ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME XXIX FASCICOLO I. GENOVA TIPOGRAFIA R. ISTITUTO SORDO-MUTI MDCCCXCVIII ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME XXIX. Fascicolo Primo. GENOVA TIPOGRAFIA R. ISTITUTO SORDO-MUTI MDCCCXCVIII VIAGGI DI GIAN VINCENZO IMPERIALE CON PREFAZIONE E NOTE DI ANTON GIULIO BARRILI _ PREFAZIONE I. ella biblioteca della Società Ligure di Storia Patria, poiché fu collocata e ordinata nella sua nuova sede, in quel medesimo quartiere del palazzo Bianco dei Brignole Sale ov’ ebbe dimora il senatore Federico Federici, diligente e benemerito indagatore delle antiche memorie genovesi, mi avvenni in un libro manoscritto, formato di undici quaderni , in carta di filo, con rilegatura di pergamena; alto poco più di ventun centimetro e non più largo di quindici ; sul cui dorso si leggeva scritto, in carattere del secolo XVII: « Viaggi manoscritti », e sulla prima guardia, di carat- tere moderno , il nome dell’ avv. Remondini , nostro rimpianto collega, erudito quanto modesto, che certamente era stato il donatore dell’ importante cimelio. Importante davvero, poiché alla prima scorsa tra quelle carte ingiallite riconobbi esservi contenute molte narrazioni di viaggi fatti da Gian Vincenzo Imperiale in parecchie regioni d’Italia e fuori, per terra e per mare. E perchè già fin d’allora studiavo intorno ad un grosso volume manoscritto, intitolato « De’ Giornali di Gio: Vincenzo Imperiale » in cui l’onorando patrizio e poeta genovese del Secento aveva narrato diffusamente un suo viaggio a Napoli negli anni 1632-33 quando v’ andò a prender possesso del suo feudo di Sant’ Angelo de’ Lombardi, mi feci con maggiore attenzione ad esaminare il nuovo libro, dove, non essendo cenno di quel viaggio, altri undici ne erano raccontati, dal 1609 al 1635; taluni fatti per diporto, i più per utili uffici in servizio della Repubblica ; questi di gran lume ad un periodo poco noto o poco ricordato di storia genovese, tutti poi sommamente interessanti per varietà di ragguagli. Onde in me il desiderio di leggere accuratamente, poi di trascrivere, che è 1 unico modo di legger bene le vecchie carte , specie quando il carattere frettoloso, i nessi insoliti e le abbreviazioni frequenti, troppo contrastando colla foga della curiosità, tornano presto a fastidio e persuadono a smettere. Questa interpetrazione paziente, spesso difficile, non sempre fortunata, fu lieta fatica delle mie vacanze autunnali del 1897. Parve utile ai colleghi che fosse stampata, non solamente per le molte e svariate notizie che reca, ma ancora per la forma in cui si vedono esposte, che è quella dei ricordi personali, onde alla importanza delle cose narrate si accompagna il senso schietto e vivo delle cose vedute ; senza contare che in queste narrazioni i nostri vecchi ci appaiono intieri, coi lor modi di sentire e di vivere, e il vederli così pensanti ed operanti in inedias res ci riesce piacevole come la lettura d’ un romanzo, e forse più, perchè in esse il documento umano è genuino senz’ altro. E qui vediamo come i nostri vecchi viaggiassero; tra quali peripezie grandi e piccole; per quali strade, come lunghe, come sicure, come provvedute per i bisogni della vita in quelle fermate ed osterie, spesso di campagna, ove oggi sono alberghi « da inglesi » e pur coi medesimi nomi d’ allora ; quali le novità osservate, onde a volte s’ illumina un punto oscuro di storia; quali le persone incontrate , talune delle quali notevoli per sè medesime, altre utilissime a condur sulla traccia di cose essenziali. È bello, finalmente, osservare in queste narrazioni la lingua, lo stile dello scrittore di due o tre secoli fa, coi suoi particolari atteggiamenti di pensiero e di forma; coi suoi dirizzoni, anche, e con le sue incertezze, tra il desiderio e la difficoltà di far bene; coi suoi pregi, spesso, con le sue felici trovate , guizzanti di mezzo agli ostacoli — IO — d’ un’ arte mal sicura, alle disuguaglianze d’ una improvvisazione sbadata, ai vizi di scuola, alle intemperanze, alle stranezze del tempo. L’ Imperiale, come scrittore in prosa e narratore di viaggi, vuol essere studiato nei Giornali, inediti ancora; mentre in questo volumetto, e nelle poche relazioni veramente sue, corre via succinto, più per tener memoria di fatti, che non per raccontare o descrivere. Ed anche in quelle relazioni non scrive sempre egli stesso ; gli amanuensi suoi frantendono e storpiano quel poco eh’ egli ha lor dato a copiare. Più spesso scrivono amici suoi e compagni di viaggio, dei quali egli ha poi raccolti e cuciti insieme i quaderni. Quegli che ha più lavorato per la raccolta è il magnifico Gian Giacomo Rossano, medico, grande amico di casa Imperiale , forse figlioccio al padre di Gian Vincenzo, e doge di Genova nel 1617, di cui porta per 1’ appunto i nomi di battesimo. Il medico Rossano non è