il Liber duplicatum, dal quale fu tratta, sebbene non sia andato disperso, come a torto si credeva, ha però cambiato cielo, e si trova a Parigi nell’Archivio del Dipartimento degli affari esteri. JE anche doppiamente prezioso, perchè con-tiene un brano affatto inedito. Qui lo trascrivo nella sua integrità: De terra Portus Veneris vendita ab hominibus Vezzani. In nomine Domini, amen. Nos homines de Vezano damus Communi lanue totam terram que est a muro castri Portus Veneris usque ad plavam cum tota playa usque in pedem montis et in sursum per pedem montis usque in fossatum et per medium fossatum usque in altiorem montem, qui videri potest a playa, cum tota terra et monte ubi positum est castrum Portus V eneris cum toto burgo ; excepto quadraginta tabulas de terra, quas in nostra reservamus potestate, ab ortibus usque ad pladiam, medietatem de supra viam, aliam medietatem de subtus viam, ita ut sint longe a mari pedes quindecim ; et ille, que supra viam debent esse, habeant pedes sex per frontem de unaquaque tabula ad mansiones faciendas. Et non debemus ibi habitare vel nostra familia, nisi per parabolam maiorem partis Consulum Janue. Aliis hominibus eas dabimus sicut nostrum velle erit. Et vendimus Comuni Janue medietatem de tota terra que est a predicta playa, videlicet per pedem montis, sicut supra determinatum est, usque ad planum de Ria, ita ut planum de Ria in nostra sit dei Liber iurium, quasi presaghi della dispersione che ne sarebbe ripetutamente avvenuta ». Dal Liber i-urium vetustior, « come fu detto per necessaria distinzione, nacquero allora 1’ Iurium primus, copia letterale del precedente, e V Iurium duplicatus in cui le scritture vennero più razionalmente ordinate ». Cfi. Belgrano L. T. Prefazione agli Annali genovesi di Caffaro, p. XXXVII. GIORNALE STORICO E LETTERARIO UKl^LA LIGURIA 345 potestate et montem per fossatum usque in medietatem inter montem Murellonis et alium montem et ab uno monte ad aliud mare sicut determinatum est per pretium librarum centum (i). Nos iuramus quod ab liac die in antea non erimus in consilio vel ili facto quod Commune Janue perdat castrum Porti Veneris, vel burgum, vel terram illam quam datam vel venditam ei habemus, sed adiuva-bimus ad retinendum illud ei in totum contra omnes homines. Et si quod absit aliquo casu perdiderit totum nos adiuvabimus ad recuperandum ei illud quod perditum fuerit contra omnes homines bona fide, sine fraude et malo ingenio. Et si Commune Janue fecerit ostem a Monaco usque Pisas et a Gavi vel a Montealto usque ad mare et nobis a Communi Janue requisitum fuerit, in illo oste ibimus vel omnes vel pars in tali ordine : Si oste fuerit per totum episcopatum Januensenl usque Pisas, unus ex nob s per unamquamque domum, videlicet de senioribus, ibimus in illa oste sine aliis hominibus quos nobi-scum duxerimus, et si in alia parte fecerit ostem, duo ex nobis ibimus in illa oste. Et si fecerit ostem per mare usque in Fredum, et nobis requisitum fuerit a Communi, nos ei dabimus consilium et adiutorium de nostris personis, vel de nostris hominibus, et salvabimus personas et res Januensium in nostra potestate. Hec omnia, que superius scripta sunt, observabimus bona fide, sine fraude et malo ingenio, nisi quantum remanserit per parabolam maioris partis Consulum Janue .^Populus Januensis non tollet Cam-piliam filiis Amalfredi et filiis Henrici et Grimaldo et Opizoni vel filiis eorum, et non erit in consilio neque in facto ut perdant quod ibi habent et tenent; et si aliquis hoc quod habent in Campilia cum iustitia eis tollent Commune Janue adiuvabit eos. Et si aliquis homo eis tollerit iustitiam quam ipsi iuste tenent a Macra usque Gabiliam et a Gravelia usque Vernazam, infra istas coherentias usque in mare adiuvabit eos Commune Janue ; excepto hoc quod Communi donaverunt, vel vendiderunt, aut vendiderint. Et Commune Janue servabit eos personas et res eorum in sua potestate. Hec omnia Commune Janue observabit nisi quantum remanserit per parabolani maioris partis (2) illorum seniorum qui suprascripti sunt (3). Testes Bellamutus, Gandulfus Ruffus, Rolandus de Paxiano, Bonusvassalus advocatus, Ansal-dus Beaqua, Albertus de Palazolo, Alcherius Guaracus, AVillielmus de Nigro, Marchio iudex, Vassallus medicus, Otto Canella, Fabianus, Oglerius de Guidone, Rinaldus Battigaldus, Ionathas de Merlo, Baldizonus de Donodeo, Bo-nusvillanus de Salvatore, Wlielmus Scaregla, Detesalve Saonese, Rogeronus de Palazolo (4). Cartulam donationis et venditionis fecerunt Grimaldus de Vezano per se et per Guiscardum filium suum, et Berengarius consentiente patre cius, et Henricus et Guilelmus germani, et Albertus et Guirardus, Guido Lombardus per se et per Bertolotum, Salvaticus per se et per Baiardum, et Rafia Rufus per se et patrem suum et per Obertum fratrem suum de medietate (5) Porti Veneris sicut supra in carta scriptum est. (i) Oui termina 1’atto che il Liber iurium stampa come secondo, e che il Belgrano chiama « documento successivo ». L’atto che segue, è il terzo di quelli che riporta il Liber stesso. <2) Il Liber iurium invece stampa : « per parabolani maioris partis Consulum Janue ». (3) Qui termina il terzo documento portovenerese del Liber iurium. Il brano seguente è inedito. (4) Qui termina il brano inedito, e comincia 1’ atto che il Librr iurium dà come primo. (5) La copia dello Zacchia ha : hereditate, ma è un errore evidente. Col Liber iurium a stampa sostituisco : medietate. 346 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Il Bernucci vi fa questa nota: « Non trovandosi nel suddetto documento espressa la data dell’anno, o alcun’altra nota cronologica, non si conosce da esso a qual epoca appartenga. Riflettendo però che molti de’ testimoni che furono presenti a quest’ atto e che si vedono ivi descritti, sono stati Consoli di Genova, e fra gli altri, secondo che c’ istruisce il Giustiniani ne’ suoi Annali, Bellamuto negli anni 1126 e 1130, Gandolfo Ruffo nel ino e 1118, Guglielmo Di Negro nel 1130, Ottone Cannella nel 1133 e 1135 ed Oglerio di Guidone nel 1132 (1), si potrebbe da ciò argomentare con sicurezza che questo instrumento fosse stato fatto fra l’anno 1100 ed il 1140 circa; ma venendo da Giorgio Stella, antico ed accreditato scrittor genovese, allorché parla degli acquisti fatti per lo passato dalla sua Repubblica, attribuito all’anno 1104 con queste espressioni: Portus Veneris territorium, et ubi castrum ipsius loci fuit per Januenses constructum MCXII1, [s’intende Respublica Januensis\ acquisivit a Gri-moaldo de Vezano et sociis pro libris centum MCIV, pare ragionevole il doversi acquietare all’assertiva di lui come di un soggetto che essendo vissuto nell’anno 1400 e prima, fu più vicinò ai tempi in cui venne stipulato il suddetto contratto, e doveva essere troppo bene informato delle carte e delle scritture della sua patria anco per essere stato figlio di Facino Stella, cancelliere o segretario della Repubblica di Genova in un tempo nel quale poteva avere osservate tante memorie che il lungo lasso degli anni potrebbe ora aver fatto perire, e la sua assertiva è tanto più da valutarsi, quanto che la costruzione e meglio si direbbe ristorazione di Portovenere e la traduzione di una colonia di Genovesi in quel luogo venendo assegnate dal Giustiniani e dal Foglietta all’anno 1113, e venendo ciò comprovato da antica lapide marmorea, che anco a’giorni nostri vedesi sopra la porta principale del suddetto borgo (2), è conveniente, anzi (I ) Cfr. OLIVIERI A. Serie dei Consoli del Comune di Genova; in Atti della. Società Ligiire di storia patria, vol. I, fase. Ili, pp. 241-242, 233, 237, 239, 219, 253, 255 c 252. (2) L’iscrizione ë questa: COLONIA IANVENSIS AN. 1113. Si legge sopra la porta di Portovenere verso la spiaggia. La copiò, ma non fedelmente, uel 1858 il compianto Marcello RemonDINI. Cfr. Iscrizioni della GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 347 è necessario il credere che quella Repubblica avesse fatto preventivamente acquisto di quel territorio, per ciò con la scorta di questi dati non ho dubitato di fissare stabilmente l’epoca di questo documento al suddetto anno 1104 » (1). Gandolfo Rufo, uno de’ testimoni all’ atto, infatti sedè tra i Consoli che tennero il governo di Genova dal ino al 1113, e appunto nel 1113 que’Consoli (come s’è visto) ad honorem civitatis Janue castrum Portus Veneris edificare fecerunt; et hoc fuit extremo anno predicte compagnie (cioè di quel consolato), m quo anni Domini currebant. M. C. XIII. Il leggersi però nello strumento: « totam terram que est a muro castri Portus Veneris usque ad playam » e « cum tota terra et monte ubi positum est castrum Portus Veneris cum toto burgo » prova nel modo più evidente che non può essere stato scritto nel 1104, ma che è posteriore al il 13, anno dell’edificazione del castello, ossia della fortezza. Il Comune di Genova costruì dunque una fortezza sopra un territorio che non era anche di sua proprietà? 10 ritengo di sì. L’interesse dello Stato voleva la pronta costruzione di quel forte. Può darsi che ne chiedesse e ne ottenesse a viva voce il consenso da’ Signori di Vezzano, e che il contratto fosse rogato più tardi per rendere regolare e legale 1’ acquisto. Può darsi anche che lo facesse senza saputa e senza il consenso di que’ Signori, e poi, per non avere in essi de’ nemici (cosa non-senza pericolo), li pacificasse acquistando e pagando 11 mal tolto con un atto solenne. « Per omaggio al principio, allora vigente, che la circoscrizione ecclesiastica dovesse quanto più fosse possibile armonizzare con quella della citta giudiziaria, ossia della città e del territorio, che erano sottoposti ad un solo potere civile » (2), il Comune di Genova chiese e ottenne da papa Innocenzo II, il Liguria raccolte e postillate ; negli Atti della Società Ligure di storia patria, vol. XII, part. I, fase. I, pag. 5, n. 6. La riporta anche Agostino Falconi, ma sciattamente al suo solito. Cfr. Iscrizioni del Golfo di Spezia raccolte, Pisa, 1874, p. 17, n. 23. È evidentemente un’iscrizione scolpita nel secolo XVI, come già dimostrò Ubaldo Mazzini [cfr. Giornale storico e letterario della Liguria ; II, 459], e per conseguenza non ha nessun valore storico. (1) Bernucci D. M. Spogli mss. presso di me. (2) BELGRANO L. T. Cartario genovese ed illustrazione del Registro arcivescovile ; p. 343. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 19 marzo 1133, che la vicina Abbazia dell’isola del Tiro maggiore venisse assoggettata alla diocesi genovese (1); chiese e ottenne da papa Alessandro III, il 9 aprile del 1161, che le fossero pure assoggettate le chiese di Portovenere : ecclesias in castro et suburbio Portus Veneris, sottraendole alla giurisdizione del Vescovo di Luni (2). L’anno prima i Consoli avevano fatto edificare il muio del borgo di Portovenere : murum burgi Portus Veneris hedificare fecerunt. Lo racconta 1’ annalista Caffaro ; e racconta pure che nel 1161 i castelli di Voltaggio, di Flacone, di Parodi, di Ri-varolo e di Portovenere « que extra civitatem de veteri opere erant edificata, tante fortitudinis tanteque pulcritudinis novum opus desuper et supra Consules edificare fecerunt, quod intuitu transeuntium inde ceteras cordis opiniones pro pulchritudine novi operis ab eis removeat; unde enim non solum amicis copia est leticie, verum etiam inimicis inmensam formidinem fortitudo novi operis tribuit audientibus » (3). * * * Lodovico Antonio Muratori, che con quel suo occhio d’aquila squarciò il velo che nascondeva l'origine degli Estensi e de’ Ma-laspina, vuole che i Signori di vezzano appartengano alla schiatta de’ Bianchi di Erberia, ossia di Rubiera nel Reggiano, « stati una volta vassalli o feudatari de’Marchesi d’Este » anche per diversi castelli della Lunigiana; e mette come stipite del ramo vezzanese quell’ Oddone (ossia Ottone) Bianco filio quondam Alberti de loco qui dicitur Moregnano, il quale, dopo essere stato investito dal Marchese Azzo di qualche suo feudo, confinante alla corte Naseta, « o per dir meglio della corte stessa », che (1) Ughelt.t F. Italia sacra [edizione originale]; IV, 1200. (2) Il Pflugk - HarttunCt [Iter italia/m; p. 264, n. 572] attribuisce alla bolla la data del 25 marzo 1162. Nella seconda edizione de’ Regesta pontificum roinanorum dello IaffÈ [n. 10663 e n. 10707] di questa bolla se ne fa due, una del 9 aprile 1161 e una del 25 marzo 1162. Il Desimoni [Regesti delle lettere pontificie riguardanti la Liguria.; negli Atti della Società Ligure, vol. XIX] ritiene « più sicuro » attenersi all’ Ughelli [Italia sacra; IV, il86] che la dice tratta « ab originario exemplari in Reipublicae Januensis Archivio asservato ». (3) Caffaro, Annali; I, 60, 62-63. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 349 apparteneva al monastero di S. Prospero di Reggio, il 22 decembre del 1104, con strumento rogato « in castro Verucole », donate a que’ monaci tutte le sue pretensioni, promise loro di non più ingerirsi in quel'a tenuta (1). Che i Bianchi di Erberia fossero realmente vassalli degli Estensi anche in Lunigiana, e che tenesser da loro in feudo più terre e castelli, e porzioni di terre e di castelli, è un fatto che trova la più larga conferma ne’ documenti ; come è un fatto che i Malaspina acquistarono dagli Estensi la più parte di quelle terre e di que’ castelli, tra le altre, « toto podere quod tenent Domini de Vezano » (2). Ma che i Signori di Vezzano fossero della famiglia de’ Bianchi d'Erberia, come ritiene il Muratori, non lo so credere. Il nerbo principale de’ possessi de’ Bianchi di Erberia in Lunigiana era nel fivizzanese, dove avevano in feudo Offìano, Argigliano, Co-diponte, Casola, Luscignano, Alebbio, Gassano, Monte de Bianchi, Monzone, Equi, Tenerano e Vinca, che appunto da loro presero il nome di Terre de’ Bianchi (3)· II nerbo invece de possessi (1) MURATORI L. A. Antichità Estensi; I, 168 e segg. Cfr. PODESTÀ L. Un diploma dell’ imperatore Federico I a Guglielmo Bianchi de Nobili di Vezzano confermato al di lui figlio Rolando dall’ imperatore Federico II, Sarzana, Tip. Lunense, 1893 ; p. 6 e segg. (2) Cfr. Concessione a livello di vari castelli fatta nel 1202 al Vescovo di Luni dai Marchesi Malaspina che gli avevano acquistati dai Marchesi d’Este-, in Muratori L. A. Op. cit. I, 17b. (3) Repetti E. Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana; III, 320. Anche in più altri luoghi esercitavano la propria giurisdizione, ma sempre nel fivizzanese. Bernardino filius Guidonis de Herberia, nell aprile del 1179, donò a Pietro, Vescovo di Luni, « castrum novum de Barco cum districtu et omnibus pertinentiis suis, quod est in loco dicto Collido », ossia Collecchia. Pietro ed Enrico tìgli del suddetto Bernardino, il 5 settembre del 1231, a nome proprio e de’ consorti, danno licenza e podestà a Venanzio Abate di S. Caprasio dell’Aulla « ut hedifìcet, infortiet, incastellet et muret locum de Ulmeta », la attuale Rometta ; poi, il 5 decembre del 12(38, regalano a Guglielmo, Vescovo di Luni, « partem sibi contingentem in Soliera, Monciculo et Cyserano ». Un solo de’ tanti documenti indica luoghi al di là del fivizzanese, il giuramento che presta, nel novembre del 1197» '1 g'à. ricordato Bernardino a Gualtieri, Vescovo di Luni, di non recargli molestia « quandoque predictus Episcopus, vel successores eius, voluerint hedificare castrum seu roccam a flumen Oseronis usque Canariam, a summitate montium •usque ad mare ». Sembra però che questo Bernardino fosse un ladro di strada. 350 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA e de’ diritti de’ Signori di Vezzano era ne’ dintorni del golfo della Spezia e. di là si estendevano lungo la Riviera. Ne’ documenti appariscono sempre due famiglie distinte, che niente ebbero di comune tra loro; e la comparsa de’ Signori di Vezzano in Lunigiana è poi anteriore a quella de’ Bianchi di Erberia. Infatti nell’agosto del 1054 Ingone del fu Cono (ossia Corrado) de castro Vezano insieme con Berizone e Corrado, suoi figliuoli, e Berizone e Adelasia, figliuoli del suddetto Berizone, e Adellia moglie del già ricordato Corrado, tutti viventi secondo la legge romana, in suffragio delle anime loro e di Cono e Ofiosa, moglie questa, l’altro padre d’Ingone, e delle anime di Cono giuniore e di Grimaldo, figliuoli d’Ingone, e di Cuniza(i) moglie di Berizone, offrirono alla chiesa di S. Venerio del Tiro maggiore le case e il manso che possedevano nel luogo ubi dicitur monte Pertuli, che Cono comprò dal Marchese Adalberto. Donaron pure a quella chiesa le case e terre e vigne che avevano infra plebe Lune loco ubi dicitur Fraulario (2). Berengario de Vezano è uno de’ testimoni all’ atto con il quale, nel marzo del 1059, il Marchese Adalberto (3) regalò varii suoi beni alla chiesa di S. Venerio (4). Il Marchese Alberto, detto Ruffo, nel donare al Vescovato di Luni la corte di Camisiano (5) con tutte le sue pertinenze, ec- Infatti in quello stesso documento promette al Vescovo « quod amplius de cetero toto tempore vite sue stratam non violabit, nec violari faciet summit-tentem personam, nec offendere aliquem clericum, vel monachum, vel conversum, neque peregrinum, neque mercatorem in avere vel in persona ». (1) Berizone forse riprese moglie e la sua seconda moglie è probabilmente quell Adelasia quondam Speciosi et relieta quondam Berizonis, che nel giugno del 1076 regalò al monastero di S. Venerio « medietas de casa et massari eia una, que est in loco qui dicitur Caseriana ubi dicitur Fontana, et terram Pannasi, que quondam recta fuit per Albertum presbiterum ». Cfr. il documento η. II. (2) Documento η. I. 13) Nel febbraio del 105 s Oberto Marchese figlio di Alberto ofiri alla chiesa di S. Maria e S. Venerio la sua porzione « del Tiro maiore et de Porto Veneri » ; il 30 marzo del 1056 il Marchese Guido figlio del Marchese Alberto donava al monastero stesso la sua porzione « de terris et rebus illis trium insularum in Porta Veneri cum omnibus pertinendis et piscacionibus ». Cfr. Muratori L. A. Antichità Estensi; I, 238 e 242. (4) Muratori, Antichità Estensi ; I, 240. 5 ) En* nel territorio di Lerici. Il 14 gennaio del 1534 Stefano Verina, GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 35 I cettua il manso de silva maiori, che dette a Gerardo da Vezzano. L’atto è del giugno del 1085 (1). I Nobili di Vezzano son pure ricordati in una carta del 2 novembre di quel medesimo anno, che era nel disperso Archivio di S. Maria delle Grazie, e fu messa alle stampe dal Lancel-lotti (2) e se ne valse il De’ Rossi per accrescere d’un nuovo Vescovo la serie di quelli di Luni. Mette conto studiarla. È di questo tenore: >J< In nomine Dei summi omniumque Sanctorum. Statuerunt Seniores Vizanienses, videlicet Einricus Anulfredus filij Bellegarij consentiente matre eorum domina Guaza et Gerardus cum fratribus suis, scilicet Opizio de Ar-detione cum reliquis parentibus et consiliarijs ut reaedificetur ecclesia S. Venerii Christi confessoris in loco qui vocitatur Antonia dudum mirifice posita, sed nequiter a quibusdam perversitatibus destructa ubi idem confessor priscis temporibus ut in eius admirabili vita legitur per manus Lucii Lunensis episcopi eidem in Tyro maiore Angelicis manibus humatum divinitus revelato delatus existit. Cuique idem antistes sicut modernus praesul Lazarus plurimarum terrarum dona concesserat. Tali videlicet ordine ut perpetualiter maneat, serviatur et teneatur ab abbatibus et monachis in Tyro fideliter degentibus et Deo sanctoque Venerio militantibus. Neque concedatur ut terra eiusdem basilicae a nobis in praesens vel in futurum data, aut suprascripto monasterio a fidelibus delegata ut venundetur aut traslatetur vel infeoggetur, sed in sumptum et usum fratrum semper servetur. Anno ab incarnatione Domini millesimo octogesimo quinto. Ind. 6. 4. Non. Nov. etc. Actum in Castro Vezzano feliciter. E uno di quegli strumenti così scioccamente finti, che anche i principianti nello studio dell’ erudizione ne possono scorgere l’impostura. Cancelliamo per sempre dalla serie de’ Vescovi di Luni l’immaginario Lazzaro, del quale il Codice Pelavicino « nè alcun documento possiede, nè alcuna memoria » (3) e che è soltanto ricordato in questa goffissima carta. Non ingombriamo l’àlbero genealogico de’ Signori di Vezzano con della gente che non è mai stata al mondo. Fermiamoci piuttosto su Cono da Vezzano, testimonio nel 1096 alla rinunzia che fanno al mona- Potestà di Lerici, dette in affitto uno iugero di terra aratoria posto « in machia Camixani », in quel tempo proprietà dell’ Offizio di S. Giorgio. (:) ÜGHELLI, Italia sacra; I, 840. (2) LanCELLOTTI D. Historiae Olivetanae libri duo, Venetiis, ex typo-graphia Gueriliana, 1623, p. 209. — Cfr. Gerini E. Codex documentorum illustrium ad historicam veritatem Lunexanae provinciae elaboratum ; ms. nella Biblioteca del R. Archivio di Stato in Firenze ; part. I, η. XIII. (3) Podestà L. / Vescovi di Luni dall’ anno 895 al iz8g ; p. 26. 352 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA stero di S. Colombano di Bobbio, Rubaldo, Pagano e Girardo di Lavagna di ogni loro ragione sulla chiesa di S. Eufemiano di Graveglia (i). Il Belgrano dà questo Cono come fratello di Grimaldo, il venditore a’ Genovesi del terreno a Portovenere, e come figlio di Berengario, il testimonio all’atto del 1059 (2); ma è una congettura sua. Che lasciò una quantità di figliuoli, lo provano numerosi documenti (3). Tra le femmine (4), fu Matilde (5), la ma- t i ) Historiae patriae monumenta edita iussu regis Caroli Alberti ; Chartarum I, 719. (2 ) Belgrano L. T. l'avole genealogiche a corredo della illustrazione del Registro arcivescovile di Genova; tav. XVIII. V3) Nel Registrimi Curiae archiepiscopalis Ianuae più volto son ricordati i irgli di Cono da Vezzano : fi Ii/. Cononis de Vezano. Avevano la meta « de tribus partibus » delle decime della pieve di Sestri ; insieme con i figli « Oglerii de Lagneto » e con gli uomini di Salino avevano la metà delle decime della pieve di S. Pietro di Vara ; « de rebus domini Archiepiscopi » tenevano « in Humedo. I. mansum; in Arcene. III. mansos; in Cembrano. III. mansos; in Cadranza. XII. mansos ; in Cofigno. I.; in Gomedo. I. mansum; in Castellione. III. mansos » ; avevano pure « in Costa de Rubeis libellariam sancti Syri » ; pagavano all’Arcivescovo « de monte sancti Ambrosii in uno anno. VII. libras et. VII. solidos ; in alio. VIIII. et. VII. solidos » ; cran pure tra’ condizionati dell’Arci vescovo nella curia di S. Michele di Lavagna e gli pagavano tre soldi 1’ anno. I Consoli di Genova, nel decembre del H51. aggiudicarono all’Arcivescovo le terre che i figli di Cono e altri tenevano in Mazasco e nella curia di S. Quirico, e così ebbe « fodera et pensiones et albergarias et collectam et dacitam et omnia que ipsi ex ea terra huc et usque habuerunt et soliti sunt habere ». L’ il luglio del 1153 dichiararono appartenere all’Arcivescovo tutte le decime che i figli di Cono nelle pievi di Sestri, di Castiglione, di Moneglia o di Vara. Cf. Registrum Curiae Archiepiscopalis Ianuae; in Atti della Società Ligure, vol. II, part. II, pp. 17, 18, 40, 55, 89 e 114. (4) Il Litta [Famiglia Malaspina; tav. I] dà come moglie di Obizzo di Alberto detto Malaspina « Alaria de’ Signori di Vezzano », e il Belgrano mette questa Maria tra le figlie di Cono. Nessun documento, almeno di quelli conosciuti fin qui, c’ indica chi avesse per padre. (5) Dal Registrum curiae archiepiscopalis [p. 22] risulta che « Matilda filia Cononis de Vezano » teneva per conto dell’ arcivescovato una parte delle decime della pieve di Castiglione. È quel borgo di Castiglione che Filippo Sauli, Vescovo di Brugnato, il 10 maggio del 1519 cedette a Gio. Maria Sforza, Arcivescovo di Genova, pigliando in cambio Sestri. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 353 dre d’Ugolino de Donna Matelda(\). De’ maschi, Cacciaguerra (2), Roberto, Lamberto (3) e Cafiero, per conto proprio e de' fratelli, « per nos et fratres nostros », nell’aprile del 1147 vendettero al Comune di Genova « totum quod Cona de Vezano habuit in insula Segestri » (4), salvo però la sesta porzione e cinque case (5). * * * Cacciaguerra insieme con gli altri consorti di Vezzano, nel 1154, venne preso sotto la sua protezione dall’imperatore Federico Barbarossa. « Nos » (dice il diploma, che è dato da Cremona) « dominos de Vezano Willelmum de Opizo et Caziawerram de Cone, et Bernigerium de Gremalch » [Grimaldo] « et Cur-radum de Malfrech » [Manfredo] « et Henricum de Villelmino et universos eorum consortes cum rebus universis et etiam possessionibus quascumque in presenti iuste habent vel in posterum habituri sunt sub nostra imperiali protectione ac defensione su- (1) Matilde non ebbe soltanto Ugolino, come vuole il Belgrano, ma anche Paganello. Del resto, 1’ albero suo de’ Signori di Vezzano è da rifarsi, col-1’aiuto de’ documenti lunigianesi ; de’ quali il Belgrano non ebbe notizia, non essendosi servito che de’ soli documenti genovesi, troppo scarsi al bisogno. (2) Cacciaguerra nel 1156 fu preso sotto la protezione del Comune di Genova, al quale giurò fedeltà ; 1’ anno appresso giurò la Compagna e il Consolato di Lavagna; nel 1166 i Consoli di Genova lo dichiararono decaduto da ogni diritto sugli uomini di Massasco. Cfr. Liber iurium ; I, 192 e 195; Registrimi curiae archiepiscopalis, p. 503. Il primo gennaio del 1 146 i Consoli di Genova aggiudicarono all’ arcivescovo Siro quello che Cacciaguerra « tenet in Benestai ex parte uxoris, que fuit nepta Guidonis de Monticello ». Cfr. Registrimi cit. p. 94. (3! Lamberto lasciò un figlio, per nome Coneta ; e lo zio Cacciaguerra nel 1160, incaricò Lamberto Usodimare e altri di amministrare il patrimonio dell’ orfano, durante la sua minorità. Cfr. Mommienta historiae patriae. Chartarum II, 688. (4) L’ Isola, o meglio penisola, di Sestri vien formata da un colle, circondato da rapidissime scogliere, che si spinge nel mare ed è congiunta al borgo col mezzo di una lingua di terra. I Consoli nel τ 145 dichiararono « quod Commune Janue deinceps a presenti die habeat et quiete possideat sine contradictione Bonevite abbatis sancti Fructuosi et eius successorum et monachorum eiusdem cenobii terram illam qua castrum insule Sigestri edificatimi est. » Cfr. Liber iurium ; I, 112. (5) Liber iurium; I, 129. Giorn, St. c I.flt. delta Liguria 354 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA scepimus, tam pro magnificis et preclaris eorum servitiis que nobis ad exaltationem imperii attentius impenderunt, tam pro fidelitate et constantia quam nobis nostrisque successoribus regibus et imperatoribus bona fide, sicut credimus, in futurum semper exhibere curabunt » (i). Tra’ consorti che furon compresi in questo privilegio, ma non ricordati per nome, uno è Guiscardo da Vezzano, che, nel giugno del nói, in forza d’un atto che venne rogato « in burgo Portus Veneris », vendè, per tre lire di denari lucchesi, ad Alberto, Abate di San Venerio del Tiro, la terza parte < quarteriide Albana », con patto che l’Abbazia pagasse in perpetuo a lui e a’ suoi successori « duos danarios mediolanenses veteres » ogni anno (2), Nell’ottobre, due altri de’ consorti di Vezzano, Enrico del fu Guglielmo e Alberto del fu Enrico, cedettero all’Abbazia quello che anch’essi possedevano in Albana; il primo per il prezzo di quattro lire e mezzo lucchesi, il secondo per trenta lire e cinque soldi della stessa moneta. E l’Abate si obbligò di pagare annualmente a Enrico e suoi eredi due denari lucchesi; uno e mezzo ad Alberto (3). Dieci anni dopo, nel giugno del 1171, anche Fidanza figlia del fu Enrico, per quaranta soldi di danari di Ge- (1) La trascrizione che ne fece il Bernucci ha questa postilla: « Privilegium Federici I Imperatoris Datum Cremonae, etc. come da copia esibita ed esistente nel Processo fatto in Genova nanti il Pretore della Rota Civile negli atti del notaro genovese Pier Maria Bacigalupo nell’ anno 1665 nella ricognizione e prove della discendenza de’ sigg. Nobili della Spezia ; da copia riportata dall’ istorico sig. Bonaventura Rossi nel fine della sua Collettanea ; e da copia già estratta dal preciso ed erudito antiquario ora fu sig. canonico Niccolò Maria Torriani da pergamene e scritture antiche de’ sigg. Nobili di Vezzano già esibite nella Curia Vescovile di Sarzana ». (2 ) Il Bernucci scrisse sulla copia: « Da pergamena esistente prima d’ora nell’Archivio de’ Padri Olivetani di S. Maria delle Grazie nel golfo della Spezia ed ora presso i sigg. Boccardi in Genova, i quali acquistarono dalla Nazione la tenuta di Albana vicina a Portovenere e che già apparteneva a’ suddetti Padri ; della qual pergamena mi fu comunicata la copia dal gentilissimo sig. dott. Antonio Bertoloni, che la estra se dal suddetto originale accordatogli dai sigg. Boccardi ». Questa pergamena è adesso posseduta dalla signora Ann aBoccardi della Spezia e la do copiata dal testo originale. Cfr. il documento η. III. (3) Documento η. IV e η. V. Quest’ ultimo documento è trascritto dal-1’ originale posseduto dalla signora Anna Boccardi. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 355 nova, cedeva al monastero di S. Venerio ciò che dal padre e dalla madre aveva ereditato in Albana (i). In ognuno di questi tre contratti (2) il prezzo fu al di sotto del vero, e in tutti venne dichiarato da’ venditori che il di più intendevano di offrirlo come dono. Nè si limitarono a largheggiare con la chiesa di S. Venerio; stesero amica e generosa la mano anche a quella del paese nativo. Sta a farne fede un atto del giugpo del 1163! ne' quale è detto « quod Segnores de Vezano et castelani comuniter » (cioè gli abitanti del castello) dettero in proprietà il bosco di Arola alla chiesa di S. Maria, con obbligo al parroco « in vigilila sancte Marie omni anno missas canere pro remedio suarum animarum » (3). Al Barbarossa era cara la famiglia de’ Signori di Vezzano. Il 21 agosto del 1175 « considerantes preclara et honesta ser-vicia », che, « tam constanter, quam frequenter, et non minus fideliter » gli aveva reso Guglielmo Bianco di Vezzano: Gui-glielmus Albus de Vezano, concedette in premio a lui e ai suoi eredi « duodecim denarios imperialium de souma et sex de fardello in burgo sancti Stephani, vel a loco ilio usque Sarzanum, ubi potius per stratam voluerint colligendos » ; privilegio che fu in ogni sua parte confermato da Federico II, nel settembre del 1238, a Rolando e a’ suoi nepoti Guido, Opizzone e Guglielmo (4). Questo Rolando nasceva da un altro Guglielmo, eh’ era figlio del Guglielmo tanto caro a Federico I; il qual Guglielmo seniore (chiamato Bianco per soprannome, non già perchè fosse della schiatta de’Bianchi d’Erberia) figura tra’ testimoni al diploma con cui il 5 marzo del 1185 il Barbarossa prese sotto la sua protezione i feudatari della Garfagnana e della Versilia e Truffa da (1) Documento n. VII. Anche questo documento è ora proprietà della signora Boccardi. (2) Anche di questi tre strumenti, che erano proprietà de’ Boccardi, il Bernucci ebbe la copia dal Bertoloni. (3) Documento η. VI. (4) SFORZA G. Il mercato e il pedaggio di Santo Stefano di Magra ; negli Atti e memorie delle RR. Deputazioni di storia patria per le Provincie Modenesi e Parmensi, serie III, tom. VI, part. II, pp. 443-444. L’originale del diploma di Federico II è posseduto dai marchesi De’ Nobili della Spezia, e il brano che riporto, e che offre varianti notevoli, è appunto collazionato su quello, 356 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Castello Aghinolfi (i) ; e nel maggio del 11S6 figura come paciere nelle discordie tra i Nobili di Fosdinovo e Pietro Vescovo di Luni (2). Guido de Donna de Vezano quondam Franciescini, che è da ritenersi fratello di Ugolino de Donna Matelda, già ricordato, insieme con Oglerio del fu Adalberto da Pontremoli, il 23 gennaio del 1197, fu scelto arbitro per comporre la lite tra Gualtieri Vescovo di Luni ed i Signori di Vezzano, rappresentati da Gri-maldo, « qui tunc erat Potestas Dominorum de Vezano » ; e rimase stabilito che i pastori, quando vengono dalla Garfagnana « in pascatico de Bolano pro dicto Lunensi Episcopo », se vorranno usare de’ pascoli de’ Signori di Vezzano nel distretto di Vezzano, di Follo, di Vallerano e di Ponzano, debbano pagare a que Signori un denaro imperiale per ogni bestia, eccettuati i capretti e gli agnelli, « sine contradictione domini Lunensis Episcopi » (3). Guglielmo giuniore : Gulielmus Blancus de Vezano filius quondam Gulielmi Bianchiil 30 maggio del 1202, vendette al Comune di Sarzana due de’ dodici denari imperiali che riscuoteva in Sarzana « pro qualibet soma mercatorum per stratam transeuntium cum somis et mercantiis ». Ebbe in pagamento sessanta lire di buoni imperiali; e promise il consenso della moglie Beatrice e de’ figli (4). Nell alleanza (concordia et societas) che Gualtieri, Vescovo di Luni, fece con Alberto, Guglielmo e Corrado Marchesi Malaspina, il 12 maggio 1202, il Vescovo promise « adiuvare et salvare predictos Marchiones in personis et rebus et eorum homines et res de eorum contra omnes homines excepto Domino Papa et Imperatore et sacramento quod fecit Pontremulensibus et Paganello de Porcaria, et Gullielmo Bianco, et Bernazoni, et Lamberto et Bosoni de societate quam cum eis fecerat in carta manu notarii facta inde continetur, et excepto sacramento quod tenetur Lucensibus idem Episcopus » (5). Quella carta disgra- (1) Garampi G. Illustrazione di un antico sigillo della Garfagnana, Roma, Pagliarini, 1759; pp. 56-58. (2) Documento η. VIII. — (3) Documento η. IX. (4) Sforza G. Op. cit., p. 444-446. (5) Sforza G. Memorie e documenti per servire alia storia di Pontrc-moh ; part. II, documento n. 18, pp. 276-282. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 357 ziatamente è andata dispersa. Di quanta luce sarebbe stata feconda per chiarire le relazioni del Vescovo co’ Signori di Vezzano ! Tra loro, il Vescovo e i Malaspina si accese una grave discordia per cag'one appunto de’ possessi « que fuerunt Marchio-num de Esti ». Vennero terminate con un lodo il 13 maggio del 1203 (1). Tra le altre cose v’è detto: « quod dicti Domini de Vezano faciant et facere debeant prescriptis domino Episcopo et Marchionibus de iamdictis possessionibus et podere contra omnes homines et personas fidelitatem, excepto quod si dicti dominus Episcopus et Marchiones voluerint offendere Portum Veneris, quod ipsi soli Domini de Vezano cum eorum propriis personis possint intrare 111 Portum Veneris ad deffendendum ». * * * Fin dal 1128 fu stabilito che i forestieri che andavano a Genova « prò mercato », se abitavano da S. Martino « in Framure usque ad Lunam », pagassero un danaro a testa; due, se abitavano « a Luna usque Romam » (2). Nel 1131 venne comandato che senza licenza del Comune di Genova, nessun abitante da Monaco a Portovenere portasse remi, aste, legnami da galere e armi in terra di Saraceni (3). Gli uomini di Portovenere, come del resto gli altri sudditi della riviera genovese (4), erano obbligati a pagare all’ arcivescovo di Genova la decima del mare, ma era una tassa che tolleravano di mala voglia e che dette occasione più d’una volta a litigi. L’ultimo di gennaio del 1177 restò deciso, col mezzo d’un lodo, che dovessero « de cetero tantum solvere prò decima maris de his que Januam detulerint et vendiderint quantum et proprii cives Janue omni contentione et contradicione de medio su- (1) Muratori, Antichità Estensi; I, 181. (2) Liber iurium; I, 32. — (3) Liber iurium; I, 158. (4) I Consoli di Genova nel gennaio del 1134 stabilirono « quod unumquodque lignum de hominibus nostri episcopatus qui iverit a Portu Pisano in sursum et a Monacho in insum quod venerit carricatum de maiore parte grani tribuat archyepiscopo per unumquemque hominem quartinum unum grani, exceptis duabus partibus per naucleriam et exceptis feriis de Frisulio et sancti Raphaelis de quibus tribuatur et sicum est salitus accipere ». Nel dicembre del 1 140 fu da’ Consoli rinnovata questa deliberazione. Cfr. Historiae patriae monumenta, Chartarum ; II, 220 e 237-238. 3SS giornale storico E LETTERARIO DELLA LIGURIA blata » (i). Il 16 novembre dell’anno dopo l’arcivescovo venne autorizzato a poter pigliare « ubicumque invenerit et voluerit de rebus Grimaldi Portus Veneris, Johannis Lombardi et Mer-cadanti et de rebus omnium illorum qui in ligno, de quo naculerii erant, nuper de Corsica veniente, venerunt minam unam grani, aut valens pro unoquoque homine ». Gli abitanti di Portovenere si sforzarono di provare che non erano tenuti a pagarla « quia nemo Portus Veneris de Corsica veniens erat solitus dare decimam »; la causa fu agitata dinanzi a’ Consoli, e l’ebbe vinta 1 Arcivescovo (2). Il quale poi il 14 marzo del 1188 concedette per quindici anni a Rolando Castagna l’esazione delle decime dovute « de omnibus lignis que venient per mare a Rapallo, excludendo Rapallum, usque ad Portum Venerem » (3). Se, peraltro, l’Arcivescovo era tenace nel voler riscuotere le decime che gli appartenevano e nel riscuoterle metteva tutto lo zelo, la podestà civile invece trattava gli abitanti di Portovenere con la maggiore amorevolezza. Di questo parecchi fatti ne rendono testimonianza. I Consoli, nel novembre del 1141, allogarono ad alcuni di que’ borghesi una terra che era di proprietà del Comune di Genova, situata nel luogo detto in Capellina, che resta nelle vicinanze di Portovenere ; e gliela dettero « ad laborandum et pastinandum de vineis, ficis, olivis, castaneis sive de aliis arboribus fructiferis quales ipsa terra portaverit » ; con patto che per dodici anni la sfruttassero a proprio vantaggio, e trascorsi i dodici anni, consegnassero annualmente al castellano di Portovenere la terza parte « de vino, de oleo, de ficis, de castaneis, de frumento, de ordeo, de pa-nigo » e di ogni altra biada, più due capponi (4). Decretarono, nel maggio del 1152, che gli abitanti del borgo e del castello di Portovenere dessero soltanto il quarto delle biade e de’ frutti del terreno situato al di là della chiesa, del quale il Comune di Genova era il proprietario (5). Il Popolo genovese non contento di avere Portovenere al suo comando agognava di stendere la propria giurisdizione (1) Registrnm Luriae Archiepiscopalis Januae ; pp. 269-270. (2) Historiae patriae monumenta, Chartarum II, 1067. (3) Atti della Società Ligure di storia patria; XVIII, 135. (4) Liber luriurn; I, 76. — (5J Liber iurium ; I, /64. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 359 anche sul vicino Lerici e così padroneggiare tutta quanta l’imboccatura del golfo della Spezia. A questo effetto, nell’ aprile del lì52, con una compra mascherata, acquistarono tutto quello che gli uomini di Vezzano, « videlicet seniores », possedevano sul monte di Lerici. Alla vendita, tranne Guiscardo, pigliarono parte Guido Lombardo col fratello e i nepoti, Belengerio, Alberto e Guirardo per loro e per i nepoti, ch’eran figli di Enrico, Enrico del fu Guglielmo e Alberto Rufo germani « per se unusquisque et omnes alios qui partem tenent in monte Ylicis ». Si trattava della quarta parte di quel monte, e la infeudarono a Ido da Carmandino con patto che, se i Genovesi « ibi castrum edificaverunt, predicti seniores de Vezano debent habere medietatem de illorum parte, preter de turre et domiglone » (1); e siano tenuti a difendere i Genovesi « ab omni homine » , nè Ido abbia obbligo di fare ad essi « seniores aliquod servicium, nisi in Januam venerint, et ipsi ei mandaverint ibit cum eis apud Sanctum Laurentium ». L’atto venne rogato in Portovenere; e il prezzo della vendita fu di lire dieci lucchesi, che sborsò il Comune di Genova; il vero compratore (2). In quel medesimo giorno, con gli stessi patti e con le medesime condizioni (3), ma per il prezzo di ventotto lire lucchesi, sborsate al solito dal Comune di Genova, gli uomini di Arcola infeudarono a Guglielmo Garrio e a Giordano Buca le cinque parti del monte medesimo da loro possedute. Giovanni Sforza DOCUMENTI INEDITI. I. In nomine Domini Dei et Salvatoris nostri Jhesu Xpi. Hemricus secundo gratia Dei imperator augustus anno imperii eius Deo propitio nono, mense agusto, indicione hoctava, ecclesie sancti Venerii, que est cunstiucta et edificata in loco mare ubi dicitur Tiro maiore, nos quidem in Dei nomine Ingo (1) Nella vendita che fecero gli uomini di Arcola di quello che possedevano sul monte di Lerici è chiamato invece domìgnone. (2) Liber iurium ; I, 163-164. (3) Liber iurium; I, 161. 360 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA lihus quondam Coni de castro Vezano et Berizo et Cunradi germanis liliis ipsius Ingoili, et miclii qui supra Ingo ad suprascriptis filiis suis consenciente, et enzo et Adelasia lìlio et fìlia suprascripti Berizoni et ipse Berizo con- ----------‘“ii supiascripti uenzom et ipse uerizo consenciente suprascripto (ìlio et filia sua, et Adellia conius suprascripti Cunradi et ipse jUnrac us ei consenciente, qui professi sumus ex nacione nostra lege \ n ei e romana, offertor et ofFertrice, donator et donatrice____ presens diesi quisquis m sanctis et venerabilibus locis et suis aliquid contullerit rebus ìusta auctoris \ocem in oc seculo centuplum accipiat et insuper quod melius est vitam possidebit eternarci, ideoque nos qui supra offertor et offertrice donamus et offerimus in eadem ecclesia beati sancti Venerii.... presenti die prò animas nostras et pro anima quondam Coni genitor suprascripti Ingoili et Tose, que uit conius suprascripti Ingoili, seu et prò anima quondam Coni et rinma c 1 germanis liliis suprascripti Ingoili, atque prò anima quondam unize, que uit conius suprascripti Berizoni, et seu istorum omnibus qui supra leguntur mercedem idsunt casis et rebus manso illis iuris nostris quibus esse \i entur in loco ubi dicitur murate Pertuli et alias locas vel____ubicumque casis et omnibus rebus.... que ad ipsis suprascriptis.... sunt pertinentibus omnia et ex omnibus quantum obvenit per cartam Coni genitor isti Ingoili te quon ara Adalbertus marchio in isto loco 111 murate Pertuli, vel in eius erritono, sirai itei per anc cartam offersionis donamus et offerimus nos qui supra offertorum et offertrice in eadem ecclesia sancti Venerii pro animas no-stias seu prò suprascriptorum omnibus qui supra leguntur mercede idsunt casi, et terris et rebus seu vineis iuris nostris quibus esse videntur infra plebe Lunes oco u i c icitur Fraulario, omnia et ex omnibus quantum nobis obvenit per cai ani e T inaie o de isto loco Praulario vel de suis germanis omnia et ex omnibus.... istis casis et rebus in isto loco murate Pertuli et in Fraulario cum casis sediminibus seu vineis cum ortis suarum terris arabilis, silvis et pascuis diversisque terretoriis cultum et.... plenum et vacuum et com omnibus supei a entibus que ad istis casis et omnibus rebus sumt pertinentibus.... istis casis et oram us lebus tenetoriis illis iaris nostris sicut supra legitur supra-ictis una cum accessionibus et ingressoras earum, seu com superioribus et enori us eaium rerum quantum supra legitur... ab ac die in eadem ecclesia sancti Veneri, donamus, cedimus, offerimus et per presente cartam offersionis... ■i en um confirmamus faciemdum exinde a presenti die pars ipsius ecclesie iure piopnetaiio nomine quidquid volueritis sine omni nostra et heredum nostrorum vel cuius.... contradicione quidem expomdimus atque promictimus nos offer-oiiun et o ertrice una cum nostris heredibus a pars suprascripte ecclesie aut cui ipsis dederint vel abere.... verit suprascriptis casis et omnibus rebus qualiter supra legitur.... ab.... defensare quod si defendere non potuerimus aut si a parte prediete ecclesie subtrahere quesierimus tunc in duplum offersio ut' supra legitur parte suprascripte ecclesie restituamus sicut.... in comsimiles locum sub estimacione de quod agitur et.... penam argentum libras sexaginta et insuper qui anc cartam ofersionis inrumpere tentaverit abead malediccione Dei omnipotentis patris et filii et Spiritus Sancti et sancte Marie aintorium caread et cuius filios scandalizare et ira.... sancti Michaelli et omnes sanctos angelos archangelos perfectos apostolos martires et confessores adque virgenes et omnes sanctis Dei abead cumtrarios et deputa.... anathemathe una cum Anania I ni1? p,erpetua™ danacionis.... et simul una cum Deum profanatores dia-lolos set ab angelos pestiferos dimergatur inferno pefiitus.... andi et ipse consfeu°2onrSh °S laCta °mnique te,,P°re in sua Permaneat firmitatem constipulacione submexa. Actum castro.... Φ Signum manibus Ingo et Berizo et Cunrado pater et filiis qui anc sensTt1 ut supra!'S 1 r°gaVerunt et ^ In8° ad suprascriptis filiis suis con- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 361 >J< φ Signum manibus Berizo et Aadalasia germanis qui anc cartam of-fersionis fieri rogaverunt et ipse Berizo ad suprascriptis filio et filia sua consensit ut supra. ....Adellia qui anc cartam ofiersionis fieri rogavi et ipse Cunradus ad pre-dicta conius sua consensit ut supra. —idoni et Bertoni et Pipini adque Rainerj et Sabioni rogatis testibus. Ego.... scriptor uius cartam ofiersionis post traditam complevit et dedit (I). II. Anno ab incarnatione Domini nostri Jbesu Christi millesimo septuagesimo sexto..., iunii, indictione terciadecima, monesterio Sancti Veneri sito in loco Tiri maioris ego Adelasia filia quondam Speciosi et relicta quondam Berizonis, que ex lege viri mei lege videor vivere romana, offert ri x et donatrix ipsius monesterii p.... dixi quisquis in sanctis et venerabilibus locis et suis aliquid contullerit rebus insta auctoris vocem in hoc seculo centuplum accipiet insuper et quod melius est vitam possidebit eternam. Ideoque ego que supra Adalasia dono offero a presenti 'die in eodem monesterio pro anime mee et viri mercede idest mea porcio que est medietas de casa et maseo una iuris mei que est posita in loco qui dicitur Casertana ubi dicitur Fontana et terram Pannasi que quondam recta fuit per Albertum presbiterum et est ipsa mea porcio per mensuram iustam iugera duo et si amplius de meis iuris rebus in eisdem locis et fundis casarinis inventum fuerit qua.... per hanc cartam ofiersionis in supra-scripto monesterii persistat potestatem proprietario iure quas autem suprascri-ptas casas et res omnes iuris mei supra datas una cum accessionibus et ingressibus seu cum super habentibus et inferioribus suis qualiter supra legitur in integrum ab hac die in eodem monesterio dono et offero et per presentem cartam offersionis ibidem habendum confirmo faciendum eiinde pars ipsius monesterii, aut cui (1) Per fissare con sicurezza 1’anno preciso della data del documento in questione etili è necessario di osservare le note cronologiche apposte neilo stesso e quindi mi sembra cosa facilissima il venire alla suddetta fissazione II documento principia in questa maniera : In nomine.... Hemricus scemalo gratia Dei imperator augustus, anno imperii rius Den propitio nono, mense ogusto, indicione hoctava. Dalle riportate note si rileva che Bonaventura Rossi nella formazione del noto Indice del!'Ar chivio del Monastero licite Grazie prese un non lieve sbaglio leggendo e notando Γ anno dècimonono invece del nono, eppure nessuno degli Arrighi che furono imperatori nel secolo undecimo tennero I’ impero diecinove anni, fuorché Arrigo IV fra i Re di Germania e III fra gl’ Imperatori, che cessò di regnare nel principio del secolo XII, cioè nel 1105, vigesimo secondo del suo impero. Ma veniamo al nostro proposito. Le note clic abbiamo osservate cMstruisrone-ebeliLsuildetto documento fu stipulato nell’anno 110110 dell’impero dell’ august-p presbiteri cum suis fratribus, Dominorum atque castelanorum hoc scriptum rogaverunt fieri. Signa Melici de Signaco, Girardeti de Madrognano, Belmascli Scurtati, Framondini filii quondam Bnchaci Gallici, Alberti filii Belmascli, Guilielmi nepotis Segnorini rogatorum testium. (L. S.) Ego Guillielmus sacri palacii notarius hanc cartam complevi et dedi (1). VII. Cartulam vendicionis, sub dupli defensione, quam facio Ego Fidanza fil. quondam Enrici de Vezano. Vobis domno presbitero Lanberto abati monasterii sancti Venerii, qui cartulam istam recipitis nomine vestri monasterii. De tota terra illa aratoria quam mihi pervenit ex parte patris et matris mee. in Albana et dominium et posessionem tibi trado, vendo pro pretio solidorum quadraginta denariorum Janue finito precio. Et si amplius valet per animam meam eidem monasterio dono, desubtus litus maris, desuper via. a latere portus Veneris, ab alio latere costa de Persico. Ut exinde vos et omnes vestri successores illam terram ad proprium habeatis, et ab omni homine defensare sub pena dupli sicut pro tempore fuerit meliorata. Testes presbiter Obertus Sancti Michaelis. Dominicus eius subdiaconus. Picenobonus Vasallus. Bolzanus. Tignosus. Actum in domo Otonisboni M.clxxi. mense Junii indictione iii. Ego Otto notarius Rogatus scripsi. VIII. Cum lis et controversia verteretur inter dominum Petrum Dei gratia venerabilem Lunensem episcopum, ab una parte, et Gerardum, Attonem, Mon-taninum et Gaforium Dominos de Faucenova, ab alia parte, super hominibus de Puleca requirentes super eisdem hominibus quod ipsi deberent facere ser-vicia ad oper m castri de Faucenova, que se facturos modis omnibus illi de Puleca negabant, et dum in hunc modum res agitaretur predicti Domini de Faucenova et dictus dominus episcopus stantes parati ad causam cognoscendam et electis duobus fidelibus curie, Catio videlicet de Sarzana et Pirasica, sub (D In margine alia copia si legge: « ex pergamena existente penes me D. M. B.ci ». GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 3^5 cuius cognitione stare debebant, habito consilio predicti Domini de Faucenova distincte et omnino et sine omni tenore se submiserunt in eundem dominum Petrum episcopum, addito nobili viro G. Bianco de Vezano, stare et obedirc et observaturos quicquid ipsi super hec dixerint. Prefatus vero episcopus una cum dicto Guilielmo eorumdem reverenciam diligenter intuentes, quamvis forte que requirebantur fieri non deberent honorem fidelium augere potius quam minuere et eorum amorem benigno favore retinere volentes diligenti intuitu tale statutum ediderunt ut deinceps videlicet quando fuerit laborerium ad castrum de Faucenova per Comune terre homines de Puleca adiuvent facere et trahere palos, vimenas, sepes, boccos, palancam, scelonos, et lignamina ad bertescani et betefredum tantum, et nihil aliud et in hoc predicti Domini de Faucenova per se suosque heredes in perpetuum esse observandum promiserunt sub stipulatione subnixa. Acta hec sunt anno M.° C octuagesimo sexto, indictione IV, apud Acilianum, die veneris, que fuit XVJ filtrante mense madio feliciter. Φ *·Ρ Signa manuum predicti domini Episcopi et predicti Guilielmi et pre-dictorum Dominorum de Faucenova, qui hanc cartulam fieri rogaverunt. Φ hB Signa manuum Henrici vicedomini, Guilielmi de Viano, Cacii et Pirasice de Sarzana, Guilielmoti de Pilo, Gibertini periti, Ugolini de Fossato, Ubertini de la Porta, Tcudiski de Faucenova rogatorum testium (i). IX. In Christi nomine, amen. Anno a nativitate eius MCLXXXXVII, indictione XV, die iovis decimo kalendas februarii. Nos duo qui sumus electi ab utraque parte, scilicet Guido de Donna de Vezano quondam Franciescini et Oglerius de Pontremulo quondam Aldeberti de lite et controversia que vertebatur inter dominum Gualterium Dei gratia Lunensem episcopum, ex una parte, et domini de Vezano, ex alia, de pascatico ipsius domini Episcopi de Bolano, voluntate utriusque partis, scilicet domini Episcopi et Grimaldi de Vizano, qui tunc erat Potestas Dominorum de Vezano, per se et per alios Dominos de Vezano facientis damus el reddimus tale laudamentum quod Domini de Vezano conveniant deinceps imperpetuum de bestiis que veniunt de Garfagnana in pascatico de Bolano pro dicto Lunensi Episcopo si quando pastoris voluerint uti pascatico illorum Dominorum de Vezano in districtu Ve-zani, Folli, Valerani seu Ponzani I. den. imp. de omni bestia sine contradictione domini Lunensis Episcopi excepto de capretis et de agnellis----pascant libere in districtu Vezani, Foli, Vallerani et Ponzani, et homines de Vezano teneantur defendere et defendant illas bestias omnes cum tota eorum fortia per se et per suos homines ad eorum posse et pastores bestiarum cum omnibus rebus eorum in omnibus locis ubicumque poterint. De illis vero bestiis que in predictis districtibus 11011 pascebunt nihil debeant habere illi Domini de Vezano, sed de illis que ibi pascebunt debeant habere. I. imperiai, de quolibet, sicut dictum est, nemine contradicente, excepto de capretis et de agnellis, ut supra legitur. Quccumque vero partium contra hoc venerit ullo tempore tunc persolvat. M. solidos imperiales nomine pene, medietas sit domini Imperatoris et alia medietas sit partis fidem servantis contra soluta nihilominus que scripta sunt in hac carta firmiter attendantur et observentur. Actum est hoc in ecclesia de Sancto Stephano feliciter. Ibi fuerunt rogati testes Rodulphus Lunensis archidiaconus, Rollandus abbas de Ceparana, Guido (1) Archivio Capitolare di Sarzana. Codice Pelavicino, instrumento 11. 499. c. 360. 366 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA archipresbiter de .Sancto Stephano, Ugo archi presbiter de Colognola, Bullionus de Sarzana, Ugolinus Vicarius de Vezano, Morandus de Arcula et quidam alii. (L. S.) Ego Confo] tus sacri palalii et Lunensis curie notarius hiis interfui (l). X. In nomine Domini Dei eterni et Salvatoris nostri lesu Christi, amen. Anno a nativitale ejus MCCIIJ. indictione VI, die iovis, IX kalendas angusti. In preselitia testium, quorum nomina leguntur inferius, nos Domini de Vezano, videlicet Guido de la Donna, Baldoinus, Bosus, Lambertus, Vivaldus lìlius eiusdem Lamberti, Ugolinus de Donna Matélda, Paganellus frater ipsius Ugolini, Comes quondam Ardicionis, et ego dictus Guido tutorio nomine prò Guìliehnino lìlio quondam Grimaldi, cuius lutor sum, donamus, cedimus et offerimus pro animarum nostrarum nostrorumque parentum remedio inrevo-cabili ter vobis domino Walterio, Dei gratia, Lunensi episcopo, Episcopatus vestri nomine recipienti, totum id quod habemus in castro Vezani et in eius districtu in integrum, tam in hominibus, quam in rebus, agris et cultis, plenis et vacuis, divisis et indivisis, silvis, nemoribus, campis, aquis, piscationibus, venationibus, pascuis, pratis, cum placitu et districtu, et cum omni honore, et cum omni iure et actione, dominio, proprietate et usu, et cum omnibus pertinenciis nobis in ipso castro et districtu eius pertinentibus ; et damus vobis licentiam intrandi in integra vestra auctoritate in corporalem possessionem. Verumptamen de hac donatione et offersione excipimus ecclesiam Sancte Marie de Vezano. Pro merito uius donationis et offertionis confitemur recepisse a vobis pro liedificiis faciendis imperiales tot quot nobis contingunt pro rata de libris. CL. imperialium, que deberent inde solvi omnibus Dominis de Vezano communiter, excepto Guilielmino Bianco, et renunciamus exceptioni numerate pecunie, et omni iuris et consuetudinis adiutorio, quo possemus aliquando contra donationem vel offersionem istam venire. Quam donationem et oficr-sionem vobis facimus tali pacto, quod vos vel vestri successores non debeant hoc quod vobis donamus et offerrimus aliquo modo dare, vel adcumunare alicui sine voluntate omnium nostrorum, qui hanc donationem et offersionem facimus, et nostrorum heredum. Ad hec promittimus vobis si aliqua persona, que non sit de Vezano offenderet vos vel successores vestros, aut vestram terram, vel homines de Vezano, vel in Vezano, seu de eius, vel in eius districtu, quod adiuvabimus inde nos et nostri heredes vos et vestros successores contra omnes homines ibi,' et dabimus vobis omnes fortias et hedificia, quas et que ibi habemus, vel pro tempore haberemus, ad vestram voluntatem ; sed facta pace, illas fortias et hedificia nobis semper cum eisdem pactis reddere teneamini. Si vero aliquis de Vezano vel de consortibus Vezani malefaceret, vel offenderet vos vel vestros successores, aut terras vestras, vel homines, et non emendaret infra XV dies postquam foret inde per vos, vel per vestrum nuncium requisitus, debeamus nos alii omnes et nostri heredes esse inde ad vestram et vestrorum successorum voluntatem, et hoc vobis promittimus per nos et nostros heredes, et sicut hec vobis promittimus ita teneantur vobis, et successoribus vestris promittere, et etiam iurare super sanctis evangeliis omnes heredes nostri, quos habemus, vel in antea habuerimus quandocumque fuerint in etate iurandi, et illi nostri filii, qui sunt modo in etate iurandi debeant vobis statini promittere et iurare, et omnes heredes nostrorum heredum similiter teneantur promittere et iurare. Nos Walterius Dei gratia Lunensis Ecclesie humilis Episcopus damus, et (i) Archivio Capitolare di Sarzana. Codice Pelavicino, instrumento u. 410, c. 321. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 367 cum investitura concedimus, nomine recti et honorifici feudi vobis scriptis Dominis de Vezano omnibus, qui prefatam donationem et offersionem nobis, ut supra legitur, fecistis, recipientibus pro vobis, et vestris heredibus universis totum id quod nobis donastis, et obstulistis in integrum, ut superius dicitur, et quod usque modo habuistis et tenuistis 111 Vezano, et in districtu, et pertinendis eius in integrum tam hominibus quam in rebus, agris, et cultis, plenis et vacuis, divisis et indivisis, silvis, nemoribus, campis, aquis, piscationibus, venacionibus, pascuis, pratis, cum placitu et districtu, et cum omni holiore, et cum omni usu, et utilitate, et pertinentiis prenominati castri, eiusque districtus, ut vos et vestri heredes habeatis, teneatis et fruamini hoc lotum quod superius dictum est, nomine recti et honorifici feudi de cetero imperpetuum, et remittimus vobis fidelitatem ob hoc specialiter faciendum, sed vestii heredes, qui sunt, vel erunt de cetero debeant nobis et successoribus nostris fidelitatem specialiter facere pro Vezano contro omnes homines in Vezano, et in eius distructu, et si aliqua persona malefaceret, vel offenderet vobis propter hod factum, quod nobiscum facitis aliquo tempore debeamus, et promittimus vos adiuvare per nos et per omnes homines terre nostre, et Vicedomini nostri, et Consules burgi et Castri Sarzane, et Bolani et Sancti Stefani teneantur iurare adiuvare vos inde in tota terra vestra contra omnes homines preter contra Dominos suos, et vos et vestri heredes teneantur similiter omnes homines terre nostre adiuvare contra omnes homines, preter contra Dominos vestros, et omnes Episcopi nostri successores teneantur iurare ad adiuvare vos, et vestros heredes sicuti nos promittimus ab omni persona, que vobis malefaceret et offenderet propter hoc quod nobiscum facitis, et hoc debeant iurare priusquam regressi fuerint a sacrando infra XXX. dies postquam inde fuerint per aliquem vestrum, vel vestrorum heredes requisiti, que requisitio solemniter fiat in presentia Vicedominorum, et Consulum burg et Castri Sarzane; sed si quis de successoribus nostris nollet hoc sacrameli tum facere ita requisitus vos vel vestri heredes in nullo teneamini postea ei vel successoribus eius de istis pactis, et omnes Consules burgi et Castri Sarzane, Bolani et Sancti Stefani debeant iurare semper quando intrant Consulatum, quod facient sequentes Consules, quos elegerint, vel qui post eos fuerint similiter iurare antequam exeant de illo Consulatu, et omnes Consules dictarum terrarum, ex quo fecerint sacramentum Consulatus teneantur precipere omnibus juratis suis, ut ita vos, et heredes vestros teneantur adiuvare sicut et ipsi Consules tenebantur. Et hoc debeant eis precipere sub debito sacramenti Consulatus quo eis teneantur, videlicet in tota terra vestra contra omnes homines vos teneantur adiuvare preter contra Dominos suos si ob hoc facto quod nobiscum facitis malefaceret, vel offenderet vobis aliquis. Hec omnia fecit dominus Episcopus, salva fidelitate Domini Pape et Imperii, et excepto Gui-lielmino Bianco, si observaverit pacta, que cum eo fecit. Et dominus Episcopus possit hoc idem pactum facere cum omnibus Dominis de Vezano, qui voluerint illud secum facere, et teneatur eis, qui hoc facerent communiter ipse et sui successores sicut et istis, qui presentialiter cum eo hoc faciunt. Istam donationem et offersionem, et omnia que in hac carta leguntur promiserunt per se et suos heredes, et iuraverunt ad Sancta Dei Evangelia omnes isti Domini de Vezano rata habere et attendere et observare isto Domino Episcopo et successoribus eius, et in nullo contravenire. Alioquin cadant omnes, vel quicumque 11011 attenderet aut contraveniret a iure huius feudi, et totius alius fetidi quod habent ubicumque ab Episcopatu Lunensi, et alii omnes teneantur inde adiuvare dominum Episcopum et suos successores ad suam voluntatem, si aliquis contraveniret, sed sciendum quod in omnibus suprascriptis excipiuntur omnes prefati Domini de Vezano, personam Domini Imepratoris si vellet Vezanum ad suum opus, sed non ad dandum illud alicui persone. 368 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Guido de Donna promisit quod faciet Guiliclminum quondam Grimaldi, cuius tutor erat, promittere et iurare et facere hec omnia de sua et prò sua parte Vezani quaridocunque fecerit in etate faciendi. Acta sunt hec in canonica plebis Sancti Stephani solenni cum stipulatione. Ibi fuerunt rogati testes Atto de Fosdenovo, Guido de Vallecla, Aldepran-dus et Gerardus Vicedomini, Nicholaus Advocatus Domini Episcopi, Bullionus de Sarzana, Gerardus de Iusfredo, Rollandus de Clerico, Rogerinus, Bulgarinus, Ugolinus de Rainaldino, Alamanus de Vezano et multi alii. Ibi ratificaverunt predictum sacramentum Aldeprandus prò Vicedominatu, et pro Consulatu eodem, quia tunc erat Consul de Sarzana, et Gerardus de Iusfredo pro consulatu eodem, quia tunc erat similiter Consul, et Gerardus et Aldeprandus pro Vicedominatu. Eodem anno, die veneris kalendas augusti in claustro monasterii dc Ce-perana, in presentia Guidonis de la Donna, Baldoini de Vezano, Bcrnazonis, Balzani de Carpena, Ugolini de Donna Matelda, Paganelli fratris eius, Bozonis de Vezano et aliorum plurium rogatorum testium, Talliaferrus et Soere fratres lilii quondam Monegelli et Rarmccius nepos dicti Baldoini donaverunt, ces-serunt et obtulerunt pro animarum suarum, suorumque parentum remedio in-revocabiliter suprascripto domino Episcopo recipienti nomine Episcopii sui totam suam partem in integrum de Vezano, et de districtu eius, confitentes et renunciantes, et promittentes, et iurantes ei, et paciscentes cum eo per omnia, et in omnibus sicut suprascripti alii domini et Vezano fecerunt, ut dictum est, et is dominus Episcopus dedit et cum investitura concessit eis totum illud, quod sibi donaverant, et obtulerant in integram nomine recti et honorifici feudi, et promisit eis et pactus est cum eis per omnia et in omnibus veluti cum dictis suprascriptis Dominis de Vezano. Eodem anno, die veneris XVIII kalendas septembris Sarzane in camera Opizzonis de Burzione Lunensis canonici in presentia Gerardi de Jusfredo, Rollandi de Clerico, Alamani de Vezano et aliorum plurium rogatorum testium, Atto quondam iusta montis de Trebiano, et Rollandinus frater eius pro Vicedominatu juraveram t hod sacramentum, et Bonencontrus de Sarzana iuravit illud idem pro Consulatu. Eodem anno, die dominico Χλ^Ι kalendas septembris in castro Vezani in presentia Veltri de Corvaria, Hubaldi quondam Parentis, Aldeprandi Vicedomini, Bullionis de Sarzana,- Bulgarini, Bonefidei, Nicolai advocati domini Episcopi, Alberti de Guilielmo, Borognosi de Biliolo et aliorum multorum rogatorum testium. Omnes suprascripti Domini de Vezano, qui suprascriptam donationem fecerunt, ut dictum est, domino Episcopo sepedicto preter Tal-liaferum et Ranuccinum nepotem domini Aldoini, qui aberant, dederunt et tradiderunt pro se, et pro predictis, qui aberant, eidem domino Episcopo recipienti nomine sui Episcopii corporalem tenutam de castro et districtu Vezani, mittendo in manus eius portas domorum et angulos turrium et do-morum pro toto hoc unde fecerant ei dationem. Et ad confirmationem tenute miserunt, seu fecerunt mitti vexillum Episeopatus in turri Lamberti ; et Guido de Donna specialiter, et Ugolinus de Rainaldino tutores filiorum quondam Grimaldi, ut dicebant, tutorio nomine pro eis dederunt domino Episcopo tenutam de domo illorum, pro toto alio, quod habent in Vezano, et in districtu eius, et dominus Episcopus sua auctoritate, et ex dato omnium predictorum apprehendit dictam possessionem nomine Episcopii sui. (L. S.) Ego Confortus sacri palatii et Lunensis curie notarius hiis omnibus interfui et hec omnia vidi et scripsi in duabus cartis uno tenore factis (r). (i) Archivio Capitolare di Sarzana. Codice Pelavicino, instrumento n. 438, c. 333. GIORNALE STORICO li LETTERARIO DELLA LIGURIA 369 VA RI E TÀ LA' PRIGIONIA DI FRANCESCO I RE DI FRANCIA A GENOVA, A PORTOFINO E ALLA BADIA DELLA CERVARA. L’astro di Francesco l stava per tramontare. Carlo di Lanoy, il sagace vicerèdi Napoli, scrivendo il 5 dicembre 1524 a Carlo V, prediceva di già che gli affari del re di Francia avrebbero mal fine (1). L'astuto consigliere non si era ingannato, e la rotta di Pavia, seguita il 24 febbraio 1525, ove in men d’un’ora e mezza ben 8000 francesi perirono tra uccisi ed annegati, pose il suggello di verità al fatidico asserto. Il re ferito nel volto e nella mano cadde a terra e in quell’istante il viceré Lanoy con molta riverenza lo ricevette prigione in nome dell’imperatore. Fu l’i— stesso dì che egli dal campo imperiale scrisse a Luisa di Savoia, sua madre, la lettera resa celebre dalla tradizione, che le diede questa forma nel suo laconismo sublime : tutto è perduto fuorché l’onore, però disabbellita dal verace suo testo, in cui si legge soggiunto e la vita che è salva (2). Altro particolare degno di nota; la sera o l’indomani della sconfitta il re « arracha de son doigt une bague, seule chose qui lui restat, et la donnant secre-tement à un gentilhome qu 'on lui permit d’envoyer à sa mère, il lui dit: Porte ceci au Sultan » (3). Il 27 febbraio le pesanti saracinesche del" castello di Pizzi-ghetone in riva all’Adda si abbassavano per accogliere il figlio di Carlo d’Orleans, e vi stette sino al 18 maggio, guardato a vista è vero, ma libero, giocando anche alla balletta con la corda, non senza aver espresso il desiderio di una festa de donne (4). Sin dal 12 maggio correa voce che Francesco I sarebbe condotto a Napoli per mare, imbarcandolo a Genova (5), cosa che forse non piaceva alla Serenissima di Genova, giacché non se ne rallegrò punto il doge Antoniotto Adorno, quando lo stesso giorno consegnò un memoriale all’ ambasciatore, che doveva recarsi al cospetto di Carlo V per ottenere il permesso di caricare grano in Spagna, facoltà già concessa ai Genovesi, e poi fatta sospendere dal Segretario Covos (6). (1) Documenti di Storia Italiana dal 1522 al 1530 in Arch. Stor. /t., Appendice, Ann. 1845, Toni. II, p. 137. (2) ChàMPOLLION, Captivité du Roi François I, p. 129. (3) Mic.helet, François Ier et Charles- Quin t ; Paris, sixième édition. (4) I Diarii di Marin Sanuto, Tom. XXXVIII. Venezia, 1893, pagine 52-117. (5) I Diarii, 1. c., p. 293. (6) Materie Politiche, Mazzo XV, Arch. di Stato in Genova. Giorn. Si. c Lett. della Liguria 24 370 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA La voce dell’imbarco in Genova prese piena consistenza, quando da Crema si scriveva alla veneta Signoria colla data del ib maggio « come in quella mattina il Viceré era levato da Pizigaton con il Cristianissimo re accompagnato da la soa guardia deputata et va verso Zenoa.... va. prima ad alozar a San Zane, poi a Vogera.... » (i). Francesco I si rallegrò internamente della sua partenza per Genova, poiché, come ben osserva il Mignet, Ί avait cru pouvoir recouvrer sa liberté.... L’armée navale de la France était plus forte que celle de l’Espagne. Les navires réunis d Andrée Doria, du baron de Saint - Blancard, du frère hospital.er Bernardin, montés par quelques troupe résolues, pouvaient attaquer les navires ennemis et l’enlever à ses gardiens. Dès le 17 mai, François. l.cl était parvenu à donner secrètement des informations à la régente et lui avait écrit qu ’on n’aurait à combattre que quatorze galères et dix-huit cents arquebusier espagnols. Il avait ajouté avec une confiance un peu téméraire qu il n y avait qu' à user de diligence, car si elle est faite, disait - il à sa mère, j ’ai espérance que bientôt vous pourrez voir votre très humble et très obéissant fils » (2). Mentre che Francesco I, nella lusinga della sua liberazione, lasciava il castello di Pizzighetone, 2500 Lanzichenécchi erano andati ad alloggiare a Tortona. Col fiammingo Carlo di Lanoy, viceré di Napoli, erano 8 bandiere di fanteria, 300 cavalieggeri e 200 uomini d’ arme (3). Il 19 maggio Giacomo de Cappo scriveva da Milano alla Serenissima di Venezia : « heri partì il Signor Viceré con jl Re et hozi si è partito il signor ducha di Barbon per andarlo ad incontrar a Voghera e parlato col Viceré tornerà qua. Era prima ordinato condur il Re a Pavia; ma sua Maestà ha pregato non lo conducano lì et ha ottenuto. Si dice non imbarcheranno il re a Genoa, ma a un certo porto che è alli confini de signori fiorentini » (4). E il 21 maggio di bel nuovo da Milano scrivevasi a Venezia « come hanno il Viceré con il re Cristianissimo esser a Novi et non esser passati più oltra per la indisposizione del re Cristianissimo contratta nel viaggio » (5). L’indisposizione del re non fu soltanto la causa della fermata a Novi; gli Spagnoli aveano condotti tanti bagagli da dover fare una sosta necessaria (6), e i soldati preposti alla guardia del re si erano ammutinati, reclamando la paga; ciò scriveva l’oratore di Milano il 23 maggio, aggiungendo che il re e la truppa si sarebbero imbarcati sull’armata in luogo poco distante da Genova, giacché Francesco 1 avea pregato il viceré Lanoy « non volesse menarlo in Genova, perchè li bastava assai (1) / Diarii cit., p. 320. (2) Mignet, Rivalité de François Fr et de Charles-Quint in Revue des Deux-Mondes, 1er février 1866, p. 566. (3) I Diam cit., p. 328. — (4) I Diarii cit., p. 340. (5) / Diarii cit., p. 236. — (6) I Diarii ài., p. 345. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 371 che di lui triumphasse in Napoli » (i). La marcia continuava e il giorno 23 maggio il re giungeva a Borgo de Fornari, il vetusto feudo degli Spinola. E da Milano il giorno 27 partiva il seguente ragguaglio : « Come era de lì venuto uno homo di descrition assai, qual partì da Genoa a di 23 e andò alogiar la sera mia (2) lontan di Genoa, a uno loco che si chiama il Borgo, dove la sera li vene ad allogiar il Cristianissimo con il signor Viceré. Dice che le quattro bandiere di spagnoli che sono a la vardia di esso Christianissimo, alozorono parte in le fosse, et parte sopra le mure; le gente d’arme et cavali lizieri ne la terra ditta et una parte in uno loco alquanto avanti ditto Busala. Dice ancora che la matina per tempo che fu Mercore, a di 24, dovendo cavalcare il Cristianissimo, si mosse in uno cortivo, di dove davanti havea a passar, et con li tamburini vene in ordinanza le quatro bandiere di spagnoli. Di poi con le trombe venero le genti d’ arme, di poi il Cristianissimo sopra una muleta e da drieto li venia do gentilhomini spagnoli disarmati, et di po ad un pezo venia il signor Viceré con il capitanio Arcoa et li cavali lizieri ; li continui andavano a le bande a largo del Cristianissimo. Dice che quando passò il Cristianissimo, lui li fece gran reverentia e che S. M. il vardò più volte et ancor quando l’era passato. Costui è cittadin vicentino, homo da bene et mercadante ; el qual etiam volse vederlo montar a cavalo, dicendo volea veder si Soa Maestà havia speroni e cussi era, non però avea arma alchuna; indosso uno saio di veludo negro a la foza soa et un capello di ormexin negro in testa. Dovea la matina andar in Genoa a disnar, dove era aparechiato di alozarlo in el Castelieto, eh’è in mezo la terra, et quelle caxe li vicine erano sta’ fatte preparar per allogiar la vardia. Et havevano fatto provision per giorni 5. L’armata era in porto ben in ordine, galle 14 et brigantini, et qualche nave grossa ». Il Casoni, dopo averci detto che il re Francesco, condotto essendo dal Lanoy in Genova, una gran moltitudine di persone concorse a vederlo, ma non poco offeso ei rimase, accorgendosi che molti dell’infima plebe suscitati per avventura dagli Adorni, irridevano vilmente alla sua disgrazia, sicché più non volle mostrarsi in pubblico, conceputone lieve sdegno contro Genova, cade in errore soggiungendo che il re prese alloggio nel pubblico palazzo, che il doge Antoniotto Adorno dovette colle vicine case abbandonare al viceré e alle guardie spagnole destinate alla custodia della regia persona (3). Infatti un altro ragguaglio, inviato il giorno 27 da Milano diceva: « come è aviso di Mercore 24 del mexe, da Genoa, che il Signor viceré era alogiato in el Casteletto, eh’ è in mezo la (1) I Diarii cit., p. 347. — (2) I Diarii cit., pp. 365-366. (3) Casoni, Annali della Rep. di Genova, p. 78. Genova 1708, Tipografia Casamara, 372 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA terra con il re Cristianissimo, et voce ne è che zuobia a dì 25 fo il dì de la sensa, se imbarcaseno ; non però è nova certa. Questo aviso è in Mons. di Barbon, el qual fra tre zorni se partirà per andar a 1 urin dove si fa una bella giostra la octava di le Pentecoste » (1). Il console di Napoli a sua volta lo stesso giorno scriveva: « come de lì si preparava uno ponte sul molo per il smontar del re Cristianissimo » (2), mentre dall’altra parte lettere speciali da Genova in data 28 maggio annunziavano che il giorno 29 eia fissato per l’imbarco, e che già sull’armata erano stati posti i rinfrescamenti. Nel frattempo fervevano i preparativi per la liberazione del re. Infatti « um partie de la flotte française devait se rendre le 31 mai dans les eaux de Gènes, où la joindraient successivement les autres navires qu’ on armait. Le maréchal de Montmorency, échangé un mois auparavant avec don Ugo de Moncada après avoii vu la régent à Lyon, avait rejoint le roi à Gênes, presque a la veille^ de son embarquement. Il était investi du comande-ment général des armées de mer, et sans doute il apprit au roi que tout s’apprêtait pour sa délivrance. Mais François Ier renonça lui-même à une entreprise non moins certaine que périlleuse » (3). La veneta Signoria, ricevuti i debiti rapporti intorno agli avvenimenti, scriveva a Carlo Contarini, oratore in Ispruch « come erano lettere di Zenoa di 28 del giunger lì del re Cristianissimo con il signor Viceré ed il capitanio Archon et doveano imbarcarlo a dì 29; tamen ancora non havevano posto le victualie ne le galee. Etiam haveano inteso che a la volta di Napoli era 30 fuste di mori et dubitavano etiam de Andrea Doria capitano dell’armata francese et erano preparate per con-dùre il Re galee 15 et fuste 10 et molti bregantini. LIaveano deliberato che sopra la galea che conducea il Re andasse lo Arcon con 52 archibusieri et 50 de la famiglia del Vicere » (4). A Genova, da poco tempo libera dalla peste (5), era giunto Sigismondo da Napoli, ambasciatore di Venezia, il quale il 28 maggio così scriveva al provveditore generale della Serenissima di Venezia: « Mercore da matina a dì 24 il Vicere con il re Cristianissimo partirono da un castello che si chiama Burgo lontano 15 milia da Genova et ivi arrivorno a hora del disnare et lo menomo in Castelo, et li fano gran guardie dì e notte. Et dubitando del popolo di Genoa, li fanno la guardia in tre piazze una bandiera per loco de dì et de notte, ed hieri furon do volte' (1) I Diarii cit., p. 366. — (2) IDiarii cit., Tom. XXXIX, p. 27. (3) Petit, Andrée Doria, Paris 1887, p. (4) 1 Diarii cit., p. 63. (5) II 10 marzo 1525 il doge Antoniotto Adorno dichiarava aperta la una non infierendo più la peste (Diversorum, Filza all’anno 1525, Archivio eli btato m Genova). GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 373 cum le arme in mano con quelli de la terra per conto de lo aio-giare, tutti a descrition volendolo, et per questo stanno in gran fastidio. El Viceré ebbe mandati via heri mattina assai cavali lezieri per sgravar la terra, et hoggi manderà via alcuna compagnia de fanti. L’Arcone è in Castelo con il Re, et lui andarà in una galera con el Re cum 50 continui et 50 archibusieri et pochi servitori, et andrà in la galea, che fu di Don Ferrante di Cadorna. El Viceré andrà in quella del Gobbo o in quella di San Zorzi. Et in tutte sono 15 galee et 5 brigantini, et do galee anche hanno reconzà quale erano guaste et le menerano via, et doi fuste piccole, quale mandano innanti per scorta et al presente sono in alto mar, se cossa alcuna spiasseno, perchè hanno un poco suspecto, benché vadano a terra, et a la volta de Pisa et Civitavecchia et Roma, et ho inteso che smonterano subito vedando armata alcuna che si scopra in mare, perchè menano poca gente. Dice, anderà fra 5 dì se haranno bon vento. Rieri sera venero 5 pezi di artclaria del Castello et ne posero 2 in quela galera del Re et 2 sopra quela dove andarà il Viceré, et una in quela dove va el signor P. A., di la quale è capo lui. Del partir dicono sarà Luni a dì 29 che è dimane; ma credo anderà fin 2 più in là, perchè ancora non hanno fornito le galee di victuaria quando li fa di mestiero. Scinovi cerca 304 legni grossi quali dicono non anderanno via. Qui è fama che in Hispania mori haver preso 2 legni grossi, uno il galeone del Papa et anche si dice che 30 galere grosse di mori stanno ad uno passo in mare per pigliare il Re, quando passa et anche si parla di Andrea Doria » (1). A Roma si bisbigliava che il Lautrech con 6000 fanti veniva verso la Provenza per montar sull’ armata di Andrea Doria e veleggiare verso Genova per mettere in salvo il re (2), onde si dilazionava la partenza. Questa remora inaspettata iacea sì che i Genovesi, capitaneati dagli Adorno, non potevano più sopportare l’armata, onde la scintilla nascosta poteva secondare gran fiamma. 11 Lanoy in Genova non godeva simpatia alcuna, tanto più che si conoscevano le sue astuzie e i suoi tentativi, incominciati l’indomani della rotta di Pavia, di dar cioè Novi ad Antonio de Leyva (3). La voce divulgata ad arte che il re sarebbe stato condotto a Napoli andava assumendo credito maggiore in ogni città, sebbene a Milano già il 31 maggio si sapea da notizie non ufficiali, che il Viceré temporeggiava per condurre Francesco I alla volta di Spagna, in attesa di 10 galee francesi, che dovevano fare onorevole scorta (4). La partenza non si fece aspettare, e la flottiglia sferrò dal porto di Genova la notte del 30 maggio. Il re in mezzo ad una (1) I Dia rii cit., p. 7. — (2) I Diari i cit., p. 18. (3) Documenti di Star·. liai, cit., 1. c., ,p. 137. (4) I Diarii cit., p. 18. 374 GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA calca di popolo era stato accompagnato alle galee da Bernardino della Barba, nunzio pontificio (i), e il 2 giugno l’oratore di Milano scriveva alla veneta Signoria « come erano lettere di 1 da Zenoa a quell’111.mo; Ducha qual avisaria la notte el Cristianissimo re insieme con il signor Viceré esser montati su l’armata et haver fatto miglia 20 a Portofino, dove è il pasazo di andar a Napoli et in Spagna; et che quando S. M. si partì di Casteleto per montar su 1 armata fu visto andar con ciera mesta et che il dì avanti Mons. Memoransì havea riportato da parte di l’Imperatore et di madama la Regente che non si facesse altra novità di guerra senza suo ordine, sicché il mover delle arme sarano suspese ; la qual cosa il Cristianissimo re ha laudato, et detto Memoransì è sta rimandà a la detta Madama con dirli S. M. - ustianissima lì è stà grato di questo. Item il doxe di Zenoa scrive di mali portementi fati de lì per spagnoli et disonesti modi tenuti e ringratia Idio siano levati che se stavano più sarìa de li seguito alcun inconveniente » (2). Anche da Biescia il procuratore generale scriveva a Venezia « relation de uno che è stato a Zenoa quando il re Cristianissimo monto in galìa qual fo a dì 30 del mexe passato a hore.... e stete in galia du hore.... fin. .. a partirsi e che per la puza 1 a sentina et pei la calca di le zente vene quasi ambascia adeo era li taze con aqua ruosa et axedo et il Re si tocava la man et li polsi et stava molto malinconico » (3). p f'J ar*PIa e. particolareggiata relazione della partenza per rortofino ia il ricordato Sigismondo da Napoli. Il 4 giugno scriveva da Genova: « Come il Mercore a l’ultimo del mexe di imt-fn3',0 PrOX,T.Plento a circa hore 14, li Signori Cesarei imbarcorno il Cristianissimo re et stetteno fino alle 20 ad pardi ed enn ÌÒ°P° i I’ S' t,ro,rono da circa 15 miglia a remi et poi nrore ti h’ Camm° al qua]e haveano voltate le rPe°no df Na‘nnrCar>n0 d0vesse detta armata andare verso il banchi ef- r ' -armata era de galee 15, due fuste de 18 Genoa Ìt < 6 deIle quali erano de Napoli, 4 da Genoa cheS L “ ΐ a"rC 'ΓΜ0 res,ate a temno haveano potuto mettere ad perfettione in Xtìni nJr f ^andat0 manti (a Portofino) le fuste et li bri- Sal éra b Ma Vedete- et Ie due ga,ee. »e le serrate 'in ί! Cri.sftianiss,rna et signor Viceré andavano S drlto P H Γ 10 et tre le andavano per circa duo Sòr Vi, ' u ,galeC Predette del Cristianissimo et del bianco 1 gialliίνΓ dÌ Vflut° et raso de col^i rosso, sei da NanfÆ P°Tta ’’ signor Vicerè, et sopra le cum Γ arma imneS Stendardi et bandiere dorate tutte arma imperiale. Sono montati sopra detta armata tutti li (I) I Diarii cit., p. 46. - (2) / Diani d '3) I /Jiam cit., p. 30. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 375 continui del signor Viceré et alcuni capitane! de fanti cum 7 insegne, tamen il numero de li fanti non passava ultra 800 Sopra quella del Cristianissimo vi è montato il capitano Alarcone cum una insegna. Et nel star feceno alle ripe, dopo imbarcati dalle 14 alle 20 hore, sua Cristianissima Maestà di continuo stava tutta affannata et andava in sudore tra il gran caldo et il numero delle persone che era sopra la galea et tra il fetore della sentina, per il che si era stazzato davanti et si bagnava la mano ed il volto hora cum aceto ora cum l’acqua rosata che li era sta portata in due tacce d’argento. Et benché si attrovasse S. M. in tal maniera si sforzava dimostrar buona ciera ad ognuno. Il giorno stesso che detta armata si levò, si parti etiam il resto della fan-taria spagnola che era venuta ad accompagnarli la qual potea essere in 12 insegne da circa iooo fanti.... Delli insolenti portamenti hanno fatto tutte questa gente cesaree in Genoa et le spese che hanno voluto non dico altramente, possendo esser ben comprese da cadauno che ha pratica delli modi usano in ogni loco. Ma ho veduto gran viltà nel populo di Genoa per le gran superchiarie che si ha lassato fare » (1). Ho detto della vcce, fatta spargere ad arte, che il re sarebbe andato a Napoli, e dei sospetti che si avevano a Milano che il re sarebbe stato condotto in Spagna, il che impensieriva il Duca di Borbone, il quale da Milano scriveva al Lanoy facendo le debite proteste. Il Viceré astuto da Portofìno rispondeva: « che vedendo tal sua inclinazione a non asentir che ’l vadi in Spagna, era contento rivocar quella délibération di andarvi et lo condurà ad ogni modo a Napoli » (2). Il giorno tre giugno re Francesco I fu visitato dal cardinale Ercole Gonzaga di Mantova in Portofìno « dove era il Re su 1’ armada et aspectava 6 galee di Franza per andare insieme » (3). L’8 giugno alle ore 21 l’oratore di Milano scriveva alla veneta Signoria: « Come era lettere di Genoa de dì 6 da uno agente del signor Viceré nominato Lopes el qual scrive a questo Ill.mo duca di Milan come el detto signor Viceré se retrova ancor a P.ortofin aspectando 6 galee da Marseia del Cristianissimo Re per poter andar più sicuro perchè hanno pure avisi che fuste 29 di mori sono verso la Cicilia. Scrive etiam che hanno ad andar ad ogni modo a Napoli; sicché in questa varietà sono li avvisi ». E lo stesso giorno alle ore 22 scriveva: « come erano lettere de lo Ill.mo duce di Genova in questo Ill.mo di heri, che li dà aviso come giunse a Portofino al signor Viceré sei galere del re Cristianissimo ; esso signor Viceré se mise a camin con 1’ armata verso Genoa et arrivò a Sampiero in Arena, eh’è mia tre lontan di Genoa, et tien che per diman non si possi partir perchè subito il signor Viceré ivi gionto expedì suo homo a Voltagio, (1) / Dinrii cit., pp. 30-31. — (2) 1 Diarii cit., p. 51. (3) 1 Diarii cit., p. 45. » 3/6 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA che è loco apresso l’Apennino, mia 20 lontano de Genoa per far venire due compagnie di spagnoli ''he vi sono, per armar con loro le dette galìe francesi. Fama ivi correa che vadino in Spagna, dicendo che post scripta esso Duce è fatto certo di questa andata » (1). ... F j* 9 ?'u§no scrivevasi da Parma alla veneta Signoria : « el \icere ha mosso il Cristianissimo da Portofin et conducto a Santo Petro Arena loco proximo a Genova dove sono con effecto gionte sei ga ce de quelle erano a Marsilia, et in quel luogo se armano 1 spagnoli. Esso Viceré ha mandato a pigliare tre compagnie pei a e tetto, il nome delle quali non scio et securamente in ques o mo o esso Viceré condurà S. M. in Spagna. Questa via si e trovata a satisfactione del Cristianissimo per più*voluntieri essere con ucto a Cesare che a Napoli, dove pensa più facilmente assetare il suo caso che altrove » (2). «tJ1 9 S'ugno l’armata passava sovra Savona (3), e il 28 dello stesso mese il doge Antomotto Adorno scriveva a Francesco de andarono'10’ res‘dente a Mi'ano: « E’ arrivata una fregata di quelle del ςίση Cr ',armata cesarea cum la quale habbiamo lettere del signor Vicere et dal locotenente delle nostre galere per le seme df7 CertÌfiCat’ Che arrÌV0r0n° a Palla™« aMi 16 dd ^ et dalla ditta^k^^^l10 ’i ,a Sera pGr andar a ordine dal Imnpnf Tn’1·0 ? P°rt° di Sal0’ dove aspectariano col!,·,! ,! pi dell imbarcare del re di Franza. L'armata sorono a la voltai?Cano diY"6 d' Marsi?,ia Püi le las' In tutti li lochi dHla P 6 Presero terra a Cadaquez. Marsiglia il signor vi/0'^3 " ben VÌStÌ et accareziati. A domo il qualègma„dò TΙ-Γ* V*™ *' Ma,viSino su° maior- Uno ScV^Sgeïe ““Γ? * (4)· Portofìno: « Stava ognuno n 5 racconta la partenza da fossero per disporre 11 1 Γ®”16 attendendo che cosa Quando essenS pLtraZn^ V'nC,t°n dd R° di Francia· condotto a Napoli oer essere h ' Spanla voce c^le doveva essere ad un tratto cambia fa · 1 custo^lto nel Castelnuovo, tutto Spagna da D Carlo'di Ι^ηΓΓ210^ onoratamente menato in '«Λ Spagna,ratr.at“d?G™,7:’p*rima T * ■*-di Levante, aspettò ivi ah™ r,,i Portofìno nella riviera di comune concerto per mawfr ^ 6 vasce^' italiani, ai quali aggiunsero sei galere di Frfncia tntt*™ 06,13 persona reale- si fresca morte della regina madami Π ^°perte a bruno Per la cesco, quali tutte furono riempite di solda?’ ™0g de' re Fran' migliori compagnie Dnnmi^ Ì ί · sPagnuoli scelti dalle di Francia tabÌreosi i“ re“ ,,YÆ ^ c -re 11 17 (5) di gmgno a Savona, dove (1) I Diarù cit., pp. 46-47 __ τ η · .. . (3) i Diorii cit., pp. 86-87 — (4) / /y1'"· Clt·’ ΡΡ· 4«-49· (5) Data erronea; f„ ü 9 <4> ‘°rU Clt” P· *56. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 377 era stato condotto da Portofino, entrò di passaggio nel porto di Villafranca ed ivi vennero a condolersi seco gli officiali del duca ed i sindaci della città di Nizza, che a nome pubblico gli presentarono un bel regalo di diversi rinfrescamenti.... » (i). A Villafranca giunse il io giugno, di dove il Lanoy scriveva di condurre il prigioniero in Spagna. Il giorno 17 annunzia il suo arrivo a Paiamo e l’espressioni della lettera dimostrano che l’idea di questo viaggio era nata nel solo Vicerè (2). * * * Una tradizione non mai interrotta ci racconta che Francesco 1 fu prigioniero alla Cervara. La Cervara! Strana evoluzione dei tempi c delle cose! I Certosini, che han preso teste possesso della Cervara, non han fatto che tradurre in atto un antico desiderio. Infatti una delle prime pergamene dell’Archivio di Stato ci dà contezza che il 14 agosto del 1340 Guglielmo e Lanfranco De Amicis da Portofino vendono al priore della Certosa di Rivarolo una terra, posta in territorio Cervarie, confinante colle terre di Pietro Marchese, e che il loro padre aveva acquistato il 3 febbraio 1275 dai coniugi Sibillina ed Enrico de Cervaria. Nel 1346 venivano poste nelle Compcre del Comune L. 300, i cui frutti venissero percepiti dai Certosini di Rivarolo quandocumque hedificaretur et costrueretur aliud monasterium dicti ordinis m loco ubi dicitur Cervaria de Portnphino. La pia disposizione del donatore non venne eseguita, giacche ai Certosini di Rivarolo fu impossibile innalzare il nuovo cenobio alla Cervara, onde il 18 marzo del 1360 il Capitolo generale dei Certosini di Firenze concedeva al priore della Certosa di Rivarolo di vendere i beni della Cervara, erogando l’introito in possessionem magis utilem. I beni furono acquistati il 5 g'ugno del 1361 dal sacerdote Lanfranco di Ottone, cappellano di S. Stefano e della cattedrale di Genova. Egli fu il benemerito fondatore, cui il 17 agosto 1361 l’arcivescovo Guido Scetten (che il Petrarca chiamava mio Guido) dal palazzo di San Silvestro dava licenza di edificare un monastero, coll’obbligo di offrire annualmente tre libbre di cera ai canonici di S. Lorenzo, e altrettante all’ arcivescovo di Genova prò tempore. Il 26 agosto dello stesso anno il pavese Lanfranco Sacco, abate dì S. Siro e poi arcivescovo di Genova, poneva la prima pietra del novello monastero, nel quale il IO ottobre faceva professione il primo benedettino cassinense, e il 18 ottobre cantava la prima messa l’arcivescovo Scetten. Chiesa e monastero furono del tutto compiuti il 12 agosto (1) Gioffredo, Storia delle- Alpi Marittime in Hist. Patr. Mon., Scriptorum, Tom. II, col. 1275. (2) Doc. di stor. ital. cit., p. 138. 378 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA del 1364, e il 20 novembre del 1367 veniva in essa sepolto l’arcivescovo Scetten, l’intimo amico del cantore di Laura (1). La storia del monastero, tessuta dal P. Spinola, è la più bella che immaginar si possa e che non potrebbe desiderarsi migliore, giacché 1’ autore si addimostra seguace del metodo muratoriano, corroborando ogni cosa con i documenti. In detta opera poi sono riferiti i versi, composti nel 1376, allorché il pontefice Gregorio XI, reduce da Avignone e da Genova, avviandosi a Roma, celebrò la festa d'Ognisanti alla Cervara, accompagnato dai cardinali Bartolomeo de Prignano (poi papa Urbano VI) e Pietro de Luna (antipapa Benedetto XII). Hanno pure posto onorevole le lettere, che S Caterina da Siena indirizzò al priore e monaci della Cervara, e i cento distici, che nel 1501 l'Anonimo poeta cervnriense compose intorno ai fatti più cospicui del monastero. Quel rifugio solitario di monaci là dove il silenzio è interrotto dalle salmodie e dall onde, che s’infrangono nei massi di pudinga terziaria, levo tale grido da oltrepassare non solo la chiostra dei monti, che pare lo minaccino, e l’immensità del mare, che al suo sguardo si stende, ma da pervadere altresì l’uno e l’altro cano d’Italia (2). Ha fondamento di prove la leggenda della prigionia di Francesco I alla Cervara? Una piccola stanza e additata tuttora come il soggiorno del regio prigioniero e vi si leggono i versi: Qui posò prigionier Francesco Primo Quando per sua ventura ei scese all’ imo ; Quando vinto da Carlo Imperatore lutto perduto avea fuorché l’onore. Scrive Francesco Accinelli che il re di Francia fu portato in Portofìno alla Cervara probabilmente per aspettare che venissero le sei galere guarnite di milizia e d’uffìziali spagnoli che il consiglio di Francia aveva accordato pel trasporto del re in Spagna (3). 1’ rate Diego Maria Argiroffo, che scriveva nel 1794, dice che Francesco I « fu condotto a Genova di quivi a Portofìno alla Cervara, indi in Madrid » (4). Il Padre Spinola, che scriveva nel 1796 afferma che Francesco I « condotto alla Cervara è tradizione che .fosse posto (1) Remondini, Momunento all’ Arcivescovo Guido Scetten alla Cervara 111 Iscrizioni Antiche Liguri, Genova 1878. (2! Ferretto, Il Tesoro Storico della Cenrnra, in Giornale il Caffaro del 16 nov. 1901, 11. 318. (3). Compendio delle storie di Genova p. 7l, e Liguria Sacra, Vol. II p. 12, ms. alla Bibl. Civica-Berio in Genova. (41 e Cronologiche della città e governo di Genova, P 23> "I. alla Bibl. della R. Università di Genova. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 379 in una stanza fondata sopra alti scogli quasi perpendicolari col mare situata in un angolo dell’orto del monastero sotto le finestre de’ religiosi. Questa stanza che ancora oggidì sussiste si chiama comunemente la prigione di Francesco I. Sopra di essa cvvi un terrazzo o loggia scoperta, credono alcuni che da questo luogo si ascendesse dal mare al monistero ne’ tempi antichi, ma non si vede alcun vestigio che lo comprovi. Avea il Re per suo con-sigliero ed elemosiniere D. Agostino Grimaldi figlio di Lamberto de’ principi di Monaco, abate dell’ antico e celebre monastero di S. Onorato di Lerino dell'ordine di S. Benedetto, vescovo di Grasse in Provenza. Egli forse se pure si trovò presente a queste Sfortune del suo sovrano esortò il Lanoya a portare il re alla Cervara. Il motivo di portare questo monarca più tosto in quella stanza che in quella della foresteria nel monastero è del tutto verosimile che sia stata la causa della peste che faceva gran danni nel genovesato.... Siedè il Re anche in Portofino essendo ivi costante la tradizione che sia stato in casa dei signori Costa » (i). 11 Canale racconta che nel viaggio poteva Andrea D’Oria assalirlo e che una maggiore dimora in Genova poteva eccitare a rivoluzione il popolo inimicissimo degli Spagnoli, di guisa che deliberossi di recare Francesco a Napoli, e, imbarcatolo, il Viceré lo trasse nel luogo di Portofino « dove alcuni giorni si riposò nel monastero di San Gerolamo della Cervara » (2). E’ degno pur di nota che la badia della Cervara era governata da un suddito del Lanoy, dal priore frate Andrea da Napoli. Il Canale aggiunge che da cronache di detto monastero risulta che un frà Placido della famiglia dei Fregoso, monaco della Cervara, commosso a tanta calamità, lusingò il re della sua liberazione, appiccando corrispondenza di lettere con Paolo Bulgaro de Franchi in Genova, che prometteva di avvertirne Andrea D’Oria, il qnale avrebbe di cheto colle sue galee navigato a Portofino e tentato di levarlo sopra di quelle e salvarlo. Raccomandava soltanto che Francesco, prendendo qualche onesta cagione, si trattenesse alcuni giorni colà, giacché queste cose per essere diligentemente eseguite abbisognavano di un po’ di tempo (3). Noi non abbiamo difficoltà a credere che durante gli otto giorni di sosta in Portofino (1-8 giugno) re Francesco dalla flottiglia, ove lo vedemmo il giorno 3 ricevere la visita del cardinale Ercole Gonzaga, sia disceso per alcuni giorni alla Cervara, tanto più che le notizie, che correvano circa la venuta dei Mori (l’anello regalato al sultano avea ottenuto buon esito) (4) e lo (1) Spinola, 1. c., pp. 639-640. (2) Nume Istorie della Rep. di Genova, Firenze 1864, Vol. IV, p. 419. (3) Canale, 1. c. (4) Ancora il 30 settembre del 1526 Galeazzo Visconti scriveva da Roma al Montmorency « secondo il mio povero judicio Spagnoli cum Borbone stanno 380 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA scorazzare di Andrea D’Oria, i quali tutti volevano torre il re prigioniero dalle mani degli Spagnoli, impensierivano talmente che era più consono per ragioni di sicurezza da Portofino allogare il prigioniero in dimora più appartata, mentre all’imboccatili a del seno portofinese stava a scolta la flottiglia agli ordini del Viceré. Arrogi poi che nel castello di Portofino, « le muraglie erano ìroccate e il luogo dalla banda di terra assai aperto » tanto c e nel 1526 all armata dei collegati, allestita per rimettere Genova sotto la clientela del re di Francia, riuscì facile impadronirsi eli rortofino, ove « per l'importanza di quel seno » Andrea D’Oria, ammiraglio della flottiglia, pose di presidio Filippino Fiesco con 500 tanti, ordinando che si fortificasse di trincee e bastioni con terra e fascine (1). Andrea D Olia adunque dovea essere necessariamente il primo spauracchio del Lanoy, durante la sua dimora a Portofino, giacche « résolut de le délivrer dans la trajet que la flotte impenale, portant son royal captif, ferait par mer en se rendent l' arC,ef e;. Poste au îlcs d’Hyères (2), il avait l’intention de ' i η ,! 1Γ’ ( Ie meIer aux navires espagnols à la faveur de InJZ\ C oUr ga,ère amirale et d’en arracher l’il- lustre prisonnier. Outre que Sigonius nons mentionne le fait, danî ΙοΓγΓ5 raCe ,dU nPr°jet qU’ aVait formé André D°r (4'. nierorisìÌtaSn,^eC?ÌnnSe continuamente di liberare il prigio-ero risulta pure dai Documents relatifs aux projets d'évasion de François I, prisonnier à Madrid (5) Al Lanov riuscì far,1e condurre ,1 prigioniero da Portofino a Madrid giacché nc[ ac comodar ogni cosa gli avea fatto balenare l’ilLa di sposare' al più ,pr,esto et facio la mia profetia universale così ""*? “ fi°H « *** che è inalidito da Dio » (Doc. di sto',-, ital cit VZo) Wz°gna dire (i) Casoni, 1. c., p. 88. ’ 1 4 0)- {-j II 10 giugno 1525 Andrea D’Oria trovasi a Tolonp ri; 1 i STaSTpcr 11 r-........... (3) Commentaires de Blaise de Montine, Lib VÌ (4) lETIT, 1. c., p. 52. (5) Paillard, in Revue Historique, Tom. Vili, Nov. Die. 1878. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 38 I Eleonora, sorella di Carlo V, e già promessa al traditore con-ne'stabile di Borbone. L’idea di trasportare il re da Portofino in Spagna non fu comunicata ufficialmente a nessuno, per i timori sovraccennati. Anche Teseo Alfani nelle sue Memorie Perugine scrive « si dice certo che il re di Francia quale era stato prigione tre mesi in circa in Pizzichettone, è stato menato prigione per mare a Napoli » (1). Soltanto l’oratore di Roma scriveva alla veneta Signoria, in data io giugno 1525, che il pontefice gli avea detto che il re veniva condotto non a Napoli, ma in Spagna, « et questo sia secretissimo » (2), e lo stesso giorno 1’ orator di Milano scriveva che 1’ andata del re Cristianissimo non procede da Carlo V, ma bensì di volere del Viceré (3). Il viceré avea chiesto scusa al pontefice e ai principi per non aver comunicata la notizia; si trovò anche la scusa che a Napoli era mala saxon di aer/’. (4). L’idea poi di traspostare il re prigioniero in Spagna anziché a Napoli nacque certamente al Lanoy, mentre trovavasi a Portofino, tanto è vero che il Robertson ci fa sapere che il re venne condotto alla volta di Genova sotto pretesto di trasportarlo a Napoli, ma ben tosto fu dato ordine di far vela verso la Spagna (5). Avea ragione Margherita di Brabante, la soave sorella di Francesco I, a scrivere: Vaincu je fus et rendu prisonnier Parmi le camp en toust lieux fus mené, Pour me montrer, çà e là promené (6). Naturalmente poi se Francesco I stette alcuni giorni alla Cervara, non vi godette quella libertà, che gli fu concessa nel castello di Pizzighettone, « ubi libertate excepta summa diligentia custodiebatur in ceteris omnibus regio more honorique afficiebatur » (7), giacché i tempi erano mutati. Di recente un rapailese, riferendo i quattro versi dell’ epigrafe, accennanti la prigionia di Francesco I alla Cervara, si domanda : « Innanzi tutto: la Cervara è veramente monumento storico? Vediamolo. La leggenda — e dico leggenda perchè lo storico non precisa — vuole che il vinto di Pavia, dopo l’infausta giornata del 25 febbraio 1525, prigioniero di Carlo V di Spagna, sostasse alla Cervara, mentre si dirigeva alla captività del ca- (1) Arch. Stor. Ital., Tom. XVI, Ann. 1851, p. 306. (2) I Diarii, 1. c., p. 63. (3) I Diarii cit., p. 66. — (54) I Diarii cit., p. 114. (5)" Robertson, Storia di Carlo V, Lib. IV. (6) Michelet, 1. c., p. fyj. (7) Bizarvs, Senatus Populique Genuensis Historia, Autcrpiac, 1579. p. 461. ;S2 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA stello di Madrid.... Per conto mio, io metto in dubbio l’asserto di questa epigrafe. Francesco 1 prima di tutto era Re di Francia e, quantunque prigioniero avea diritto a ben altro trattamento; nè i tempi, nè le persone potevano avere punti di contatto con la barbarie, con Alboino o con Attila. Per cui, se Francesco I avrà sostato alla Cervara, si avrà avuto miglior trattamento di questa stanzetta che mi ha tutta l’aria d’una vera colombaia » (i). Con buona pace dell’egregio scrittore, il quale desiderava pure che un autorità in materia gli affermasse il « valore βίοι ico » della Cervara, e noi I abbiam fatto, senza reputarci au-tonta, dobbiamo dire che la « colombaia », chiamiamola pure in ta mo o che accolse il re prigioniero, era una reggia son- M°^a Jn ^ di 3uella’ che d°P° la Cervara Γ accolse a r A ' ~ues^ ultima « c était une chambre dans une tour des seîil'r °f '°fS· Petite, horrible cage, avec une seule porte, une .. . (,nc a double grille de fer, scellée au mur des quatre fenetre, etant haute du côté de la chambre, il faut la V°k* Paysage, l’aride bord du Mançanarez; sous Ions faisaient h Ime . Cent pieds’ au fond duquel deux bataillons taisaient la garde jour et nuit » (2). priJonÎÎdHbV6^™0 cunctat0r’ fu Paz|ente e fine nella sua rèi? ihiriJ:e,rVara’tcome. ben l'attestano i versi della sorella luargherita, la quale scriveva: Le cheveux bruns, de grande et belle taille ; Jin terre il est comme au ciel le soleil. Hardi vaillant, sage et preux en bataille, ti est bénin, doux, humble'en sa grandeur, i °.rt et Passant, et plein de patience, soi en prison, en tristesse et malheur ,3). Della venuta di Francesco I a n r* R.W. detenuto in quîl'lo"'instoo "'me'0 Ï' castell° di Pl'cighitonc e STf'0(^ ^ me"a,° in e due del 7 maggio e 7 ottobre scr P dn ^?Î '' 23 marZ°’ cenno alcuno di Francesco I e’ rieii? ToIedo, e non danno Dalla ricca miniera di documen f d.T (5)' CaViam0 S0'lailt° che » * de, ' S£lf d^™° £ S .j·· - « ,, p. (a di Sfn,^ GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 383 Adorno e i Senatori della genovese Signoria consegnavano al-Γ ambasciatore eletto a presentarsi al cospetto di Carlo V un memoriale, portante la proposta di acrescere la flotta spagnola con navi genovesi, a patto però di ottenere in compenso dalla Spagna salme 40000 di grano di Sicilia, e nello stesso tempo facevano la debita rimostranza per i danni cagionati dall'insolenza dei soldati spagnoli, quando Francesco I da Genova si era imbarcato per Portofino (1), danni ed insolenza, di cui diffusamente discorre il Canale (2). Il 21 luglio Carlo V da Toledo con lettera cortese scritta al doge Antoniotto Adorno deplorava è vero l’insolenza spagnola (3), ma in quei ducati 80000, rimessi dal re a Genova per lettera di cambio (4), per pagare l’esercito suo, non era ancor compreso il risarcimento dei danni passati, e solo si ebbero 3300 scudi in tante tratte di grano di Sicilia, i quali dal governo imperiale si estorsero poscia al console genovese, quando Genova ricadde sotto il dominio francese (5). Prima d’ammainare le vele volgo ancora un pensiero a Portofino e alla Cervara, e non posso che deplorare che nello svolgersi delle lotte tra Francesco I e Carlo V gli storici genovesi non abbiano tenuto quasi mai conto di questi due lembi del golfo tigullio, che formano ora la meta di escursione di tanti forestieri. La prigionia di Francesco I a Portofino e alla Cervara fece meglio conoscere le due località presso i francesi, e furono negli anni successivi il teatro di importanti avvenimenti. Arturo Ferretto BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Agostino della Sala Spada. — Proverbi monferrini.·— Torino, G. Sacerdote editore, 1901 ; in-16 di pp. 280. Quale enorme sviluppo abbiano assunto anclie da uoi in questi ultimi anni gli studj di demopsicologia e di letteratura popolare, nessuno lo ignora, specialmente dopo la pubblicazione del monumentale volume, che alla bibliografìa folklorica italiana ha dedicato il più insigne cultore di questi studj, Giuseppe Pitrè. Le ricerche paremiologiche (che delle discipline demopsicologiche costituiscono uno dei rami più importanti) hanno oramai anche in Italia un’intera letteratura: non v’è regione, stiam per dire che non v’ è città di qualche importanza, la quale accanto alle raccolte (1) Materie Politiche, Mazzo XV, Arch. di St. in Genova. (2) Canale, 1. c., p. 418. (3) Lettere di Principi, Mazzo 1-2777, Arch. di St. in· Genova. (4) I Diarii cit., p. 479. — ^5) Canale 1. c., p. 418. 3^4 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA a stampa di canti popolari, novelline, leggende, ecc. non abbia la sua silloge di proverbj. Chi non conosce (per non citare che degli esempj tipici) le raccolte del Fanfani, del Giusti e del Tigri per la Toscana, del Pi tre per la Sicilia, dello Spano per la Sardegna, dell’Ostermann per il Friuli, del Conti, del Dalmedico, del Lamberti e del Leoni polla regione veneta? Il volume dei u Proverbi Monferrini » del Della Sala-Spada porta aneli esso un notevole contributo alla letteratura paremiologica del nostro paese. Λ eramente, per quanto riguarda il Monferrato, questa ί accolta non è la prima che venga in luce; poiché (sebbene il Della Salpubblicato a Genova nel 1900 dalla Società Ligure di Storia Patria. Su questo libro ebbi già occasione d’intrat-tenermi altrove nè ripeterò qui le parole scritte in altra occasione. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 385 cosiffatti errori, quando egli trova che nell’opera a cui accenniamo « v’ è tanta logica, tanto acume e profondità di ragionamento, che induce a poco a poco il lettore a convincersi sulla verità di quei suoi argomenti v. Nulla di strano dunque quando l’autore afferma es-rese dimostrato all’evidenza che brich (colle) deriva dal greco baricos (pp. Il, 96, 200), crin (maiale) da coiros (pp. 14 e 56), piandrun (fannullone) da ÿlanao e anvr (pp. 14 e 128), susnè (fiutare) da segugio (p. 198), cavallotto dall’ebr. kevarod (p. 147). ticn e tacli da antichità (p. 145), manna (ragazzo) dal ted. medchen (p. 74 e 121), ecc.; etimologie le quali non per nulla differiscono dalle trovate di quel hello spirito che pensava potersi dimostrare l’originazione della parola violino dal nome Nabuecodonosor : con questa differenza però, che se cosiffatti errori in altri tempi erano scusabili, ai nostri giorni non possono non meritare il biasimo più severo. Il cap, XIV di questo libro è degno al tutto della prefazione : come si può infatti affermare seriamente che voci come mo (ora), co’ (capo), ca (casa), ma’ che (soltanto), ancoi (oggi), piote, ringavagna, ronca, ecc. siano state suggerite a Dante dal dialetto monferrino e riescano oscure a chi non conosca questa parlata, quando invece è noto che già i più antichi commentatori (come il Buti, Benvenuto da Imola, l’Anonimo fiorentino ecc.) ne diedero l’esatta spiegazione ? senza dire che gli studj più recenti hanno dimostrato essere coteste (salvo qualche rara eccezione) voci tutte già usate da scrittori anteriori o contemporanei del poeta (1). Sono poi da notare in tutto il libro molte, anzi troppe incoerenze grafiche, che determineranno errori inevitabili di lettura da parte di chi non conosca il dialetto monferrino. Così, per portare qualche esempio, l’autore scrive sempre cuerc (coperchio), denc (dente), dric (dritto), jac (fatto), j ’ac (gli altri), lac (latte), lec (letto), newc (notte), pec (petto), sue (asciutto), tue (tutto) accanto a bosc (bosco), fiase (fiasco), mac (solo), olòe (allocco), pine (pelo), poc (poco), toc (pezzo), ture (turco) ecc. : e del pari egli scrive freg (freddo), furmag (formaggio), mag (maggio), snog (ginocchio) accanto a dag (do), larg (largo), long (lungo), ecc., mentre è chiaro che la pronuncia della esplosiva finale, sia sorda che sonora, non è sempre la medesima, essendo nelle prime serie di esempj (lac, freg) palatina, nelle seconde gutturale (toc, larg)·. incoerenza che si sarebbe potuta evitare adottando, ad es., i semplici c e g per indicare la pronuncia palatina e designando con k e gli la pronuncia gutturale. (i) Vedansi a questo broposito lo scritto dello Zitigarelli (Riv. di Filo!. Romanza, vol. I) e quello più recente e più scientifico del Parodi (Buttettiuo della Socie/ά Dan-. tesca, 1896). Gioru. St. e Lett. detta Liguria 386 GIORNALE STÒRICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Ancora, Γ autore ora scrive fervè (p. 31), ora fervà (p. 32), ora farvà (p. 32). Troviamo citato due volte in questo libro (pp. 146 e 162) Brunetto Latini come autore del Pataffio mentre è oramai generalmente risaputo, dopo lo studio del Borgognoni, che il Pataffio è scrittura molto posteriore all’ autore del lesoretto, e probabilmente di scrittore toscano del sec. XY. A proposito del proverbio u la luna è bugiarda » (p. 34) ricorderemo il proverbio latino: u o luna mendax, si dicis cresco decrescis, si dicis decresco crescis v. Il proverbio « lontan dagli occhi lontan dal cuore » (p. 82) ci richiama alla mente la massima di Larochefaucauld : « la lontananza scema i piccoli affetti e ravviva i grandi, come il vento che spegne una fiammella ma alimenta un incendio j>. La sentenza u piasi e sagrin come na roja da mulin n fa pensare all universale concetto del succedersi delle vicende umane, alla u ruota del destino » dei Latini: concetto che troviamo espresso da Kalidasa, il principe dei poeti drammatici dell’ India, con queste paiole: a all’alto volge e al basso il destino a guisa di raggio di ruota n (1). Non se l’abbia a male l’egregio autore se abbiam voluto rilevare le mende principali del suo libro: mende che vorremmo veder corrette in una nuova edizione, che gli auguriamo di gran cuore trattandosi di un libro che merita la maggior diffusione, e che appunto pei ciò dev essere, per quanto è possibile, spoglio di errori. Nervi, settembre 1902. Giuseppe Flechia. ANNUNZI ANALITICI. La valle di Diano ed 1 suoi antichi statuti. Per Gerolamo Rossi. Torino, Ct. B. Paravia, 1900, in-8, di pp. 139. — La nuova Diano Marina sorta dopo la catastrofe che colpi quel borgo nel 1887 è forse il più grazioso abitato di^ tutta la doppia riviera. Le sue ampie strade piantate di palme, di gagie e d oleandri, le sue palazzine civettuole intervallate di giardinetti, la spiaggia che le si incurva dinanzi dolcissima, la vallata che sale con dolce pendio glauca d ulivi sino alla sommità dell’ Evigno, tutto ciò fa di quel luogo un seducente soggiorno. Ma non è 1’ attillata moderna cittadina in miniatura che interessa lo storico. Poco a monte di essa sopra una piccola altura s eleva I antica Diano, centro di tutta la vallata che formava un’ unico comune, ora detta Diano Castello. Ancora pochi lustri or sono serbava nu- (1) Cfr. Brunetto Latini, nel Tesoretto: « Io Brunetto Latino — che nessun giorno fino — d’avere gioja e pena — come ventina mena — la rota a falsa parte ». GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 387 merosi i monumenti del suo passato medioevale, ora in gran parte travolti sia dalla catastrofe tellurica del 1887 che scosse le vecchie torri delle antiche famiglie dianesi, sìa da malinteso spirito di modernità che distrusse senza ragione antiche costruzioni fra le quali ricordo ; una bellissima porta del borgo, proprio come taluno qui a Genova s’affannò per ridurre, col pretesto della Borsa del Commercio, ad un alveare di scagni e scagnctti di sensali 1’ antico monumento di Guglielmo Boccanegra, il palazzo del Comune a mare, sede dal principio del sec. XIV sino ad oggi della Dogana e sede pure dalla metà del XV secolo del M.co Off.° di S. Giorgio da cui prese poi il nome e che molto erroneamente si crede fosse un istituto commerciale. Pur qualche cosa dell’ antico carattere la vecchia Diano conserva; appena entrando una lapide del 1300 ricorda 1’ antica famiglia degli Alberti, una pittura sul palazzo municipale vuol riprodurre la battaglia della Meloria e magnifica la parte che v’ ebbe la galera armata da quella comunità col denaro che a nome d’ essa il suo sindico, un Qualia, avea preso poco prima a prestito a Genova; esistono, o almeno esistevano sino a pochi anni sono, alcune torri, qualche tratto dell’antica cinta con una piccola postierla secondaria. Non parlo dei ruderi dell’antico palazzo dei marchesi di Clavesana che un sedicente restauro mascherò in modo ridicolo, ma due graziosi oratori tuttora hanno l’elegante fisionomia delle costruzioni del XII e XIII secolo. Uno anzi, quel di S. Giovanni Battista di cui dobbiamo la conservazione ed il restauro a quel benemerito dei monumenti liguri che è il D’Andrade, offre oltre alle pitture arcaiche che decorano 1’ aitar maggiore una spiccatissima singolarità, di conservar 1’ antica copertura in legno dipinta, esempio forse se 11011 unico almeno rarissimo in tutto il Genovesato. Ne 1’ interesse di chi ama riandar sui luoghi la storia del passato s arresta alla vallata : a pochi passi a levante sorge il vecchio casolare della Rovere, forse nido della famiglia papale omonima; poco più lunge ancora il Cervo, anticamente unito a Diano, sale pittorescamente la roccia su cui s’ aderge in modo curiosissimo; oltre il Capo Cervo nella valle del Merula la vecchia An-dora offre agli occhi dei visitatori le rovine del suo castello e la sua magnifica chiesa recentemente restaurata con intelletto d' arte. Son tre centri d’ antica vitalità ligure che di buon’ ora riscattatisi dal dominio degli aleramici marchesi di Clavesana uniron la loro sorte a quella del comune di Genova. Ma della riviera di Ponente veramente non può dirsi come ΓΑ. ripete (pag. 21) coll’ Imperiale, che Genova sia riuscita a spazzar via tutte le giurisdizioni feudali come seppe fare nella riviera di Levante ; che qui invece le signorie, o frantumi dell’ antico vassallaggio ai marchesi arduinci o aleramici o sorte nuove per opera di potenti famiglie genovesi, appoggiando le spalle alla vigorosa feudalità del Piemonte, si mantennero tenaci e resistettero sino alla fine della Serenissima. A tacer d’altro per brevità, basti accennare che Diano, il Cervo ed Andora, formavano in questo punto quasi un’ oasi fra le terre d’Onelia, Pornassio, e Laiguelia feudali e la vallata dell’Aroscia pur feudale sino al secolo XV. Da quei clivi « pallidi d’ulivi » scese nel medio evo una gagliarda gioventù alle marine e per tempo salirono sulle galee del comune di Genova e mischiarono il loro sangue a quello degli altri cittadini e distrettuali di Genova nelle lotte accanite che questa impegnava colle rivali per l'egemonìa nel mediterraneo. Entrarono poi largamente nella vita marinara e commerciale della metropoli. Sin dal principio del sec. XIII gli uomini di Diano concorrono a presidiare Bonifacio ; come accennammo prendono poi parte alle guerre contro Pisa, a quelle contro Venezia, contro gli Aragonesi, contro tutti i nemici della Republica; le sue famiglie vengono a Genova ed entrano negli uffici, i suoi marinari danno larghissimo contingente alle pescherie genovesi dei coralli sulle coste della Barberia. Le terre convenzionate, e tale era Diano, sotto 1’ alta sovranità di Genova conservarono una larga autonomia locale simil- 388 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA mente cne sotto Roma le città che avevano il jus latino. Come tutta la Liguria troviamo Diano prima governata da consoli del luogo, nel sec. XII negli atti che in Savona si leggono in quei registri a catena e più tardi ancora, verso la metà del S6C. XIII, in un atto di quelly epoca in cui un con-sole di Diano, un Balia o Bolia, negozia a Genova un prestito come sindico di quel comune. Dopo dovette accettar un podestà cittadino genovese ma pure pare conservasse locale il vicario, oltre i sindici ed il consiglio ; per esempio nel 13il si trova che col podestà genovese Cattaneo Doria, Tomaso Guidice d una famiglia di Diano di cui uno era già stato console nel XII sec., è vicario dello stesso podestà e giudice del comune di Diano, vi sono due sindici, Porli rio Qualia e Gaillo Cassino e una quarantina di consiglieri. Anche più tardi, nel 15 19, Lodovico Fregoso informando il R. Governatore di Genova Ottaviano Fregoso, loda Diano come la terra della riviera di Ponente meglio governata dai suoi gentiluomini. Una storia di quell interessante comune ch’io sappia non comparve sinora, sebbene numerosi se ne trovino gli elementi. A questi, sparsi, ora s' aggiunge la pubblicazione di Gerolamo Rossi da cui prendemmo l’occasione di questo cenno. Lo scrittore è noto a quanti s’ occupano della storia ligure ; la riviera di Ponente non ebbe più solerte illustratore e nessuno potrà in avvenire scriverne senza consultar le pregevoli sue monografie. Con quest’ ultima pubblicazione egli non intese far la storia della valle di Diano, e di questo è a do-ersi, perchè certamente 1’ avrebbe dettata da pari suo, ma premessi pochi cenni storici frammentari pubblicò lo statuto di quel comune, i capitula, come allora chiamavansi, togliendoli da un codice formato nel 1363. E al testo fa precedere un breve sunto degli stessi, utilissimo per coloro che v. gliono farsi un concetto della legislazione statutaria delle nostre riviere senza subire la ettura dei capitula, piuttosto pesante per chi non ama addentrarsi nello studio di essi E un compendio molto ben fatto che ci basta per formarci una chiara idea del modo con cui il comune si reggeva, dei suoi officiali taluni dei quali come 1 raspern troviamo in altri statuti della riviera di ponente, a Noli per esempio, ma non a Genova; noto una particolarità ; che intervengono nei parlamenti e sono obbligati a prestare il giuramento sequelle i cittadini a datar dal 16.0 anno (il Rossi scrive 14.0 ma è un errore di stampa) mentre in generale m Liguria 1’ età in cui il cittadino acquistava i diritti politici e dovea sottostare agli obblighi corrispondenti era il 17« anno. Dopo la costituzione politica seguono le norme del diritto criminale e civile. E in complesso un’ utilissima pubblicazione che riunita a molte già comparse di altre comunità del Genovesato dovrà consultare chi in avvenire vorrà dettar la storia della Liguria non, come si fece sinora, limitata alle peripezie de la dominante, ma la storia di tutto il Genovesato, dal Corvo a Monaco e dal giogo al mare, come dicevasi nel medio evo. (U. A.) Alcune lettere di illustri italiane tratte dagli autografi in Trivulziana [per cura di Emilio Motta]. Bellinzona, Colombi, 1902 ; in-8, di pp. 30. Sono dodici le donne italiane di cui si producono altrettante lettere trascrivendole dagli autografi che si conservano nella doviziosa biblioteca privata Invulzio in Milano. La prima è della Veronica Gambara in data 27 mag-S1® J547> diretta a Sigismondo d’Este; ne segue una di Margherita Tri-vulzio Borromeo, la madre del cardinale Federigo, e zia di S. Carlo col quale ebbe lunga corrispondenza serbata nell’Ambrosiana; la presente è'scritta da Arona e accompagna a Giustina Trivulzio d’Este, la moglie del citato Sigismondo, il dono di una trotta, da lei stessa pescata nel lago. Posteriore di quasi due secoli, la terza appartiene ad una comica famosa, e non mediocre scrittrice, Elena Virginia Riccoboni Balletti moglie di Luigi (non Antonio che fu il suoceroj, la quale scrisse una lettera sulla traduzione francese della GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 389 Gerusalemme liberala fatta dal Mirabaud (non Mirabeau) di cui appunto quivi discorre. La lettera non ha indirizzo nè data, ma può agevolmente ascriversi al 1725, e poiché il vocativo dice: « Sig.r Abate mio Sig.re » riesce facile rilevare, anche per la parte sostanziale, che fu da lei scritta all’abate Conti. Il giornale di cui quivi si parla deve essere il Giornale dei letterati, dove nel febbraio 1725 si legge un estratto o recensione intorno alla traduzione del Mirabaud. L’Ademollo ha dato di lei una larga notizia nel suo libro Una famiglia di comici italiani. Segue Maria Agnesi Mariani la quale scrive al p. Giovanni Crivelli per la ricerca di un libro scientifico, a cui tien dietro Elena Caminer Turra con il suo spirito e 1’ umorismo garbatamente satirico. L’improvvisatrice Bandettini si provvede di alcuni libri presso i noti Molini e Laudi, e Marianna Dionigi annunzia al marchese Giacomo Trivulzio l’imminente pubblicazione della sua opera archeologica sul Lazio. La nota Ginevra Fachini Canonici richiede pure al Trivulzio consiglio ed aiuto per la compilazione della sua biobibliografia femminile, dove vuol mettere sì 1’ età delle donne defunte, non delle viventi, chè sarebbe « inutile non solo ma forse male augurato ». Teresa Confalonieri Casati scrive da Vienna 1’ 11 dicembre 1823 alla marchesa Beatrice Trivulzio, ed è lettera dì molta importanza perchè riferisce il modo benevolo onde venne accolta dall’ Imperatore, sfatando la leggenda creata a questo proposiito ; è risaputo che si recò a chiedere la grazia dell’ infelice suo consorte. Pietoso ufficio domanda al irivulzio la moglie di Giulio Perticari, richiedendogli Γ ultima lettera a lei indirizzata dall’ amato consorte, ch’ella credeva fosse ancora in sue mani ; e la Teresa Pikler Monti (breva letterina aggiunta in nota) ringrazia per la restituzione di due volumi del poema dantesco appartenuti al marito, e desidera ,riavere le postille al Purgatorio. Con i nomi di Clarina Mosconi e di Teresa Albrizzi Teotochi, le quali comunicano notizie di sè e degli amici alla marchesa Beatrice, si chiude questa gustosa raccoltina messa fuori con ottimo divisamente dal solerte editore in occasione di nozze. GIUSEPPE SOFFITTO. Intorno alla « Quaestio de aqua et terra » attrito/ita a Dante, Memoria I. La controversia deir acqua e della terra prima e dopo di Dante. Torino, Clausen, 1902 ; in-4, di pp. 87 con tav. (Estr. dalle Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Tonno, Ser. II, T. I). Da qualche tempo si dibatte fra i dantisti e gli scienziati la quistione se 1 indicata operetta, uscita alla luce nel secolo XVI, debba credersi veramente opera del grande poeta, o non sia più tosto lavoro assai tardo da ascriversi a quello stesso Benedetto Moncetti che se ne fece per il primo editore e che lo volle far passare come scrittura dell’Alighieri. Ora il B. che è in ugual tempo un critico acuto ed erudito nel fatto della letteratura, e scienziato di non comune valore, si è assunto il carico di esaminare a priori ed a fondo la Quaestio ricercandone diligentemente le fonti, e tessendo la storia della dottrina esposta in essa, per vedere da quale scuola filosofica sia derivata e stabilire così il tempo in cui approssimativamente venne dettata. Egli divide in due parti il suo lavoro. La prima, che ora si pubblica, « prendendo le mosse dal momento che apparve nella storia il concetto della sfericità della terra », viene « studiando le varie soluzioni date al problema della reciproca posizione del-1’ acqua e della terra, continuamente paragonandole con la soluzione che ce ne fornisce 1’ autore della Quaestio ». Quattro sono i capitoli onde viene da lui divisa la trattazione ; il primo riferisce le dottrine e le opinioni dei filosofi e scienziati greco-romani ; dei Padri dell’oriente e dell’occidente ; dei cosmografi medievali : il secondo quelle degli scrittori arabi ed ebrei : il terzo dei cosmografi, dei scienziati e degli enciclopedisti dei secoli ΧΙ1-ΧΛ : il quarto finalmente dei teologi scolastici ed esegeti sacri fioriti ne secoli XII-X\ . Da 39° GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA questi larga e metodica rassegna critica, si esclude che la Quaestio abbia vera e diretta relazione con gli antichi scrittori greco - latini, o arabi ed ebrei, e neppure con quelli appartenenti al nuovo popolo latino; che se qualche rassomiglianza si riscontra con taluno di questi, essa è del tutto apparente e non sostanziale. Ritiene invece il B. che il lavoro anonimo sia nato nel tempo, in cui la scolastica era caduta in basso e s’erano fatte vive le lotte filosofico-teologiche fra tomisti, scotisti ed agostiniani ; anzi gli sembra di aver baste-voli argomenti per dimostrare come derivi per diritta linea dalla scuola agostiniana, e se ne possa sospettare autore il Moncetti, il quale forse dettò in giovinezza questo trattatello sì come esercitazione scolastica. A Dante non si può nè si deve quindi attribuire, per le ragioni clic formeranno argomento della seconda Memoria del nostro autore. SPIGOLATURE E NOTIZIE. .·. Un Guglielmo canonico d’Ivrea confessa in Genova il 28 settembre 1216 d’ essere debitore del poeta Lanfranco cappellano di S. Andrea della Porta, della somma di lire quattro di genovini, per la quale presta sicurtà piete Rolando di San Pietro della Porta. Il canonico d’ Ivrea era venuto a Genova per passare in Terrasanta nella quinta crociata. Nel 1302 il 9 agosto, Savino de Solerio arcidiacono d’ Ivrea, canonico di S. Lorenzo in Genova fino dal 1298, delega al prevosto d’Ivrea una causa a lui affidata dal Pontefice. Il 16 dicembre 1329 faceva testamento lasciando erede, fra .gli altri, Pietro de Solerio che pure era canonico della cattedrale medesima. ^ ' -FERRETTO, Due canonici d’Ivrea a Genova nei secoli XIII c XIV, in Bollettino storico-bibliografico subalpino, VII, 132;. .·. Allorquando sul cadere del secolo XVI la Certosa di S. Martino in Napoli, venne radicalmente trasformata, gli artefici che vi lavorarono di scalpello, sono per la maggior parte carraresi. Primi fra questi Felice de Felice, Raimo Bregantino, Fabrizio de Guido; ai quali appaiono più tardi compagni Alessandro de Felice, Salvatore Ferrara, Nicola Botti, Jaçopo Lazzaro (Spinazzola, La Certosa di S. Martino, in Napoli nobilissima, XI, minò sgg.). - ■ . Nella Rivista di storia, arte, archeologia della Provincia d’ .-Ilessali-di ia (A. XI, fase. VI, p. 1 o 1J è pubblicata dal Bossola la Conventio inter Comune Januae et Marchionali de Massa, con annotazioni. Egli afferma che questo documento viene prodotto sopra una copia fatta rilevare dal Liber lurium da Pegoloto Uguccione de’ Gherardini Podestà di Genova nel 16 r 7. Evidentemente qui la data è sbagliata, perchè Pegoloto fu Podestà nel 1233. La convenzione poi è notissima, trovandosi stampata nel Liber lurium, vol. I, pp. 277-280, e la presente ristampa in confronto di quel testo ap-parisce in più luoghi inesatta e lacunosa. .·. Il naturalista Gio. Batta Brocchi di Bassano nel 1821 fu a Bologna e si intrattenne con Antonio Bertoloni « uno dei più rinomati botanici ita .m »· Attendava alla compilazione della Flora ed aveva alcune collabora-r'Cr’i COmC la Grimaldi di Genova a che ha messo insieme una bella serie di libri spettanti a questa scienza », e la Carolina Marchesi d’Ancona « giovane cantatrice che ha lasciato il teatro e che si è dedicata alla botanica ». Entro in corrispondenza scientifica con la contessa Elisabetta Fiorini Mazzanti alunna del Brocchi, e ne ebbe la cooperazione per l’opera che stava compo-nendo., i Cfr. Antologia Veneta, III, 172). GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 391 .·. Fra i predicanti italiani in Valtellina e nei Grigioni dal 1555 'n P°* figurano: « Georgius Stephanus Genuensis, Joannes Jacobus .Mai neri us a Janua, Sylvester Confortus Genuensis (1603), Joh. Paulus Sylvani ex Insula Corsica (1714). (Cfr. Archivio Stor. Lombardo, a. XXIX, 469 sgg.). PIER CARLO JOLIVOT. Si spegneva testé in Francia, in mezzo alle affettuose cure della famiglia, il cav. Carlo Jolivot, nato nel 1830 a Chalon-sur-Saone. Già sotto Prefetto sotto 1’ Impero, chiamato dal Barone Boyer di Santa Susanna (nominato Governatore generale del Principato di Monaco) nella qualita di Segretario, non solo ne adempì con intelligenza e zelo le funzioni, ma ne seguì con affetto le artistiche inclinazioni. Le ore che gli sopravanzavano al-l’ufficio, tutte rivolse con particolare interessamento allo studio della numismatica monachese ; ed essendo stata pubblicata dallo scrivente nel 1868 la prima parte delle Monete dei Grimaldi Principi di Monaco, mercè lunghe e diligenti ricerche, praticate negli Archivi del Principato, fu in grado di riempire una lacuna, quella cioè delle contraffazioni, che per lunghi lustri si fecero nella zecca dei Grimaldi, delle monete destinate col nome di luigini al commercio d’Oriente, e tale suo libro porta per titolo: Médaillés et monnajes de Monaco, stampato nel 1885. Pregevoli appunti vedevano pure la luce sul [ournal de Monaco ; ma vogliono un ricordo particolare lo scritto Sur tuie pièçe inedite d’Honoré 11, Prince de Monaco, venuto in luce nelle colonne della Rivista Numismatica del Belgio nel 1885 e 1’ altro un Tiers de Son de Monaco, accolto nell’Annuario numismatico di Francia nel 1890. Le cure coscienziose e costanti, che il Jolivot impiegò nel chiarire un punto importante della storia di Monaco ben meritano un premio ; nè credo alcuno più degno possa essergli dato, che col ricordarne le benemerenze e coll’ annunziarne la finale dipartita in un Periodico, che delle cose storiche liguri viene giustamente ritenuto l’Archivio. Girolamo Rossi APPUNTI DI BIBLIOGRAFIA LIGURE. A. Quinto al mare (in II Cittadino, 1902, n. 206). Angeli Djego. Il poeta di Roma [Goffredo Mameli], (in II Marzocco, a. VII, n. 32). Capellini Giovanni. Nella inaugurazione del monumento a Umberto I in Portovenere, parole. Roma, Cecchini, 1902; in-8, di pp. 7· — Note esplicative della carta geologica dei dintorni del golfo di Spezia e vai di Magra inferiore. Roma, Bertero, 1902 ; in-8, di pp. 46, con carta. Caolini A. Il pensiero politico dì Dante (in Giornale Dantesco, a. x, 1 13* [Relazioni fra il concetto filosofico-politico di Dante e quello di G. Mazzini], Castellini Pietro. Monumentale basilica dei Fieschi a San Salvatore di Lavagna. Cenni storici. Genova, tip. della Gioventù, 1902; in-16, di pp. 54. — Santuario di N. S. di Roverano. Genova, tip. arcivescovile, 1902; in-16, di pp. 7. . — Gli oliveti nel chiavarese : cenni storici (in II Cittadino, n. 234). Cervetto L. A. Il Palazzo di S. Giorgio. Nuovi contributi alla sua storia (in II Cittadino, 1902, n. 214-215). 392 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Colonna De Cesari Rocca. Simon Boccanegra et la Corse (in La Revtie d’ Europe, 1902, a. Vili, n. 9). Del Cerko Emilio. Amò Giuseppe Mazzini ? (in Rivista moderna, politica e letteraria, 1902, n. 16). • Ferretto Arturo. Due canonici d’Ivrea a Genova nei secoli xjii e xiv (in Bollettino storico-bibliografico subalpino, a. VII, n. 2-4, p. 232). Francesco (P. i Zaverio da S. Lorenzo della Costa. Il Convento ed i Cappuccini in Pontedecimo; cenni storici. Genova, tip. Pellas, 1902; in-8, di pp. 68. Gabotto Ferdinando. Il Tirteo del Risorgimento italiano [Goffredo Mameli] (in Gazzetta del Popolo d. Doni., 1902, 11. 53Ì. Gerola Giuseppe. La dominazione genovese in Creta. Rovereto, Grandi, 1902; in-8, dì pp. 44 (Estr. dagli Atti della I. R. Accademia degli Agiati di Rovereto, ser. in, voi. viti'. Giuda della città e del golfo della Spezia con una carta topografica. La Spezia, Zappa, 1903, in-8, di pp. 220. Guidoni Gerolamo. Una nota inedita sulla Lavina di Corniglia. Spezia, Argiroffo, 1902; in-16, di pp. 5. Hòrstel \\ . Der Golf von Spezia von W. H. mit acht Abbildungen nach Aquarellen von M. Roebbecke. In Uber Land und Meer, 1 lieft 19^3' PP· 49-57 (con 8 tìgg.) Il XXI congresso dei geologi italiani alla Spezia nel settembre 1902. La Spezia, Zappa, 1902 ; di pp. 15. Lagomaggiore N. e Mezzana N. Contributo allo studio dei nomi volgari delle piante in Liguria. Genova, Ciminago, 1902; in-8, di pp. 74. Luzio Alessandro. Goffredo Mameli (in 11 Corriere della sera, a. xxvil, n. 198). Manfroni Camillo. Il piano della campagna navale veneto - aragonese del 1351 contro Genova (in Rivista Marittima, 1902, fase. Vili). Mazzini Ubaldo. A spedission de Caraa, sonetti in vernacolo spezzino. Terza edizione completa illustrata con acquerelli del pittore Umberto Vico. La Spezia, Zappa, 1902: in-8, di pp. 38 n. n. ; con fìg. M[azzini Ubaldo], Di tre ottimi dipinti di autori finora ignoti nella Chiesa di Santa Maria [della Spezia] (in Corriere della Spezia, 1902, n. 41). Memorie delli Santi Martiri Nazaro e Celso e della loro Chiesa in Albaro fin II Cittadino, 1902, n. 207). P. F. Pino e S. Terenziano (in II Cittadino, n. 241). Peragallo Prospero. Cristoforo Colombo e le accuse del Dottore Cesare Lombroso. Genova, Papini, 1902 ; in-8, di pp. 90. PlEROTTI MATTEO. Sulle montagne di marmo [di CarraraJ in II Secolo XX, ottobre, 1902, n. v, pp. 387-400, con 32 figg. Podestà Francesco. Montesignano, Sant’Eusebio, Serrino e la Doria: escursione storica. Genova, tip. della Gioventù, 1902, in-16, di pp. 44. Poggi Vittorio. Gli antichi statuti di Carpasio (21 luglio 1433)· Torino, Paravia, 1902 ; in-8. di pp. 38. Sturlese Piero. L’eroe di Calafatimi. 15 maggio 1860. Discors.o letto nel teatro sociale di Camogli, maggio 1902. Chiavari, Raffo, 1902; in-8, di pp. 45 - [Si parla di Simone Schiaffino da Camogli]. Taramelli Antonio. Il Chiostro di S. Andrea a Genova (in L'Arte, 1902, fase, vu-vin). Giovanni Da Pozzo amministratore responsabile. PUBBLICAZIONI RICEVUTE Contributo allo studio dei nomi volgari delle piante in Liguria di N. Lagomaggiore e N. Mezzana. Genova, Ciminago, 1902. FERDINANDO Neri. Le Abbazie degli stolti in Piemonte nei secoli XV e XV/ (Estr. dal Giornale stor. d. lett. ital., 1902, vol. XL), in-8. PIERO Sturlese. L'eroe di Calatafimi. /5 maggio 1860. Discorso letto nel Teatro sociale di Camogli, maggio, 1902. Chiavari, Raffo, 1902. Una lettera di Luigi Muzzi a Pietro Contrucci edita a cura di Alfredo Chiti, Pistoia, Niccolai, 1902. Cristoforo Colombo e le accuse del Dottore Cesare Lombroso. Studi di Prospero Pe-ragallo. Genova, Papini, 1902. Francesco Flamini. Storia della letteratura italiana. Livorno, Giusti, 1902. ALFREDO Comandini. L’ /talia nei cento anni del secolo XIX giorno per giorno illustrata. Milano, Vallardi, 1900-1901 ; disp. 31. G. B. FeRRACINA. Le relazioni di Giovanni Bonifaccio storico trevigiano colle città di Belluno e di Feltre (sec. XVZ-XVZI). Feltre, tip. Panfilo Castaldi, 1901. M. Antonio Flaminio, studio di Ercole CuccoLI con documenti inediti. Bologna, Zanichelli, 1897. C. PIETRO Castellini. Monumentale Basilica dei Fieschi a San Salvatore di Lavagna. Cenni storici. Genova, tip. della Gioventù, 1902. 1nventario del li. Archivio di Stato di Cagliari e notizie delle carte conservate nei più notevoli archivi comunali, vescovili e capitolari della Sardegna. Cagliari, Yaldès, 1902. Amedeo Pellegrini. Relazioni inedite di Ambasciatori Lucchesi alla Corte di Vienna (sec. XV//-XV//T). Lucca, Pellicci (Siena, tip. dcll’Ancora) 1902. Anton Francesco Doni. Lettere scelte per cura di Giuseppe Petraglione. Livorno, Giusti, 1902. G. B. FERRACINA. Lettere inedite dirette a Mons. Bartolomeo Villabmna da dotti ammiratori ed amici (sec. XVZZZ-X/X). Feltre, tip. Castaldi, 1902. PAOLO SEGATO. Una novella di Alberto Bitzius tradotta in verttacolo feltrino preceduta da ccmii sulla fonetica del medesimo. Feltre, tip. Castaldi, 1902. P. Sf.gato. A Bitzius e la letteratura svizzera. Roma, 1902. Annali di Alessandria di GIROLAMO GhiLINI annotati, documentati e continuati da Amilcare Bossola. Alessandria, Piccone, 1902. Vol. I, disp. ia, 2*. Vittorio Poggi. Gli antichi statuti di Carpaste (21 luglio 1433). Torino, Paravia, 1902. Gemma Cenzatti. Alfonso De Lamartine e V Italia. Livorno, Giusti, 1903. Carlo Caselli. Diavolino burattino misterioso c le sue avventure alla Spezia. Palermo, Randron, T902. GïORNALE storico E LETTERARIO DELLA M. Sterzi : Iacopo Cicognini. Cap. III. La drammatica, pag. 393 — A. Ròndani : Origine della famiglia Rodari, pag. 433 — VARIETA’: M. Staglieno: Un furto di sacre reliquie dalla Badìa di Sestri nel 1402, pag. 449 — BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO: Si parla di: F. Podestà (U.Assereto) pag. 457 — ANNUNZI ANALTICI: Si parla di: L. Tanfani Centofanti (G. S.); G. Capellini (M.); F. Neri; A. Chiti; P. Castellini; P. Sturlese; L. Mnzzi; M. Sterzi; E. Capasso; M.H. Weil; Delagrave; F. Neri; A. Ferretto; R. Honig; G. Sforza; L. G. Pelissier; A. D’Ancona; A. Comandini; C. Vanbianchi; G. Boffito; S. Zanelli; F. Gabotto; F. Eusebio; F. Cristoferi, pag. 460 — SPIGOLATURE E NOTIZIE, pag. 471 — APPUNTI Dì BTBT.TOGRAFIA LIGURE, pag. 473. diretto da ACHILLE NERI e ANNO III. FA SC. 11-12 Novembre - Dicetnbre IÇ02 SOMMARIO DIREZIONE Genova - Corso Mentana 43-12 LA SPEZIA Società d’Incoraggiamento editrice AMMINISTRAZIONE La Spezia - Amministrazione del Giornale Tip. di Francesco Zappa AVVERTENZE Il giornale si pubblica in fascicoli bimensili di 80 pagine. Il prezzo dell’ associazione annua è di L. 10 — Per \ ’ estero fr. 11. — I soci della Società Ligure di Storia Patria di Genova, e quelli della Società d’ Incoraggiamento della Spezia godono di uno speciale abbonamento di favore a Lire SEI. La Direzione concede ai propri collaboratori 25 estratti gratuiti dei loro scritti. Coloro che desiderassero un numero maggiore di esemplari potranno trattare direttamente col tipografo. AI SIGNORI ASSOCIATI. Questo fascicolo per ragioni tipografiche affatto indipendenti dalla direzione esce assai in ritardo. Ci proponiamo di ristabilire, quanto è possibile, la regolarità della pubblicazione. Si fa viva preghiera a quei pochi fra i signori associati che non hanno ancora pagato il prezzo dell’associazione per il 1902, di spedirlo con qualche sollecitudine mediante vaglia-cartolina all’ Amministrazione del Giornale, alla Sp62Ìa. L’ Amministrazione PREZZO DEL PRESENTE FASCICOLO: L. 2.50 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 3Q3 JACOPO CICOGNINI Capitolo III. LA DRAMMATICA. « Aveva applicato 1’ animo suo in modo straordinario al culto della poesia, alla quale si sentiva portato per natura, ma era talmente acceso d’ardore per la drammatica, da non studiar giorno e notte altro che argomenti di drammi, meditarne e comporne. Conosceva tutte le compagnie d’ attori ; non ne viveva uno un po’ famoso, ch’egli non l'avesse udito col massimo interesse e colla massima attenzione; non ve n’era alcuno, di cui non fosse strettamente amico, e eh’ egli non colmasse di favori e benefizj, e si dice che andasse a tal punto di pazzia da affidare a Fritellino, mimo allora notissimo un figlio suo legittimo perchè lo educasse al teatro ». Così, non scevro forse di qualche esagerazione, ci lasciò scritto del nostro Jacopo, quale poeta comico, il contemporaneo Jano Nicio Eritreo. Ma certamente egli dovè spiegare in questo genere di letteratura una certa operosità, coronata da buon successo, se il Quadrio nel tomo quarto della Volgar Poesia là dove tratta dell’uso di scriver commedie in prosa, dà una particolar importanza all’esempio, offerto a questo proposito colla Finta Mora da Jacopo Cicognini, uomo, egli dice presso a poco, di grandissima autorità ai suoi tempi. Lasciando da parte i giudizj altrui, studieremo l’opera del Nostro, esaminando prima il componimento d’intreccio sacro e profano, poi la commedia di carattere ed infine il dramma lirico, composto per musica. Di Jacopo Cicognini van per le stampe, non più rinnovate dopo 1’ edizion principe, tre sole Sacre Rappresentazioni ed un dramma profano, la Finta Mora. Le tre prime sono: L'Arcangelo Raffaello, pubblicata nel 1623 ; il Martirio di S. Agata dell’ anno seguente, ed il Trionfo di David, opera postuma, che venne in luce pochi mesi dopo la morte dell’ autore. Sebbene 1’ autore nella prefazione alla Finta Mora faccia allusione ad un gran numero di drammi suoi sacri e profani, a noi non fu dato che di rinvenirne per intero altri due soli: l’uno profano, l’altro sacro, il quale per la sua mediocrità merita di rimanere ignoto nel manoscritto, conservato nella Biblioteca del Semi- Giom. St. e Lett. della Liguria 26 394 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA nario di Firenze, come v’ è rimasto fino ad ora. Pure, se le Vittorie di S. Tecla (chè tale n’ è il titolo) non possiedono pregi artistici, son preziose per il ricordo ben determinato, d’altri consimili lavori del Nostro. La Verginità infatti, che ne recitava il prologo davanti alle monache, per le quali, come già il Cecchi, Jacopo dovè scriver molte delle sue composizioni, richiamava alla loro memoria altri spettacoli di quel genere, ai quali esse avevano assistito : io quella fui che ne’ trascorsi tempi (memorabile istoria !) della figlia di Iefte udir vi fei : io di Lucinda, vergine prudente, in questa nobil scena dimostrai la costanza nell’ osservar il verginal suo voto. e per la verginella Dorotea sparger non men vi fei lacrime di pietade : io già per meraviglia nell’ ascoltar la regia Caterina superar ....... arcar vi fei le ciglia ; e non men di Cecilia vi posi innanzi agli occhi.... (i) Questi versi adunque c’ inducono ad aggiungere alle quattro, già ricordate, almeno altre cinque Sacre Rappresentazioni, delle quali non siamo riusciti a trovar nuli’ altro fuor che gli argomenti, contenuti negli accenni del prologo, che in parte ab· biam trascritto. Certo che ci sarebbe stato utilissimo saper l’anno, in cui i miracoli di S. Tecla prestaron l’intreccio al dramma di Jacopo, perchè avremmo potuto conoscere a qual tempo della sua vita dovessero ascriversi queste composizioni, e giudicare dell’operosità drammatica del Nostro: ma il manoscritto non ci soccorre col minimo accenno. Comunque sia, leggendo con attenzione i drammi, che di lui ci rimangono, si scorge facilmente il carattere che li distingue. La solenne semplicità dei racconti biblici o la mistica commozione, che un tempo riusciva a suscitar negli uditori una pia leggenda, ora (i) Firenze, Bibliot. del Seminario, Cod. C | V [ 25, Commedie di Giacomo Cicognini: contiene: Il Voto d’Orante e Le Vittorie di S. Tecla. GIORNALE STORICO £ LETTERARIO DELLA LIGURIA 395 non avrebbero più appagato le esigenze d’un pubblico, in cui la fede era venuta man mano illanguidendosi o mutandosi. Perciò il nostro Jacopo, che desiderava unire al pregio intrinseco dei suoi drammi il plauso popolare, pur obbedendo (nei primi tempi almeno) alle tre unità aristoteliche, voile foggiare, in parte seguendo, in parte ampliando le teorie del Cecchi, un componimento, in cui l’elemento tragico e l’elemento comico si contemperassero a vicenda, per aver modo in tal .guisa di tessere attorno al racconto biblico o alla pia leggenda un vero romanzo d’avventura. È inutile aggiungere che in prevalenza l’intreccio fantastico è costituito da storie d’amore e da tranelli di figli scialacquatori, tesi a padri spilorci. Noteremo piuttosto come, pur non avendo mai usato parole sconcie ed equivoche per suscitare il riso, cosa di cui giustamente si vanta l’autore (i), alcune scene, più degne d’una commedia dell’arte, che d’un dramma religioso, servan solo a distruggere ogni e qualunque idea di tragica grandiosità, cui pur talvolta il Cicognini sa sollevarsi. Infatti qui il personaggio destinato a far ridere non è uno solo, e tale da far sorger nell’ animo di chi ascolta un fuggevole ricordo dei contrasti della vita, come ad esempio il matto, che serve in un certo modo a conferire maggior grandiosità alla disperazione di Re Lear, ma le scene comiche in questi drammi son svolte troppo ampiamente, e con cura eccessiva di particolari, in modo da far dimenticare del tutto l’elemento tragico, che il poeta cerca d’intrecciar con esse. Onde segue che il Santo (come, ad esempio, nelle Vittorie di S. Tecla), sebbene dia il nome al dramma, v’ha poi la minima parte sì che le suore domenicane, le quali ne erano spettatrici, piuttosto d’edificarsi al ricordo delle virtù della martire, dovevan ridere e divertirsi, come fosser davanti a uno spettacolo, dato dai comici dell’ arte. Che cosa divenissero sotto la penna del Cicognini, i brevi tratti della narrazione biblica, ce lo mostrerà per tutti gli altri, la Celeste Guida, che noi ora verremo esaminando, in rapporto al dramma II Tobia (2), composto sullo stesso argomento dal Cecchi quarantatre anni prima, e alla Sacra Rappresentazione (3), che li) Prefaz. alla Finta Mora. (2) Cecchi, Drammi Spirituali. Firenze, I.e Mounier; 1899. (3) D’Ancona. Sacre Rappresentazioni, vol. I, p. 97. 39Ô GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA già da un secolo almeno rallegrava le feste del contado fiorentino. In tal modo ci porremo in grado di assistere al lento estinguersi del sentimento religioso, riflesso nei tre componimenti, scritti in tre diversi periodi di tempo, e di apprezzare il modo, con cui si svolsero, e si mutarono i criteri astistici, in rapporto al modificarsi della fede. L’argomento adunque è la storia di Tobia. Sulla scena primitiva dell’ antico ludo sacro da un lato si fingeva la città di Ninive coll’interno della Reggia, * col carcere destinato ai prigionieri di guerra, con una strada e colla casa di Tobia: di riscontro si supponeva situata l’altra città di Rages colle case di Gabello e di Raguello, mentre nel mezzo della scena era rappresentato il Tigri, che col suo corso veniva così a divider le due città. In tal modo i personaggi facilmente mu-tavan di paese col far pochi passi da una parte o dall’altra, lasciando che 1’ agile fantasia dello spettatore colmasse tuttociò, che risultava d'inverosimile. L’azione, che prendeva le mosse dalla partenza di Tobiuzzo per Rages, e terminava col suo ritorno, veniva a svolgersi ora in uno, ora in altro punto della scena, con quella medesima succession logica, con cui è tratteggiata nella Bibbia; ed i dialoghi dei personaggi non eran che larghe parafrasi dei concetti, esposti nei testi sacri. La quale estrema semplicità di mezzi artistici, unita a certi scoppi di passione umana, che qua e là s’agitano e fremono per entro 1’ ottava, ci rispecchia 1’ animo facilmente credulo, ma fervido nella fede religiosa del popolo cittadino e villereccio di Toscana all’aprirsi del secolo decimosesto. Sulla fine del '500 il Cecchi si accinse a tessere il Tobia sopra questo « mistero da zazzere », com’egli chiamava le primitive sacre rappresentazioni, condotte secondo le norme antiche. Lasciata da parte ogni idea di portar sulla scena quel cumulo d’avventure, che trovammo riprodotte per intero nella Sacra Rappresentazione, or ora esaminata, con accorgimento d’ arte ormai progredita suppose avvenuta la partenza di Tobiuzzo, restrinse il tempo alla durata d’un corso di sole, e si limitò a dipingere in un quadro fantastico la vita intima della casa patriarcale di Tobia nel giorno, in cui doveva tornare il figlio. L’ elemento profano occupa qui la maggior parte del dramma, che può dirsi sacro per l’argomento, onde trae 1’origin sua, non per l’intima essenza. La prò- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 397 tagonista è Anna, la sposa del pio Tobia, un tipo ben delineato di ciarliera popolana fiorentina del '500, intenta a guadagnarsi il pane al telaio, scrupolosa dell’economia domestica, e perciò in continuo contrasto col vecchio consorte, tutto fiducioso in Dio e dimentico d’ ogni affetto terreno. Attorno ad essa l’amica Samuella, che s’intrattiene a parlar di mode, e che, pur che lo possa, è lieta di concluder matrimoni; i servi, che si lamentan della tirannia d’Anna; la macchietta gustosissima di Capocchio, burlato dall’ arguta Stafira, e indotto a confessare i furti dei contadini a danno della padrona; il colloquio di Divora, il parassita, con Sottile, il sensale di matrimonj, concorron tutti colla parola e coll’ azione a rappresentarci la vita popolana di que’ tempi, ritratta dal Cecchi negli elementi suoi più comici, colla profondità d’ acuto osservatore e colla gaiezza di non comune umorista. Là dove nel suo dramma s’incontra l’elemento sacromorale, che ne tradisce l’origine e in parte lo scopo religioso, ne scapita la rappresentazion della vita. Infatti solo in tre luoghi il Tobia mirava a edificare più che a divertir l’uditorio: nella prima scena dell’atto secondo, quando Nabor molto inopportunamente ripete la lunga sequela dei consigli biblici, dati a Tobiuzzo in procinto di partire dal vecchio padre cieco: nella scena IV del penultim’ atto, in cui Sottile legge la prolissa lettera di Tobiuzzo; e finalmente nelle scene VI e VII dell’ultimo atto, nelle quali, sempre seguendo il testo biblico Tobiuzzo risana il padre, ed Azaria svela l’essere suo celeste. Eccetto queste, le altre potrebbero servire benissimo a una commedia profana di costume ; il che ci mostra quanto fosser mutate le esigenze del pubblico, in cui la religione aveva perduto 1 antico vigore, sì da esser pretesto più che argomento ai drammi, che da essa prendevano il nome. Una commedia profana di costume, noi dicemmo il Tobia; infatti non v è ombra d intreccio, intesa questa parola nel senso di nodo avviluppato d’azioni, concatenantesi tra loro. Osserviamo ora, come invece pel suo dramma si valesse di questa medesima storia sacra, quarantatre anni dopo il fecondo commediografo fiorentino, il nostro Jacopo Cicognini. Siamo anche qui all’ultimo giorno dell’assenza di Tobiuzzo: l’azione si svolge sulla strada, dirimpetto alla casa di Tobia. Lelio, un finto schiavo, ringrazia Astradoro, un Tartuffe ebraico, del pit- 39$ GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA tore, che gli ha procurato, e gli svela Tesser suo: Lelio non è nè uomo, nè schiavo, ma è OristiIla, figlia di Gabello di Rages, la quale, travestitasi a paggio, se n’ è venuta a Ninive col pretesto di visitare lo zio Domizio, in realtà però perchè spinta dall’ amore furioso, che ha concepito per Corinto, quando questo ninivita, ammalatosi in Rages, fu accolto ospitalmente e curato nella casa di Gabello. Per un’imboscata di ladroni, in cui era caduta la carovana, colla quale essa viaggiava, fu derubata di tutto, ed entrata in Ninive così travestita ha salvato la vita a Corinto, che stava per rimaner vittima d’ignoti assalitori. E sopraggiunto il podestà, dopo che questi ultimi s’eran dileguati colla fuga, quegli aveva multato Oristilla per un talento; e siccome per l’assalto subito dai ladroni, essa non poteva pagar subito, era stata posta come schiava in casa di Tobia, uomo molto autorevole in Ninive. Corinto, che come gli altri la credeva un uomo, aveva promesso al generoso salvatore di pagare egli stesso il talento, e intanto s’era stretto con lui per mezzo di una fortissima amicizia. E Corinto, dopo aver confessato al creduto paggio il suo ardente amore per Sara, 1’ aveva pregato di procurargli un ritratto di questa donna, vantata la più bella d’Oriente. Perciò Oristilla, nell’intento di rinfocolare l’antico amore, che Corinto le aveva giurato, s’era nascostamente fatta ritrarre nelle sue vere sembianze di donna dal pittore, procuratole da Astradoro, ed aveva fatto credere all’amante infedele che quella fosse l’effigie della vera Sara. Partito il sedicente Lelio, cui Astradoro ha carpito uno smeraldo, Anna, che ritiene quest’ ultimo per « la virtù stessa in persona », gli confida la sua disperazione pel figlio lontano; ed esso, colla scusa della carità, trova modo d’estorcere una pecora alla povera donna. Dopo una scena d’amore tra la serva Rosetta ed il servo Falchetto, ecco i fratelli Lidio e Corinto, cugini di Tobiuzzo, il primo dei quali è assennato e devoto a Dio, il secondo invece è dedito agli amori. Lidio se ne va in sinagoga a pregare pel cugino lontano, mentre Corinto, rimasto solo, sfoga l’impeto della passione per Sara : in quel momento sopraggiunge a frenare l’incendio amoroso del padrone il servo Sbarra, che gli ricorda i sette mariti, morti nella prima notte di matrimonio al lato di quella donna, ed il suo dovere invece di pagare il talento per Lelio, il giovane straniero, che per lui ha esposto la vita. Ma GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 399 Corinto, per quanto ben disposto, non ha denaro per mantener la promessa; e perciò combina con Sbarra un tranello da fare al vecchio Domizio per carpirgli il talento necessario: un coro di pellegrini, che chiedono a Tobia ospitalità, chiude il primo atto. , II atto — Gabello di Rages, padre d’Oristilla, venuto a sapere, che i ladroni avevano assalito la carovana, in cui si trovava la figlia, aveva mandato al fratello Domizio, dimorante in Ninive dei talenti por mezzo d’un messer Vitale, affinché Domizio facesse ricerca della nepote Oristilla, che si credeva rubata dai ladroni : su questo s’ aggira il tranello. Corinto riesce a trar fuori di casa Domizio, mentre Astradoro d’accordo con Corinto e Falchetto, facendosi credere da messer Vitale il medico Domizio, riscuote i talenti, destinati al vecchio dottore. Scena amorosa tra il vero Domizio, ignaro della burla crudele, che gli era stata fatta, e monna Gioia, la quale a sua volta arde d’ amore per Lelio, da lei creduto uomo. Ili atto — Sdegno d’Anna, premurosa dell’ economia domestica, con Tobia, pronto invece a sacrificare quel poco, che ancor gli resta, per spirito di carità. Il vecchio se ne va in sinagoga, e sopraggiunge Astradoro, che interpreta il sogno delle sette ombre, raccontatogli da Anna; e, dopo un dialogo ironico per l’ipocrita tra Rosetta e Falchetto, ritorna in scena insieme a Sbarra, il servo di Corinto, che esige i talenti, carpiti a mes. Domizio, e che il cupido sacerdote voleva tener per sè. Quindi Oristilla, che ad ogni costo vuol risvegliare il primo amore in Corinto, combina con Astradoro un piano : essa, fingendosi evocata dal potere magico d’Astradoro, apparirà nelle sue sembianze di donna all’ amante infedele nella notte successiva. L ipocrita s’incontra poi con Anna, da cui col pretesto di far del bene si fa dare un capretto. Intanto Domizio per ottenere l’amore di Monna Gioia, con atto steso in settenarj, le fa completa donazione d’ogni suo avere : in quel momento i servi di Tobia prorompono in scena gridando la buona novella del ritorno di Tobiuzzo: un coro di fanciulle festanti per aver ottenuta la dote da un comitato (si direbbe oggi), presieduto da Tobia, chiude quest’atto. IV atto — Tobiuzzo sulle porte di Ninive presenta Sara, sua moglie, al padre; e Corinto, che se n’era innamorato per fama, udendo pronunciar quel nome, fugge in preda alla più 400 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA nera disperazione. Tobia iì vecchio manifesta il suo terrore per questo matrimonio dell’unico figlio con una donna, presso la quale eran già morti sette mariti, ma Azzaria lo rassicura dicendo che Asmodeo, il demone della lussuria, pel quale eran morti quei sette uomini, non avrebbe più avuto alcun potere su Tobiuzzo, perchè devoto a Dio; e, dopo il risanamento della cecità del padre, operato coi resti del pesce miracoloso, tutta la famiglia di Tobia ed il corteo nuziale se ne vanno. Quindi avviene l’apparizione di Lelio nelle sue vere sembianze d Oristilla, sotto il nome però di Sara, evocata dalle fìnte arti magiche d’Astradoro, davanti a Corinto, il quale le si dichiara servo per tutta la vita. Oristilla svela Tesser suo. Riconciliazione dei due amanti. Una burla infine, fatta da Rullo, servo di Domizio, a Falchetto, paggio di Corinto, per carpirgli una torta, dà fine all’ atto. V atto — I colpevoli del tranello, teso a Domizio, confessano la propria reità al vecchio, che nella gioia d’aver ritrovato la nepote Oristilla perdona a tutti. Astradoro, che, con singolare anacronismo, temeva il « Bargello », contento d’essersela scampata, promette di gettar la maschera dell’ ipocrisia, e di mutar vita. Corinto giura di sposar Oristilla, e Tobiuzzo rinnova le nozze con Sara. Infine, quando il vecchio Tobia col consentimento del figlio vuol dar la metà de’ proprj beni ad Azzaria, in ricompensa delle cure avute per Tobiuzzo, e della vista riacquistata, Azzaria rivela la sua essenza celeste, e, data loro la pace, gettando lampi scompare. S’ apre il cielo al solito, e tra canti e suoni finisce questa Sacra Rappresentazione. Come dunque si vede, contemporaneamente all’ azione narrata nel testo sacro, il dramma del Cicognini dà largo svolgimento alla parte profana, annodando tra loro azioni fantastiche e complicate. Nel Cecchi invece la trama del componimeato era semplicissima, ed invano vi si sarebbe cercato un nodo d’avventure: come mai quarantatrè anni dopo di lui nel dramma di Jacopo l’elemento sacro rimaneva soffocato dall’ elemento episodico - romanzesco ? Ognuno sa ormai qual tirannia abbia esercitato sulle menti il cattolicesimo nel secolo XVII: i pontefici, spaventati dal progresso trionfale della riforma di Lutero nei paesi d’ oltr’Alpe, nel fervor della riscossa, che trovò la più GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 40 I evidente manifestazione nel concilio di Trento, credettero di poter rinvigorire la fede, generalmente languida, coll’esagerare le forme esteriori del culto. Come era già avvenuto tre secoli prima, pullulavano allora per le terre d’Italia le Chiese, dedicate ai santi ed ai’ beati: ma se le cattedrali del '300 colle gotiche guglie o cogli svelti ordini di colonne della scuola toscana ti chiamano in alto tra l’aria e l’azzurro, ora invece tutto ti riconduce sulla terra, sì che il Santo piuttosto che rapirti nel mistico volo verso il cielo, scende sugli altari e sui frontoni dei templi nell’ampio panneggiamento marmoree, assiso sul flutto della nube, immoto e pesante come un masso di piombo, e intorno, intorno gli angeli pingui e paffuti, poggiati colle gambe robuste e nerborute sugli arabeschi dell’altare, con-traggono le linee del volto, e piegano il dorso sotto il peso sovrastante, mentre altri putti sorretti dai raggi dorati dell’ aureola e dalle sporgenze della nube marmorea ed immota, recano e palme e fiori. Ma le piccole ali, che spuntano dagli omeri rotondi non li sorreggono nel mistico volo, ma i fiori e le palme non cadono dalle loro mani, nè dalle tumide labbra esce la parola o la melodia paradisiaca. Chè, condannato dal terribile inquisitore il pensierose osava manifestarsi liberamente nella scienza o nell’arte, bruciato il libro, se non portava sulla copertina 1’ «imprimatur», era naturale che l’ingegno si piegasse contro sua voglia al volere della tirannia sacerdotale, tremenda se collegata, come in questo tempo, colla tirannia civile. Il teatro profano, che nel secolo precedente aveva potuto divertire i porporati della curia romana, ora non godeva più la libertà d’azione d’un tempo, ed il soverchio pietismo imponeva, come al resto, anche al dramma di rivestire almeno nelle forme esteriori alcun che di sacro. Prova ne sia la Spagna, dove la Chiesa disponeva delle cose a suo capriccio: quando Lope de Vega era nella sua più feconda maturità d: scrittore drammatico, e dava alla patria il grande teatro nazionale, un editto del Re nel 1598 (1) vietava ogni e qualunque rappresentazione pubblica di dramma profano, chiudendo così la questione sul teatro, tanto dibattuta dalla Chiesa. Lope dovè assoggettarvisi e schivò le censure ecclesiastiche solo componendo commedie, le quali, (i) TIK.NOR. Historia critica de la Litgraiitra Espanola, voi. 11. 402 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELL A LIGURIA pur contenendo in gran parte intrecci d’ amori e d’ avventure profane, traevano il titolo e la prima loro ragion d’essere da un racconto biblico, o da una pia leggenda (i). Nè diversamente fu costretto a far Γ altro creatore e perfezionatore del teatro spagnolo, Calderon, voglio dire, quando un nuovo editto, mezzo secolo dopo il primo, venne a proibire le commedie profane fra il 1646 ed il 1649 (2). In tale stato di cose anche in Italia sboccia in questo tempo una copiosa rifioritura di Sacre Rappresentazioni, che o tentan di fondere 1’ elemento profano col sacro, o, mantenendosi strettamente nel campo della fede (e son quelle scritte specialmente da religiosi), ci mostran una volta di più in quali tristi condizioni fosse caduto il cattolicesimo. Il Nostro preferì esser tra i primi, e, come abbiam potuto vedere nell esame dell’Arcangelo Raffaello, in tutti e quattro i drammi sacri, che di lui ci restano, come in quelli di Lope, la massima parte del componimento svolge un intreccio profano. Al qual proposito Antonio del Soldato, pubblicando il Trionfo di David usciva in queste parole: « La rappresentazione è tessuta sulla tela della S. Scrittura, con ornamenti e invenzioni di favole, facili a riconoscere, per protrarre 1’ azione, e renderla più piacevole » (3). Era naturale : 1’ uditorio incredulo ai miracoli de Santi e de Martiri, il quale, non appagandosi più della seplice rappresentazione di pie leggende, costringeva il Cecchi a svolger 1 elemento sacro nel quadro della vita contemporanea (4), induceva ora il Nostro ad andare in traccia d’azioni, tra loro annodantesi in modo complicato, capace di tener viva l’attenzione fino alla catastrofe: donde si spiega come la peripezia romanzesca venga a collegarsi nei drammi di Jacopo, allo stesso modo che nelle comedias do santos di Lope e di Calderon, all elemento sacro, in guisa da soffocarlo. E mentre l’umile spettatore dei primitivi misteri era in grado di supplire coll’ abbondante ed ingenua fantasia e col fervor della fede alle manchevolezze d un arte ancor rozza, il cattolico del ’6oo aveva bisogno che 1’ autore stesso (i) Ib., p. 357. — (2) Ib., vol. III. (3) Trionfo di David cit., « Protesto ai Lettori ». (4) Cecchi, op. cit., prologo alla S. Agnese, p. 168: « ....tale storia — oggi vedrete : e perchè è màninconica — in verità da sè, s è ingegnato di rallegrarla con parlar piacevoli — di serve, servidori e paiassiti il che se gli sarà venuto fatto — 1’ ara caro; se no, scusate ». GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 4Ο3 10 trasportasse coll’azione in fantastici regni! Al che Jacopo nostro oltre che dalle esigenze del pubblico, io credo fosse anche indotto dalle teorie e dall’esempio del primo dei due grandi spagnoli, i cui drammi egli dovè leggere e studiare continua-mente, e col quale tenne forse corrispondenza epistolare (i). Ma gli elementi di questo intreccio son essi paesani, o tolti da poeti forestieri? Nel dramma sacro del Nostro l’amore per Corinto d’Oristilla, che, fintasi paggio sotto il nome di Lelio, è eletta da Corinto a confidente de’ suoi intimi segreti, e che, costretta a celar l’amor suo, non solo deve udir la nuova passicene che per Sara ha concepito l’amante infedele, ma fingere di cooperare essa stessa al buon esito; e d’altro lato, la strana condizione in cui Oristilla viene a porsi per aver innamorato di sè nelle sembianze maschili di paggio gentile monna Gioia, per la quale'sospirava non corrisposto il vecchio Domizio, costituiscono la trama principale, su cui viene a svolgersi il dramma, capace, dati i gusti del tempo, di destare nel pubblico un certo interesse. Leggermente modificato, questo schema ricompare in una commedia romanzesca, Il Voto d’Oronte (2), ed in un’altra Sacra Rappresentazione, intitolata il Martirio di S. Agata, nella quale l’autore cercò d’accrescer l’interesse, dando a Laurinda, che sotto il nome di Laurindo, come Oristilla sotto quello di Lelio, si pone al servizio dell’amante, un fratello, nato con lei e di perfetta rassomiglianza, sì che la fanciulla in veste virile, scambiata col fratello e viceversa, dà luogo ad equivoci, più o meno ridicoli. Se giova talora cogliere alcune rassomiglianze tra scrittori contemporanei, diversi quanto mai d’ingegno, di patria e di tradizioni, a chi la storia d’Oristilla e di Laurinda non ricorda le peripezie di Viola e del fratello Sebastiano nella Notte dell’Epi-fania (3) del gran tragico inglese ? Viola accesa di passione pel duca Orsino, cui serve in qualità di paggio, è costretta a por- ^I) Prefaz. al Trionfo di David: « —e l’intenzion dell’ autore, al quale convenne rappresentare 1’ una e 1’ altra vittoria, imitando le rappresentazioni spagnole, e in ispecie quelle del Sig. Lopes de Vega, il quale con lettere aveva consigliato e pregato 1’ autore, per fama da lui conosciuto, a passare 11 termine di 24 ore.... ». · (2) Firenze, Bibliot. d. Semin :, Cod. cit. (3^ SHAKESPEARE, La notte dell' Epifania — in Opere traduzione di Giulio Carcano. Hocpii, Milano, 1881, vol. X. 404 GIORNALE STORICO. E LETTERARIO DELLA LIGURIA tare ad Olivia le ambasciate e i sospiri d’amore del signore d’111 iria, ed in ta' modo innamora inconsapevolmente di sè la triste contessa: anche qui gli equivoci per lo scambio di Viola, sotto sembianze maschili col fratello Sebastiano. Ma ancor prima che nel teatro dello Shakespeare, verso la metà del secolo XVI Lelia, fuggita dal convento, postasi in qualità di paggio al servizio di Marcello, l’amante infedele, ispirando amore a Clavela, la rivale odiata segretamente, cui, celata sotto veste virile, Lelia doveva portare le proteste d’amore di Marcello, aveva prestato argomento ai Los enganados di Lope de Rueda (i). Si deve creder per tutto questo, che Jacopo nostro attingesse il suo intreccio al dramma dello Shakespeare od a quello di Lope? Non è a credersi, perchè poteva trarlo da quella fonte stessa, d onde 1’ avean già tratto lo Spagnuolo ed il famoso drammatico d Inghilterra. Infatti, pur non volendo tener conto del travestimento, artificio, che dalla novella boccacciesca (IX, giorn. II) era ormai passato in uso da lungo tempo anche nella commedia, ognuno s’ accorge che gli amori avventurosi di Lelia, di Viola, d’Oristilla e di Laurinda non sono che derivazioni dirette di quello di Nicuola per Lattanzio, così come vien narrato dal Bandello nel suo novelliere (2). Perciò possiamo concludere che il nodo porincipale dell’ intreccio in questo e negli altri drammi di Jacopo è formato sopra tradizioni eminentemente paesane, fermate nel racconto dell’arguto novellatore di Castelnuovo di Scrivia. Nè meno tradizionale nel dramma, preso a esaminare, è il modo, con cui Astradoro riesce a carpire a mes. Vitale i talenti, destinati a mes. Domizio pel riscatto d’Oristilla, tant’è vero che già nella Philenia (3), settantacinqu’anni prima della nostra Sacra Rappresentazione, Fulvio s’era valso dell’identico tranello per ingannare il creditore di Simone. Alla parte romanzesca viene a congiungersi l’elemento comico, predominante negli amori dei servi, nei tranelli di figli scialacquatori, favoriti da paggi furbi ed arguti, a vecchi padri spilorci, sì da suscitare episodj, nei quali torna la tradizion latina della commedia di (1) Tikxor, Op. cit., vol. II. (2) Bandelt.o, Novelle. Londra, Harding, 1740, vol. II, 11. 36, p. 212. (3) Philenia | Comedia di An | tonio Mari | conda nobile Napo | litano I stampata in Roma per Antonio Blando | D’Asola | MDXLVIII — cfr. Giorn. slor. d. lett. ital., vol. XX, p. 308. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 4O5 Plauto e Terenzio, rielaborata dai comici del '500 o dall’agile novella italiana. Assodato cosi che la prima materia, direi quasi greggia è nostrana, passiamo ora a vedere se l’arte d’ atteggiarla nel dramma sacro sia consentanea alle nostre tradizioni letterarie, ed allo svolgimento, cui era giunto il teatro prima del Cicognini, 0 se sia tratta da regole poetiche o da modelli d’ autori d ol-tr’Alpe. Si noti anzitutto che il carattere peculiare di questo e degli altri componimenti sacri e profani di Jacopo, è il ripetuto contrasto tra scene, atte ad eccitare il riso, con altre ispirate a terrore ed a tragiche calamità. Chè, se a questo proposito la disperazione d’Anna pel ritardo di Tobiuzzo, ed il sogno delle sette ombre, e l’apparizione d’Oristilla per la simulata magia d’Astradoro non costituiscono un elemento molto tragico, non può dirsi lo stesso d’altre scene d’altri drammi. Nel Martino di S. Agata i dialoghi comici dei servi son posti accanto all apparizione del nunzio cristiano, che rcca sur un piatto le mammelle asportate dal seno della Vergine; nel Trionfo di David 1 lazzi dei paggi fan bizzarro riscontro alle furie di Saul, delirante sulla scena, o all’ombra sanguinosa di Goliath, evocata su dall’inferno dalla maga Idumea, o alle teste dei Filistei grondanti sangue sulle mura. Fin dal 1609, anno in cui uscì per le stampe l'Arte nuevo de hacer comedias (1) Lope de Vega consigliava appunto gli autori drammatici a fonder la tragedia colla commedia, per secondare così il gusto del pubblico : Lo tragico v lo comico raezclado y Tercncio con Seneca, aunque sea corno otro Minotauro de Pasifae, haran seria una parte, otra ridicula que aquesta variedad deleita mucho. Pensando alla corrispondenza epistolare, che, per testimonianza dell’amico Antonio del Soldato, Jacopo avrebbe tenuto collo Spagnuolo, dobbiam credere che ne’ suoi drammi ne seguisse la nuova teoria, o che continuasse e sviluppasse la tradizione degli scrittori italiani, che 1’ avevan preceduto? La ri- (,) Obras no dramaticas de Lope de Vega Carpio, in Biblioteca des Autorès espanoles. Madrid, Rivadeneyia. 4o6 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA sposta scaturirà, speriamo, dalle osservazioni, che a questo riguardo verrem facendo sul teatro. Se si eccettui il Ciclope euripideo, nella tragedia greca non s aveva mai la fusione dei due elementi, tanto disparati, e, direi quasi opposti tra loro : il riso stava relegato essenzialmente nella commedia, il terrore nella tragedia. Il che si spiega facilmente, quando si pensi, che il teatro serio presso i Greci nel tempo del suo massimo fiorire ebbe quasi un carattere sacro, perchè riproduceva sulla scena le gesta di eroi indigeni, semidei nazionali : intrecciare con esse un qualunque episodio comico della vita umana, più che inopportuno sarebbe forse parso un sacrilegio. Il qual concetto passato tra i Romani, fece sì che questi per semplice spirito d’imitazione s’ accontentassero di comporre i loro drammi con quei canoni artistici, che emanavano direttamente dai capolavori originali d’Eschilo, di Sofocle e d’Euri-pide. Nè gli Italiani del Rinascimento, tutti intenti all’arte classica sepper fare diversamente, anzi gli eruditi vennero ad inceppare la libera manifestazione del dramma, assoggettandolo alle famose tre unità aristoteliche, pur mantenendo, ben s’intende, sempre ferma e costante la separazione recisa tra elemento comico ed elemento tragico. Ma un simile teatro, privo d’ogni carattere nazionale, in opposizione all’indole ed ai costumi de’tempi mutati, non si mantenne lungo tempo in vita, e sulla fine di quello stesso secolo, che lo aveva veduto sorgere, quando l’intimo vigore civile e religioso era venuto man mano estinguendosi, e la filosofia pagana favoriva tra noi quel languido epicureismo, di cui già toccammo parlando della lirica, alla tragedia del '500, foggiata sullo schema greco, e che bene spesso si compiaceva del colorito eccessivo del teatro di Seneca, a questa tragedia venne allora a sostituirsi un nuovo componimento, che rispecchia più d’ogni altro l’indole della società aristocratica, in mezzo alla quale e per la quale era sorto. Di troppo la tragedia colpiva l’animo del cortigiano e della donna della nostra Rinascenza inoltrata, ammolliti ambedue nella più raffinata civiltà, per la qual cosa la catastrofe tragica fu a mala pena adombrata, e temperata perfino nella sua mitezza dall’elemento comico, che col tragico veniva a fondersi. Così sorse quel componimento ibrido, in cui la passione è sempre languida e soavemente voluttuosa, la favola pastorale cioè, venuta preparan- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 407 dosi nel dolce idillio dell'egloga amorosa. E fatta la sua prima apparizione nel Sacrifizio del Beccari, il satiro velloso cominciò a portare la nota ridicola tra le disperazioni amorose d’Aminta e di Silvia. Un decennio più tardi (i) circa nella sua pastorale il Guarini, concedeva uno sviluppo molto maggiore all’elemento comico, congiunto in questo caso a una notevole corrente di satira anti- femminile, che saliva al punto culminante, quando, strappata la parrucca dalla testa dell’ ostinata Corisca, gridava : .......ecco, poeti questo è 1’ oro nativo e Γ ambra pura che pazzamente voi lodate : homini, arrossite insensati, e ricantando vostro soggetto in quella vece sia 1’ arte d’ un’ impurissima e malvagia incantatrice, che i sepolcri spoglia e da i fracidi teschi il crin furando al suo 1’ intesse . . . (2). In tal modo adunque sulla fine del secolo XVI assistiamo al-1’accentuarsi d’un fatto molto importante nella storia del nostro teatro, perchè dal Sacrifizio del Beccari in poi 1 elemento comico era venuto per mezzo dell 'Aminta prendendo maggior sviluppo, al punto da intrecciarsi coll’elemento tragico nella pastorale del Guarini. Naturalmente per questa conciliazione, ritenuta per tanto tempo impossibile il Pastor fido non passò inosservato. Pel titolo stesso di « pastorale tragicomica » ebbe a superare in principio una forte opposizione da parte dei dotti, tra i quali più di tutti alzò la voce Jason de Nores. Questi in un suo Discorso (3) sull’ arte drammatica, mostrandosi tenace conservatore, stabiliva una netta e recisa distinzione fra la tragedia e la commedia, sia per l’intima loro essenza, sia pei loro caratteri esteriori. Stabiliti gli scopi differenti dei due diversi com- I i) L’Aminta fu scritta dal Tasso in Ferrara nel 1573 ; il Pastor Fido fu dal Guarino presentato in omaggio a Carlo Emanuele I di Savoia nel 1585. Cfr. il noto studio di V. Rossi: G. B. Guarino e il Pastor Fido — Torino, Loescher, 1894. (2) Guarini, Il Pastor Fido. Venetia, Ciotti, MDCII, at. II, se. VI. IDiscorso intorno a quei prmcipj cause et accrescimenti che la Commedia, la Tragedia et il poema teroico ricez’ono dalla Philosophia morale et civile et dai Governatori delle Hepubbliche. Padova, Meieto, 158/ · 40S GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA ponimenti, e posto il principio che la tragedia si distingue dalla commedia « in quanto il nobile e principesco signore si distingue dal privato », veniva a dichiarar l’inconciliabilita dei caratteri dell’ una e dell' altra, invocando a confermare il suo asserto la sapienza greca d’Aristotele e di Platone e la latina di Marco Tullio, e terminava col definire la tragicommedia « un mostruoso e disproporzionato componimento » (i) pel tentativo, che vi si faceva di fondere due elementi non solo disparati, ma opposti e vicendevolmente escludentisi. Ma il Guarini, che, sebbene non nominato, si sentiva in principal modo preso di mira nelle censure di Jason, ricorrendo anch'egli al principio d’autorità, cercava di provare cogli argomenti degli antichi, esser il dramma tragicomico un componimento consentaneo alla ragione umana ed alle regole degli ottimi, perchè in esso la tragedia e la commedia si modificavano, e si contemperavano a vicenda, in modo da « imitare con apparato scenico un’azione finta e mista di tutte quelle part! tragiche e comiche, che virisimilmente e con decoro possano stare insieme corrette sotto una sola forma drammatica, per fine di purgare con diletto la mestitia degli ascoltanti ». A questo primo « Verato » (2), (chè tale è il titolo della risposta del Guarini) non privo d’una certa acredine contro l’avversario, tornò a ribattere Jason con una Apologia (3), ripetendo le vecchie teorie, e rinnovando le censure sulla fusione, che del comico e del tragico tentava di fare il poeta del Pastor fido ; e per mettere in evidenza l'inconciliabilità di questi due elementi, andava in traccia dei più sottili sofismi, che potesse suggerirgli la dialettica scolastica, in lui ben esercitata. Al secondo « Verato » (4), con cui il Guarini cercò di confutare l'Apologia, Jason non rispose, e così s’ acquetò la questione. Intanto gli anni passavano, e mentre 1’ autorità degli antichi veniva perdendo sempre più vigore, andava rafforzandosi quella corrente di idee reazionarie, che tra poco avrebbe messo capo al Tassoni ed al Boccalini nel campo artistico e morale, a Galileo nel campo scientifico : di qui il trionfo incontrastato del Pastor fido, così consentaneo all’indole de’ tempi, ne’ quali era stato composto, (1) Discorso cit., c. 38 t. — (2) Pastor Fido, ed. cit., p. 26. (3) Apologia contro ΓAutore del Verato. Padova, MDXC, Meieto. (4) Pastor Fido, ed. cit. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 4O9 e le innumerevoli imitazioni, che in Italia e fuori se ne fecero per tutto il ’6oo. Ma se nel teatro profano la fusione dei due elementi avvenne così tardi e incontrò saldi e dotti oppositori, non così era avvenuto nel dramma sacro, viva espressione dell’ indole e dei costumi del nostro popolo. Sulla scena del dramma primitivo, il lato comico della vita quotidiana si conciliava coi feroci tormenti, ai quali erano sottoposti i martiri della leggendaria atrocità dei Cesari, sì che le argute e impertinenti risposte di Zita (1), 0 le bravate del gobbo (2), o le miserie de’ birri (3), o le zuffe degli assassini per un barilotto di vino (4), rasserenavano per un poco 1' animo degli uditori, di troppo contristati dalle vicende pietose del dramma. Ma, spegnendosi a poco a poco la fede ingenua de’ primi tempi, piuttosto che commuovere, quelle stesse vicende avrebbero più tardi annoiato il pubblico, reso indifferente alla rievocazione dei grandi esempi de’ tempi eroici del cristianesimo, e desideroso solo di divertirsi. Così come già s’ebbe occasione di rilevare, ci spieghiamo l’invasione dell’elemento comico-profano nei drammi sacri del Cecchi, in modo che il santo torna fra gli uomini a ritessere i fatti più salienti di sua vita, ma non più circonfuso dal nimbo celeste. Ed a questo proposito il D’Ancona ebbe già a dire, trattando del Cecchi : « ....in ognuno de’ suoi drammi di sacro argomento, e specialmente in quelli, che per la loro ampiezza maggiormente vi si prestano, è notevole il modo, col quale la Rappresentazione è stata mutata in vera commedia » (5). Il fecondò commediografo fiorentino capiva le esigenze del pubblico, e se il Guarini dopo il Beccari ed il Tasso aveva operato la fusione dell’elemento tragico col comico nell’ aristocratica pastorale, il Cecchi aveva fatto lo stesso nella farsa: (1) D’Ancona, op. cit., vol. I, p. 106. 1 2) D’Ancona, op. cit., vol. I, p. 21. (3) D’Ancona, op. cit., Rappres. di S. Grisanto e Darla, p. loft. 14) D’Ancona, op. cit., Rappr. di S. Ignazio, p. 5. (5) D’Ancona, Orìgini dei Teatro Italiano. Torino, Loescher, 1891, vol. II, p. 155. Giorn. St. e Lett. della Liguria 27 410 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA La farsa è una terza cosa nuova tra la tragedia e la commedia : gode della larghezza di tutte e due loro e fugge la strettezza lor : perchè raccetta in sè li gran signori e principi, il che non fa la commedia : raccetta com’ ella fosse albergo o spedale la gente come sia, vile o plebea, il che non vuol mai far donna tragedia : non è ristretta ai casi : chè gli toglie e lieti e mesti, profani e di chiesa, civili, rozzi, funesti e piacevoli : non tieu conto di luogo : fa il proscenio ed in chiesa ed in piazza e in ogni luogo ; non di tempo, onde s’ ella non entrasse in un dì, lo torrebbe in due e in tre (i). Questa farsa, ribelle a ogni freno, che il Cecchi paragonava ad un abate, capace di tutto fuor che dell’ obbedienza, ci riporta al punto, donde siamo partiti, cioè al minotauro di Pasifae, cui paragonava il dramma ventiquattro anni più tardi il meraviglioso commediografo spagnuolo. Pertanto da tutto ciò, che siam venuti dicendo sulla fusione dell’ elemento tragico coll’ elemento comico nel dramma italiano, fusione, che, come già osservammo, è un carattere peculiare delle commedie sacre e profane del Nostro, scaturisce la risposta alla domanda, che ci rivolgemmo, dopo aver citato alcuni precetti di Lope di Vega. A noi sembra, adunque, di poter concludere che, se la poetica del grande spagnuolo, e più specialmente i modelli offerti in gran numero dal suo genio, prodigiosamente fecondo, poterono esercitare una certa influenza sulla produzione di Jacopo, i drammi del Cicognini però non rappresentano altro che l’ultimo svolgimento, quasi del tutto naturale, compiuto con intenzioni artistiche e con elementi drammatici, ambedue indigeni, della Sacra Rappresentazione, costretta a raccogliere in sè 1’ elemento comico profano per soddisfare al gusto d’ un uditorio, che la religione non riusciva più a commuovere. Su questa strada il primo passo era stato fatto dal Cecchi, il secondo fu fatto dal Cicognini, che al quadro di costumi sostituì l’intreccio complicato. Non solo, ma del predecessore il Nostro fece suoi certi accorgimenti artistici e certe situazioni. Ad esempio, per limitarci al dramma fi) Prologo alla Romanesca, composta nel 1585, in Drammi Spirituali cit., v. Prefaz. p. XXVIII. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 4II su lobia, che siam venuti esaminando, il tempo, in cui si finge avvenir l’azione, è ristretto all’ultimo giorno dell’assenza di Tobiuzzo, come nelfa Sacra Rappresentazione del Cecchi; e al Divora di quest’ultimo fa riscontro Astradoro, che del resto accoglie in sè il tipo cecchiano di Sottile e dell’ Ipocrito di Pietro Aretino ; e a Nabor e a Machior corrispondono nel dramma di Jacopo Lidio e Corinto, il quale non è altro, se non un ulteriore svolgimento del Morattia, brevemente tratteggiato dal Cecchi. Ma nel dramma profano, comlè naturale l’intreccio prende più ampie proporzioni. Nella Finta Mora, per esempio, Amatilda, una principessa mussulmana, che s’ era innamorata di Celindo, figlio del governatore di Livorno, quand’essa era venuta a dimorarvi col padre, perseguitata ora dai suoi perchè desiderosa di convertirsi al Cristianesimo, fugge dalla casa paterna, e, venuta a Livorno,fingendosi indovina, riesce a riconquistar l’amore di Celindo. Tale in breve è la trama di questa commedia, che pel carattere storico, cui essa s’ispira, si potrebbe dire un componimento d’occasione, la qual cosa c’inducono a credere anche l’accenno, fatto dall’ autore nella prefazione, alla rapidità della composizione. Quando fosse scritta non è detto, ma noi crediamo non andrebbe lontano dal vero chi la ponesse nel primo decennio del ’6oo, quando le discordie di Muley Xeque, re di Fetz, con suo fratello (1606), e la sollevazione del Bassà d’Aleppo contro i Turchi (i6o6)avevan fatto balenare per un istante alla mente del pontefice il sogno secolare della crociata per la conquista di Gerusalemme. Ma svanita ogni speranza, dopo la sconfitta, che il marchese Francesco da Monte, ammiraglio della flotta granducale toccò nella spedizione contro Cipro (1607), i Toscani, abbandonata ogni grandiosa idea di conquista, s’ accontentarono di prendersi la rivincita, distruggendo col fuoco Bona, terribile nido di pirati sulle coste di Barberia, riportandone al ritorno in patria migliaia di schiavi e ricchissime prede (1). Infatti nella prima parte del dramma, e che più precisamente potrebbe dirsi prologo, si rispecchia questo momento di fervor religioso per la liberazione di Gerusalemme, vaticinata e invocata da tanti poeti. « Calata la tela », si dice nelle poche pagine, premesse alla commedia, « si vide la Religione in una nuvola assai vicina a (i) Galluzzi, ht. cit., t. Ili, p. 237 e seg. 412 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA terra, in mezzo ad alcune Virtù » : agli squilli di tromba, coi quali s’apriva lo spettacolo otto cavalieri, chi da un lato, chi da un altro accorrevan sulla scena, che rappresentava il porto di Livorno, e mentr' essi s’interrogavano scambievolmente per sapere, a che fosser risuonati gli squilli di guerra, due voci, innalzandosi sui cori, esortavan col canto i convenuti alla crociata contro l’Ottomanno. Al giuramento, che i cavalieri prestavano colla mano sull’ elsa, di difendere ad ogni costo la fede rispondevano i cori celesti, giubilanti del grande avvenimento, ed infine i cavalieri partivano cantando : Su tutti all’ arme, tutti alle sponde, tutti all’ imbarco, suona la tromba, udite il grido che ne rimbomba ! placido è il vento, tranquille 1’ onde : udite il suon de’ bronzi, udite il grido Cavalieri all’ imbarco, al lido, al lido ! E così terminava tra gli spari delle artiglierie questo primo intermezzo eroico. L’intreccio stesso poi del dramma, che, oltre a sciogliersi coll’ immancabile matrimonio, contiene la conversione d’Amatilda e del fratello Remur al cristianesimo, e l’esaltazione, che vi si fa dell’impresa di Bona, contribuiscono a raffermarci nell’opinione, da noi esposta, riguardo alla cronologia. Certo che fu un grande accorgimento quello di portar sulla scena un fatto contemporaneo, e tanto interessante per gli spettatori; accorgimento, che forse egli tolse da Lope de Vega, il quale badava principalmente ad accontentare il numeroso uditorio. Di qui forse la fama, che fin dai primi tempi s’ acquistò la Finta Mora, sì che poi, per quanto non lo meritasse, in generale fu la più citata dagli scrittori, eh’ ebbero a parlare di Jacopo. Infatti, pur contenendo, almeno in rapporto ai tempi, pregi di drammaticità non dubbj, pei quali anzi deve esser annoverata tra le migliori composte in quegli anni, a nostro giudizio resta alquanto inferiore a un altro dramma del Nostro, rimasto finora ignoto in quello stesso manoscritto, che contiene le Vittorie di S. Tecla, e che ha per titolo : Il Voto d’Oronte. L’intreccio in quest’ ultimo non è tanto complicato, più limitata la parte episodica, le scene ridicole tra i servi meno frequenti, i caratteri meglio delineati: un’arte infine più deli- GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 413 cata, un soffilo di poesia sentimentale ed un maggior colorito di verisimiglianza concorrono a render più commovente ed interessante lo svolgersi dell’azione. Oronte, principe e capitano di Numanzia, rimasto vincitore sui Saguntini, conchiude sul campo di guerra il matrimonio di sua figlia Adamira con Armindo, primogenito di Silandro, signore di Sagunto; ma il giovane principe sotto umili panni, scambiato per un semplice gregario, era già stato condotto cogli altri schiavo in Numanzia, ed ivi, perchè pratico nel dipingere, gli era stato imposto di ornare d’affreschi certe loggie della reggia. Da questo momento le avventure d’Armindo, prigioniero nella corte di Numanzia, si assomigliano a quelle di Ruggero, prigioniero di Teodora. Ricordiamo perciò prima di procedere l’episodio ariostesco, svolto nei due ultimi canti del Furioso: Leone, principe di Costantinopoli, dopo aver restituita la libertà a Ruggero, rinchiuso da Teodora in un orrido carcere, lo scongiura a vestirsi delle sue armi, di combatter per lui con Bradamante, e conquistargli così la mano della virago. Infatti com’è ben noto, costei voleva unirsi in matrimonio solamente con colui, che avesse saputo resistere ai suoi colpi in pubblico torneo. Ruggero, spinto dalla forza impetuosa della riconoscenza, soffoca Γ ardente fiamma amorosa per l’eroina, e, addoloratissimo in cuore suo, fa tutto ciò, di cui Leone lo aveva pregato : alla fine però quando Leone scopre 1’ affanno segreto che aveva spinto Ruggero a decider di finir la vita, commosso da tanto sacrifizio, restituisce Bradamante al magnanimo amico. Torniamo ora al nostro dramma: mentre Armindo, sotto il nome di Lidio è intento al suo lavoro, entra in scena 1’ amico Zaffiro, che gli annunzia d’aver pagato il ricatto per lui e d’aver perciò ottenuta la sua liberazione: ma allorché Armindo vuole esprimergli a parole almeno tutta la sua riconoscenza, Zaffiro, interrompendolo, gli dice: « horsù! ornai è tempo ch’io vi palesi il mio male, e che vi faccia sapere che da voi solo dipende o la mia morte o la mia vita: un vostro sì, un vostro no può farmi felice o infelice per sempre » (i). Alle insistenti premure d’Armindo, perchè si spieghi meglio, Zaffiro lo supplica a giurare d’adoperarsi in ogni modo perchè non si faccia il matrimonio, già conchiuso (i) Cod. cit. d. Bibl. d. Sem. fiorentino, at. I. 414 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA pei trattati di pace fra lui (Armindo) ed Adamira, perchè egli (Zaffiro) morrebbe di dolore, essendone pazzamente innamorato. Armindo, che crede di non aver mai veduta questa principessa, destinata ad esser sua sposa, e che d’altra parte si strugge d’amore per una bella guerriera del campo nemico, che egli aveva fatto prigione in una notte tempestosa, quand’era al campo del padre, ben volentieri rinunzia a un matrimonio, che, per quanto conchiuso per trattati, era però repugnante pel suo cuore, già ardente d’amore, e giura solennemente all' amico Zaffiro di fare, quant’ egli gli ha chiesto. Intanto che Zaffiro se ne va tutto lieto pel giuramento ricevuto, Adamira colla madre Delia, scesa in giardino per coglier dei fiori, si ferma nella loggia davanti agli affreschi del finto Lelio, l’ignoto pittore sagun-tino. Armindo, non appena la vede, riconosce proprio in lei la bellissima fanciulla, cui s’era legato con forte promessa d’amore poco tempo prima, nella notte indimenticabile della tempesta istantaneamente gli torna alla memoria la fatale promessa, giurata a Zaffiro. Adamira, invece, che dal canto suo non riconosce nel finto Lidio il cortese cavaliere, pel quale dopo la memoranda notte ardeva d’immenso amore, prega ansiosamente Lidio a volerle spiegare la storia d’amore ritratta nel suo affresco, ed egli, nascondendo l’interna commozione, « ho disegnata, le dice, una donzella in abito di guerriero, che fu riscontrata da un giovine anch’ egli soldato, se ben della fazion nemica, che a lei salvò la libertà e la vita, e la condusse in un rifugio, e, benehè fosse in tempo notturno, al lampeggiar del cielo ebber la fortuna di mirarsi in volto, e darsi eterna fede d’ amore » (i). Era la storia del loro innocente e pur fortissimo amore! Alle domande sempre più incalzanti della fanciulla, il sedicente pittore dichiara d’ aver udito raccontar quella storia in Sagunto da Armindo, il figlio di Silandro, destinato pei patti di pace ad esser suo sposo. Adamira lo lascia parlare, ma non potendo più contenersi dalla gioia, gli confessa, ella non esser altro che la vera eroina della storia, da lui dipinta, e credendolo amico d’Armindo, lo scongiura a dargliene nuove. Il povero principe in così strana situazione, costretto a celarsi davanti alla principessa, amata da lui dopo la notte della bufera più della sua stessa vita, memore (i) IL·., at. II. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 415 delia fatale rinunzia, che aveva giurato a Zaffiro, non può rat-tener le lacrime, e ad Adamira, che gliene domanda la ragione, risponde di sentirsi commosso al ricordo dell’amico lontano. Essa sta ad udirlo: la sua voce le produce uno strano piacere, nel suo viso, nel suo atteggiamento le sembra di scorgere un qualche cosa di nobile e d’attraente: tace, e lo guarda senza spiegarsi il magico potere, che esercita sopra di lei 1’ occhio del pittore. Lidio, dal canto suo, le parla a lungo d’Armindo, e sempre più commosso le domanda se l’avesse mai dimenticato, e, fatto certo della fedeltà della principessa, cedendo a! sentimento di riconoscenza, esce ad un tratto in queste parole : « Armindo vi supplica a voler amare e sposare il Sig. Zaffiro, non perchè sia diminuito 1’amor suo, ma perchè conoscendo il merito di quel siguore, amato da lui più che la propria vita, e sapendo che privo di voi morrebbe sicuramente, vi prega a fargli questa gratia » (i). L’interesse si fa ora più vivo perchè Adamira, delusa nella rosea speranza d’esser contraccambiata di pari amore dall’ignoto guerriero, offesa nel suo amor proprio, non può credere alle parole di Lidio: essa vuole una prova. Il povero amante, facendo ancor forza sull’animo suo, le restituisce in nome d’Armindo il ritratto, eh’ essa gli aveva consegnato nel primo ed ultimo colloquio, tra il fragore della tempesta. Il sacrificio, che le si domanda è troppo crudele: però essa vi si assoggetterà, purché Lidio le procuri un abboccamento con Armindo, ed, ottenutane la promessa, se ne va in compagnia delle ancelle colla disperazione in cuore. Dopo che Armindo, da una parte violentemente trascinato dall’ amore per Adamira, dall’ altra con egual forza dal sentimento di riconoscenza, suggellato da un giuramento, ha concesso libero sfogo alla disperazione, Adamira, sicura che la proposta fattale comunicare da Armindo per mezzo di Lidio, non sia che « un ricoprire il proprio pentimento con atto di simulata generosità », torna a domandare al falso Lidio con qual cuore Armindo possa costringerla a tanto sacrificio, e Lidio: « ma se Armindo fosse l’uomo più infelice di questo mondo, e con giuramento si fosse legato involontariamente all’infelicità ed al dolore? » (2). Essa non 1 intende, e facendogli brillar dinanzi i suoi futuri favori, se egli (1) Ib., at. III. — (2) Ib., at. IV. 4l6 GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA s’impegnasse a fare in favor di lei un pietoso tradimento al-1’amico, Lidio, ritiratosi tra le piante, non udito esclama: « O Dio che deggio fare? o amore, o promesse, o Zaffiro, o Adamira, o servitù, o fortuna, in che termini m'havete posto, e che deggio io fare? » (i). Alla fine decide di scoprir Tesser suo, ma si noti di quanto interesse venga ad arricchirsi l’azione: Zaffiro è nascosto in quelle vicinanze per dichiarar l’amor suo alla principessa, e su in alto ad una finestra prospiciente della Reggia sta, sotto le sembianze d'un astronomo Laurena, una fanciulla tradita da Zaffiro, desiderosa solo di vendicarsi. Si noti quale vendetta curiosa essa riesca a prendersi. 11 finto Lidio torna ad Adamira : Ad. — Eccolo a noi: eh ben Lidio che hai risoluto? Lid. — Piaccia a Dio la mia risoluzione sia buona: oh ! se voi sapeste quel che s’ asconde in petto ! -^■d. — Io vedo che tu sei persona di merito, e che hai a dirmi gran cose : ma tu sospiri, che hai ? Lid. — Oh Adamira son morto ! Ad. — Tu m’ uccidi, che hai? tu piangi ; qualche sventura forse? Armindo, oh Lidio, dì liberamente, Armindo è vivo o morto ? Lid. — E’ vivo et è morto ! Ad. — Oh Dio ! spiegati ! per pietà parla ! Arm. Insomma, innanzi ch’io moia, e scoppi di dolore, o bellissima Adamira, io voglio scoprirti____ Proprio in questo punto Zaffiro esce dal nascondiglio per manifestare alla principessa il suo amore, e Laurena, tenendo tra le mani il canocchiale da poco scoperto da Galileo, così tien bordone dalla finestra alle parole di Zaffiro, 1’ amante infedele, portando in tal modo una nota originalissima di comicità: Zaff. (ad Adam): Oh che veggio'? e qual beltà si rappresenta? Laur. — (guardando co! canocchiale nel cielo) : oh che veggio? e quale splendore si rappresenta agli occhi miei ? Ad. — Oh! chi paria lassù? Ers. — (Vancella) E’ un gentiluomo che sta riguardando con quel artifizioso e meraviglioso occhiale la stella di Esperò, che a punto sorge. Arm. — (facendosi forza per dare a Zaffiro una prova, di disinteresse): Sì, sì sarà quel forestiere, che poco fa entrò per vedere il giardino, ma chiunque sia attendi alle cose tue. Zaff. —- Io credo o bellissima Adamira, ctie alle orecchie vostre sarà pervenuta la novella della morte di colei, che messer Demetrio (il padre di Laurena) m’ aveva destinato a consorte. Laur. — Mente per la gola, mille volte mente.... (i) Ib., at. IV. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 417 Ers. — Ma con chi parla quel gentiluomo ? Laur. — Mente sicuramente per la gola colui____, che voleva affermare che questa stella del terzo cielo non fosse hora scema, hor crescente et hor piena come la luna. Ad. — Ma seguite dunque il vostro discorso ! Zaff. — Crederò che prima che ora haviate avuto notizia di quella, che io conservo e conserverò verso di voi, eterna e costantissima fede. Laur. — Anzi volubile e variabile____ è questa stella ! oh come cangia d’aspetto ! un mese fà non era certamente così ! Zaff. — E questa fede viverà mentre eh’ io viverò, sempre intatta, candida e pura. Laur. — Macchiata et annebbiata____ è una parte di questo cristallo ! voglio ripulirlo ! Zaff. — E se amore è vero cambio d’amore, come sdegnate questo mio core r Laur. — Cavarlo, spezzarlo, calpestarlo bisogna____ questo vetro, e cambiarlo in un altro che sia tutto puro e schietto. Zaff. — In me ritroverete sempre un perfetto amore ed una perfetta servitù. Laur. — Io l’ho perso, io l’ho smarrito, io più non lo ritrovo!... ah che astro! Zaff. — E voi mi starete sempre fissa nel core ! Laur. — Errante e non fissa è.... la stella di Venere, e non si puote ben fissare col guardo. Zaff. — A voi sta, dolcissima Adamira il consolare questa afflitta anima e rinverdire la mia speranza ! Laur.— E’ perso, è smarrito!... che più spero di trovare il vetro, che m’è caduto di mano? Voglio partirmi di qui, perchè la stella, che conforta ad amare è tramontata, nè più posso mirar queste tenebre e questo errore! (1). Adamira, annoiata dalle proposte d’amore di Zaffiro, e indispettita pel momento inopportuno, in cui s’era presentato, troncando la confessione di Lidio, si parte con Ersilia, piena di sdegno. Zaffiro, punto di dolore per la ripulsa della principessa, vedendo Armindo ancor più abbattuto di lui, gliene domanda la cagione. « Quando avrete sposato Adamira », gli risponde l’amico, « e quando avrete raggiunta la vostra felicità di dirò tutto, e voi conoscerete, quanto Armindo vi abbia amato, ma di ciò non domandatemi più ». Zaffiro per consolarlo lo invita a cena ed egli continua: « Andrei più volontieri alla morte: andiamo però dove più vi piaee ». Nel quint’atto Oronte torna vittorioso in Numanzia: Adamira, tutta ornata di fiori come una vittima, corre per la prima a dar il benvenuto al padre : non l’avesse mai fatto ! Il re aveva promesso a Giove di sacrificargli, in ringraziamento della vittoria, il primo che dalla reggia gli fosse venuto incontro! E anche qui la scena della figlia, che si getta ingenuamente tra le braccia d’Oronte, ed il profondo tur- (1) Ib., at. IV. 4lS GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA bamento del padre, memore del voto inumano, che non può decidersi a manifestare alla figlia, è riprodotta con dialogo assai vivo, incalzante e concitato. Armindo supplica invano, che gli sia concesso di sostituire sull’ara Adamira, ma nell’atto del sacrifizio interpone ad un tratto il suo corpo tra l’infelice principessa e la bipenne, sì che Adamira resta salva, ed egli per un caso fortunato rimane a mala pena scalfitto. Sopraggiunge intanto il sacerdote, che giudica non esser valido il voto d’Oronte, perchè a Giove non si debbono mai offrire vittime umane. Così giungiamo alla catastrofe, costituita al solito dalle nozze dei principali personaggi : Zaffiro, commosso dalla costanza, con cui Laurena gli s' era mantenuta fedele, e s’ era adoperata per salvarlo dal carcere, s’induce a sposarla, sciogliendo così dal giu-ìamento fatale Armindo, che, riconosciuto pel principe di Sagunto, sposa la bella Adamira. Tale è la tela, e tali sono i momenti culminanti di questo dramma romanzesco, in cui Adamira, dal primo momento, che scende per coglier fiori in giardino, e s’indugia a colloquio col-1 amabile pittore, fino all’ultimo istante in cui torna a coglier fiori per adornarsene e mover più bella incontro al padre vittorioso, incarna un tipo poetico di donna piena di sentimenti delicati, e vittima ci’un amore impetuoso, come la bufera, in mezzo alla quale era sorto: simile in ciò alla sventurata eroina di Vergilio. Di fronte ad essa sta Armindo, che nel contrasto tra 1 amore e la riconoscenza, tra la passione e l’onore, svolge assai felicemente il suo carattere di cavaliere leale e cortese, più premuroso di mantenere la parola giurata, che di ubbidire agli impulsi del cuore. Se anche qui il travestimento ha la sua parte, questa è però molto secondaria. L’ elemento comico non è sovrabbondante, e non scaturisce dalle solite burle o dai vieti tranelli, bensì da una situazione originalissima, resa per noi ancor più gustosa dal colorito storico, che le conferisce il « meraviglioso occhiale », da poco scoperto da Galileo, mentre tutto il dramma vero si accentua nel contrasto delle passioni diverse e violenti, e in ispecial modo nella lotta, agitantesi nell’ animo d’Armindo. Jacopo sa superar questa prova con non comune maestria. L’ amore, sorto in una notte tra il bagliore dei lampi ed al fragore della tempesta, quando Adamira, vestita da guerriero era stata presa nel campo nemico da Ar- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 4IQ mindo; lo spirito poetico della principessa, così amica dei fiori; la simpatia, per lei inesplicabile, che vien prendendo sempre più per l’amante, che ignoto le sta dinnanzi ; la sentimentalità dell’animo suo, hanno un qualche cosa di nuovo, che mentre ci riporta ai casi di Didone fa anche pensare a certe figure romantiche del teatro spagnoleggiante di Giacinto Andrea e dei suoi imitatori. Per ciò che concerne il voto d’ Oronte è facile vederne la derivazione biblica. Ognuno ricorda: quando Jephte coi principi di Galaad mosse guerra ai figli di Ammon fece voto a Dio, che se gli avesse concesso la vittoria, gli avrebbe offerto in sacrificio il primo, che al suo ritorno in patria fosse uscito dalla reggia per incontrarlo. La fortuna delle armi gli arrise : doveva perciò adempiere il voto fatto. Caso volle che la prima a venirgli incontro fosse Sella, l’unica figlia, ond’è che Jephte disperato, stracciandosi le vesti, gridò alla poveretta che già gli tendeva le braccia: « Ahi figlia mia! tu mi hai ingannato e ti sei ingannata anche tu, perocché ho dato parola al Signore, e non potrò fare altra cosa ». Dicemmo che Adamira ricorda qualche figura del teatro decisamente spagnoleggiante del figlio; anzi a questo proposito del quale non è a tacersi, che dal dramma paterno egli trasse materia per la sua Orontea (i). Armindo, il cavaliere gentile e leale, in lotta tra la passione e l’onore, diventa nel dramma lirico di Giacinto Alidoro, un bellissimo giovanetto, che appunto per questa sua rara venustà di forme s’attira l’odio di due regine, da lui non corrisposte in amore, finché riconosciuto per Floridano, erede del trono d’Egitto, acconsente a sposarsi con Orontea, una delle due rivali. D’Armindo Alidoro non ritiene che l’esperienza nel dipingere, la qualcosa dà luogo alla scena comica del ritratto di Silandra, fatta ad imitazione dell’ altra del ritratto di Marcolfa nel Voto d'Oronte. Ma nel dramma di Giacinto nessuno dei pregi, che pur si riscontrano in quello del padre; nessuna traccia di quell’analisi psicologica, condotta da Jacopo con rara maestria per que’ tempi; nulla di quella delicata poesia, che fa d’Adamira ,1) V Orontea \ dramma musicale \ del \ dott. JaCinto AxDREA CICOGNINI I rappresentato in Firenze nell’ j Accademia de’ Sorgenti \ al Sereno I Ferdinando Carlo \ Arciduca d’Austria | in Firenze | nella stamperia di S. A. S. j Con licenza de’ Superiori | 1661, 420 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA un soave tipo di fanciulla innamorata. Il che è facile a spiegarsi, quando si pensi che, mentre il Voto d’Oronte è un vero e proprio dramma, L'Orontea non è invece altro che uno schema d’azioni slegate, comiche e tragiche, disteso in tre atti per dar pretesto al musico di .comporre l’opera sua principale : in breve essa torma ciò, che si esprime col vocabolo moderno « libretto ». Ma non si creda dal fin qui detto, che Jacopo ne’ suoi drammi si curasse solamente della parte episodica, o dell’avvilupparsi delle azioni : anzi egli si studiò anche di riprodurre nei perso-na§§' tip' umani, tolti dalla società in cui viveva. I servi, ed in particolar modo le servette, son sempre ritratti con tutta la festività puramente fiorentina dei loro compagni di Mercato Vecchio, contemporanei del poeta: nel dialogo si mostran pieni di brio, ricchi di motti spiritosi, impertinenti, salaci, non mai equivoci, ma scintillanti di spensierata gaiezza e d’allegria ridanciana. Scherzano sulle miserie dei padroni, e non di rado nei convegni amorosi si divertono a parodiare con gustosa comicità lo stile aulico, inorpellato di fantastiche iperboli, proprio in ispecial modo delle dichiarazioni d’amore, ed allora essi ci ricordan le grasse risate, colle quali lo spiritoso popolano fiorentino avrà accolto molte volte le cerimonie e le preziosità ridicole degli zerbini e delle dame di quel tempo. Nè meno sferzati sono i cortigiani, pieni di boria e di finzione, che per mantenersi con tutti in buone relazioni, simulavano perfino nelle più piccole cose, mettendo ognora in pratica la vecchia politica del « lungo prometter con attender corto ». Il poeta, che li aveva conosciuti e trattati nei palazzi sontuosi di Roma, li spogliava di quella lor vana pompa, di cui s’ammantavano in faccia alla plebe; ed in Leone e in Teodoro (i) mostrava ad uditori popolani la vita intima di quelli, che tenevano in mano le loro sorti. Oppure, sotto il paludamento di sacerdote ebraico, riproduceva ai loro occhi la vile perfidia di chi colla maschera della religione, in nome delle cose più sante, cerca di vivere, come un parassita, a spese delle fatiche e dell’ignoranza altrui. Perchè Astradoro (2), il quale entrando in scena, pronuncia come l’eroe dell Aretino, la massima della sua vita con queste parole: « chi non può simulare, non può regnare e chi finger non sa, mai del (1) Due tipi del Trionfo di David. — (2) Arcang. Raffaello. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 421 ben non avrà »; che inneggia all’ipocrisia cantando da solo « triste la sorte mia — se tu non fussi tu — gesti, parole e viso macilente — m’ empion la borsa e gabbano la gente » (1); che carpisce ad Oristilla l’ultimo smeraldo; che ad Anna, ridotta dall’ estrema miseria a vincere il rossore della vergogna, ed a guadagnarsi il pane al telaio altrui, estorce i magri proventi col pretesto d’impiegarli in buone azioni ; quest’ uomo, dico, che, pur di guadagnare, tien mano agli intrighi amorosi e alle frodi, più che al fantastico sacerdote ebraico, s’avvicina ad un altro sacerdote ben più vicino di tempo all’ autore, e che, già vissuto nell’Ipocrito di Pietro Aretino, doveva esser posto non molto tempo dopo Jacopo alla gogna sulle scene dei paesi d’oltr Alpe sotto il nome di Tartuffe. Come già il Cecchi, il nostro Jacopo si studiava adunque d’introdur ne’ suoi drammi tipi interessanti, tolti dalla vita comune. Così suscitava il riso colla vecchia ostessa Cipriana (2), la donna superstiziosa ed ostinata a parer bella malgrado l’età, e capace di lasciar commettere indifferentemente un delitto, purché non le fosse tolta l’acqua miracolosa della bellezza; e coll’astrologo Domizio (3), sempre rinchiuso tra le pareti domestiche, intento tra girelle e filtri e macchine d ogni specie, a trovare il principio del moto perpetuo per applicarlo ai telai di Monna Gioia, di cui s’era ridicolmente innamorato ; ed infine colla boria ingiuriosa in comico contrasto coll intima pusillanimità dei numerosi bravi (4) e capitani, indigeni e forestieri, che al soldo di prepotenti tirannelli credevan di rendersi insigni al volgo, vestendo la livrea ed alzando la voce. In generale ai drammi di Jacopo (se si eccettui II Martirio di S. Agata), e in ispecial modo a quelli sacri, si può rimproverare l’inopportunità d’alcune scene comiche, ma, sempre relativamente ai tempi, non si può negare la drammaticità delle situazioni. Al qual proposito è degno d’esser rilevato, che tra i contemporanei il Cicognini, spinto forse dai modelli spagnoli, si lasciò andare a veri e proprj ardimenti, come, ad esempio, di portar sulla scena convegni di diavoli, incantesimi di streghe, e l’ombra sanguinosa di Goliath, evocata da Idumea, e Saul delirante tra spaventevoli sogni, e il cadavere d’Agata, portato (1) Ib., at. I. — (2) Il Mart. di S. Agaia. ,3) La Celeste Guida. - (4) la Finta Mora. 422 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA per ordine di Ouinziano all’infelice amante Armidoro, cui era stato fatto credere esser la Martire ancora in vita. Strana somiglianza ! due secoli e mezzo dopo Jacopo, a tanta lontananza di tempi e di consuetudini nella vita e nell’arte, Vittorio Alfieri nel Saul e nell Antigone abbelliva col magistero del genio due consimili situazioni! È inutile avvertire, che con questo non vogliamo nemmeno ammettere la possibilità di raffronti, tanta è la distanza, che corre tra i due ingegni, ma solamente mostrare come alla mente di Jacopo si presentassero ardite concezioni, sebbene poi gli facesse difetto un’arte adeguata per tradurle sulla scena. Al contrario non intreccio complicato, non scene fuor della vita comune vengono a solleticar l’attenzione nel-1 Amor filiale (i), commedia, in cui l’autore ritrasse una delle tante ingiustizie della vita quotidiana di tutti i tempi e di tutti i luoghi, ed in cui volle forse in parte lasciarci una pagina autobiografica. Madonna Tedalda, indotta a sposar Zanobi, vecchio e vedovo con un figlio, ma ricco, soltanto dal desiderio d’ereditarne le sostanze, vede un impedimento alla sua cupidigia in Alfonso, figlio ed erede, in caso di morte, del padre Zanobi. Perciò, aiutata dal fratello Fabrizio, bel tipo di poetucolo, che non si spaventa di por mano ad una frode, pur che gli venga promessa in premio 1 ultima edizione del Pastor Fido, instillando con calunnie giorno per giorno nel cuore del vecchio odio contro il figliastro, riesce a far cacciare quest’ulimo di casa. Alfonso, così maltrattato non si ribella: si duole soltanto d’esser stato posto con male arti talmente in cattiva vista al padre, che questi non vuol nemmeno più sentirlo a nominare. Incontratosi con Volpe, un domestico, viene a sapere da costui la triste notizia della malattia di Zanobi, e con quel poco, che gli resta, corre dal dottore Anastasio, perchè vada a visitare il vecchio infermo. Ma mad. Tedalda, la quale non vede l’ora della morte del vecchio, fa accoglier dai servi con villanie ed ingiurie il povero meli) Cfr. N. (4,) del Cap. I, commedia in 3 atti. È da notarsi che questa stessa trama fu rielaborata dal Molière nella Malade Immaginaire e dal Gol-doni nella Serva Amorosa. V. un cfr. tra questi due drammi in Riv. Dalmatica, 1, 5 e cfr. a questo proposito — Pierre Toldo - Études sur le théâtre comique français du moyen âge etc., in Studj di Filol. romanza, fase. 25 ^vol. IX, fase. 2) p. 347. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA dico, che è costretto a tornarsene senza nemmeno aver potuto por piede in casa del malato. Dal canto suo 1' astuta matrigna manda in cerca del notaio Ser Pippetto, per mezzo del quale induce il vecchio a far testamento, diseredando Alfonso, ed a farle completa donazione. Alfonso, che sa tutto 1’ accaduto, malgrado la persecuzione, di cui è fatto segno, si sente sempre più acceso d’ amore e compassione pel padre, cadente d anni e infermo, con tanta perfìdia ingannato e tradito. Ma il vecchio Pandolfo, amico fin dalla fanciullezza di Zanobi, convinto del-l’innocenza d’Alfonso, accoglie temporaneamente quest ultimo in casa sua, e lo consiglia alla pazienza: egli troverà rimedio a tutto. Ringraziatolo del suo buon cuore, Alfonso gli soggiunge : « Quanto poi al testamento io non ci -penso più, perchè amando io, ancorché scacciato, più il padre che le ricchezze, se avverrà eh’ egli finisca la sua vita, come è già spento 1’ amor paterno, cercherò dar in qualche occasione di morte honorata e levarmi da questa città, per me poco avventurata » (i). Pandolfo lo consola, dicendogli d’aver speranza nella visita, ch egli farà al-1’ amico Zanobi. Difatti nel terz’ atto assistiamo all interessante colloquio de’ due vecchi. Il primo, dopo aver astutamente trascinato il cocciuto Zanobi, che non voleva nemmeno udire il nome d’Alfonso, a parlare del figlio diseredato, sa insinuarsi a poco, a poco così bene nell’ animo dell infermo, che, guadagnatosene tutta l’attenzione, alla fine osa dirgli: « Volesse il cielo, che voi non vi ingannaste et che le cose passassero nel modo, che discorrete, ma io, che so il fatto come sta, et che vi amo, et vi ho amato sinceramente e più che da fratello, ci scoppio di dolore, et non posso sopportare che voi in tal maniera restiate burlato, vilipeso, tradito, et che un figlio, unico, modesto, virtuoso et ben creato habbia ad esser trattato da voi in questa guisa! ». Per quanto Zanobi rimanga impassibile, credendo 1’ amico subornato dalle malizie d Alfonso, Pandolfo non si perde d' animo, e gli domanda di qual colpe, di quali vergogne si sia reso colpevole il figlio : non sarà certo una colpa per un giovanotto il desiderio d andar ben vestito, o di trattenersi in lieti ed onesti ritrovi cogli amici.... ma Pandolfo lo sa, la maggior colpa d’Alfonso è d’ aver una matrigna, che, col- lii Amor Fil., at. II. 4-4 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA legata al fratello Fabrizio, congiura a’ suoi danni. Zanobi protesta violentemente, alza la voce, non lo lascia finire, ma Pandolfo lo assicura, che in tutto Γ intrigo il maggior reo è lui, Zanobi, per aver creduto alle calunnie di Tedalda, senza riporre nessuna stima nel figlio: * Mi dò a credere », egli dice tra l’altro, « che li [a Tebaldaj par mill' anni di vedervi morto : o poveretto voi! non sapete invece che in questa stessa mattina il vostro Alfonso ha mandato un medico a sue spese a visitarvi, che da loro è stato cacciato ; eh egli, ancor privo di casa vostra, vi desidera ogni bene, e solo si duole d’ esser privo della gratia vostra? ». Questa relazione fa un lieve effetto sulla pertinacia di Zanobi, che, passato il primo istante, cacciando ogni dubbio esclama: « ma che? poss’io credere che Tedalda la non mi ami di core, e che la mi dicesse una cosa per un’altra? ». Pandolfo, visto inutile ogni suo discorso, lo vuol convincer colla prova, e gli propone di fìngersi caduto morto per la strada: egli dal canto suo penserà a menar rumore perchè la burla sia presa sul serio, ed in tal modo il fìnto morto potrà conoscere, chi gli sia veramente affezionato. Zanobi accetta. Pandolfo, disposta ogni cosa e steso a terra l’amico, mosrrandosi trafelato, picchia a casa di monna Tedalda: ?a^d' ~~ ir0’ tOC’ ,tOC ! ° sventura ! ° malanno ! o povero mes. Zanobi ! Ted. - Mi pare di sentir batter alla porta : sarà forse il notaio, tornato col testamento.... ah siete voi mes. Pandolfo? che buone nuove? Pand. Anzi, mes. Zanobi, vostro marito, soprapreso da gravissimo accidente di gocciola e caduto ! è morto, senza poter pur dirmi una „ s°la Parola.... eccolo qui a terra lungo e disteso ! ' E ,che d,lte1? questa vi Par dunque cattiva nuova ? vecchio rimbambito, barbagianni, pazzo e ritratto vero dell’ avaritia, che credevi forse di campar cent’ anni ? e che io ti volessi bene ? or vedi, or vedi che pur una volta ci arrivasti, e che più con tanta miseria, cosi di notte, come di giorno, non mi farai patire! non so chi mi tiene ch 1 ti levi la barba pelo a pelo, o eh’ io non ti cavi quegli occhi arrovesciati.... ma lascierò che questo te lo faccino i corvi ! Ah per me non voglio darti sepoltura, nè ci spenderei un soldo . rimanti pur costà, eh’ io voglio andar a trovar il notaio, e farmi levar copia del testamento : mes. Pandolfo se po-tete, portatelo in casa, e restatevene in pace ! (e così se ne va dal notaio). Zan. — (quando 7ed. s'è allontanata) Ah scellerata ! ah vituperosa ! a me pelar la barba ? eh lasciarmi in preda de’ corbi ! queste eran le unte paroline che tu... Pand. — Tornate a posarvi in terra, perchè mi par sentir la vostra serva venir a basso ! Fior, (la serva) Questa mia padrona ha avuto tanta furia d’andare a ri- Pand. Fior. Zan. Volpe Pand. Volpe Pand. Volpe Zan. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 425 trovare quel notaio, che non ha avuto patientia eh’ io mi metta la cuffia, e finisca d’ appuntarmi il fazzoletto— ma no.... e quello mes. Zanobi eh’ io vedo disteso per terra ? — Tu vedi, Fioretta, che disgratia è stata questa ! questo povero vec- chio del tuo padrone è cascato di morte repentina, eh’ io non ho potuto dargli aiuto ! — Oh che dite ? oh ringraziato sia il manico della padella ! tanto pre- gai che una volta fui esaudita ! veh, che una volta alla fine si leverà la ruggine dagli stidioni, e che le pentole s’ empiranno d’altro che di cavoli e di civaie ! o avarone, veh che una volta ti sei chetato per semmpre! pur ti cavai, non so come, dieci fiorini di mano, e me li godrò alla barba tua, e poiché di tanti digiuni, che mi hai fatto fare, alla fine mi vo’ vendicare, ti vo far due carezze colle mani ancor bagnate della lavatura di scodelle et lavarti il viso, ma lasciami pigliar di qua e forse ritroverò la mia padrona. — (come sopra, aspettando si sia allontanata). Ah servacela sudicia! ah strega ! a me lavarmi il viso ? poss’ io pur -morire davvero, s’ io non te ne faccio pentire (si corica nuovamente). (•un servo) — Fioretta ! Fioretta ! dove diamine sei tu ? la mandria è uscita fuori, ed a me tocca serrar la stalla ! Buon dì mes. Pandolfo, buon dì !... che havete voi, che piagnete? mi parete uno ebreo, che gli sia rubbata 1’ oca, o abbia perso il pegno ! —- Io ho perso un fedele amico, tu hai perso la colonna di casa, dico il tuo padrone : vedilo lì bello e disteso ! gli è caduta poco fa la goccia ! — Cento volte gli è cascata del naso, e mai è morto ! bisogna al certo sia una di quelle, che metton sulle fabbriche !... o padrone mio caro, mi vien pur la voglia di strapparmi i capelli, di darmi delle pinate nel viso, e far da porco castrato, dimette le strida, poiché la mala fortuna ha voluto, che voi ina dugiaste tanto a chiuder le lanterne per andare al buio sino e terra nova : che veramente son passati parecchi mercoledì, che la vostra bottega haveva a far festa, e consolare i vostri servitori, che ogni dì vi davano cento cancheri d’ entrata e cento malanni per fide-commesso, che non li potessi nè vedere, nè impegnare ! Padroncino mio dolce, che m’ havete lasciato dieci fiorini____ così v’ havessi voi aggiunti due zeri ! e perchè sento dir che gli avari hanno il cuor nell’oro, mi vien voglia di spa-rarvelo, e torvelo tutto, perchè non lo portiate nell’ altro mondo ; ma non è dovere almeno che queste scarpe e questo cappello vi rimangono addosso, e massima ora che recitate il latino di piazza, che non si sente nè caldo, nè freddo! (e fa per spogliarlo). - A sciagurato ! lascia stare o furfante ! vedi carità di servitori ! s’ io piglio un pezzo di legno, t’ insegnerò io a procedere ! _ Oh chetatevi voi ! ma sarà meglio andare a trovar ser Pippetto perchè mi lasci la copia della scrittura di dieci fiorini ; e voi restate a fare il battuto, ed io farò il battente di pedina!... — (sollevandosi, al solito dopo che il servo è. scomparso) Manigoldo ! ancor tu sei della lega, e'forse ch’io non ti stimavo servitore fidato ? ma nè tu, nè gli altri goderete della mia roba ! Giorn. St. e Lett. della Liguria 28 426 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Giunge ultimo mes. Fabritio, il fratello di mad. Tedalda, un tipo di poeta da sti apazzo, come tutti gli altri ben condotto, il quale valendosi a iosa di citazioni del Petrarca, dimostra l’infamia della vita, fino allora condotta da mes. Zanobi, che qualifica « ho-maccio, crudele, tanghero et indegno di sepoltura » e conclude: « pei me del resto non poteva succeder di meglio, perchè resto erede di 400 scudi, e me li goderò a dispetto della sua inaudita miseria: ma in casa non ci sarà nulla per me.... » (ed entrai. Zanobi non può più resistere, vorrebbe subito vendicarsi di tutti, ingiuriarli, bastonarli, diseredarli. Ma Pandolfo lo prega ad attendere ormai ancor un istante per mettere a prova i sentimenti di Alfonso, e, tornati ambedue nella posizione di prima, egli fa chiamare il povero perseguitato. Alfonso alla tremenda notizia, corre fuori di sè pei la disperazione a gettarsi sul corpo del padre, dolendosi e lamentandosi solamente di non aver potuto provare in vita l’amor filiale, che sempre inalterato nutrì per lui, e ripresa un po' di calma, volgendosi a Pandolfo così gli parla : « Mentre eh’ 10 resto alla guardia del cadavere, prendete vi pre&o il mio ferraiolo e questo cappello e la mia spada, e fatemi in gratia di darli in vendita, acciò con i danari che se ne tioveranno, poiché non potetti in vita, possa ora dar quel segno d amore al mio defunto padre, che mi vieta il mio infelice stato ». Ma Zanobi, ormai fin troppo convinto alzandosi esclama: « non è più tempo di fingersi quel ch’io non sono! e ben tempo eh’10 t’abbracci! ». E così avviene la riconciliazione tra padre e figlio : Alfonso ottiene di sposarsi colla figlia di mes. Pandolfo, ed a tuti gli altri nella festa del matrimonio, intercessore Pandolfo, il vecchio Zanobi perdona Questa commedia si stacca completamente non solo dal- 1 altra produzione di Jacopo, ma in generale dal teatro comico contemporaneo, che o col Della Porta tornava ai vecchi intrecci plautini o terenziani, o colle maschere si valeva d’equivoci e di lazzi, o deperiva miseramente nelle mani dei religiosi. Ridotta dall’ antico modello di cinque atti a tre soli, e tutta tessuta com’è attorno ad un dramma intimo dei più comuni, questa commedia è un vero e proprio studio di caratteri umani, e per questo 1 personaggi parlano, e si muovono, non secondo la tradizione comica, ma così come nella Firenze della prima metà del 600 solevano ed i ricchi mercanti, cocciuti e gelosi delle GIORNALE STORICO E LETTERARIO DliLi^A LIGURIA 427 sostanze a gran prezzo accumulate, e le astute matrigne, accecate dall’ interesse, ed i servi, pronti ad insolentire contro chi non poteva più tenerli a freno, o contro chi era caduto in disgrazia, e ad assecondare chi più li favoriva. Singolarmente caratteristico e pur colto dal vivo è il tipo di Fabrizio, il poeta di dozzina, che ama infiorare i suoi periodi artificiosi con versi tolti di peso dal Petrarca. Infatti allora Firenze non difettava certamente d’una simil genìa: chi non ricorda la viva rappresentazione, che ce ne ha lasciato il Chiabrera nel sermone a Francesco Gerì, ed il consiglio, con cui chiudeva i suoi versi r Ma, Gerì, se tu scorgi anco da lungi un di questi noiosi calabroni spulezza via, metti le penne e fuggi. Negli altri drammi del Nostro l’artifizio dell’intreccio portava con sè l’artifizio della forma, in questo invece il dialogo è sempre sobrio, pieno di brio e di calore a seconda dei varj momenti, e par quasi fin dai minimi particolari che 1 autore abbia portato sulla scena uomini e cose, delle quali egli avesse profonda esperienza. Alfonso perseguitato, cacciato di casa, diseredato, non potrebbe avere qualche analogia con Jacopo, quale noi conoscemmo nella sua gioventù: Per questo riuscì a infonder vita nelle scene di questa commedia, forse prima vissuta che scritta? Non lo sappiamo, ma non è del tutto improbabile. L’Amor filiale da soloci fa realmente rimpiangere che il Nostro abbia spesa 1’ opera sua in tanti altri drammi d intreccio, e che invece di continuare la tradizione del Cecchi, fissando forse lo sguardo al teatro di Lope de Vega, pur valendosi di forme e di elementi paesani, e concedendo al gusto dei contemporanei, abbia posto ogni suo studio nell inventare e cercare nodi complicati d’amori e d’avventure fantastiche. Più che nella lirica, egli fu conservatore degli antichi canoni nella drammatica, e come tale non trasgredì mai (se si eccettui l’ultima opera sua 11 trionfo di David) le tre unità aristoteliche (i). Prendendo le mosse dall’ arte del Cecchi e del Guarino, egli volle rinnovare la Sacra Rappresentazione, fondendo in essa l’elemento sacro coll’elemento romanzesco, senza per (i) Prefaz. al Trionfo di David. 42S GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA questo trascurare lo studio dei caratteri, dando luogo così al- 1 ultima evoluzione del ludo sacro, avvenuta se non con intenti artistici esclusivamente nostri, certo però con elementi paesani. Nel dramma profano, non tenendo conto della Finta Mora, che non s avvantaggia di molto sulla produzione drammatica contemporanea, noi notammo invece lo spirito nuovo di poesia e di sentimentalità, direi quasi con ün anacronismo, romantica che colora e ravviva in modo insolito le scene del Voto d' Oronte. Coll Amor filiale infine Jacopo provò di possedere un ingegno non comune ai suoi tempi, fornito d’ottime qualità per osservare la vita contemporanea e per ritrarne il lato interessante. Concludendo, il Cicognini non è certo uno scrittore che si possa considerare a sè, nè che lo meriti, non possedendo egli nessun carattere saliente suo proprio, o almeno non avendone saputo trar sufficiente profitto; ciò nonostante l’opera sua di autore drammatico è preziosa, in quanto che ci mostra l’ultimo stadio del dramma sacro e profano, da un lato incerto di staccarsi in modo definitivo dai modelli classici,, dall’altro desideroso d’accostarsi maggiormente alla vita moderna, di soddisfare ai suoi gusti ed alle sue esigenze. Se nell’andamento generale potè prendere la movenza del teatro di Lope, negli elementi però costitutivi del dramma, in gran parte nel modo d’atteggiarli, nei criterj artistici, insomma, il Castrocarese seguì la pura tradizion paesana. Ultimo sforzo dell’arte nostra, perchè pochi anni dopo con Giacinto Andrea, il primogenito di Jacopo, seguito da larga schiera d’imitatori, il dramma in Italia s’appropriava e spiriti e forme del teatro spagnuolo, Il tentativo, adunque, di Jacopo, d accordar le tradizioni della commedia culta e del ludo sacro, elaborate fin allora tra i dotti e tra il popolo della patria nostra, colle esigenze de’ tempi mutati, non ebbe alcun seguito. Nè diversamente poteva accadere, a meno eh egli non avesse sortito un gran genio, perchè la tragedia e la commedia sacra e profana era destinata a cadere davanti al dramma, che veniva rivestendosi dell’onda sonante della musica. Nella quale tra gli ultimi anni del sec.XVI ed i primi del XVII era avvenuto un vero rinnovamento. Il canto dantesco d’Ugolino, cosi ricco di forza rappresentativa e di tragica grandiosità; le lamentazioni di Geremia, tristi nel tono elegiaco, ma paurose nelle minaccie profetiche, avean ispirato per la prima volta nel GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 429 1576 la melopea di Vincenzo Galilei. E dico così, perchè fino allora, mentre il popolo cantava le sue canzoni, modulandole secondo la sincerità del sentimento, la musica d’ arte, seguendo le teorie fiamminghe, era un’ artificiosa combinazione di note, che non si curava d’aver alcuna rispondenza colla poesia, cui doveva sposarsi. Ma non sta a noi di far qui la storia della musica o del melodramma. Ci basti soltanto avvertire, che per opera della Camerata de’ Bardi, e più specialmente d’ Ottavio Rinuccini, il quale ne fu gran parte, si cominciò a considerar la musica, a quel modo che la si considera oggigiorno, cioè come l’espressione indefinita dei sentimenti umani. Per il che fin dai primi anni del ’6oo cominciò quella larga produzione di melodrammi, la quale andò aumentandosi man mano che si progredì ne’ tempi : anche in questo genere letterario il nostro Jacopo volle dar prova di sè coll’Amor Pudico, scritto nel 1614, colXAurilla feritrice del '15, coll’Andromeda del '17 e co' Natale di Cristo del '25 (1). Il primo, composto per festeggiar le nozze principesche d’Anna Maria Cesis con Michele Peretti, non svolge una favola umana, ma sotto Γ allegoria, chiamando a raccolta tutti i numi d’Elicona, rappresenta il trionfo dell’Amor cristiano, celebrato da Venere istessa. Come non vi si svolge una vera e propria favola, così non abbiamo atti, ma cinque intermezzi, denominati dall’autore « hore », che dovevan servire a dividere in cinque tempi le danze fastose, colle quali il principe di Venafro volle render magnifiche le sue nozze. Per tre volte la prospettiva si mutò improvvisamente, mostrando splendidi edifizi, dove prima erano rovine; o grotte infernali, dove prima ridevano i campi elisi, popolati dai più famosi poeti in volgare. La qual cosa non era certo nuova, dopoché il Rinuccini (2), quattordici anni avanti aveva osato pel primo un tale ardimento nel II atto dell’ Euridice, e di cui s’ era scusato con queste parole : « così parimente ho seguito 1’ autorità di Sofocle nell’Aiace in far rivolger la scena, non potendosi rappresentar altrimenti le preghiere e i lamenti d’Arpheo ». Forse Jacopo potè toglier l’idea prima di questo componimento, dall’ altro spagnolo Las bodas del alma con el amor divino, che Lope de Vega aveva scritto (j) Già citate nel cap. I. (1) O. Rinuccini, Ed. cit.,· pref. all'Euridice, p. 15. 430 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA per le nozze di Filippo III con Margherita d'Austria. Infatti anche in questo, l’ultima scena d’Amore, che, steso sopra una croce, celebra i suoi sponsali coll’anima umana, scena, che è come il riassunto di tutto il dramma, mostra evidentemente lo stesso scopo del « Festino » di Jacopo, di esaltar cioè Γ amor cristiano. In realtà però tutto l’apparato mitologico ed allegorico, di cui il Nostro fa sfoggio, non è che diretta derivazione ed ulteriore svolgimento de’ trionfi simbolici, usati tra noi fin dal decimoquinto secolo per celebrare i grandi avvenimenti. Certo che l'Amor pudico, accompagnato dalla musica, posto in scena con grande sfarzo dovè riuscir interessante e parer bello, ma se lo si deve considerare secondo il valor letterario dobbiam confessare esserne assai deficiente. All’opposto, VAurilla feritrice, scritta l’anno seguente, è per la materia e per la forma un idillio delicatissimo di carattere romanzesco. Aurilla, esercitandosi a tirar di freccia, ferisce involontariamente il giovane Alidoro, di cui essa è furiosamente innamorata. Il fratello d’Alidoro per vendicarne la morte, sfida Trineo, di cui l’eroina è sorella. Ma Alidoro, non v’è nemmeno bisogno di dirlo, non era morto, e, ristabilitosi dalla leggera ferita, tenendo segreto il suo nome, tutto chiuso nell’ armatura si presenta in Campo per combattere in favore della bella principessa, per la quale egli pure ardeva dimore. Senonchè, avendo poco prima trovata Aurilla sola pel bosco, tutta dolente per la creduta morte d’Alidoro, per metterne a prova la fedeltà, egli, senza farsi riconoscere, 1’ aveva talmente indispettita con inopportune dichiarazioni d’amore, che essa per l’odio concepito contro chi ora si presentava qual suo campione, s’arma, ed entra celatamente tra i guerrieri del fratello d’Alidoro. Trineo invece per riconoscenza al misterioso difensore si schiera, come era naturale, dalla sua parte Si fa il torneo: Aurilla resta ferita dell’ignoto cavaliere, e alle sue parole : « Alidoro! Alidoro! a te ne vengo — per rivederti assai più bello in cielo! » il guer-rieio sconosciuto accorre, e si scopre pel vero Alidoro. Ma la ferita al solito non è mortale, e sanata poco dopo, Alidoro ed Aurilla si sposano. In questo idillio graziosissimo, svolto in « cinque parti », vengono a fondersi, come si vede due elementi tradizionali nell’arte: l’elemento mitologico delle ferite accidentali, GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 431 che, passato per la prima volta da Ovidio (i) nel Rapimento di Cephalo di Niccolò da Correggio, entrò a sostener l’azione in quasi tutte le favole pastorali, il Pastor fido non escluso, composte nel '500 e nel ’6oo; e l’elemento del tutto romanzesco di duelli, combattuti fra amanti, ignoti l’uno all’ altro sotto le armature, come quello di Tancredi e Clorinda. Certo è che il poeta riuscì, a fonderli in un componimento pieno di grazia, tutto spirante una poesia di delicate passioni, temperata da certa sentimentalità che concorre a far d’Eurilla una soave figura di fanciulla fantastica, come è fantastico il mondo, in cui essa si move. Altrettanto sotto ogni aspetto non si può dire dell Andromeda, rappresentato in Firenze nel ’iy nel palazzo Rinaldi alla presenza di Leopoldo, arciduca d’Austria, degli accademici « Storditi », proprio quando n’ era console Jacopo Corsi. Non una vera e propria azione drammatica, ma il mito di Perseo ed Andromeda presta argomento ai sei atti, dei quali consta. Essa non è che uno fra i tanti esempi, che ancor ci restano dell ultimo svolgimento, che subirono gli intermezzi. Limitati in principio a pantomime, vennero man mano ampliandosi, accogliendo e svolgendo il dialogo in quadri mitologici, che variavano ad ogni atto della commedia, cui venivano interposti. Ma più tardi, invece di trarre argomento da diversi episodj, presero a svolgere un mito unico in veri e proprj atti, sì che in luogo d’ una, si rappresentavano due commedie, gli atti delle quali s’ alternavano, facendosi, direi quasi, reciprocamente da intermezzi. L Andromeda ce ne fornisce appunto un esempio. Più interessante è per noi il Natale di Cristo, uscito per le stampe nel 1625 con dedica a Uladislao di Polonia. I personaggi son tutti allegorici. Dopo un breve soliloquio di Satana, ch è uno sfogo di rabbia contro 'a luce e contro l’uomo, la Natura umana, seduta su ruderi tra le campagne di Betlemme, si lamenta delle tristi condizioni, nelle quali piombò dal giorno, in cui: ....Adamo e l’infedel consorte (ingratissima coppia) divenne» servi di Peccato e Morte, (2) e mentre nella sua desolazione, prega Dio, la Morte le passa (1) Ovimo, Metamorfosi, lib. VI, cap. XIX: vedi su questo Gian. Stor., v. XXII, P- »9· — (2) At· l’ sc· L 432 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA dinnanzi, ricordandole esser la colpa dell’uomo la causa del suo incontrastato dominio: dunque pianga in eterno. Allontanatasi tacitamente la Morte, s’ avvicina all'afflitta il Peccato, che dopo averle rinfacciato i suoi errori, conclude : tu genitrice sei, noi siara tuoi tìgli, tu producesti ingrata nel maledetto suol triboli e spine e dispietate fere et augni atroci : dunque a ragion in sì funesto manto gli occhi condanna a sempiterno pianto ! Ma la Natura umana spera ancora: un giorno, profetarono i verrà un Salvatore... quand’ecco la Disperazione tenta di strapparle anche questo vaticinato conforto. Accorre però la Speranza, al cui apparire fuggono e la Morte e il Peccato e la isperazione, e mentre la nuova venuta consola la dolente, accompagnato da un armonia celeste un angelo dall’ alto annunzia avvento del Redentore: dà fine allo spettacolo un dialogo tra pastori. Anche tra noi 1 allegoria s era infiltrata, e in larga scala, azione drammatica, ma essa concerneva solamente concetti astratti di filosofia profana, non concetti religiosi, e tanto meno un avvenimento, così sacro come la nascita di Gesù Cristo. Non solo, ma quei festini e quei trionfi mitologici-allegorici, ai quali appunto voglio alludere, dopo il ’4oo e la prima metà del '500 eran passati d uso. come mai adunque ci si può spiegare ora nel dramma del Nostro una tale innovazione, e nello stesso tempo un tale anacronismo? A questa domanda troveremo faci e risposta, pensando cosa fosser gli « autos » di Spagna, ed in special modo El nacìmiento de Cristo di Lope, o El divino Orpheo di Caldeion (1). Lasciando da parte quest’ultimo, al quale certo il Nostro non potè attingere, noteremo soltanto che anch essa, come le altre, è una rappresentazione eminentemente a egonca, nella quale fan da personaggi il Peccato, la Morte, il Maomettismo, il Giudaismo, la Giustizia, la Pietà, la Carità e simili. Ma ben altre attinenze ha il Natale di Cristo coll’ « auto » di Lope : nel dramma, se così può dirsi, del Cicognini la Natura umana si lamenti dei mali, che le son pervenuti dal peccato ori- fi) llKNOR, opi cit., t. Ili, pp. lÇ)-2-. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 433 ginale, nell altro di Lope la caduta deH’uomo è posta con un libero ardimento sulla scena: in quello Satana entra furente, accompagnato dalla Morte, dal Peccato, dalla Disperazione; in questo comparisce insieme all’Orgoglio, alla Bellezza, all’ Invidia: in quello i tre satelliti del Demonio vilipendono con boria ingiuriosa di vincitori la Natura umana; in questo la Morte, il Peccato ed il Serpe esultano per la vittoria riportata: in quello i demoni infernali scompaiono davanti alla Speranza; in questo si dileguano all’annunzio solenne dei cieli; in quello infine, come in questo un dialogo tra pastori dà termine al dramma. Perciò concludiamo, che il Natale di Cristo si stacca del tutto dalla tra-dizion paesana, e costituisce un tentativo di sposare alla musica nostra, che allora veniva formandosi, il dramma sacro-allegorico d’imitazione essenzialmente spagnuola; tentativo non spregevole, riguardato nel suo valore d’ opera d’ arte, prezioso, se lo si consideri in rapporto alla storia delle relazioni tra il teatro iberico ed il teatro italiano. Si noti ancora che questa trasformazione di personaggi individuali in concetti astratti, se ci mostra la deficienza di fervida ingenuità nel sentimento religioso, ci prova altresì come i misteri drammatici cominciassero fin d’allora a fondersi con un più profondo e più adeguato concetto filosofico. Noi vedemmo il merito di Jacopo Cicognini, di questo amico ed ammiratore del Chiabrera, quale lirico e quale commediografo. Riguardo a questi componimenti per musica finiamo col dire non potersi dimenticare l’Aurilla pel suo valore intrinseco ed il Natale di Cristo, oltre che per certa dignità di forma, pei caratteri, che presenta a comune cogli « autos » di Spagna. Mario Sterzi ORIGINE DELLA FAMIGLIA RODAR! La cattedrale di Cremona, che è pure un monumento di poesia e di storia, d’arte e di scienza, di civiltà e di fede, soltanto otto anni fa non aveva ancora il suo storico, mentre non pochi documenti stavano aspettando di poter attestare al mondo i meriti degli artisti che avevano contribuito a farne una maraviglia. C’ erano delle preziose illustrazioni, ma la storia non c’ era ; dico la Storia della fabbrica del Duomo di Cremona. 434 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Questa desideratissima storia ci fu data nel 1894 da Luigi Lucchini (1), il quale, avendo raccolto con diligenza e acume da parecchi documenti molte notizie e avendole ordinate con metodo, è benemerito non solo per quel che ha fatto, ma anche, e forse non meno, per quello che ha preparato ad altri studiosi. Il lettore ne avrà subito una prova nella dimostrazione storica che gli presento, facile in grazia delle ricerche del Lucchini; facile, ma non senza importanza negli annali dell’arte, e cara senza dubbio alla citta di Cremona, a cui è da attribuire una nuova gloria. Questa gloria è Tommaso Rodari, di famiglia, se non precisamente di nascita, cremonese. Tommaso Rodari, non conosciuto o non abbastanza pregiato dal Vasari, non ricordato da Quatremère de Quincy, non ancor menzionato nell'enciclopedia di Larousse, è celebrato invece dal-1’ alta critica moderna, che lo colloca tra i maggiori maestri del rinascimento. In Lombardia, però, a Tommaso e ai migliori artisti del suo casato non mancò 1’ ammirazione de’ contemporanei, nè quella della loro immediata posterità; mancò, invece, allora e poi, quella fama italiana, e più che italiana, a cui avevano diritto e che solamente ora vengono acquistando. Tommaso Rodari fa la sua comparsa nella storia come Ingegnere generale e Scultore nella fabbrica cel duomo di Como sulla fine del secolo XV. L’anno 1487, compiuta la facciata di quella cattedrale, si volle cominciare la costruzione delle cappelle laterali. Allora il capomastro che soprintendeva al lavori del duomo, maestro Luchino da Milano, che era soltanto « un uomo pratico di murature e di sculture », scomparisce, e si presenta questo « grande artista.... una specie di Mantegna » della « scultura » (2). Più di quarant’ anni della sua magistrale operosità spese in quella fabbrica Tommaso de’ Rodari, come architetto e scultore, lasciandovi delle creazioni che furono allora, e sono di nuovo oggi, annoverate fra le più belle che producesse l’Italia in quei (1) Luigi Lucchini. Il Duomo di Cremona. — Annali della sita fabbrica dedotti da documenti inediti. — Mantova. Tip. Mondori, 1894. (2) Mezzario. I maestri comacini, I, ,477 e seg. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 435 tempi, quando in tanta e così felice fecondità del genio italiano, un opera non poteva essere annoverata fra le più belle se non era addirittura eccellente. Donde viene e di che famiglia è questo maestro ? I documenti lo dicono di Maroggia, villaggio sul lago di Lugano, e perciò in quella regione che il Merzario chiama, con giusto battesimo: « territorio artistico comacino ». Tommaso Rodari, dunque, dovrebbe essere, e tutti credono che sia, uno dei tanti maestri di quella maravigliosa patria di architetti e di plastici. Se non che un nome di luogo che accompagni quello di battesimo o quello di famiglia d’ un artista del Quattrocento, non dice sempre tutto quello che si desidera di sapere della sua origine e della sua dimora, e, per di più, non si può sempre esser certi che quel che dice sia proprio la verità, e soltanto la verità. Gli artisti di quei tempi facevano una vita troppo varia e troppo mossa perchè le indicazioni topografiche possano essere sufficienti alla critica storica. Talvolta 1 artista italiano era quasi nomade ; non raramente invece si fermava per anni e anni in un luogo che non era il suo di nascita; ci prendeva dimora, o solo o con parenti, d’ordinario con quelli che esercitavano la stessa sua arte. Anche se vagabondo, non si poteva dire straniero in nessuno dei paesi dove lavorava; si acclimava presto e facilmente, accolto dappertutto con rispetto e cordialità. Non difficilmente gli era conferita la cittadinanza, che, non soltanto un onore, ma era anche un vero diritto, una garanzia legale al suo vivere nei rapporti che aveva con la gente in mezzo alla quale si trovava ' ogni giorno. L’artista aveva,.come tutti gli altri, la sua patria naturale nel comune dove era nato, ma poteva avere delle patrie di adozione, con facoltà di chiamarsi indifferentemente dal nome di queste o di quella. Così sono rimaste, rispetto alla patria d’alcuni di quegli artisti, delle incertezze, che hanno finito per sminuire il valore delle indicazioni topografiche. Le quali presentano anche il pericolo degli equivoci quando (e il caso non è infrequente) più luoghi si chiamano con identico nome o con nomi simili, omonimie e somiglianze molto più rare nei cognomi. Le dotte discussioni sull’origine di quegl’insigni scultori ai quali (forse non senza ingiustizia) resta nella storia il nome di 436 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Pisani, danno un’idea della confusione che può nascere se si prendono le sole indicazioni di luogo per rintracciar la provenienza di artisti di quei secoli. L’argomento nostro proverà una volta di più la bontà di questo criterio di valutazione per i nomi di luogo e per quelli di famiglia. Il nome di Maroggia non ci servirà, come vedremo, a scoprir l’origine della famiglia Rodari ; il casato invece ci sarà guida fidata e sicura. In quanto al nome di Maroggia, un dubbio, sia pure un tenue dubbio, si presenta subito, pel fatto che Maroggia presso il lago di Lugano non è il solo paese che si chiami con tal nome. C’è un’altra Maroggia, in Valtellina, alla quale non mancò lo storico che le attribuì l’onore d’esser la patria dei Rodari. Racconta il Quadrio che Bernardino Roderi (scrive Roderi, non Rodari), onde la certezza ch’egli pronunziava Ròderi e non Rodèri) « nacque in Marogia poco distante da Monistero, Comune di Ardeno », provincia e circondario di Sondrio, « e fu per avventura fratello di Tommaso ». Anche questo Tommaso, seguita il Quadrio, nacque « in Marogia, come argomentare si può dal-Γ Opere sue che rimangono ». — Pericoloso modo d’argomentare, molto pericoloso (i). L’induzione del Quadrio non ha forse altro motivo che l’omonimia. A ogni modo, che la Maroggia da cui si chiama Tommaso, sia quella di Valtellina o sia quella presso il Celesio sul lago di Lugano, è lo stesso per quelli che cercano l’origine della famiglia Rodari. poiché, sino a oggi, nè in quel di Lugano nè in Valtellina s’è trovata notizia degli ascendenti di Tommaso. Ebbero lo stesso risultato negativo anche le indagini per saper qualche cosa della sua fanciullezza e della sua prima gioventù. Di lui, prima che lavorasse a Como, non si sa nulla, nulla de’ suoi maestri, nulla de’ suoi primi lavori (2). Si suppone che studiasse in qualche luogo del territorio co-macino, o, più prudentemente, sotto maestri di quella scuola. Sarebbero arrischiate, ma non assurde, le congetture che avessero lo scopo di dimostrare che 1’ arte magistrale di Tommaso si allaccia per tradizione a quella di cui i maestri comacini la- (1) Storia della Valtellina, III, p. 59. (2) Merzario. Op. cit., I, p. 477. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 437 sciarono così notevoli saggi a Parma. In generale la ricerca delle parentele artistiche fatta in tal modo, cioè senza la scorta di documenti chiari e concludenti, è uno sforzo critico che non dà quasi mai un risultato sicuro e definitivo. Rispetto poi a Tommaso Rodari in particolare, si può esser certi che con tale critica non s’arriverebbe a trovare uno solo de' suoi maestri, dato che n’abbia avuto più d’uno, nè il luogo dove si fece artista, dato che divenisse artista studiando in un luogo solo. I maestri comacini formavano una così vasta e disciplinata associazione, e si spargevano per tanti paesi lasciando ovunque lavoravano così caratteristiche impronte della loro scienza, del loro gusto e della loro tecnica, che a voler rintracciare il luogo e la scuola da cui proviene uno di essi, col solo esame delle sue opere, c’è da perder la bussola prima ancora che la pazienza. E se le ricerche per trovar la scuola da cui uscì questo o quell’ artista di quella grande maestranza, sono inevitabilmente incerte, quelle che si facessero allo scopo di scoprire i maestri e i modelli che educarono Tommaso, sarebbero anche più complicate, se non più diffìcili. Perchè, è ben vero che Tommaso, con tutta la sua superiorità, è sempre un Comacino nei caratteri essenziali delle sue opere; ma è anche vero che ci sono in esse delle qualità che giustificano l’ipotesi che a inalzare al-1’ eccellenza la sua arte si sia aiutato ispirandosi anche a lavori estranei alla sua scuola e al territorio comacino. E presumibile che in Mantova, o in altro luogo, abbia conosciuto il Mantegna, e che gli sia piaciuta quella stupenda durezza de’ suoi dipinti, che gli sia parsa più conveniente alla statuaria che alla pittura e che abbia derivato non meno dall’ opere del Mantegna che da quelle dei Comacini quell’ amabile energia del sentimento e quella cruda eleganza della forma che si ammirano ne’ suoi lavori. Ma, del resto, questa somiglianza tra quei due artisti può esser casuale; e a ogni modo non ci serve a trovar la genesi dell’arte di Tommaso, nè, tanto meno, l’origine della sua famiglia. L’analisi, ripeto, delle opere d’un artista, separata dai documenti, è sempre pericolosa in una ricerca storica. Potrei in proposito presentare al lettore alcuni aneddoti divertenti e nello stesso tempo umilianti. — Il naturalista, con l’analisi dei fatti, procede alla scoperta di verità certe, perchè la natura ub- 43§ GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA bidisce infallibilmente a leggi inalterabili; ma il critico d’arte, salvo i casi in cui l’evidenza delle cose rende inutile ogni critica, non è mai sicuro del fatto suo quando nelle ricerche storiche gli mancano i documenti. Quelli che si sono trovati nel territorio comacino, credo che non rimontino neppure a quell’anno 1487 in cui Tommaso fu nominato Scultore e Ingegnere generale nella fabbrica del duomo di Como. L istrumento originale con cui fu conferita quella carica a Tommaso Rodari figlio di maestro Giovanni da Maroggia, è andato « smarrito » o è « rimasto ignorato », onde a quella semplice indicazione da Maroggia non si sa qual preciso valore si debba attribuire, perchè non sappiamo in qual modo è data, come si tiovi nel documento, se pure ci si trova. Da quell’indicazione non possiamo congetturar nulla; nè che i Rodari siano oriundi di Maroggia, nè che Giovanni sia nato in quel villaggio, nè che Tommaso v imparasse l’arte che gli diede fama e fortuna. Il dubbio che la famiglia Rodari non sia comacense diventa più serio se consideriamo un piccolo, ma non trascurabile fatto accennato dal Merzario. — Nel 1428 (quasi sessant’anni, dunque, prima che Tommaso fosse chiamato a dirigere i lavori del duomo di Como) un « maestro Rodari » lavorava in pietre vive alla certosa di Pavia, ed era, non da Maroggia, ma « da Castello » (1). Da quale delle tante terre che si chiaman così si nomini quel Rodani, è impossibile sapere, se i documenti non dicono altro. Con la scorta del dizionario dell’Amati possiam dare troppe risposte per non restare nell’incertezza. Nella provincia di Como tre paesi si chiamano con quel nome : uno è nel circondario di Como, un altro in quel di Lecco, un terzo nel mandamento di Porlezza. Alla prima, pare che si debba ammettere che quel Rodari sia d’uno di quei tre paesi. Se non che altri Castello vengono, dirò così, a concorrere con essi. Nella provincia di Pavia, dove lavorava quel Rodari, ce ne sono due nel circondario di Bobbio, a pochi passi dal Piacentino. Lombardi per la loro storia, essendo paesi dell’ antico ducato di Milano, sono, però, per la topografia, emiliani. A breve distanza da quei due se ne trovano altri due nella provincia di Piacenza; l’uno nel comune di Pomaro, l’altro in quel di Sarmato. Insieme con 1) Merzario. Op. cit., I, p. 489. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 439 Piacenza potrebbero concorrere Novara, la cui provincia ne conta tre, e Alessandria che n’ ha altrettanti. Molto più notevole (per ragioni che saran dette più innanzi) è Castello di Corte Madama, provincia e circondario di Cremona : nè si può escludere Castel Manfredo, oggi Castelleone, anch’esso nella provincia di Cremona, paese che non manca di tradizioni artistiche, patria della celebre Onorata Rodiani. Il quesito donde vengano i Rodari, si complica inutilmente, come s’è già visto, con le ricerche topografiche. Soltanto nei documenti possiamo sperar di trovare notizie positive. Quelli editi dal Lucchini ne dànno di preziosissime, anzi non lasciano alcun dubbio sull’origine dei Rodari Originariamente la famiglia Rodari è cremonese. La dimostrazione l’ha già fatta, senza accorgersene, il Lucchini stesso. È una dimostrazione documentata e abbondante, alla quale, però, per essere evidente, manca un corollario, che sfuggì al Lucchini e che io invece ero obbligato a veder subito, senza fatica e senza il più piccolo merito, perchè il vederlo non dipendeva per me che da una condizione speciale in cui mi trovavo e mi trovo come studioso. Le vicende che ebbe il cognome di quegli artisti, che oramai Rodari e non altrimenti si chiamano nella storia, m’avevano occupato non poco mentre scrivevo un certo mio lavoretto storico sull’ Origine della famiglia Rondanini, del quale sono già usciti parecchi saggi (l’ultimo nel Resto del Carlino), e che verrà presto pubblicato intero nell’Archivio della R.a Deputazione di Storia patria per le Provincie parmensi. Rivedendo le varianti di quel cognome nella dotta opera del Lucchini, vi riconobbi facilmente il mio casato, Che di necessità qui si registra. Il lettore mi attribuisca pure, se crede (ma non subito), un’ allegra e fiduciosa vanità, dirò così, genealogica, feconda d'illusioni. Ma intanto voglia contentarmi in una cosa che non gli può esser difficile. Prescinda da tutte le reali e le immaginarie relazioni d’affetto e di morale interesse che ci possan essere o si possan supporre tra l’argomento e il povero, ma sereno critico che lo tratta. Non credo di domandar troppo alla cortesia del lettore. Esaminare alcune pagine, di documenti del 440 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Quattrocento senza occuparsi di chi le ha trovate in un libro e le ripubblica, non dev’essere uno sforzo. A dimostrare che Rodari, Roderi, Raude, Rande, Rhaude, dei Rondii, de Rondi, Rondo, Rho, de Rotaris, Ronda, Ronde, Roudori, Rondari non sono che varianti del casato Rondani, il Lucchini si trovò vicinissimo. Con le notizie documentali della famiglia Rodari il Lucchini risale al principio del secolo XIV, come si vedrà più innanzi. — Quando, nel 1431, i Cremonesi, pentiti d’aver parteggiato pel papa scismatico Niccolò V, fecero atto di sommissione a Benedetto XII, vennero obbligati da questo pontefice a edificare nella loro cattedrale una cappella in onore di San Benedetto e a dotarla di trenta fiorini d’oro. La costruzione ne fu affidata all’architetto Gerardo de Rottis (6). « Questo Gerardo de Rodari o Rondori o de Rande », scrive il Lucchini, « è figlio di maestro Pietro, menzionato dal Conte Giulini, che nel 1391, venne invitato a Milano a dare il suo parere sulla questione nata, durante la fabbrica del Duomo, tra i tecnici. Il qual Pietro diede ragione a Iacobo da Campilione suo amico e suo compatriota » (7). Queste parole dicono chiaramente che il Lucchini non pensa neppur un momento che si possa mettere in dubbio che Pietro sia comacense. « Il genitore », continua il Lucchini, « era già morto, e il figlio Gerardo si era distinto nell’ innalzare la vasta e grandiosa fabbrica di S. Giacomo in Braida, ora detta di S. Agostino. Come risulta da istrumento stipulato dal notaio Arasmolo de Pirovauis in data del 27 gennaio 1336, e riportato dal Merula a pag. 245 ». « La fama di valente maestro di muro acquisita gli ottenne di esser chiamato in Duomo in qualità di inzegniero di quella fabbrica ». Le varianti del cognome di questo artista, che il Lucchini ha desunte da documenti sincroni, son già per se stesse la di- (6) Lucchini. Op. cit., I, p. 37, (7) Nei documenti ricordati dal Giulini le varianti del cognome Rò sono: Rhodensis (de genere Rhodensium), De Rhaude, De Rode. — Nell’ Abecedario biografico dei Pittori, Scultori ed Architetti cremonesi di GIUSEPPE Grasselli (Milano. Tip. Manini, 1827) si legge: de Rhaude, Ro e Ronda. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 44I mostrazione che forma Γ argomento e lo scopo di questo scrit-tarello. Il casato di questo ingegnere architetto è, dunque, scrive il Lucchini, « de Rotis, o de Rondii o Rondari o de Rande (conte si vedono nelle carte vecchie nominati diversamente questi egregi architetti cornacensi) » (i). Comacensi? — Da qual fatto o da qual documento si desume che siano comacensi ? « La famiglia dei Rondi o Rodari o de Ronde », seguita l’esimio storico, « stabilitasi in Cremona si rese celebre » (2). Quando si stabilì in Cremona? E donde veniva? Se alla prima domanda è difficile rispondere, è facile invece rispondere alla seconda. I Rodari o Rondi o Rondari venivano dalla vicina Piacenza, dove i loro agnati, detti comunemente Rondana in quella città, figuravano tra i milites o nobili sin dal secolo XII. Di questa provenienza non è opportuno porgere qui le prove, le quali hanno già il loro posto naturale nello scrit-tarello, dianzi accennato, Origine della famiglia Rondanini. Quelli che si occuparono dei Rodari dànno però tutt’ altra risposta. Essi dicono concordemente, ma senza addurre alcuna prova, che anche d’origine i Rodari sono una delle tante famiglie d’ architetti e scultori che dal territorio comacino si spargevano qua e là per l’Italia ad abbellire di fabbriche le città rinascenti a vita più operosa e più signorile. Di questo non dubita nessuno ; e non ne dubita neppure il Lucchini, il quale è così fermo e tranquillo in codesta sua opinione che quando viene a parlare della torrettina che fu inalzata al vertice del frontone nel duomo di Cremona, scrive che tale opera fu allogata a « Pietro Rondo 0 de Rande figlio del-l’Architetto Evangelista, scultore, ma da qualche secolo stabilito in Cremona » (3). Qui il Lucchini, a cui professo tanta stima e tanta gratitudine, mi deve permettere d’usare molto liberamente del mio diritto di studioso, nè si deve offendere se, prendendo crudelmente alla lettera le sue parole, pare eh’ io voglia fare piuttosto dello spirito che della critica. La mia sola intenzione è di ca- (1) Lucchini. Op. cit., I, p. 57 e seg. (2) Lucchini. Op. cit., I, p. 60. (3) °P- cit-> P· 76. Giorn. St. e Lett. detta Liguria 29 442 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA vare dalle sue parole una verità, certa e preziosissima, che vi si nasconde non senza desiderio, si direbbe, di venire scoperta. Se non che a farla venir fuori con un certo effetto (Γ effetto in questi casi non è trascurabile) è utile un’ analisi di quelle parole che può parere scortese. Pietro Rondo, dunque, era scultore, ma cremonese. Questo ma sarebbe notato come poco conveniente anche da mons. Giovanni Della Casa, il quale ci raccomanda di non congiungere « le cose difformi tra sè, come L’ uno era Padovano e 1’ altro laico ». Nonostante che il Della Casa abbia il torto di prender sul serio un verso bislacco d’ un bislacco sonetto in cui il Burchiello non volle mettere che delle spiritose assurdità, è verissimo che non si devon congiungere « cose difformi », come, per conseguenza, è verissimo che non si devono disgiungere con un ma le cose tra le quali non si possa nè distinguere, nè eccettuare, nè limitare. Comunque però si vogliano giudicare queste innocque sconvenienze logiche, è chiaro che quando le commette un uomo d ingegno, non sono che apparenti. Così è nel caso nostro ; quel ma, inesplicabile e anche comico in apparenza, ha la sua causa e la sua origine nella preconcetta fermissima opinione del Lucchini che gli architetti e gli scultori Rodari o Rondari siano comacensi. Con questa persuasione, il Lucchini, dicendo che Pietro Rondo era scultore, sottintende : comacino, — e, come se avesse la stessa persuasione anche il lettore, soggiunge: « ma da qualche secolo stabiito in Cremona ». « Da qualche secolo » forse no. Sarebbe stato un fenomeno troppo straordinario di longevità. Mi perdoni il Lucchini se ho tormentato le sue parole, dalle quali intanto abbiam fatto uscire netta e manifesta questa verità, che la famiglia Rondi, Rande, Rodari, Rondari ecc. era già cremonese nel secolo XIV, e portava un nome che allora, e prima d allora, non si trovava che nella diocesi di Cremona e nella finitima di Piacenza. Altissima era la stima che si faceva di Pietro Rondo in tutta Cremona; senza limiti la nducia che era riposta nell’opera sua. Anche il nome che portava, pareva, in tutto e per tutto, una GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 443 garanzia assoluta. Ne dà una prova solenne questo documento pubblicato dal Lucchini, caratteristico di quell’ età, calda di fede e d’entusiasmi municipali. Il 2 d’aprile 1480, il reverendo Bartolomeo Ghisolfi, suffra-ganeo del Vescovo di Cremona Della Torre, raccolto il Capitolo, i fabbricieri, e nobili delegati cittadini nel Coro della Cattedrale, con atto del notaio Giovanni Francesco Sfondrati, dopo aver celebrato messa, dà commissione a « Pietro de-Rondo pittore, ingegnere e scultore esperto ed esimio, di dare il disegno e di scolpire due monumenti o arche sepolcrali da erigersi, l’una ad onore di 5. Imerio vescovo e patrono della città, e l’altra a S. Pietro e Marcellino Mart. compatroni, che riposano nella Chiesa di S. Tommaso nella città ». « In vista di tali opere, da eseguirsi con tutta diligenza e studio e impegno; e in vista dei meriti suoi per le opere eccellenti già da Pietro Rondo eseguite nel Duomo, esso viene in detto giorno nominato ingegnere architetto di tutta la città e distretto di Cremona, con delegazione di essere sindaco sulle opere di costruzione a nome dei Duchi di Milano o del consiglio della città ». « Si ammette Pietro Rondo e i suoi figli legittimi e naturali, fino alla quarta generazione a tal carica con tutti gli onori, privilegi, esenzioni ecc. ecc. A tale atto si sottoscrivono il Capitolo, i Fabbricieri, il vescovo suffraganeo delegato e non pochi altri testimoni » (1). Nota il Lucchini: « Dinanzi a questo documento irrefragabile erraronno quelli che attribuirono al Maiolo Gio. Battista l’Arca di S. Imerio, come errai ono ancora quelli che la dissero eseguita dall’Amadeo Antonio Pavese ». « Resta cerziorato adunque », conclude il Lucchini, « che del-l’Arca sepolcrale ad onore del Beato Imerio, è autore Pietro Rondo che in alcune memorie è detto che lavorasse quivi assieme a suo zio Iacobino de Ronde o Rondo prima di passare a Mantova al servizio del Gonzaga ». Qui non è meno facile che opportuna 1’ osservazione che se sullo scorcio del secolo XV un Rodari era passato da Cremona alla vicina Mantova al servizio di Gian Francesco II Gonzaga, non pare inverisimile che un altro Rodari, cioè quel Tommaso (i) Lucchini. Op. cit., p. 79. 444 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA il cui nome è così ingrandito nella critica moderna, appunto in quel tempo, andasse qualche volta a Mantova, dove, se mai, avrebbe dovuto conoscere il Mantegna, a cui tanto somiglia. Ora si domanda: — Se nel Quattrocento i Rodari abitavano in Cremona « da qualche secolo », perchè dovremmo crederli comacensi? Lo saranno di scuola, ma certamente non lo sono d’origine. A buon conto, non si trova di loro nessuna antica memoria nei paesi di cui si vogliono oriundi, mentre le memorie della loro dimora in Cremona sono così antiche e così certe che non pare neanche lecito di supporli d’altra città; tanto meno, poi, d’altra regione. Il Grasselli e il Lucchini indicano persino la parrocchia a cui appartenevano. « Nel 1501 », scrive il Grasselli, « volendosi dai soprastanti alla fabbrica » del duomo di Cremona « viemmaggiormente elevata la fronte del tempio ed insieme assai più nobilmente decorata ed adorna, affidarono una tanta impresa al nostro maestro Gian Pietro Rò ossia de Rhaude figlio di Pagano della Parrocchia di Sant’Erasmo di questa città », cioè di Cremona (1). 11 Grasselli dice « nostro maestro » Pietro Rò 0 de Rhaude (o Rondo, come scrive il Lucchini) perchè è certissimo che è cremonese. Comunque si scriva, il casato di quegli artisti è sempre lo stesso: Rondo, Ronde, Ronda, Rondii, Rondi, Rondari, Rondori, Rotari, Rodari, Roderi, Rottis, Rotis, Ro, Rho, Raude e Rhaude non sono che varianti d’un solo cognome. La presenza dell’ h in Rho e Rhaude non so che origine abbia. Certo, non segna nessuna modificazione d’ accento, tanto è vero che si scriveva Ro e Raude con o senza h sudifferen-temente. Così resta scritto Rodanus e Rhodanus, antico castello del Reggiano, dove un torrente porta ancora quel nome. L’intrusione di questa lettera superflua è dovuta forse all' ignoranza di scrittori mediocri o di scrivani del medioevo, che, avendo osservato 1 ' rh in parole latine derivate dal greco, scrissero quel cognome come se avesse qualche analogia con altre voci simili (simili soltanto nella struttura materiale) come Rhodus, Rhodope, Rhombus ecc. A ogni modo, la presenza dell’ h dev’ esser notata, perchè la vediamo anche, nello stesso posto, nel cognome Rhodes, che troviamo in Francia e in Inghilterra. (1) Abecedario biografico deiPittori, Scultori ed Architetti cremonesi, p. 219. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 445 Dei Rhodes inglesi non so nulla; dei francesi si può credere che siano oriundi lombardi. Che un ramo dei Rodari si trapiantasse in Francia non è supposizione di critici dilettanti o estranei agli studi storici speciali della regione comacense : è anche opinione d’un dottissimo studioso, nato e cresciuto in quel paese donde si vuole siano venuti i Rodari, cioè dell’onorevole Dottor Romeo Manzoni di Maroggia Consigliere Nazionale della Repubblica svizzera. E un fatto che il celebre missionario francese Alessandro Rhodes (nato in Avignone nel 1591 ) scrisse un’opera in italiano: Relazione dei felici successi della santa fede nel regno di Tonchino. Non c’è da stupire che a un così acuto e diligente indagatore com’è il Lucchini sia sfuggita la strana somiglianza tra Rondari e Rondani. Tutti sanno, per esperienza propria e per osservazioni fatte sui casi altrui, che quando la mente riposa tranquilla e sicura in un errore (e tanto peggio se in un error materiale) difficilmente si corregge da sè, perchè non fa nulla per cercare una verità che non dubita minimamente di possedere. Il Lucchini, fermissimo nell’ opinione comune che i Rodari siano una famiglia oriunda del Comacense, non ha dato importanza a questi due fatti : che i Rodari non fanno la loro comparsa nel territorio comacino se non alla fine del Quattrocento, e che in quel secolo erano già una vecchia famiglia della città di Cremona. Il Lucchini, che è tanto versato nella storia ecclesiastica della diocesi cremonese, e conosce perfettamente la Storia di Casalmaggiore del Romani, trascrivendo le varianti di quel casato, non avvertì la somiglianza che ha con un cognome che alla sua attenzione si era certamente presentato parecchie volte. Il trovare analogie e rapporti di questa specie dipende d’ordinario dal caso ; dall’ indirizzo che in un dato momento prende l’intelligenza; da un movimento della memoria; da un istante di speciale attenzione, 0 magari da una distrazione. Se, per una svista, il Lucchini, copiando Rondari, come fece più volte, avesse scritto Rondani, il lapsus calami sarebbe stato per lui una rivelazione. E tale rivelazione avrebbe integrata la rivendicazione delle benemerenze artistiche di Cremona. Il Lucchini non aveva dimenticato di rivendicare alla sua illustre città la gloria, che non tutti le riconoscevano, d’aver dato nel medioevo famiglie di va- 446 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA lenti architetti, cercati e lodati, migranti in varie parti d’Italia (i). E aveva notato che parecchi di quegli antichi costruttori appartenevano aH’Ordine dei Benedettini, e che dai Benedettini raccolsero la tradizione delle leggi, dell’ arte e della pratica del fabbricare quegli Umiliati che furono così potenti, nella diocesi di Cremona, nella quale avevano, tra 1’altre, una casa nella Villa dei Rondani (2). Dobbiamo ora dimostrare che Rondani, Rondari e Rodari sono lo stesso nome? Umiliamoci anche a questo. Ci vuole pazienza e spirito. Quando si domanda una dimostrazione esauriente, per dir come si dice, diventano obbligatorie anche certe fatiche puerili, come questa a cui mi rassegno. La scomparsa dell’ n (da Rondari Rodari) è avvenuta perchè questa lettera, in fine di sillaba non sempre si scriveva, bastando, per indicarla, una lineetta orizzontale sopra la vocale che la precede. E appunto questa differenza di grafia che ha fatto nascere il dubbio, molto ragionevole, se Dante abbia scritto modo o mondo nel verso in cui Francesca, rimpiangendo la violenta perdita della sua amata e florida spoglia, esclama: Amore prese costui della bella persona Che mi fu tolta, e '1 mondo ancor m’ offende. Delle due diverse maniere d’indicare la n trovo un esempio documentale, direi quasi un esempio monumentale, qui vicino a me. Nella pietra posta sul frontone della parrocchiale della villa parmense detta Mezzano de’ Rondarli, si legge chiaramente inciso, sotto la data 1394, de Rondanis, e nella lastra marmorea presso 1 altare di San Giacomo nella chiesa della SS. Trinità in Parma (a. 1400) si legge, non meno chiaramente, de Riìdanis. E (1) « Dal cenobio di S. Vittore usci una vera legione di buoni architetti, come vedremo. I più celebri architetti fra i lombardi, dice il Rovelli, erano i Cremonesi e i Comacensi. I primi furono adoperati in Vicenza alla costruzione di cinque archi sotto il .pubblico palazzo nel 1223 >>- Lucchini. Op. cit., I, p. 31 · Rovelli. Parte II. Dissertaz. Preliminare, Art. IX, p. CCXXXVI. (2) Tiraboschi. Vet. Humil. Mommi., Vol. II, Dissert. 16, p. 19. — Romani. Storia di Casalmaggiore, I, 192, e Dell’antico corso del Po, Oglio ed Ada, p. 38. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 447 si noti che l’una e l’altra iscrizione ricordano, non dico la stessa famiglia, ma la stessa persona. Róndani e Ródani sono lo stesso nome, come sono lo stesso nome Róndari, Ródari e Róderi. Ho messo l’accento sull’o perchè l’aggiunta al primitivo Rondo, Rondi, Ronde, Ronda non può aver operato un mutamento fonico. Non ci sarebbero le lezioni Rondori e Rondari, Rodari e Roderi, se queste parole non fossero sdrucciole. La caduta dell' a in e avviene, secondo una legge notissima, quando l’e è fuori d’accento, e dopo Ve viene unV: p. e. acqua-acquerello, bottiglia - bottiglieria, cera - cereria, paglia - pagliericcio ecc. ecc. Esempi più convenienti al caso nostro, quelli dei cognomi Zuccaro - Zucchero, Zuccarelli - Zuccherelli. E perchè Rodari, Rondari, e non Rodani, Róndani? Qui non abbiamo bisogno d'invocare leggi di morfologia, fonologia o grafìa. Comunque si spieghi, quello scambio è un fatto. Come i Rosani di Cremona (proprio di Cremona) si chiamarono anche Rosari o de Rosariis (i), così i Róndani si chiamarono talvolta Rondari, sino alla metà del secolo XVI. Un uomo di cui non si poteva perdere la memoria, essendo stato segretario di Paolo III e vescovo d’Alatri, Zaccaria Róndani di Parma, è Rondarius nel Bordoni (2), Rondari nel Gams (3). Con tale cognome lo registra pure l’Ughelli: Zacharias Rondarius Parmensis·, ma aggiunge questa avvertenza: seu de Rondanis (4): minuscola e grave nota, che dà definitivamente una inalterabile soluzione a tutti i problemi relativi al casato di Tommaso Rodari e all’origine della sua famiglia (5). (1) Francesco Arisi. Cremona literata, I, p. 100. (2) Thesaurus Sanctae Ecclesiae parmensis ortus — expos, per R. p. Μ. Fr. Franciscum Bordonum parmasem-Parmae. M.DC.LXXI. — Cap. VI. p. 16g. — (3) Alatri, p. 661. (4) Nell’ Italia Sacra edita a Roma nel 1644, s· legge soltanto: Rondarius Parmensis, p. 334. La preziosissima noticina Seu de Rondanis è aggiunta nell’edizione di Venezia del 1717, p. 293. (5) Mi professo gratissimo agli onorevoli dottor Romeo Manzoni, dottor Alfredo Pioda e avvocato Giuseppe Respini, Consiglieri Nazionali della Repubblica svizzera, della cortesia che m’ hanno usata di cercar notizie per me sull’ origine delle famiglie Rodari che gncora esistono in Maroggia. Codeste famiglie non sono del ceppo degli antichi Rodari. Dell’ antica famiglia Rodari, « è probabile », mi scriveva 1’ eruditissimo dottor Manzoni, « che 448 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Che gli antenati di Tommaso che lavoravano a Cremona due secoli prima eh’ egli fosse eletto Scultore e Ingegnere generale della fabbrica del duomo di Como, avessero imparato l’arte nel loro paese o fuori, da Benedettini o da Umiliati, ο che si fossero fatti artisti sotto la disciplina e con Γ esempio di Comacensi nella prima metà di quel « largo ciclo dell’arte scultoria dei maestri Comacini in Cremona, che incomincia nel 1274 », e finisce al principio del Cinquecento, sono problemi (1). Che i Rodari passassero nel territorio comacino prima o dopo Γ arrivo del Mantegna a Mantova, dove si trovava « un’ unione di maestri di Como », è un altro problema (2). Comunque però la critica risolva questi problemi, resterà sempre vero che gli ascendenti di Tommaso Rodari dimoravano e operavano in Cremona al principio del secolo XIV, e che il loro casato era uno dei più antichi e dei più noti in quella diocesi e in quella vicinissima di Piacenza. Da quali maestri procedano questi artisti si può discutere; ma sulla patria della loro famiglia, dopo la dotta pubblicazione di Luigi Lucchini, non resta più un dubbio. La storia del Lucchini dimostra all’ evidenza che il loro paese d’ origine è Cremona. —-Delle dimostrazioni più ingegnose ce ne sono a iosa; ma stento a credere che ce ne possan essere delle più semplici o delle più chiare. Alberto Rondani qualche ramo siasi poi trapiantato in Francia ». Sarebbero i Rhodes. A ogni modo, è certo che i Rodari d’ oggi non sono della casata a cui appartengono Giovanni, Tommaso, Pietro, Evangelista, Gabriele. « Dell’ antica famiglia artistica dei Rodari », asserisce il Manzoni, « non vi è più qui », cioè a Maroggia, « alcun parente, ma sonvi ancora cinque », anzi sei, come scrive in una lettera posteriore, « famiglie patrizie che portano un tal nome ». « A Tommaso Rodari io ho fatto intitolare », seguita il Manzoni, « la via massima di Maroggia ». E conclude : « Per quanto io abbia rovistato in questi granai non ho mai trovato nessuna memoria intorno a questi illustri. Come il Lunghena, che è pure di qui, e come il Gaggina di Bittone, anche i Rodari si devon esser fermati assai poco nel loro paese. Maroggia allora non aveva nemmeno una chiesa, poiché questa fu costruita nel 1621 ». — Gabrielle de’ Rodari (de Rotaris), dianzi ricordato, lavorava nel duomo di Milano nel i486. V. Merzario,. I, 523. (1) Merzario. Op. cit., I, p. 33. (2) Merzario. II, p. 133. CIORNALK STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 440 VARI ETÀ UN FURTO DI SACRE RELIQUIE DALLA BADIA DI SESTRI NEL 1492. Nei secoli scorsi, quando il culto delle sacre reliquie era molto più diffuso che non adesso, attribuendosi ad esse molte e straordinarie virtù per ogni genere di mali, e governi e privati andavano a gara per possederne, anche con mezzi meno corretti, delle più rinomate e preziose, le stesse avevano un grandissimo valore, il quale seguiva le fasi di tutli i generi posti in commercio, secondo le leggi economiche delle richieste e delle offerte. Egli è perciò che venivano con gran cuia conservate affinchè non fossero portate via dai ladri, i quali, o devoti le rubassero per ritenersele, o cupidi di far danaro per rivenderle, allora erano comunissimi. E per non andar oltre i confini della nostra Liguria basterà che io accenni come le rinomate reliquie di San Giovanni Battista che si venerano in Duomo, furono, come attestano le antiche cronache, rubate in Mira l'anno 1088 dai nostri antenati, i quali credevano di essersi impossessati di quelle di San Nicolò, e come dai nostri scrittori viene descritto in tutti i suoi particolari il furto della celebre icona, rappresentante l’effigie del Redentore detta il Santo Sudario, che si venera a San Bartolomeo degli Armeni, avvenuto assieme a quello del piede di detto santo, verso la fine del 1507, per opera specialmente di un frate di quel monastero, e del Castellano francese, e portate in Francia al Re Luigi XII, che poi le restituì, in seguito alle calde istanze dei Genovesi. Ma del furto di due teste di santi dalla Badìa di Sestri avvenuto l’anno 1492, e per opera di un famulo del Commendatario, e del loro trasporto in Francia per offrirle a quel Re, e per conseguenza con qualche rassomiglianza in alcuni particolari al furto del Sudario sopra accennato, non è cenno in scrittore alcuno, ed è appunto di questo che intendo parlare, prendendo occasione di dire anche qualche cosa sulle costumanze, specialmente ecclesiastiche, di quei tempi e sulle persone che presero parte ai fatti che sto per narrare. Nell'antica Badìa dei Cisterciensi intitolata a Sant’Andrea, che sorgeva sul confine del comune di Cornigliano non lunge dal grosso borgo di Sestri, nella nostra Riviera Occidentale, erano con molta cura custodite le teste di San Simone e di Santa Barbara, le quali con singolare pietà vi si veneravano. Come vi siano pervenute si ignora; si sa però che del 1^52, quando, dopo la morte dell’abate Gregorio De Camulio, il mo- 450 GIORNALE STORICO li LETTERARIO DELLA LIGURIA nastero fu dato in commenda al reverendo Paolo da Campo-fregoso, che poi fu Arcivescovo, Doge di Genova e Cardinale, esse vi esistevano, figurando nell’ inventario che egli fece compilare dal suo procuratore con atto del notaro De Cario, in data 22 marzo, ove sono così indicate : Capsieta una elefantis, in qua sunt capita duo, videlicet Sancte Barbare, et Sancti Si-meonis. E nello stesso modo figurano in inventari successivi fatti da altri commendatarii. Esse avevano la prerogativa di difendere dai danni delle tempeste, in ispecie dalle folgori, onde la invocazione a detti santi, comune anche ai dì nostri col noto motto in dialetto : Santa Barbara e San Scimmon Difendeine da-o lampo e da-o tron, Santa Barbara benedetta Difendeine da-o lampo e da-a saetta. Gli agiografi segnano che Santa Barbara, vergine di Nicomedia, venne martirizzata, perchè cristiana, 1’ anno 287, e la sua festa cade ai quattro di dicembre. Essa è la patrona degli artiglieri, dei minatori, dei pompieri, di tutti insomma che hanno una qualche relazione col fuoco, e Santa Barbara chiamasi sui bastimenti il luogo recondito in cui si conservano le polveri, onde non è a far meraviglia che sia anche protettrice contro il fuoco del cielo, come sono le folgori. E ciò certamente perchè il padre di lei, a nome Dioscoro, che volle lui stesso tagliarle la testa, venne ucciso dal fuoco caduto dal cielo, scendendo dal monte dove aveva compiuto l’esecrando eccidio. Ecco le parole con cui il nostro buon Arcivescovo Giacomo da Varagine descrive il fatto nel suo Leggendario de’ santi, tradotto in volgare da Niccolò de’ Ma-lerbi (1): « Salì sopra un monte insieme con la gloriosa Barbara et con le proprie mane sue li tagliò el venerando capo, et facto questo, descendendo egli dal monte, cade el foco dal cielo et consumolo et arselo per modo che non rimase etiam una minima parte de la polvere de esso misero ». In Genova però, nonostante la sua popolarità pel sopra riferito motto, non aveva chiesa alcuna; vi erano solo alcune confraternite sotto la sua invocazione, fra le quali quella dei forestieri in Santa Maria de’ Servi. Non difficile è l’identificazione del Santo compagno di Santa Barbara nel proteggerci dalle folgori, quantunque di Simoni e Simeoni molti figurino fra i santi ed in tutte le categorie della Curia Celeste. Il Mas-Lattrie nel suo catalogo (2) ne segna nien- (1) Varagine, Legendario di Sancti vulgare historiado. etc. Venetia, per Augustino de Zanni, MDXXV. pag. ix verso. (2) Mas-Lattrie, Trésor de Chronologie. Paris, 1889, pag. 834. \ GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 45 I temeno che ventisette, fra quali San Simone Cananeo, apostolo e martire in Persia l’anno 66 dell’era cristiana, la cui festa, assieme a quella di San Giuda Taddeo, cade ai 29 di ottobre, e che dice patrono dei conciatori di pelli, corroyeurs. Così sarà in Francia, ma in Italia si invoca dai marinai nelle tempeste. Il citato Giacomo da Varagine nel suddetto suo leggendario dice, che gli apostoli Simone Cananeo a Giuda Taddeo furono uccisi da maghi nella città di Sumair perchè banditori della religione di Cristo, e che essi maghi uccisori, vennero dai fulmini carbonizzati: « Onde in essa hora essendo molta serenità furono tante folgori, che spezò el tempio in tre lochi, et li doi maghi deventaro in carboni al tratto de la saeta » (1). Anche San Simone in Genova aveva poco culto. Solo una piccola capella a lui dedicata esisteva sul colle di Peraldo, sotto il Castellacelo, onde anche adesso àvvi una salita detta di San Simone, e lì presso una batteria di obici che tirano al mare, eretta da poco, ha la denominazione da questo Santo. Queste reliquie attirarono la cupidigia di alcuni, fra i quali era certo Giovanni Palasino da Siracusa, servitore del Commendatario di quel monastero ; essi pensando che se avessero potuto portarle al Re di Francia, ne avrebbero avuto largo guiderdone, e cavato buon frutto, concertarono assieme il modo di impossessarsene. * Aspettato pertanto il tempo opportuno, un giorno di maggio del 1492, mentre nessuno trovavasi nel monastero, sforzarono la porta della sacrestia, facendone saltare la serratura, vi entrarono e con certi ferri che all'uopo avevano preparato, aprirono la cassa ove era rinchiusa la cassetta d’ avorio contenente le sacre reliquie, e cavatala fuori la trasportarono nella stalla, coprendola di erba e di foglie, finché al mattino seguente per tempissimo, nascosta fra diversi oggetti caricati sulla soma di un asino la fecero uscire dal monastero ed avviare a Sestri. Ivi la riposero sopra una barca, sulla quale ascesi, nello stesso giorno giunsero a Savona ove rimasero tutto il domani, che era domenica. Al lunedì lasciarono Savona facendo cammino verso la Francia, e dopo sei giorni giunsero a Frejus, e quindi a Parigi. Quivi con Γ intromissione del Principe di Salerno cercarono di far pervenire i detti due capi rubati al Re. Sul trono di Francia era allora Carlo Vili, e presso di lui trovavasi il Principe di Salerno, andatovi per farlo decidere alla conquista del regno di Napoli. Era questi il celebre ammiraglio Antonello Sanseverino, che comandò una potente armata alla battaglia di Otranto, vinta sui Turchi l’anno 1481, ed alla quale, ad istanza del Papa, concorsero pure i Genovesi con un buon numero di galee coman- (1) Varagine, Legendario cit., pag. CLXXIIU. 452 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA date da Paolo Campofregoso arcivescovo di Genova e cardinale. Più tardi il Sanseverino prese parte alla congiura detta dei Baroni contro gli Aragonesi, che regnavano in Napoli, ma questa fallita, fu costretto ad esulare, e dopo di essere stato in prima presso il Pontefice, poscia presso la Signoria di Venezia, andò in Francia presso quel Re che indusse, dopo non poche difficoltà, a calai e in Italia con un esercito, con il quale nel 1496 conquistò il Regno di Napoli. Disceso in Italia col Re, quando questi fece ritorno in Francia stette per qualche tempo come consigliere del luogotenente regio a Napoli, finché mutata la fortuna, e volte al male le cose regie, fuggì di nuovo dal Regno e morì esule a Sinigaglia. Il Re aveva per moglie Anna di Bretagna sposata a 6 di dicembre del 1491, che lo fece padre di quattro figli, morti tutti in età infantile e prima del padre. Già dissi in altro mio scritto come essa fosse religiosissima e superstiziosissima, avendo gran fede nelle sacre reliquie e negli amuleti dei quali aveva dei coffani ripieni (1). E certo per questo i ladri delle nostre andarono in Francia, rivolgendosi a quella corte per esitarle con profitto. Ma il Re non se ne volle impicciare, e sapendo che erano state rubate, deplorando così indegno e sacrilego fatto, ordinò che venissero depositate presso il vescovo di Carpentras, che trovavasi alla sua corte, perchè ne procurasse la restituzione. Onde il Principe di Salerno che serviva di intermediario in quest’ affare, dichiarava che se ne lavava le mani. Suas se lavabat manus, ed il Palasino, fallitogli il tentativo di venderle a quella corte, le consegnava al vescovo di Carpentras. ìl Carpentras una piccola città di Provenza allora sede di vescovato. Sedette in quella diocesi nel 1408 il famoso Pietro de Luna che fu poi antipapa col nome di Benedetto XIII, e dei nostri vi fu amministratore il cardinale Ludovico Fieschi, morto nel 1429 e Giuliano Della Rovera che poi fu Papa col nome di Giulio II (2). Nel 1482 fu nominato Pietro de Valetariis, il quale apparteneva alla famiglia che venuta dalla valle del Taro in Genova, acquistava dovizie ed importanza, per cui nel 1528 alla formazione degli alberghi di quell’anno, alcuni di essi erano assunti alla nobiltà ed aggregati all’albergo dei Cibo. Diversi di questo cognome figurano nella gerarchia ecclesiastica di quei tempi, tra i quali segnerò per ragione di omonomia ed affinchè non vada confuso col vescovo di Carpentras, un Pietro, nominato prevosto della Chiesa di N. S. delle Vigne a 16 di- (1) Staglieno, Di un insigne reliquia di S. Margherita etc. Genova, Tip. Sordomuti, 1891, pag. 13. (2) Gams, Series episcoporum Ecclesiae Catholicae. Ratisbonne 1886, pagg. 229-230. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 453 cembre del 1450, nel cui testamento a dì 29 maggio 1458 in atti del notaro Andrea De Cario, chiama suo erede universale un prete delle Vigne. Ma diversi indizii lasciano supporre che costui sia solo erede fiduciario e che il Deserino figlio di Pietro de Valetariis, nominato nel testamento, e che egli dice di aver fatto allevare ed educare in Fontanabuona, sia un bastardo di lui. Ma vero o non vero ciò, sta il fatto che il Vescovo di Car-pecetras non era di legittimi natali. Suo padre Gregorio era chierico, clericus januensis e quantunque non fosse prete, non aveva moglie, ed i suoi figli, Pietro vescovo suddetto, ed Agostino a lui minore erano bastardi. Egli però si era preso cura di legittimarli e riconoscerli, perchè gli potessero succedere ab intestato, onde alla sua morte, avvenuta nei primi mesi del 1487 in Roma, ove trovavasi in quelle cancellerie come scrittore dei brevi pontificii, il fratello Antonio, vescovo di Brugnato, approvava tali atti. Nè questa macchia alla origine del vescovo aveva pregiudicato alla sua carriera, giacché se le leggi ecclesiastiche prescrivono che per essere assunti agli ordini sacerdotali occorrono legittimi natali, la chiesa, da madre pietosa, usa chiudere gli occhi sopra di ciò, e con opportune dispense vi rimedia, e ciò faceva specialmente a quei tempi in cui molti preti, e dei più eminenti nella gerarchia ecclesiastica, avevano dei bastardi, i quali si avviavano alla carriera paterna. Chi per poco spoglia gli atti dei cancellieri della nostra curia arcivescovile di tali dispense ne trova a centinaia. Il vescovo Pietro de Valetariis non risiedeva quasi mai nella sua diocesi. Allora l’obbligo di residenza non c’era, chè fu stabilito dal Concilio di Trento, e quasi tutti i vescovi facevano così, nominavano procuratori e vicari, percepivano i redditi della mensa e stavano dove meglio loro talentava, andando a caccia di benefizi che accumulavano. Anche il cumulo dei benefizi fu proibito dal Concilio di Trento. Quando le rubate reliquie vennero offerte al Re, il Vescovo trovavasi in Parigi e presso quella corte ove spesso dimorava. Alla fine del 1495 ed ai primi del 1496 era in Genova, infatti addì 26 gennaio, nel citato notaro De Cario, fece procura per affittare i redditi del suo vescovato, e vi era pure alla fine di marzo, figurando in un atto per la compra di due diamanti. Da questi atti si conosce che oltre il suo vescovato aveva diversi benefici in Corsica; era pievano della chiesa dei Santi Gervasio e Protasio nella diocesi di Aleria, canonico della chiesa Marianense, cappellano nella chiesa di nostra Signora ossia di San Gio. Batta di Pietra Alba nella medesima diocesi. Da atti precedenti poi si rileva che quando fu eletto vescovo, cioè del 1484, era canonico di S. Pietro in Roma, Commendatario di Santa Vittoria di Sestri Levante, e di San Nicolò di Capo di Monte, e che aveva l’abazia di San Giusto di Toledo, della quale fece 454 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA rinunzia poco dopo la sua elezione a vescovo di Carpentras, dove sedette sino al 1514, e probabilmente in quest’anno moriva. Egli accolse colla massima devozione le reliquie portategli dal Palasino, le ripose reverentemente in un forziere, a fine di restituirle a suo tempo, ed avuta da lui la confessione del come le aveva rubate, lo consigliò a ritornarsene in Liguria a tranquillizzare il Commendatario di S. Andrea, facendogli piena confessione del modo con cui aveva compito il furto, ed implorando il suo perdono. Ed a meglio indurlo a far ciò gli somministrava le spese del viaggio fornendogli tre ducati. Grande fu il dolore del Commendatario di S. Andrea non appena s'accorse del furto. Egli non sapeva come fosse avvenuto, e se non aveva dubbio alcuno sulla reità del suo domestico, stante la sua scomparsa, intorno ai suoi complici era perfettamente al buio. Ciò che gli cuoceva maggiormente era il dubbio cne qualcuno del monastero, e forse qualche monaco, fosse suo complice, onde i sospetti su questo e su quello lo tormentavano, e non aveva modo di verificare la cosa. La comparsa pertanto del Palasino, che gittatosi a suoi piedi, gli fece ampia confessione di tutto, gli tolse una gran spina dal cuore. Dal suo racconto risultava chiaramente che i monaci e le persone addette al monastero non avevano preso parte al furto, e perciò i sospetti nutriti a carico di qualcuno si dileguarono. Il saper poi che le sacre reliquie erano in salvo, e che poteva a suo beneplacito ricuperarle lo colmò di giubilo. Concesso il perdono al Palasino, giacché il Signore non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e che viva, con atto pubblico rogato dal notaro Battista da Castronovo il 4 settembre 1492, volle che del furto, e della confessione de! Palasino, in ogni tempo rimanesse esplicita testimonianza. Ma passò ancora molto tempo prima che i sacri capi potessero essere riposti dove erano prima, e si ignora il motivo di così lungo ritardo Finalmente a 10 di aprile del 1494 il Commendatario con atto del notaro De Cario, faceva procura in Giovanni Marzocco figlio del fu Giovanni di Sestri, il quale pare che allora fosse in Parigi, per ritirare la preziosa cassettina, ed egli, a suo tempo, eseguì l’incarico, valendosi dell’ opera di Bernardo Gentile del fu Melchiono, nobile Genovese; ricevute le sacre reliquie ritornò in patria, e· ne fece regolare consegna al Commendatario. Questi negli atti è detto Giacomo Della Rovere, vescovo di Mileto, ma invero non era proprio della famiglia Della Rovere, bensì di cognome Gioppo, e figlio di un Antonio di Pietro, il qual Pietro, nativo di Celle presso Savona, uomo di bassissimi natali, aveva sposato una sorella di Fra Francesco Della Rovere, che fu poi Sisto IV. Per cui dopo che questi fu eletto sommo pontefice, i pronipoti Bartolomeo e Giacomo ne assunsero il cognome, e furono accettati nella famiglia. Il Primo ebbe le Si- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA gnorie di Viano e di Cerveteri; Giacomo ottenne il vescovato di Mileto in Calabria, ed altri benefizi (i). Tanto leggesi nel Litta, ma a costoro deve aggiungersi un terzo fratello che pure seguì la carriera ecclesiastica. Ed è Giovanni Battista che del pari si dice de Ruvere alias Ioppìis, del quondam Antonio e clericus saonensis, il quale addì 6 settembre 1473 in atto del notaro De Cario fa una procura in suo fratello conte di Viano, per accettare diversi benefizi nella diocesi di Savona, come l’arcipretura di Vado e quella de’ santi Nazaro e Celso di Varagine, vacanti per la rinunzia dell’altro suo fratello vescovo di Mileto. Il ricordato Giacomo quando fu eletto Giulio II, pure Della Rovere, nel 1504 volle cambiato il vescovato di Mileto con quello di Savona, e quindi brigò molto per essere fatto cardinale, vantando a titolo principale la parentela sua col Papa. Ma questi non ne volle sapere, onde egli morì di crepacuore nel 1510 (2). Quantunque Commendatario di S. Andrea di Sestri non soggiornava quasi mai nel monastero, e trovava più comodo lo starsene in città. Nel 1494, quando fece la procura al Marzocco, pel ricupero delle due teste rubate, aveva l’abitazione nella contrada del guastato di Santa Marta, ora dell’Annunziata, in una casa del convento di S. Andrea di Sestri ; più tardi passò nel chiostro di N. S. delle Vigne. La consegna delle reliquie, si volle circondare della massima solennità. Per la qual cosa addì 20 gennaio del 1495, giorno di San Sebastiano nella chiesa della Badia di S. Andrea a metà della messa solenne, cantata con grande apparato e molto concorso di popolo, il Marzocco presentava la ricuperata cassetta che veniva deposta sull’altare, e poiché di essa e delle sacre reliquie fu fatta la ricognizione ed attestato da parecchi che erano proprio quelle che già conservavansi in detto monastero e che erano state involate dai ladri, si ricollocavano al loro posto primitivo e di tutto ne’ suoi atti conservava memoria il più volte nominato notaro Andrea De Cario, cancelliere della Curia arcivescovile, che trovavasi presente. Assistevano alla cerimonia, come rilevasi dall’atto suddetto, quali testimoni, il reverendo Gerolamo De Camulio, vescovo di Scio; i venerabili preti Stefano de Furneto di Spezia, rettore di San Giacomo di Cornigliano; prete Giovanni Della Torre, cappellano in San Luca di Genova; prete Antonio Graffigna, cappellano in Santa Maria delle Vigne di Genova; prete Giovanni De Fabiano, arciprete di San Martino di Sampierdarena ; prete Antonio Di Rovereto, cappellano dei santi Nazaro e Celso a Multedo di Pegli; Fra Nicolò Tagliavacche degli Eremitani di San Gerolamo, e Frà Vincenzo dello stesso ordine ed entrambi (1) Litta, Famiglie celebri d’Italia etc. Fam. Della Rovere, tav. 1. (2) Seueria, Secoli Cristiani della Liguria, vol. II, pag. 228. del monastero di Santa Maria della Costa di Sestri, et quam-plurimìs alus laicis et clericis, precipue dicti loci Sexti et parttum circumstantium, in numero copioso. Che cosa sia avvenuto delle due reliquie non si conosce. Dal volumetto intitolato-Sag^z Cronologici del 1743 (i ), si rileva che il capo di Santa Barbara conservavasi ancora nella Chiesa della Badìa di S. Andrea, ma per quello di S. Simone sono mute le memorie. La Badìa dopo essere caduta in commenda, e lo era al-1 epoca dei fatti narrati, nel 1569 dal Papa Pio V fu assegnata al Padre Inquisitore. Oumdi al tempo della rivoluzione del 1797 venne incamerata e I il monastero ed i poderi venduti. Il monastero con alcune terre, in seguito a successive vendite, fu acquistato dal Duca Vivaldi Pasqua, il quale vi fece eseguire non pochi lavori, per meglio adattarlo ad uso di abitazione ; poscia passava nel signor Ludovico Peirano il quale pure altri ve ne faceva eseguire. In questi mutamenti e costruzioni, Γ antica chiesa scomparve, ed ora è sostituita da un’ altra più piccola, dì torma medioevale, in pietre squadrate, attorno alle quali vennero disposti antichi sepolcreti e vecchie iscrizioni, ma invano in essa ho cercato la cassettina d’ avorio, colle due teste di santi dei quali ho narrato le vicende. Forse esse, come diverse altre religiose suppellettili, passarono alla chiesa di S- Maria di Castello dei Padri Domenicani, ai quali apparteneva il Padre Inquisitore, possessore della Badìa nel IJ97- Infatti in un armadio della sacristia di detta chiesa, trovasi una vecchia custodia rettangolare di legno in parte dorato, con vetri sul davanti che lasciano vedere Γ interno, ove sopra un cuscino ed adorni di fiori finti sono due teschi, evidentemente reliquie già esposte alla venerazione dei fedeli, e può essere benissimo che siano quelle dei nostri due santi. Ma prive dì qualsiasi dato che attesti dell’ esser loro, della provenienza, della autenticità, non sono esposte al culto. L Itimamente la Badìa tu acquistata dal conte Edilio Raggici, il quale vi aggiunse diversi vigneti e boschi che nelle vicissitudini de tempi ne erano stati distaccati, e quindi con ampio cavalcavia la unì al sottostante Scoglio di S. Andrea, dove aveva costrutto uno splendido castello, ed ora forma un ameno e si-gn rile soggiorno di villeggiatura. Marcello Stagliexo 1 Sagg1 c ronotogicì, ovv ero Gemma nelle sue antichità ricercala. Genova 1743. pag. 361. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA 457 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Il Colle di S. Andrea in Genova e U regioni circostanti pur Fbanì'E.'CO Podestà in Atti della Soc. Lig. di St. ?.. V. XXXIII. 1901 . Coll’apertura della nuova strada XX Settembre scompare un'altra, parte della Genova medioevale. e si può già preveder prossimo il tempo in cui scompariranno anche le adiacenti regioni di S. Andrea. Piccapietra e Portoria. o almeno anch’esse v rranno così radicalmente modificate, da riuscire impossibile il ricostruirle anche coll’ immaginazione. la questo punto pertanto il lavoro del P. giunge proprio a proposito, per conservar la memoria di particolari topografici senza la conoscenza dei quali riuscirebbero ineomprensibîli i racconti dei nostri annalisti. L1 autore è già favorevolmente conosciuto per ricerche storiche sulle nostre pescherie di coralli, sull’ antico acquedotto e sulla topografia della valle del Bisagno. Affrettiamoci a dire ch’egli accresce i suoi meriti presso i cultori delle memorie patrie con questo ultimo lavoro. La raccolta di notizie che ci presenta è una piccola miniera; dal mille a tutto il secolo XIX egli riuni minuti particolari sull’ edilizia genovese, li esaminò con critica acuta, e talora le sue conclusioni correggono vittoriosamente, a parer nostro, opinioni che pur avevano 1’ autorità dell’Alizeri, del Belgrano e d’ altri valentissimi. Così ad esempio laddove, contro Γ opinione del secondo, sostiene che la cinta del X Secolo dell’antico castello dopo circuita la sommità del Brolio di S. Ambrogio scendesse per 1’ altura di Serravalle al mare, a Banchi ove è la chiesa di S. Pietro delia porta. anticamente cosi detta dalla porta ivi esistente : dove combatte l’asserto che il palazzo dell’Abate del popolo fosse vicino alla Porta Sopran; e non nei pressi di S. Lorenzo : dove nega che il muro antico presso la chiesa di S. Salvatore sia residuo della cinta del Sec. X ed in altri punti ancora. Naturalmente in un lavoro di tanta mole per il tempo che abbraccia non in tutto ci sentiamo di concordare coll’A. Non ci pare infatti che abbia solida hase la relazione che egli trova fra la contrata detta Sardinea e la famiglia Sardena ; quest’ultima che. com’egli stesso nota, avea le sue case in altra parte della città, d’origine viscontile, probabilmente tolse il cognome da un sopranome analogo a quelli che troviamo allora in Liguria : Polpo, Buga, Aragosta, fors’anche Spinula; eeito non si trovano mai indicati individui di quel gasato come de Sardinea ma Sardena o de Sardeni*. Giova tener presente che un’ altra località sulle alture era allora indicata Barbamrda e che le relazioni colla Sardegna son fra le più antiche di Genova, quanto quelle colla Corsica, per spiegarne quei nome. Trarre i nomi antichi delle strade da quelli delle famiglie Giorn. Si. e Leti, della ligitrm 30 458 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA che vi aveano le case in generale è giusto, e coll’A. siamo disposti a credere che il nome di Picca-pietra possa esser venuto alla strada da una famiglia omonima, che infatti trovammo a Chiavari e a Genova, e non dall’arte degli scalpellini; ma a volere estendere il criterio sempre e ad ogni caso si corre il rischio di prendere cantonate tanto madornali come quella con cui il municipio di Genova battezzò, e continua a chiamarlo così ! punte Carrega il ponte sempre chiamato in dialetto ponte de carrée esistente in una località che in molti documenti del quattrocento troviamo indicate : le carrarie e perfino in dialetto: le carrée! (1). Su altri punti ancora vorremmo far riserve; per es. ove suppone che il nome di Tascherio dato al Borgo Sacherio sia conseguenza della traduzione dei notari scriventi, mentre pur avevamo l’arte dei tascherii, valligiai. donde il cognome Tasclier, Tascheri ; ove cerca l’etimologia del nome di Friolente dato alla torre venuta alla luce per poco tempo negli ultimi lavori edilizi (guai alle etimologie!)·; dove trae la parola bladum dal francese blé (e l’italiano biada altre volte non ristretto all’avena?), dove suppone l’esistenza di cantine che abbian dato il nome alla salita del Fondaco, mentre fondaco nel medio evo avea un senso tutto differente, di emporio di merci (2). Neppure consentiremo coll’A. ove limita a tre i guastati che furono altre volte a Genova : vasto, vastato, guastato era l’indicazione, come ben nota egli stesso ed esprime d’ altronde il nome, di località rui-nata; nel Caffaro troviamo menzione di un Vasto presso Savona, donde torse l’origine del titolo d’uno degli Aleramici, signore del territorio adiacente, ma non della stessa città di Savona di cui il \ escovo era conte. Ora in quell’ epoca di guerre civili, coll’ uso di demolir le case dei ribelli, cioè degli avversari, i guastati naturalmente si moltiplicarono e ci pare d’ averne trovato altrove, ad esempio uno anche nella località di Rivo Torbido. Dobbiamo poi muovere appunto all’A., forse è un po una fissazione nostra, intorno ad alcuni nomi di famiglia. Confonde gli Italiani, poi Interiani, albergo nobile, cogli Staglieni famiglia pojolare ; spiega il nome di Gerolamo de Fomari olim de Compiano coll’ esser questo d’origine di Val di Taro ; ritiene della famiglia Fieschi un Gei’olamo Fiesco Botto; mentre è evidente che erano, questi un Botto e quello (1) Già in un atto del 1276 del not. Gio. de Corsio (V. 5 f. 47) è menzione di una località « in Bisamne prope acqueductum. cui dicitur carraia ». Par che saiebbe tempo che 1’Ufficio d’Arte facesse togliere l’assurda dicitura attuale: Ponte Carrega, sostituendo : Ponte delle Carraie, come la desegnò sempre a la chiama tuttora la gente. (2) Cfr. Rezasco, Diz. stor. amministrativo, alla voce. L’A. usa erroneamente qua e colà la voce fondaco, in vece di fondo, nel senso di luogo basso o sotterraneo della casa, dove per lo più si suol tenere il vino. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 459 un Compiano, gentilizi popolari tuttora molto diffusi, aggregati rispettivamente negli alberghi Fiesclii e de Fora ari. È singolare che non solo gli scrittori stranieri ma molti dei nostri genovesi allorché trattasi di nomi di famiglie del sec. XVI non tengano presente che nella lusione in un ordine solo dei cittadini ammessi a partecipare al governo fatta nel 1528, quei che già non appartenevano ad uno dei 28 alberghi in cui furon ripartiti continuaiono ad usare l’antico cognome della famiglia aggiungendolo a quello nuovo dell’albergo, che cosi si continuò sino al 15G9, quando, perchè l’uso di due cognomi costituiva un’appariscente differenza fra gli antichi appartenenti agli alberghi ed i nuovi aggregati, per calmar la suscettibilità di questi ultimi il Senato ordinò che tutti gli ascritti usassero indistintamente un unico cognome, quello dell’albergo; finché poi nel 1576 ognuno riprese definitivamente il proprio cognome di famiglia come l’avea prima del 1528. Il P. ci lascia sperare di darci la storia delle successive cinte murali di Genova a cominciar dall’oppido romano. Ci auguriamo lo faccia presto. E allora speriamo che ci parli pure di luoghi che ora ha trascurato, come il macello murrino, posteriore a quelli del Molo e di Soziglia-, e nel quale non appare più traccia di diritti viscontili : di Portorià, ch’egli non so perchè continua a chiamar sempre Porta Aurea, mentre poi in un documento che reca è chiamata Porta Aurie, e mentre sappiamo che la famiglia D’ Oria estendeva i suoi possessi a quella regione, che la strada che vi mette è in qualche documento indicata da Pieapetris seu de Auria e che prima di scriversi così il nome della famiglia, si scriveva senza de, Aurie, al genitivo. Ma tutti questi appunti che moviamo al lavoro del P. ed in parecchi dei quali forse troveremo alcuni dissenzienti, son di poca importanza a fronte della quantità di notizie importantissime che l’A. ci fornisce. Quel che a noi par più grave difetto si è la mancanza di economia e di organismo, per cui il lettore sbalzato continuamente in epoche diverse, dal mille fd XIX secolo, trovasi confuso nella ricca messe di indicazioni che sii sono fornite e non può trarre che con molta fatica tutte le deduzioni che dalle stesse dovrebbero emergere. Sarebbe stato poi assai utile un indice analitico per agevolare le ricerche ; del pari ci sarebbe piaciuto trovare un riscontro alla leggenda del losco del diavolo; qualche più precisa citazione là dove si accenna in modo troppo generico ad opinioni di scrittori ; riferita esattamente la fonte del Muratori (p. 9) ; corretto il cappelletti (p. 4fc·) in coppette, e l’alt a strana svista (p. 118) che fa Agostino Adorno governatore generale in Genova di Luigi XII nel 1490. Ugo Assereto 4ÔO GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA ANNUNZI ANALITICI. L. Tanfani Centofanti. Notizie di artisti tratte dai documenti pisani. Pisa, Enrico Spoerri editore [Tipografia Galileiana della R. Casa], 1898; in-8, di pp. VIII-582. —. « Non sono il frutto di ricerche e di studi speciali sulla storia delle arti », ma notizie « ritrovatene! corso di molti anni nell’ esaminare e ordinare per dovere di pubblico ufficio le antiche scritture dell’Archivio Pisano »____ « Si riferiscono ad un numero assai considerevole di artefici che nacquero o lavorarono in Pisa dal secolo XII al XVII ; memorie che altri non videro, o non trovarono convenienti al soggetto particolare de’ loro studi, o divulgarono in modo errato o incompleto », e che forniscono nuovi e copiosi materiali alla storia delle arti del disegno. Pei darne !a prova, vado spigolando tutto quello che si riferisce agli scultori, ai pittori e agli altri artisti della Lunigiana. S’ incomincia (l’opera è disposta per ordine alfabetico) con Agostino di Giambattista Ghirlanda « di Fivixano », che dipinge a fresco nel camposanto di Pisa [pp. 5-6]; ricorda Bartolommeo Sarti di Carrara, giudicato da Gio. Bologna « huomo di molta esperienza ne Γ arte quadro et de l’intaglio, che quasi ardisco dire che pocchi suoi pari si troui » [p. 67]; rammenta Giovanni Antonio Venutelli di Carrara, scarpellino e musaicista della fine del secolo XV [pp. 263-265]; Piero di Jacopo da Carrara, uno degli scarpellini che, nel 1493, fecero il nuovo imbasamento alla tomba d’Arrigo VII [p. 426], e Filippo di Jacopo da Carrara, forse suo fratello, che appunto nel 1493 lavorava i marmi all’ opera del duomo di Pisa. De’ Venutelli di Carrara tratta anche di Gio. Domenico, musaicista , nè dimentica maestro Agostino da Carrara, lavorante del Moschino, e gli altri scarpellini carraresi, Silvestro del Barlettaio, Bartolommeo, Giampiero di Pellegrino, Girolamo, Giovanni Menichelli, Antonietto del Priore, Tomeo e Domenico Turbati.. Tocca d’ Ippolito Ghirlanda, pittore fivizzanese, fratello d’Agostino. Dà un cenno degli intagliatori in marmo Andrea di Giovanni, Giovanni Casoni, Giovanni d’Andrea, Ugolino di Pellegrino e Fazio Volpi, tutti carraresi. E accenna anche al marmo di Carrara, adoperato in duomo, preferito per le porte, messo in opera nelle chiese del Carmine e di S. Giovanni, usato in diversi monumenti sepolcrali. (G. S.) G. Capellini. Sulle ricerche e osservazioni di Lazzaro Spallanzani a Porto Venere e nei dintorni della Spezia, discorso del Presidente G. C. (con allegati). [Estr. d. Boll. d. Soc. Geolog. Iteti., XXI, 1902, fase. Ili] Roma, Tip. Cuggiani, 1902 ; in-8, di pp. 44. — Nei giorni 7-11 settembre u. s. la Società Geologica Italiana tenne la sua ventunesima riunione estiva alla Spezia, sotto la presidènza del Senatore prof. Giovanni Capellini. I geologi intervenuti a) congresso, dopo aver visitato le interessanti località del monte Parodi, e del vallone di Biassa, della pianura di Luni e di Bocca di Magra, di Portovenere e delle isole del Golfo ; dopo avere letto e presentato molte interessanti memorie scientifiche, e fatto importanti comunicazioni, chiusero con una gita alle cave di Carrara la serie de’ loro lavori il giorno 11 di settembre. Il presidente Sen. Capellini nella seduta inaugurale, oltre il discorso di apertura del congresso, lesse pure la memoria sulle ricerche dello Spallanzani nel golfo della Spezia, che recentemente ha veduto la luce negli Atti del congresso. L’A. che ha potuto consultare i manoscritti di quel sommo naturalista nell’archivio municipale di Reggio nell’ Emilia, ha trovato i diari del viaggio di lui a Portovenere, a Massa e a Carrara ; e con la guida di quel giornale lo segue in tutte le sue escursioni scientifiche nelle diverse località del Golfo e dentro terra ; ne riassume le osservazioni, ne descrive le esperienze, e lo accompagna fino a Massa e a Carrara, dove lo ab- GIORNALE’STORICO lì LETTERARIO DELLA LIGURIA 46I bandona, 'èssendo già state pubblicate le osservazioni fatte dallo Spallanzani in quella classica parte della Lunigiana. Alla narrazione del C. segue 1 appendice di documenti che ΓΑ. ha intitolato: Allegati raccolti diligentemente nei temetti di L. S. relativi al viaggio nel Mediterraneo nel 1783· Sono dodici, e la maggior parte contengono le note di viaggio dello S. e le osservazioni fatte man mano. L’ allegato C. contiene una lettera assai interessante del Padre Andrea Mazza Olivetano diretta da Parma allo S. nella quale sono alcune memorie e congetture relative all’ antichissimo convento di San Venerio nell’isola del Tino. L’allegato E. contiene la descrizione di un fortunale avvenuto nelle acque di Portovenere; manoscritto anonimo trovato fra le carte dello Spallanzani, ma che il Capellini suppone di mano dell arciprete Podestà di Portovenere. (M.) Ferdinando Neri. Le Abbazie degli stolti in Piemonte nei secoli A l e XVI. Torino, Loescher, 1902; in-8, di pp. 34· 'Estr. dal Giorn. stor.d, lett. ital., XL). — Lavoro importante per ampia e^ copiosa conoscenza lacie su torum Civitatis thaurini » che viene pubblicato per la prima vo ta in appui dice, e giova all’A. per divisare le condizioni sociali e giuridiche di un istituto così singolare, che fu tanta parte della vita civile ne me *^evo’ 0 *l ricollega alla storia degli usi e costumi, specie a que a ei può ci spe tacoli e della drammatica. Questa società o compagnia nel procedere dei tempi, e nel vario atteggiarsi delle civili consuetudini invecchia decade, e finalmente si estingue. Il suo scomparire a Torino viene assegnato alla seconda metà del secolo XVI, e a ciò dovette conferire il mutamento delle condizioni politiche e religiose onde va distinto quel PeJlodo· M‘l °° s’arresta nella sua ricerca 1Ά. Egli espone il frutto delle aecurate indagini da lui fatte a riguardo della esistenza e della vita d, consimili abbazie in altri luoghi del Piemonte, dove assai più che nella capitale durarono Notevoli osservazioni chiudono la densa monografia che potrebbe dar luogo fruttuosamente, con nuovi studj, a più larga trattazione, a cui . s , · così bene e profondamente preparato, poiché sono già qui numerosi ed i raffronti sebben ristretti in determinato conhne. Alfredo Chiti. Il Maramaldo nel territorio pistoiese. (Documenti mediti) Pistoia, Fiori, 1902; in-8, di pp. 5 (Estr. dal Bollett star. Pistoiese, IV). - Dall’archivio comunale di Pistoia il C. trae questidocumeniiq^lisi riferiscono al cadere di luglio di quel fatale .1530 m cui cadde]la 1Λ.irta fio rentina. Toccano delle mosse di F jrizio Maramag £ alle schiere del Ferrucci avviato veiso 1 istoia, e pieiuuouo taglia di Cxavinana. Una succosa avvertenza ne chiaiisce contenuto. PIETRO Castellini. Monumentale Basilica dei Ficscki a San Salvatore di Lavagna. Cenni storici. Genova, Tip della (..oventu, !902 , n 8 d „„ ,, V - La prima e più antica chiesa dedicata a b. Salvatore nei PP* * τ X rArtnmente anteriore al secolo XIII, e borgo omonimo, vicino a lavagna ·■■ Ineschi la Basilica rimase ufficiata imo a che nel 1 " abbandonata. Sorse la gentilizia per erigervi la parrocchia, venne la vccci 4^2 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA basilica fieschina col medesimo titolo, a quanto si afferma, per cura di . Innocenzo IV, ed ebbe il suo compimento da papa Adriano; siccome poi i a successivi pontefici speciali privilegi. Pregevole monumento architettonico, fu dichiarata monumento nazionale. L’A. ha dato qui una illustrazione storica del monumento, con riferimenti alla famiglia fondatrice, e alle vicende tei tempi, giovandosi anche di documenti tratti dagli archivi. Il suo intento o evolissimo è quello in ìspecie di additare un’ opera d’ arte che avrebbe bisogno di ingenti riparazioni, e che viene lasciata ne! più deplorevole abbandono. 1 IE1RO Sturlese. L’eroe di Calatafimi, /5 maggio 1860. Discorso letto nel teatro sociale di Camogli, maggio ig'02. Chiavari, Tip. Raffo, 1902; in-8, ^5· L eroe camogliese dì cui qui si rievoca la bella figura, è Simone c ìa no, uno de prodi garibaldini, votatosi alla patria, cui sacrificò la vita ne a giornata di Calatafimi. Lo S. non ci dà aride parole, o pochi acculili ìiograhci, ma s’innalza a considerazioni ed a raffronti ben degni del pensatore, elio studioso della storia. Non rettorica, o fraseologia ampollosa; ma e oquio piano, vigoroso, sentito. Il concetto patriottico che muove l’ar-i 1 o camogliese, è rilevato con opportunità di 'forme e di colori, e su di esso s jmpenia e si svolge tutto il discorso, che si chiude con un’ ode alla patria dello Schiaffino. I na lettera di Luigi Muzzi a Pietro Contrucci edita a cura di ALFREDO Lhiti. Pistoia, 1902, Tip. Niccolai; in-8, di pp. 16. - Il C. sta prepa-ranco un a\oro intorno al Contrucci, che oltre ad essere scrittore di non me H>cre va ore, è una delle figure, modesta sì ma simpatica, del risorgimento ' a-ano. a e sue carte che, ordinate di recente, si conservano nella biblio-eca 01 teguerri di Pistoia, trae l’editore questa lettera del noto epigrafista, scritta all amico quando gli spedì la prima stampa delle sue Iscrizioni italiane. necessariamente laudativa, e implicitamente critica per ciò che dice d’ altri scrittori d iscrizioni. Curiosa e per 1’ accenno al Giordani, e per la costituzione del triumvirato toscano epigrafico composto del Muzzi, Silvestri, Coninoci , 111 primo pei ordine di tempo, mentre « per ordine di merito puossi cominciare a destra ». Vi ha mandato innanzi il C. una opportuna illustrazione interessante per copia di notizie aneddotiche. Mario Sterzi. Sulla dimora di messer Cino in Perugia. Ί11-8, di pp. 6 ' r· dal Bullettino storico pistoiese, a. IV). - Riprende in esame i do-uinen 1 pu icati nel 1884 dal Casini, il quale, fondandosi in essi, negava che Cino fosse stato lettore a Perugia nel 1332, siccome aveva affermato il Uampi giovandosi di carte ora perdute fornitegli dal Vermiglioli. Lo S. con-c 111 e c e a quei documenti non può desumersi la prova inconfutabile della a ermazione del Casini, e che quindi non si può revocare in dubbio quel particolare della vita di Cino. *. *?7AETAN0, CaPASS0· 11 collegio dei nobili di Parma. Memorie storiche pubblicate nel terzo centenario dalla sua fondazione (28 ottobre igoi). Parma, Φ; uJt>1 attei, 1901 , in-8, di pp. 288. — L’istituto di cui si raccontano e vicende costituisce ed assomma la parte più notevole dello svolgimento del-ìs ruzione 111 arma, e perciò acquista capitale importanza in quanto rivela cure poste ai goveinanti affinchè da quello derivasse utile e nome alla citta, ed offre argomento di studio a chi voglia ricercare i metodi e le discipline onde veniva impartito 1’ insegnamento nel suo complesso, e quale indirizzo educativo e didattico si adottava nelle diverse fasi a cui, nel variare dei tempi, andò soggetto quel rinomato collegio. Il quale ha trovato nel C. non un narratore superficiale o un rettore lodatore, ma un vero e sagace istorico che tiae la materia del suo dire da testimonianze sicure e inconfutabili, la GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 463 ordina c la espone con bella chiarezza pari alla serenità dei giudizi. Egli in quattordici capitoli ci pone sotto gli occhi, in ordine rigorosamente cronologico, tutto quanto avvenne nel collegio durante la dominazione dei Farnesi, dopo che Ranuccio 1 lo fece sorgere il 28 ottobre 1601, e quindi dei B01-boni, dei francesi, e finalmente di Maria Luigia, dalla quale per ultimo assunse la denominazione. I reggitori dell’ istituto furono da prima preti secolari, ma ben presto ne assunsero la direzione i gesuiti che la tennero fino alla loro espulsione (1768), quando subentrarono gli Scolopi, i quali poco vi durarono, e si ritornò per breve tempo ai preti secolari, poiché riammessi i gesuiti nello stato ripresero anche il governo del collegio fino al secondo loro esodo sotto 1’amministrazione francese, il quale periodo ebbe per triste epilogo la chiusura del collegio e la erezione del Liceo Imperiale. Passata la bufera napoleonica e dato nuovo assetto al ducato con l’avvento di Maria Luigia, anche il collegio risorse affidato alle mani dei benedettini con rinnovati ordinamenti didattici e amministrativi in guisa da conferire ad esso nuovo lustro e stabilità. Tutto quanto si ragguarda alle condizioni economiche, ai privilegi, agli studi, alla educazione, alla disciplina trova qui proprio ed adeguato luogo; nulla è trascurato di quel che può lumeggiare la vita dell’ istituto ne’ suoi vari atteggiamenti e nelle diverse manifestazioni. Gli esperimenti, le accademie, i giuochi, le rappresentazioni, gli spettacoli sono argomento di curiose e importanti notizie ; del pari si vengono man mano conoscendo i nomi dei maestri più notevoli, e dei convittori che per varie ragioni appariscono degni di ricordanza. Non vogliamo staccarci da questo libro senza rilevare, com’ è nostro costume, ciò che più particolarmente vi si trova riguardante la nostra regione. Nel 1609 Goffredo Marini, il primo dei genovesi accolti in collegio, sostenne in duomo le sue conclusioni, come prova del profitto ottenuto nel corso dei suoi studi, e fu così felice che il duca presente, consigliò il padre del giovine di farle ripetere a Genova ; accolto il consiglio produsse una singolare affluenza di nobili genovesi a quel collegio. Parecchi de’ quali troviamo prender parte a giuochi, esercizi, e spettacoli. Così nel 1648 ricorrono fra questi i nomi di Agostino ed Onorato De Franchi, Gio. Battista Della Rovere, Cosimo Centurione, Luca Pallavicini, ed in ispeCie di Adriano De Mari valente nel maneggio della picca, e che destò 1’ universale meraviglia con un giuoco « ben lungo e faticoso, che sigillò con venticinque o trenta capriuole interzate con universale applauso ». Nel 1688 teneva ufficio di principe dell’Accademia degli Scelti, eretta nel collegio, Francesco Maria Balbi, e di segretario Agostino Balbi, i quali hanno parte principale con opportuni componimenti a I deliri dell' Universo agonizzante nella morte del Redentore, accademia recitata il venerdì santo; essi si erano mostrati pur valenti nel febbraio in esercizi cavallereschi. Ma onore singolarissimo si procacciò nel 1691 trancesco Napoleone Spinola nel dimostrare il Problema Phisico-Mathematicum adversus astrologorum offucias. L’ imperatore Leopoldo I scrisse al duca, a questo proposito, una lettera laudativa, e volle fosse consegnata in suo nome al disserente ima colanna d’oro. Gio. Battista Gentile, in vesti sfarzosissime, capitanava nel 1720 una squadra di convittori nel torneo combattuto per il ricevimento a Carlotta di Valois novella sposa del principe ereditario di Modena. Sostenne con plauso nel 1803 conclusioni di matematica Girolamo Gnecco; e nel 1806 Cesare Caimi pontremolese sostenne in una rappresentazione teatrale il personaggio di Tal-leyrand a fianco di Camillo Ugoni che raffigurava Napoleone. Troviamo finalmente un Paolo Brunelli da Panicale in Lunigiana maestro di giammatica nel 1789, e in ufficio d’aiuto economo il 1772 Clemente Fasce delle Scuole pie, il quale fu cacciato dall’ istituto perchè appropriatesi alcune somme pagate dai marchesi Lomellini e Piana, non le aveva mai restituite. La quale avventura non gli impedì di adire l’anno successivo la cattedra di ìettorica 464 giornali·: STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA nella Università di Genova, dove fu pensionato nel 1785 e morì il 2 ottobre 1793· Poeta di qualche valore ebbe corrispondenza col Frugoni, col Manara, col Rezzonico, col Pagnini, col Paciandi. Il suo biografo afferma , Giornale degli Studiosi, 1870. II, 94) che fu nel Collegio parmense professore di filosofia e presidente degli studi ; ma, sembra, erroneamente, che nulla ce ne dice il C. indagatore sagace delle carte. Ci restano a ricordare per ultimo le trattative intavolate, a mezzo del marchese Ranieri Grimaldi, con I abate Paolo Girolamo Franzoni per affidargli la direzione del Collegio, particolare importante di cui tace la biografia (Elogi di liguri illustri, 1 orino, 1S46, III, 26) di questo benemerito genovese. M. H. \\ ElL. Le prime Engine et Murai. Paris, Alberto Fontemoing, 1902 ; I\ e λ ; di pp. 620 e 244 con carte. — Furono pubblicati il tomo IV e il tomo Λ , (appendice) di questo bel lavoro del Weil del quale abbiamo già parlato. Con questi Γ opera è completa. Come dicemmo altra volta la storia di quel periodo tanto interessante per Γ Italia non fu finora mai esposta in modo così esauriente quanto lo fece ora il Weil ; la sua pubblicazione, frutto di 10 anni di indefesse e pazienti ricerche negli archivi francesi, inglesi, austriaci e di tutti gli antichi stati italiani, completata col soccorso di tutte le pubblicazioni fatte sull’ argomento, si può dir perfetta per la parte militare e diplomatica, per quanto la perfezione è possibile nei lavori storici ove la scoperta d’ un_ documento ignorato può variare inaspettatamente le opinioni più accettate. È un’opera che dovrebbe trovar posto nelle nostre biblioteche, perchè dora innanzi non sarà possibile parlar della storia d’Italia nel 1813-14 senza consultarla, ι V. A. ) Mémoires du Col. Delagrave, (Campagne du Portugal 1810-11). Avertissement et notes par F.douari) Gachot. Paris, Ch. Delagrave, 1902; in-8, di pp. 256, con fig. e cart. — Da qualche tempo la Francia va disseppellendo tutte le memorie che esistono negli archivi pubblici e fra le carte delle famiglie private, le quali possono portar qualche nuovo lume su quel-l’impareggiabile periodo di gloria militare che fu per essa l’epoca napoleonica. II volume accennato di recente pubblicazione è uno dei tanti contributi alla storia di quell’ epoca e riguarda una campagna poco nota. Al racconto del colonnello Delagrave, prezioso come son sempre le narrazioni degli attori, aggiungono molto valore le annotazioni del Gachot noto illustratore delle prime campagne di Massena. Siamo lieti di poter annunciare per gentile partecipazione dell’ autore che nel prossimo gennaio verrà alla luce un’ altro lavoro dello stesso Gachot di particolare interesse per i lettori italiani, Souvarów en Italie. La valentia dello scrittore, la coscienziosa pazienza con cui ricorre a documenti sinora sconosciuti o quasi, la sua severa obbiettività ci fanno certi che la strana figura del guerriero russo apparirà con aspetti nuovi sotto la sua penna elegante. (V. A.) Federico Asinan conte di Camerano poeta del secolo XVI. Memoria, di ïerdinando Neri. Torino, Clausen, 1902 ; in-4, f'i pp. 44. (Estr. dalle Memorie della r. Acc. d. Se. di Toriao, ser. 2, toni. LI). — La « forte e simpatica figura » di questo poeta, è posta in piena luce nella presente biografia, dove di lui si recano le più accertate notizie, si esamina accuratamente 1 opera letteraria. L a. si giova di quanto fu scritto innanzi intorno a questo personaggio, ma si rifà alle fonti e in ispecie alle carte del Vernazza, conservate in più luoghi ; poiché fra esse 1’ erudito piemontese ha lasciato una serie di appunti notevole, sebbene frammentaria e lacunosa, per illustrare la vita e le opere deH’Asinari. Ma questa guida e quel tanto che ne scrisse il Napione, non sarebbero bastati a procurare all’ a. quella pienezza d’informa- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 465 zioni sulle varie vicende dell’ uomo, e sulle sue opere, che era necessaria ad un lavoro organico e in ogni sua parte compiuto. A ciò egli ha sopperito con metodo eccellente mercè le ricerche d’ archivio e lo studio dei manoscritti. La sua memoria è divisa in cinque parti. Nella prima sono esposte, diligentemente vagliate e provate, le notizie strettamente biografiche, dove 1 Asinari ci è presentato come gentiluomo, soldato, feudatario, diplomatico, e vengono divisate le sue relazioni con la corte di Savoia, mentre è reso manifesto il suo carattere fermo e dignitoso. Incominciando quindi 1’ esame delle opere poetiche, nella seconda e terza parte si ferma innanzi tutto sulla tragedia II Tancredi ; ne rileva le fonti, la condotta, le vicende, la critica, accennando per ultimo alle tragedie di ugual soggetto d’ altri autori. In questa disanima egli discorre accuratamente del testo, divisa i manoscritti, ne indica le differenze ricercandone la ragione. Buona 1’ esposizione della favola ; notevoli le osservazioni intorno all’arte ed alla drammatica nel Cinquecento. La parte quarta tratta delle rime, le quali, giustamente osserva 1’ a., vogliono essere riordinate, sulla scorta dei mss., secondo il filo ideale voluto dal poeta ; così riuscirà men difficile rintracciare qualche accenno personale, e l’a., in mezzo a tanta oscurità, vi si prova. E se le vaghe indicazioni del primo librò nulla gli suggeriscono, e quelle del secondo fanno credere che la donna cantata sia una Fiammetta o una Flaminia, rileva invece che le rime del terzo si volgono a Barbara Sanseverina contessa di Sala, di cui porge abbondanti notizie. Tocca in fine dei sonetti indirizzati a personaggi notevoli nelle lettere, nelle armi, e nelle belle arti. Nel capitolo ultimo discorre dei due poemi L ira d Orlando e Le Trasformazioni di scarsa importanza ; nota ch cjuali criteri f uròliti composti, donde venne tratta la materia, e i poemi classici iti‘poeta 'gli servirono 'di modello e di guida. Lavoro in complesso eccellente che reca Utilè contributo alla cultura ed allo svolgimento degli studi letterari in Piemonte nel sec. XVI. ARTURO Ferretto. Illustrazione storica dilla str'ofa : Rapàllin sottéra gatti — Sotto e porte di sordatti — I sordatti son scâppae ^ Ràpaüfnl· ghë son restae . — Episodi del dominio francese i&!iàpttlh'-nègl*mhTJ$06-Ìfóyi Genova, Casamara, 1902; in-8, di pp. 36.' - Ricérca l’ autore·qual significo storico possa avere la strofa popolare''sopra riferita,· e poiché ritiene si «5bia a riconoscere nel fortunoso periodo in cui, maggiormente divampandole fazioni e le ire di parte, la repubblica geHOŸesej .-fallità là pròva dell effimero ducato di Paolo da Novi, fu costretta ad accettare la dominazione di Francia, egli si rifà a raccontare, mercè il lume,r di numerósi è inediti documenti-, lé vicende di quel periodo in quanto tocca spéctòlm^lte la storia di Rapàllo. Nel qual luogo sì come in tutta la riviera di W&& campeggiavamo 1 Fieschi etiti i loro aderenti sostenitori del1 partito'dé^lìtìbili, aiutatò fe 'fàWritO *4ài Francesi contro i popolari, resi padroni del còntràstàto governo'nella capitale. Th qui'turbamenti, tumulti, violenze a mano armata, dall’una parte per sottrarsi alla occupazione fieschina, dall’ altra per riacquistare il perduto, e il grido'di ouerra «atto gatto che denotava la fazione dei primi, poiché quella famiglia de’ Fieschi usava appunto il gatto per cimiero, secondo nota il Foglietta. I Rapallesi adunque che sqtterran,o i -gatti spn,^quelli, che,.j^gçia.no,, p^rbgiam dei Fieschi, o, secondo interpreta, il F., li seppelliscono; sotto le porte, affidate alla custodia dei soldati, ,i quali fuggouo lasciandone padroni 1 terrazzaci. Ma il grido gatto gatto è proprio in questo caso simbolo di dileggici o non piuttosto designazione della parte, che Jnsprg^ coptro gli avversari ? Si che, npjlla nota congiura, si, gridayii esempi, ricorrono; ,nella $j:orja,, è pmjvendei^p^i] che il· sero Γ,insegna del gattp ,«;per;ispay,s.ldei;ia JWWÇ)).»>. dubbi [Up altro ne fanno nascere,per legittima conseguenza; e cioè che qui 406 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA forse nulla ha da fare 1’ uso di esporre infissa in una lancia una gatta viva sui bastioni di città assediata a disprezzo e quasi a provocazione dei nemici, uso guerresco di cui ha parlato il Medili. In fine la strofe illustrata sta a sè, o è parte di canzone popolare? E risale veramente ai principi del secolo XVI ? Rodolfo Honig. Guido da Montefeltro. Studio storico. Bologna, Za-niorani e Albertazzi, 1901 ; in-8, di pp. VIII-119. — Il noto episodio di Dante, sul quale si sono affaticati i commentatori e che darà certo luogo ad altre disquisizioni, ha consigliato l’A. del presente studio, a ricostrurre la personalità storica del montefaltrano esaminandolo sotto tutti gli aspetti che emergono dalle testimonianze contemporanee. La fama di quest’ uomo aveva ricevuto nocumento dai giudizi dell’Alighieri, e nessuno si era di proposito occupato ad indagare, donde il poeta avesse derivati que’ giudizi, a qual parte della vita e delle imprese di Guido si riferissero, in qual guisa infine avessero ad intendersi senza che la macchia e la condanna avesse a coinvolgere tutta quanta la vita di lui. Da queste pagine in cui il buon metodo critico va di pari passo con molta serenità ed imparzialità, vien fuori la figura di un prode, di un abile capitano, il quale a tempo e a luogo sa mostrarsi strenuo e valoroso condottiero, sì come giovarsi di quelli avvedimenti e stratagemmi consigliati dalla condizione del momento ; ma in ciò non è da riconoscere animo malvagio o deliberato proposito di tradimento. Purgato Guido, secondo nostro parere vittoriosamente, dalla taccia di uomo volpino, così rispetto alle conseguenze della disfatta di Tagliacozzo, come alle fortunate imprese di S. Procolo e di Forlì, si intrattiene 1’ H. sul periodo importantissimo nel quale lo strenuo romagnolo ebbe in Pisa la suprema balìa, e per quali modi e vie gli riuscì, in condizioni assai gravi e miserrime, non solo di difenderla, ma di rialzarla e rianimarla dall’ abbassamento in cui era caduta. E qui si pare veramente 1’ accortezza del capitano, che con forze disanimate e immensamente inferiori tien testa e s’impone ai nemici, i quali, lo dicono i cont.emporanei, gli ebbero appiccato il nomignolo di « volpe ». Ed ecco trovata la spiegazione piana e adeguata al noto verso di Dante ; nel quale se è da vedere 1’ impressione non priva d’ amarezza del partigiano che fu presente a que fatti, non può riconoscersi un biasimo assoluto e incondizionato, porgendoci elementi 1’ episodio stesso per credere che il poeta aveva di Guido un opinione men severa di quel che a prima giunta potesse apparire. Ma il punto più controverso sta nel vedere se Dante nel ritenere Guido autore del frodolento consiglio per cui venne distrutta Palestrina si è rifatto ad una voce corsa e tenuta vera a’ suoi dì, oppure a prove di fatto ; e se d’ altra parte queste prove esistevano a suffragare quel che si andava dicendo. Qui l’A. esaminando imparzialmente le narrazioni dei cronisti posti in relazione con gli avvenimenti, se ritiene esservi ragioni intuitive per credere che il malo consiglio non fosse forse dato nè chiesto, confessa che non è possibile giungere ad una conchiusione risolutiva e fuor d’ ogni dubbiezza per la mancanza assoluta di sicuri documenti, i quali o sono sfuggiti alle ricerche, o più non esistono. Giovanni Sforza. Una monaca e un re. Roma, Forzani, 1901 ; in-8, di PP· 34 (Estr. dalla Antologia, Die. 1901). — Il noto episodio degli amori di Federico IV di Danimarca con Maria Maddalena Trenta, raccontato più volte, in pubblicazioni diverse, e tutte in qualche parte non esatte, o non ben chiarite ne particolari, è qui nuovamente preso a narrare dallo S. con il sussidio di numerose testimonianze contemporanee desunte da diarii, e da corrispondenze inedite. Egl divide il suo lavoro in due parti. Riferisce nella prima le relazioni intercedute fra il principe ereditario di Danimarca e la Trenta quando .si recò la prima volta in Italia nel 1692, e quelle che passarono poi fra loro nel GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 467 suo secondo viaggio, dopo salito al trono, nel [708-1709, mentre essa, abbandonata da Filippo Ercolani suo fidanzato, si era rinchiusa nel monastero fiorentino di S. Maria Maddalena de’ Pazzi. Anche sull’ Ercolani e intorno alle cause che lo condussero a troncare il parentando, si ristabilisce la verità, relegando nel regno delle leggende le affermazioni di alcuni degli antecedenti narratori. I colloqui avuti con suor Maria Maddalena produssero grandissima impressione sull’animo del re, e i suoi discorsi, gli atti, i diportamenti avevano fatto sorgere la speranza di una possibile conversione al cattolicismo, a cui forse avrebbe contribuito il disegnato viaggio a Roma, dove gli si apprestavano liete accoglienze, mentre si accarezzavano quelle speranze. Senonchè prevalse la ragion di stato ; onde il re smesso il pensiero d’ andare a Roma, affrettò il ritorno in patria, e come risultato degli ascetici discorsi con la monaca, si mostrò assai più mite e più largo con i cattolici del suo regno. La seconda parte di questo studio è volta a chiarire l’equivoco in cui alcuni sono caduti nello scambiare Filippo Ercolani con Filippo Bentivoglio, il quale era riparato a Venezia, per sfuggire la condanna di morte inflittagli da Clemente XI come padrino nel duello mortale (o si voglia meglio dire assassinio), avvenuto in Roma nel 1703 fra il Santa Croce ed il Gavotti. Il Bentivoglio venne graziato dal papa in seguito alle istanze di Federico IV, che lo conobbe a Venezia nei primi mesi del 1709, prima dunque di recarsi a Firenze. Cade per ciò l’affermazione del Cancellieri, che con doppio errore lo scambia col fidanzato della Trenta, e ad intercessione di lei immagina abbia ottenuta la grazia per mezzo del re di Danimarca. La reprise des iles de Le'rins (mars-avril 1637). Documents inédits publiés par Leon G. Pélissìer. Marseille, lmp. Marseillais, 1901 ; in-8, di pp. 45 (Estr. dalla Revue historique de Provence, Ott. e Nov. 1901). — Fra le carte d’un gesuita, il P. Colombi, istorico, teologo e canonista residente ad Avignone, che si conservano nella biblioteca municipale di Lione, il P. ha ritrovato alcune lettere e relazioni intorno ad un episodio della guerra dei trentanni, e cioè la ripresa da parte dei francesi delle isole di S. Margherita e di S. Onorato, occupate nel 1635 dagli spagnuoli. Il fatto ebbe capitale importanza per la Provenza e i documenti editi qui dal P. danno intorno ad esso minuti ed importanti particolari. L’ editore, con quella sicura competenza e dottrina che gli è propria, ci informa innanzi tutto della raccolta da lui esaminata, e si trattiene poi a dimostrare 1’ attendibilità di quelle carte, delle quali alcune sono originali, altre in copia, sebbene presentino qua e là manchevolezze e lacune. Rileva i tratti notevoli, e li addita allo storico, che potrà, mercè il contributo da essi recato, parlare con maggior precisione di quell’ avvenimento. Sono infatti que’ documenti tutti quanti contemporanei, e vi si riscontra l’impressione veritiera di chi assiste allo svolgersi de’ fatti, o ne ha dirette notizie da testimoni oculari. Alessandro D’Ancona. Federico il grande e gli italiani. Roma, For-zani, 1901 ; in-8, di pp. 89. — Sono qui divisate con ottimo consiglio le relazioni di parecchi italiani con il gran re di Prussia, e si trovano raccolte in questa monografia molte e peculiari notizie o sparse qua e colà in opere ampie e diverse, o in libri scarsamente conosciuti e meno letti, o, che è più importante, desunte dagli archivi. Precede un quadro lucido e succoso delle condizioni in cui si trovava 1’ Italia nel periodo che l’A. ha preso a trattare, accompagnato da acute osssrvazioni intorno alle impressioni ed ai giudizi degli italiani rispetto a quell’ uomo singolarissimo che segnò orma sì profonda nel secolo decimottavo. Così vien sempre meglio lumeggiato un de’ più notevoli atteggiamenti dei nostri avi, quello cioè dei viaggi fuor della patria, onde ben rileva il D’A. che « il desiderio e il gusto di osservare la vita e i costumi 468 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA di altre nazioni era una forma di quel risveglio dell’ intelletto e dell’ animo-allora mostratosi fra noi ». Tengono il primo posto i poeti sia che lodassero o biasimassero Federico, oppure si tenessero in avveduto equilibrio fra lui e Maria Teresa. Nomi per lo più rimasti 11011 senza ragione nell’oblio, dal quale pochi, relativamente, si sono salvati. E in proposito di uno di questi ultimi, l’ab. Casti, a cui Federico scrisse una lettera a noi pervenuta in italiano, e che il D’A. ritiene scritta in francese, si esamina la questione, da ajtri promossa, se Federico sapesse l’italiano, giungendo alla più ragionevole conclusione che egli ne sapeva appena « tanto da citare un proverbio, da cantare un’ arietta, da capire all’ ingrosso una lettera o una poesia, specialmente se parlasse di lui ». Degli uomini di valore ci vengono innanzi i nomi dello Spallanzani, del Lorgna, al quale sono indirizzate dal re quattro lettere finora inedite, del cardinale Quirini, dell’Algarotti, di Girolamo Lucchesini, di cui è qui usufruito il carteggio inedito nella biblioteca di Lucca, di Giuseppe Lagrangia, di Giovanni Castiglione, infranciosatosi in. Castillon, ma veramente Visdomini o Salvemini di Castiglione fiorentino, di Castone della Torre Rez-zonico, dell’ abate Denina, il quale parla della sua dimora a Bei'lino in una serie di lettere al fratello edite di recente da Armando Tallone, del Pilati. Si parla poi del Calzabigi, del Casanova e d’ altri minori. Importanti in se stesse e perchè affatto inedite sono le relazioni di Federico con il conte Masini, tipo curioso di mediatore e di pseudo diplomatico, dove appaiono notevoli le sue intromissioni per l’ acquisto di quadri, e per 1’affare dei gesuiti a Berlino. Nè meno curioso e gustoso è l’episodio della cantante Barberina Çomparini, narrato ne’ suoi particolari sui documenti, in cui si veggono muovere pezzi grossi di Francia, Inghilterra, Prussia, Venezia, e quel Giovanni Cattaneo, storiografo e consigliere intimo di S. M. Prussiana, come ei si spacciava, e più esattamente referendario, e, secondo significava il vocabolo,. « confidente » della Repubblica ; ufficio che rimase in famiglia. Alfredo Comandini. L’ Italia nei cento anni del secolo XIX giorno j>er giorno illustrata. Milano, Antonio Vallardi (in corso di pubblicazione). — Con lo spirare dell’ anno 1.825 si è chiuso il primo, volume di questa importante e veramente utile pubblicazione, che fa onore del pari all’ autore e all', editore. Il primo con illuminata erudizione, acuto criterio, e buon gusto storico ed artistico, sceglie, registra, e succosamente espone, accompagnando i fatti e le notizie con riproduzioni svariatissime atte ad illustrare con efficacia uomini e cose mercè il colorito della contemporaneità. Il secondo segue con singolare ed imitabile coraggio a mandar fuori un’ opera di tanta mole, e di notevole dispendio, agevolando con ottimo consiglio e,, quasi diremmo, incuorando 1’ autore al lavoro, senza riserve e senza ostacoli. Al volume testé com: piuto il C. ha mandato innanzi una appropriata introduzione, nella quale riassume con molta competenza le condizioni storiche ond’ ebbe suo inizio ii secolo XIX, quel periodo cioè che muovendo dal 1796 si arresta alla battaglia di Marengo, donde incomincia la ragione storica della nuova Italia. Riassunto rapido, ma pieno di sostanza, e riccamente illustrato pur esso da numerosa varietà di figure che ci fanno assistere alla viva rappresentazione dei fatti. Il secondo volume si apre col 1826 e già ne abbiamo quattro dispense che ci conducono ai primi mesi del 1831. V’ hanno larga parte i moti politici, senza che d’ altra parte nulla sia trascurato a darci una fedele ed imparziale effemeride di quegli anni con aneddoti e particolari notevoli. Carlo Vaubianchi. La contessa Teresa Casati Confalonieri. Lettura fatta il g ghigno igoi al Circolo « Gaetana A g ne si y> di Milano, in occasione della Esposizione delle memorie delle Donne Illustri Italiane. Milano, Magnaghi, 1901 ; in-8, di pp. 11. — Breve biografia con notizie aneddotiche. GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 469 L a. non s è giovato soltanto di documenti già conosciuti, ma altresì di inediti eie sono conservati o nel Museo del risorgimento, o in privati archivi, o nella propria raccolta. D un altro frammento di Breviario del secolo X-XI contenuto in un Co-i ice di Claudio della Nazionale di Parigi. Nota di Giuseppe Boffito. Tonno, Clausen, 1902 ; in-8, di pp. 5. (Estr. dagli Atti dell’Accad. li. delle 1 lenze di Tonno, XXXVII). — Già di un primo frammento aveva dato contezza il B. aH’Accademia; ora eccone un secondo. Quello egli rinvenne in un còdice del vescovo torinese Claudio, che si conserva nella Vallicelliana <·1 Roma ; questo in un codice parigino. Dopo averne prodotto il testo fa alcune osservazioni sulla genesi del Breviario propriamente detto. Prospero Peragallo. Viaggio di Alatteo da Bergamo in India sulla flotta di Vasco di Gama (1502-1503). Roma, Civelli, ,1902 ; in-8, di pp. 40 (Estr. dal Bollettino della Soc. Geog. Ital., fase. 2, 1902). — Dopo che Amat di S. Filippo registrò fra i viaggiatori italiani Matteo di Begnino o . Benigno di cui citava una relazione manoscritta, e il Berchet, recando il principio di essa, ebbe rettificato, quel nome in Matteo'da Bergamo,- venne pubblicata quella relazione da Augusto Zèri (nella Rivista Marittima del 1894), il quale la fece precedere da un proemio illustrativo e l’accompagnò di annotazioni, dove riprodusse parecchi brani d’ una seconda relazione dello stesso Matteo, recandone poi in ultimo la parte ond’essa si chiude. Il P., al quale non fu nota questa pubblicazione, manda ora in luce nuovamente la prima ìelazione, e reca il testo intero della seconda. Nè si può dire che sia un fuor d opera; prima perchè, si danno qui tutti due i documenti nella loro integrità, secondo perchè sono accompagnati da un largo commento condotto sulle mi-gliori fonti con-la ben conosciuta competenza dell’a. In un’appendice ha raccolte dai Diari del Sanuto le lettere delÌ’Affaitati intorno alla spedizione di Vasco di Gama. Per ciò che tocca la nostra Liguria, aspettiamo con vivo desiderio di conoscere gli studi che il P. ci preannunzia così per rivendicare ad Antonio da Noli la gloria di aver scoperte alcune isole del Capo Verde, che altri volle togliergli, coinè per provare che quel genovese Emanuele chiamato in Portogallo da Re Dionigi, apparteneva alla famiglia Da Passano, anziché a quella dei Pessagno secondo fu ritenuto fino a qui. Severino Zanelli . Sulla educazione morale. del soldato (con prefazione di Enrico Barone). Roma, Voghera, 1902; in-8, di pp. 23 con rit. (Estr. dalla Rivista militare italiana, i, 1902). Scritto giovanile inedito del nostro valoroso istorico militare ligure, che sebbene dettato trentamii or sono mantiene oggi la sua freschezza e la sua singolare opportunità. Quivi già si rivela insieme all’ uomo di cuore, 1’ acato osservatore e 1’ espositore geniale. Le ragioni che consigliarono la pubblicazione sono dette dall’ egregio B. nella premessa in cui vanno di conserva 1’affetto reverente del discepolo, e la rettitudine e .1’equanimità del giudizio. Non si. poteva meglio rendere omaggio al profondo peiisatore ed all’ottimo uomo nel terzo anniversario-della sua morte. Ferdinando Gabotto. Le origini e le prime generazioni dei conti di Cavaglià. Genova, Sordomuti, 1902; in-8, di pp. 36^ — Intorno alla famiglia comitale di Cavaglià (nella provincia di Novara) scrissero il Rondólino.’il Carutti, il Dionisotti e Benedetto Baudi di Vesme. Il G., giovandosi di questi e di altri studj e di alcuni notevoli documenti tratti, in massima parte, dall’ archivio di Stato di Torino, ricostruisce la genealogia dei conti di Cavaglià dalle loro origini fino alla prima metà del secolo XIII, cioè nel tempo più impoi tante della loro storia. L’ a. non offre una numerazione arida di nomi 470 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA e di documenti, ma una narrazione organica e precisa, che, pur lasciando qualche particolare non pienamente dimostrato per mancanza finora di prove sicure, mette in nuova luce la storia di quella cospicua famiglia piemontese. Nel rintracciare gli elementi di giudizio e di fatto intorno al suo tema 1’ a. rivela acume critico non comune, ma 1’ esposizione mi sembra talvolta troppo succosa, in modo che, nella storia dei Cavaglià, il lettore non saprebbe ben orientarsi se, in una tavola, il G. non avesse diligentemente rappresentato i discendenti del conte Aimone di Vercelli fino alla metà del secolo XI, e, in una seconda, l’albero genealogico dei conti di Cavaglià dal 1041 al 1230. (G. C.) Federico Eusebio. Il Museo storico-archeologico d’Alba da’ suoi principii a tutto il igoo. Alba, Sansoldi, 1901; in-8, di pp. 98. — Il Museo storico-archeologico d’Alba, sorto nel 1897, per iniziativa del professore Eusebio, superava, nel 1899, i duecentocinquanta numeri di catalogo; nel 1900 oltrepassò i mille. La raccolta è rappresentata da epigrafi, in gran parte inedite, urne cinerarie in pietra e in terra cotta, vasi di varia forma e di varia materia, lucerne fittili, unguentarii di vetro, oggettini famigliari ; esemplari di statuaria, pezzi architettonici, materiali laterizi, mole da cereali ; monete di rame e di argento consolari, imperiali etc. Oltre che 1’ elenco dei donatori e de’ cooperatori, l’A. compilò un accurato a minuto indice analitico del materiale entrato nel Museo. Ben si deve augurare che 1’ esempio del prof. E. sia seguito da uomini sagaci ed operosi in molte altre città italiane, fra le quali anche le minori, iniziando raccolte di questo genere e dandone pubblica notizia in relazioni diligenti, potrebbero portare un vantaggio notevole agli studi storici ed archeologici. (G. C.) JOANNIS Cristoferii. Episcopi Ecclesiae Apuanae et excellentes seminarli apuani doctores. Accedit. index virorum illustrium qui ex eiusdem seminarii scholis prodierìint. Apuae, Rossetti, 1900; in-8, di pp. 127. — Dopo un breve cenno intorno all’ antica Pontremoli, e alla costituzione del vescovato avvenuta nel 1778, a fine di rendere ragione del suo lavoro, 1’a. espone con molta diligenza, eleganza di stile, e bell’ ordine, la vita dei sette vescovi che hanno retto fino a qui quella diocesi. In queste accurate biografie, mentre si parla delle doti personali, e delle benemerenze di ciascuno verso la chiesa e gli studi, si ritrova non solo gran parte della storia ecclesiastica pon-tremolese di oltre un secolo, ma eziandio quanto ha tratto allo svolgimento della istruzione nel seminario, dove insegnarono valenti maestri, e donde uscirono uomini che si resero chiari di poi in varie discipline. Perciò il C. fa seguire alle vite dei vescovi i cenni biografici di coloro che professarono le varie discipline in quell’ istituto, serbando quella giusta e doverosa proporzione ed economia richiesta dagli uomini, e dalle cose in che mostrarono il loro valore. Notevole fra queste la biografia di Luigi Marsili corredata di sette lettere a lui di Pietro Giordani. Chiude il volume la menzione di parecchi scolari del seminario, i quali divennero poi chiari o si levarono anche in non piccola fama. E’ questo un utilissimo contributo alla storiografia pontremolese, dettato con amore pari alla piena conoscenza di tutto quanto si riferisce alle persone di cui 1’ a. tiene discorso. Sovente in sì fatte scritture si cade nel-1’ apologia o nella rettorica ; ma da questo difetto va immune il presente lavoro, in cui la bontà del metodo è accompagnata da equanimità ne’ giudizi e da lucidezza d’ esposizione. GIORNALE STORICO e LETTERARIO DELLA LIGURIA SPIGOLATURE E NOTIZIE. do M;,tPr0Prf del ritratt0 della Simonetta, la celebrata amante di Giuliano ef , e,è> c,ome si sa di Patria genovese della famiglia Cattaneo, tro-nente nll Γ n fra_A Pitture italiane esposte a Burlington House, apparte-rannrpint n*3 , S‘r Frederick Cook a Richmond, che, secondo si afferma nvon ? qU donzella bellissima, e viene attribuita al Botticella A questo Lnn! °>ln,Una re]azi0ne di Herbert Cook si legge: « Tra le opere fio-R■ , c,e *a cosidetta Bella Simonetta di Botticelli inviata dalla galleria di ,!1110,11, ' Naturalmente tanto 1’identità della persona rappresentata quanto quella del pittore è discutibile, ma non c’ è dubbio che questa è una pittura gì an unga più splendida dell esemplare conservato a Francoforte che pure si avvicina allo stile di Botticelli molto più della cosidetta Simonetta di Pitti, aneli essa attribuita al maestro, e dello strano ritratto di Chantilly che i critici moderni riconoscono come opera di Piero di Cosimo » (L’Arte, a. V, P· no). Si aggiunge la riproduzione del ritratto. .·. Antonio .Taramelli nelle Notizie del Piemonte e della Liguria in tatto d arte, tocca dei restauri a monumenti liguri in Valle d’Orba (Castello τ> °^"n^ Botta), a Gavi (Pieve di S. Giacomo), a Sampierdarena (chiesa di b. Bartolomeo di Promontorio), a Genova (quadri di Van Dick nel Palazzo Rosso, Porta di Sant’Andrea, S. Stefano), a Sarzana (torrioni del Castello, trasporto di una terracotta robbiana), a Portofino (la Cervara), a Levanto (parrocchiale) a Andora (chiesa del Castello), a San Remo (cattedrale di o. biro), a Albenga (battistero). C ' ^elle Memorie dei più antichi miniatori e calligrafi olivetani (Firenze) Se Tip Sales. 1903, in-16) il P. Placido M. Lugano tesse la biografia di 2Ìfn^°,renZ0 ■ CentUrÌoni da Genova (PP· 35-38) che, abbandonata la citta natale e resosi monaco nel monastero di S. Ponziano di Lucca, vi prolessava il 22 febbraio 1409, e moriva nel monastero di S. Girolamo di yuarto nel 1445 dopo avere dimorato nei conventi di Napoli, di Perugia di Pisa, di Milano, di Pistoia, di Roma, di Volterra, di Prato, di Lodi dì s. (jinngnano, professando 1’ arte del miniatore. .-. Dall ultima parte della monografia di Vittorio Spinazzola intorno a, Certosa di S. Martino in Napoli (cfr. Napoli nobilissima, XI, 16?) si II va che la statua di Giuliano Finelli nel coro di detta chiesa*, accennata Genericamente dal Campori (.Memorie biog. di arch. scult, ecc., p. 9c) è quella rappresentante la Purità. Pubblica inoltre in appendice due documenti ; il primo del 1591 è una convenzione fra il priore e « mastro Raymo Breganti’no, ■ Oratio habita in Calhedrali Genuensi in laudem Medicinae dal dottore It . Francesco Saldi (p. 87) di Triora che fu lettore di medicina teorica ne 1634-35; lavoro inedito, e da aggiungersi alle sue pubblicazioni recate dal Pescetto (Biografa medica ligure. Genova, 1846, I, 253-54); mhne qua ;o scritture ip. 96 sgg.) del dottore Giuseppe (per errore è detto Giovanni) Zam-beccari da Pontremoli, che fu lettore di medicina pratica e di anatomia negli anni 1681-1719 ; scritture in parte da aggiungersi alle insufficienti indicazioni del Gerini. Fra gli Autografi, ci vengono dinanzi due lettere di Giovanni la-lentoni da Fivizzano (p. 9) già edite dal Fabroni ; quattro del già ricordato Zambeccari (p. 25) al padre Guido Grandi ; una supplica di Giov. Antonio Terenzoni da Gragnola (Fosdinovo) (p. 27), dalla quale apprendiamo eh egli ebbe un figlio, Terenzio, medico; richiamano per ultimo la nostra particolare attenzione ventisei lettere di Giulio Guastavini a Roberto Titi. Qui gli acuti GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 473 compilatori, rilevando l’importanza del carteggio, ne porgono una larga no-tizia dando un saggio delle lettere di maggior importanza. « presente car teggio », essi dicono, « illumina di luce viva ed abbondante que peno vita del Guastavini, che va dalla fine dei suoi studi universitari, sino a con seguimento della desiderata lettura di medicina teorica presso eneo pis.. Chi volesse scrivere la biografia del geniale medico letterato genovese, non p -tra trascurare una fonte così notevole, additata in questo volume con tanto discernimento dagli egregi autori. Nè vorrà esimersi dal compulsare nostro di Stato, dove intorno a lui e di lui più cose si rovano. ; γ ' .·. In una corrispondenza di Prospero Visconti con , duca Guglielmo V di Baviera (1568-1592) si trova notizia « di una raccolta di m straordinario valore posseduta da Pagano Dona che 1’ avevai avuta regalo da un re africano, nella quale si trovavano un Livio e un Cesare p pleti delle solite edizioni, scritti in lingua africana, e glidi c derli ad Andrea Doria, erede della libreria ». Evidentemente si tratta qui di S Indtea[cS Arch. star. lami.. XXIX, 176, in recensione d, una monografia del Simonsfeld che illustra la corrispondenza). n di Sar_ · Ci giunse la gradita notizia che in seno all’Opera del Duomo di bar zana è stato proposto di isolare questo notevole “Amento "-8· Vf. '5 (&»· ** «—,9“· ”■ 3)' Assfreto Giovanni. Lettere inedite del cardinale Giuliano Della Ro-d’Umbria e di Francia. S.vo.a, F.rret.r, „0, ; .»■*, di pp. 57· Balbi Angelo. Il coro di S. Matteo (in II Secolo XIX. a. XVII, n. 332)· JSZSXL SSTÌ: e«”o ooÏÏf MoS%Sii!rf,°of; i».*, di pp. XI-694 [I cap. Lunigiana e Italia Settentrionale]. Bresca G. N. Il mazzinianismo e la donna (in Rivista di Roma, 22 novembre). 31 Giani. St. e Lett. della I iguna 474 giornale storico e letterario DELLA LIGURIA avvenimenti savonesi dal 1520 al ιςςο — Γη 1. j 1 fetto Chabrol nell’antico dipartimento di Montenotte - la caldei'* ^ ^e^? costanza deir arrivo de^r^Tn™ documenti annotati, fatte nella cir-— is ~ della Spezia] at^ VlT“). tpe^"V- ! et ^ aV6C k mÌnÌStère fann· r73° BÌia’ Oiiagnier, 1902 (in 2& n. 241-247). historiques et naturelles de la Corse, a. XXI, ^XAR^^or‘l2LfebC)!ri° dÌ GÌUSePPe MaZZÌnÌ (Ìn GÌOr' ί / GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 475 Drago Raffaele. Contributo alla storia del municipio di Genova. Genova, Pagano, 1901-1902; voi. 2, in-8, di pp. 235 e 272. Dramma (II) di Scipione Fiesco (in Giornale del popolo, 1902, n. 1096 t. Duro Cesàreo Fernandez. Nuevos autògrafos de Cristobai Colon y re-laciones de Ultramar. Los publica la duquesa de Berwjk y de Alba, con-desa de Siruela (in Boletin de la Reai Academia de la historia, a. XLI, pp. 449-465)· Ferrari Prospero. Annuario ecclesiastico delle due diocesi unite di Luni-Sarzana e Brugnato, 1903. Modena, tip. Pontif. ed Arcivescovile, 1902 ; in-16, di pp. 206. Ferrerò Guglielmo. Genova [Ode] (in La Lettura, III, pp. 5*10)· Ferretto Arturo. Giusdicenti pavesi in Genova 1184-1404 (in Bollettino della Soc. Pavese di St. Pat., II, 421)· Francesco (P) Zaverio da S. Lorenzo della Costa [Ettore Mol-fino]. Il convento dei cappuccini di Campi. Cenni storici. San Pier d Arena, tip. Salesiana, 1903 ; in-8, di pp. 75. Funerali (Nei) solenni di mons. Tommaso Reggio, arcivescovo di Genova, celebrati nella chiesa arcipresbiterale di Fontanegli addì 11 dicembre 1901 . relazione per il sac. Giuseppe Pittaluga ed elogio funebre letto dai sac. Luigi Tiscornia, Genova, tip. della Gioventù, 1902; in-8, di pp. 40, con \ita. Garoglio Diego. Giuseppe Mazzini e Vittore Hugo (in Marzocco, 26 febbraio 1902). Gebhart Emile. Un pape a l’époque de la renaissance. Jule II (in Revue politique et littéraire. Revue bleue, XVII, pp. 225 e 257). Genova Nuova. Genova, A. E. Bacigalupi, 1902; in-4, dl ΡΡ· ,40I> fig· Giustiniani Vincenzo. Discorso sopra la musica dei suoi tempi (1628) [in Le origini del melodramma. Testimonianze dei contemporanei raccolte da Angelo Solerti. Torino, Bocca, 1903; pp. 98-128). Guida della eittà e del Golfo della Spezia con una carta topografica, La Spezia, Zappa, 1903 ; in-16, di pp. 86. Isola I. G. Diario dei fatti occorsi in Genova negli anni 1847, 48, 49. Genova, tip. Carloni, 1902 ; in-8, di pp. 26. Jung Giulio. La città di Luna e il suo territorio. Un contributo alla geografia storica d’ Italia. In Modena, Vincenzi, 1902 ; in-8, di pp. 69 (Ustu dagli Atti e Memorie della R. Deput. di S. P. per le province modenesi, ser. V, voi. II'). Jung Julius. Hannibal bei den Ligurern. Selbstverlag, Druck von Cari Gerold’s Solm (1902); in-8, di pp. 43· Laenen I. Le ministère de Botta-Adorno dans les Pays-Bas autrichiens pendant le règne de Marie-Thèrèse, I749'i758 (in Archives belges, 1902, n. 5). I }' 4/6 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Lumbroso Alberto. Aneddoti mazziniani (in Scaramucce e avvisaglie. Frascati, tip. Tuscolana, 1902; pp, 207-292 e 377-511). Mameli Goffredo. Poesie con note e prefazione di Paolo Bardazzi. Milano, Sonzogno, 1902 ; in-8, di pp. 95. Martini Ferdinando. Il primo amore di Giuseppe Giusti (in II Marzocco, VIII, n. 1) — [Si tratta di Isabella Fantoni figlia di Agostino da Fi vi zzano]. Mazzini Giuseppe. Una lettera inedita [per cura di Teodorico Ponzani] (in I diritti della scuola, IV, 8"). Mazzini Ubaldo. Noterelle spezzine di archeologia, di storia e d’ arte. La Spezia, Zappa, 1902; in-8, di pp. 123, con fig. Moresco Mattia. Le parrocchie gentilizie genovesi (in Rivista italiana per le scienze giuridiche, XXXI, 163). NESSUN H. Italische Landeskunde (Zweiter Band) Die Staedte (Erste Haelfte). Berlin, Weidmann, 1902; in-8, di pp. 480. [Il primo capitolo è destinato alla Liguria]. L F · Naevos autógrafos de Cristóbal Colón y Relaciones de Ultramar. Los publica la Duquesa de Berwick y de Alba, Condesa de Siruela. Madrid. Est. tip., sucesores de Rivadeneyra, 1902; in-4 gr. di pp. 294, con fototipie. Onoranze al cardinale Gaetano Alimonda in Genova, 12 ottobre 1902: relazione della solennità e discorso commémorativo del cardinale Agostino Richelmy. Genova, tip. Arcivescovile, 1902; in-8, di pp. 41, con rit. Paoleiti Vincenzo. Sestri di Levante. Nuovi appunti storici. Milano, Piazza, 1903; in-8, di .pp. 23. Pio VII e N. S. delle Vigne (in II Cittadino, XXX, 322). Podestà Ferdinando. N. S. del Mirteto in Ortonovo. Genova, Sor-dormiti, 1902; in-8, di pp. 112, fig. Poggi Gaetano. Genova romana. L’edificio di Agrippa in piazza Cavour (in Cajfaro, 1902, n. 342). Preda a. Sulla fiorala della Palmaria, Estr. dal Bullettino della Soc bot. ital. [1902] s. n. t. pp. 4. Pretese (Le) ceneri di Colombo (in II Giornale del popolo, IV, 1074). NT- QUIk°GA PonDo-Bazan J. Nctas de un viage por la Italia del Norte, Niza, Mònaco, Monte-Carlo, Genova, Milàn, Pavia, el lago Mayor y Venecia Madrid, Moreno, 1902; in-8, di pp. 295. Repetti Ernesto Maria. Ode alla Liguria. Novara, 1902. Roccatagliata-Ceccardi Ceccardo, L’arte a Genova. Il restauro dei « Λ an Dyck » a Palazzo Rosso (in Vita nova, a. Il, n. 3). GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 477 Romanelli-MArone Giacinto. Lavori artistici femminili. Le trine a fuselli in Italia. Loro origine — discussione — confronti — cenni bibliografici - analisti — divisione — istruzioni teorico-pratiche. Con 200 illustrazioni intercalate nel testo. Ulrico Hoepli, Milano, 1902; in-12, di pp. VI-331. [Molte notizie genovesi; il cap. VII dedicato a Genova e Liguria]. Rosa (de la) Gonzàles Manuel. La solution de tous les problèmes relatifs à Christophe Colomb et en particulier de celui des origines ou des prétendus inspirateurs de la découverte du Nouveau Monde. Paris, Leroux, 1902. Rossi Girolamo. Cimelii cristiani nella regione degli Internelii (in Arte e Storia, XXI, 10). Vaccaro Govanni. I Vaccaro della ' Liguria : cenni storici. Roma, tip. Tiberina, 1902 ; in-8, di pp. 43, fig. Vegazzi P. Autografi inediti di Mazzini e di Romagnosi (in Corride del Ticino, 1902, n. 182). INDICE DELLE MATERIE I Liguri antichi e' i loro commerci. G. Oberziner . Introduzione ....···· Cap. I. La Liguria antica ..···· Cap. II. I lig. antichi e i loro prodotti commerciali · Cap. III. I primi commerci dei Liguri coi Fenici Cap. IV. Rapporti commerciali dei Liguri coi Greci, coi Car taginesi e cogli Etruschi . Un Malaspina di Villafranca omicida. U. Mazzini . Cronachetta massese del sec. XVI ora per la prima volta stam pata. G. Sforza ....·■ Femministi e misogini nei secoli XÌII e XIV. V. A. Arullan Le favole mitologiche della fine del sec. XV. E. De Rénoch Jacopo Cicognini. Mario Sterzi . Cap. I. Cenni biografici...... Cap. II. La Lirica....... Cap. III. La drammatica . ·. ■ La vendita di Portovenere ai Genovesi e i primi Signori di V e zano. G. Sforza . Origine della famiglia Rodari. A. Róndani VARIETÀ. J Una supplica degli uomini del borgo di S. Stefano di Genova per Prospero da Camogli. F. Gabotto . · · · · P b· 37 pag. 5 » ivi » 7 » 81 » 191 » 222 » 28 » 44 » 115 » 161 » 289 » ivi » 310 » 393 » u-i co » 433 4/S GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA La prima stamperia in Massa di Lunigiana. G. Sforza La prigionia di Francesco I re di Francia a Genova, a Portofino e alla Badia della Cervara. A. Ferretto Un furto di sacre reliquie dalla Badia di Sestri nel 1402. M. Staglieno .... ANEDDOTI. Nuovi documenti intorno a Caterina de’ Medici e a Clemente VII U. M...... Per la storia dell’ eresia in Genova nel sec. XIV. A. Ferretto Un giudizio artistico di Pompeo Arnolfini. A. Ν. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Annali genovesi di Caffaro ì dei continuatori dal /174 al 1224 a cura di L. T. Bergrano e C. Imperiale, (A. N.) S. Monaci, Storia del li. Istituto Naz. pei Sordomuti in Ge nova (F. Donaver) E. Marengo, Genova e Tunisi (1388-1515) (G. Bigoni) A. F. Trucco, Gli ultimi giorni della Rep. di Genova e la Comunità di Nove (U. Assereto) A. Della Sala Spada, Proverbi monferrini (G. Flechia) F. Podestà, Il colle di S. Andrea in Genova e le regioni circostanti (A. Assereto) ANNUNZI ANALITICI. G. Cogo, L’ ultima invasione dei Turchi in Italia (C. Man FRONl) G. JACHINO, Storiografia alessandrina (G. B.). A. Redaelli, La Sagra di S. Michele, ecc. (G. B.) J. LÀNCZY, Note sur le grand refus et la canonisation de Cele stin V (G. BlGONl) .... G. Boffito, L eresia di M. Palmieri C. Merkel, Π op. De insulis nuper inventis di N. Scillacio confr. colle altre relaz. del 2° viaggio di Colombo G. Cogo, Tre lettere ined. di I. Nievo P. M. Lombardo, Inventario dei sacri arredi della Tesoren metropol. di Benevento A. Pellegrini, Relaz. inedite di ambasciatori lucchesi . G. Monticolo, Lettera a S. E. G. Greppi . G. Gerini, Gli scrittori pedagogici italiani del sec. XVIII pag pag· 250 359 449 pag. 61 » 140 » 259 62 67 I42 263 383 457 Pag* 70 » 71 » ivi » ivi » 72 » 73 » ivi » ivi » 74 » 147 » 00 GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA 479 R. Rohricht, Geschichte des ersten Kreuzzuges (G. Bigoni) pag. 148 E. Muntz, Le musée de portraits de Paul J,ove » 149 L. A. Cervetto, Compagnia dei Caravana. Relazione delle feste etc. . » 150 E. G. Parodi, Discorso inaugurale letto nel R. Istituto di studi superiori in Firenze ........ » ivi Opera nuova e da ridere o Grillo medico .... » ivi B. Baldi, L’ invenzione del bozzolo da navigare » 151 G. Dalla Santa, Un trattatista De Syllabis dimenticato » ivi F. Bosdari, Giova?ini da Legnano ..... » 152 G. Leanti, Intorno alla poesia L. di Catullo » ivi E. Maddalena, Un Auto-da-fè a Ragusa nel 1860 » Γ53 F. Gabotto, Lettere ined. di S. Pellico a C. Muletti » ivi F. Corridore, Bricciche storiche ...... » ivi L. C. Bollea, Le prime relaz. fra la casa di Savoia e Ginevra » ivi A. Gentille, Una lettera inedita di C. Goldoni . » 154 A. Fiammazzo, Lettere di Dantisti » Σ55 A. G. Spinelli, Chi era V abbè /. B. V. delle memorie di Goldoni? . » *56 F. Corridore, Autografi di C. Pisacane .... » ivi G. Flechia, Poesie giovanili inedite ..... » 279 C. Petki, Commemoraz. di S. Bongi ....·. » ivi D. Calleri, Statuti nel Comune di Treville » ivi G. Finzi, Dizionario di citazioni latine ed italiane (A. Chiti) » 280 C. P. CASTELLINI, Abbadia di N. S. di Misericordia in Carasco » ivi H. Weil, Le Prince Eugène et Murat ..... » 281 E. BOFFITO, La sfera del fuoco secondo gli antichi e secondo Dante .......... » ivi E. Carrara, Studio sul teatro ispano-veneto di C. Gozzi » ivi V. Poggi. Discorso pronunziato nella inauguraz. della Biblio¬ teca di Savona ........ » ivi A. Chiti, Enrico Bindi e il suo epistolario . » 282 S. De NAVASQUÈS, Del fiume Serchio ..... » 283 P. Per AG ALLO, Cintra, carme trad. hi versi italiani » ivi G. Lanzalone, Brevissimo trattato di letteratura . » 283 D’Ancona E Bacci, Manuale della Lett. Ital. » ivi G. ROSSI, La valle di Diano e i suoi antichi Statuti (U. A.) » 386 Alcune lettere di illustri italiani ...... » 388 G. BOFFITO, Intorno alla Questio du aqua et terra attribuita a Dante .......... » 389 L. Tanfani Centofanti, Notizie di artisti tratte da documenti pisani (G. S.) ....... » 460 G. Capellini, Sulle ricerche e osservaz. di L. Spallanzani a 480 GIORNALE STORICO £ LETTERARIO DELLA LIGURIA Porto Venere e nei dintorni della Spezia (M.) . Pag- 460 F. Neri, Le abbazìe degli stolti in Piemonte nei secoli XV e XVI » 461 A. Chiti, Il Maramaldo nel territorio pistoiese » ivi P. CASTELLINI, Basilica dei Fieschi a S. Salvatore di Lavagna » ivi P. STURLESE, L’ eroe di Calatafìmi ..... » 462 L. MtlZZI, Una lettera di L. M. ...... » ivi M. STERZI, Stella dimora di Cino a Pistoia .... » ivi E. CapaSSO, Il Collegio dei nobili di Parma » ivi M. H. Weil, Le -prince E. Mtirat ..... » 464 DELAGRAVE, Mémoires ........ » ivi F. Neri, F. Asinari poeta del sec. XVI .... » ivi A. FERRETTO, Illustraz. storica della strofa : Rapallin sotterra gatti, ecc. » 465 R. HONIG, Guido da Montefeltro ...... » 466 G. SFORZA, Una monaca e un re . » ivi L. G. PÈLISSIER, La reprise des iles de Lérins » 467 A. D’Ancona, Federico il Grande e gli italiani . » ivi A. ComANDINI, L’ Italia nei 100 anni del sec. XIX » 468 C. VANBIANCHI, La contessa Confalonieri .... » ivi G. Boffito, D’un altro frammento di breviario del sec. X-XI » 469 S. Zanelli, Sull’ educazione morale del soldato » ivi F. Gabotto, Le origini e le prime generazioni dei conti di Cavaglià .......... » ivi F. Eusebio, Il museo storico-archeologico d'Alba (G. C.) » 470 F. CRISTOFERI, Episcopi Ecclesiae Apuanae .... » ivi SPIGOLATURE E NOTIZIE. pagg· 75» T56, 284. 39°. 471· NECROLOGIE. Cesare Paoli (E. Bigoni) ....... pag. 78 Pier Carlo Jolivot (G. Rossi) . . . . . . » 391 APPUNTI DI BIBLIOGRAFIA LIGURE. Pagg· 79, 159, 286, 391, 473. Giovanni Da Pozzo amministratore responsabile. PUBBLICAZIONI RICEVUTE Giuseppe Graziano. Umberto I di Savoja. Bio-bibliografia con cit. Torino, Sacerdote, 1902. Ernesto Masi. Asti e gli Alfieri nei ricordi della villa di S. Martino. Firenze, Barbera, 1903. ALBERTO Lumbroso. Scaramucce e avvisaglie. Saggi storici e letterari di un bibliofilo. Frascati, Tip. Tuscolana, 1902. Celani Enrico. Sopra un erbario di Gherardo Cito conservato nella biblioteca Angelica di Roma. Genova, Ciminago, 1902. Alessandro D’Ancona. Ricordi ed affetti. Milano, Treves, 1902. Julius Jung. Hannibal bei den Ligurern. Selbstverlag, Drack von Cari Grold’ s Sohn (1902). Giovanni Assereto. Lettere inedite del cardinale GIULIANO DELLA Rovere dalle sue legazioni, d’ Umbria e di Francia. Savona, Ferretti, 1902. Amy A. Bernardy. L'ultima guerra Turco-Veneziana (1714-17i&)· Firenze, Ci-velli, 1902. Tito Zanardelli. Sonetos en lengua castellana, y en lengua portuguesa. Bolonia, Zanichelli, 1902. Cesare Sardi. I capitani lucchesi del secolo XVI. Lucca, Giusti, 1902. Annali di Alessandria di GIROLAMO Ghilini annotati, documentati, e continuati da Amilcare Bossola. Alessandria, Piccone, 1902 ; disp. 3-9. Alfredo Comandini. L’ Italia nei cento anni del secolo XIX. Milano, Vallardi ; disp. 32-34. Ippolito G. Isola. I parlari italici dall’antichità fino a noi. Livorno, Giusti, 1903. Chistoni P. La seconda fase del Pensiero Dantesco. Periodo degli studi sin classici e filosofi antichi e sugli espositori medievali. Livorno, Giusti, I9°3· Pier Angelo Menzio. Il traviamento intellettuale di Dante Alighieri secondo il I Vit te, lo Scartazzini ed altri critici e commentatori del secolo XIX. Livorno, Giusti, 1903. Francesco Flamini. I significati reconditi della Commedia di Dante e il suo fine supremo. Parte prima. Preliminari — Il velo : la finzione. Livorno, Giusti, I9°3· Donne e lusso a Firenze nel secolo XVI. Cosimo I e la sua legge suntuaria del 156 2 di Carlo Carnesecchi. Firenze, Pellas, 1902. Sac. Prospero dott. Ferrari. Annuario ecclesiastico delle due diocesi unite di Lum-Sarzana e Brugnato 1903. Modena, tip. Pontif. ed Arcivescovile, 1902. Giuseppe Biadego. Discorsi e profili letterari. Milano, Cogliati, 1903. Enrico Panzacchi. Il libro degli artisti. Antologia. Milano, Cogliati, 1902. Vittorio Amedeo Arullani. Pei regni dell’arte e della critica. Nuovi saggi. To rino, Roux e Viarengo, 1903. Letterio Di Francia. Franco Sacchetti novelliere. Pisa, Succ. Nistri, 1902.