ignoto, come poeta, o dilettante di poesia, avendosi dal Giustiniani, dal Soprani, e dall’ Oldoini (1) notizia dei fiori che colse a più riprese in Parnaso, per quei « serti poetici » ond’era abbellita a’ suoi tempi ogni nuova incoronazione di Doge, e leggendosi inoltre una sua sestina alla petrarchesca tra quel centinaio di componimenti che conchiudono la stampa del poema di Gian Vincenzo Imperiale « Dello (1) Ab. Michele Giustiniani: Gli Scrittori Liguri, 1667; Raffaele Soprani: Scrittori Liguri, 1667; Agostino Oldoini: Athenaeum Ligusticum, 1680. Stato Rustico » nella edizione veneziana del 1613. Come prosatore, il Rossano era ignoto a tutti: possiamo studiarlo qui, e riconoscere che non è dei peggiori del suo secolo ; cercatore di eleganze in mezzo alla frettolosa negligenza d’ una scrittura non destinata alle stampe; amante di costruzioni boccaccesche , e felice quando può tirar dentro qualche reminiscenza del Decamevone ; più felice quando gli riesce di far la sua brava rima in fin di periodo. Vi dirà, per esempio, « Bologna la grassa, ma non per chi vi passa », il che farà ridere i Bolognesi; oppure: « Tutta Val d’ Elsa è bene amena, ma di fango è troppo ripiena », il che parrà eccessivo a quei di Certaldo e di Castel Fiorentino; ed anche « Tutto ciò che si nasconde, a così degni aspetti non risponde », il che non parrà cortese nè conforme a verità per le antiche dame d’Alghero, che egli, senza volerlo, m’ immagino, e forse generalizzando da • un caso a lui riferito, ha certamente calunniate; inescusabile ad ogni modo, e come cavaliere e come alunno d’ Esculapio. Fatte queste piccole restrizioni, ammetterò volentieri che il Rossano mi riesce qua e là osservatore ameno ed arguto, buon coloritore delle cose vedute, di cognizioni storiche non digiuno ; religioso, ecl anco divoto di reliquie non sempre autentiche, ma libero nelle sue predilezioni e nelle sue avversioni. Non par tenero degli Olivetani, almeno dei bianchi, i cui abati « si fanno a peso »; ama per contro i Teatini, che leva a cielo in ogni occasione; perciò si rallegra da Roma che monsignor Pinelli abbia spedito a Genova una lettera favorevole al loro istituto, non ai Gesuiti, come prima pareva disposto a fare; e da Napoli sarcasticamente ricorda che i Gesuiti avean chiesta a Filippo II la residenza di Poggio Reale « per far penitenza ne’ studi », soggiungendo tosto che « quel signore pietoso non volle in conto veruno macerarli di tante astinenze ». Cose da nulla, certamente ; ma sono indizi dello stato deeli animi in Genova, verso o questo o quello degli ordini religiosi d’ allora, essendo più accarezzati i Teatini, appena da ot-tant'anni istituiti, e i Benedittini Cassinensi, al cui abito dava allora tanto lustro D. Angelo Grillo, buon poeta e gran cuore d’amico, che qui per l’appunto vediamo apparire, bella figura d’ anfitrione claustrale, nella lieta pace signorile del suo convento fuori di Mantova. Oui veramente si sbiz-zarrisce l’umor gastronomico del Rossano, gran peccatore di gola più che non si convenga ad un precettista d’igiene, che in altri viaggi vedremo assunto all’ ufficio di « medico delle galere ». Ma io credo tuttavia che qui faccia egli un pochino per chiasso, con intenzione di rallegrar la materia; mentre da tutto il contesto de’ suoi racconti egli apparisce quello che è veramente, « parzial servitore » degli Imperiali, svisceratissimo del suo Gian Vincenzo, in cui trova il fior fiore di tutte le bellezze morali; gran fatto, per verità, chi pensi esser l’uomo piuttosto inclinato a deprimere che non ad esaltare il suo simile. — 13 — Da molti segni s’ intende che le narrazioni del Rossano , e quelle di Gian Vincenzo e d’ un figliuolo di lui, che viene ultimo nella serie, siano state scritte per argomento a rinfrescar la memoria dei loro viaggi nella quiete delle veglie domestiche, nel palazzo di Campetto, o nell’altro di Sampierdarena, tanto più caro alla nobil famiglia. Le dame, i parenti, gli amici, i familiari, ascoltavano le gaie letture, dilettandosi ai gustosi particolari , al tono bonario e faceto del racconto, inavvertitamente avvezzando 1’ orecchio e lo spirito a quella novità del cavare effetti da ravvicinamenti inattesi d’ idee contrarie , d’ immagini disparate, di parole conformi nel suono e disformi nella espressione, onde il Secento ha dato l’esempio solenne , e che , biasimevoli nell’ alta e grave poesia, non disdicevano all’ umile e faceta , come non disdissero alla prosa umoristica e familiare, che ancor oggi ne vive. Gian Vincenzo buttava giù le sue note per semplice ricordo, ma poi sicuramente ci ricamava ex tempore i suoi particolari, le sue riflessioni e le sue digressioni : il Rossano, per contro, non potendo esser sempre là, e volendo trovarsi almeno presente in ispi-rito, lasciava già ordita, tessuta e trapunta la sua tela: terzo, il figliuolo di Gian Vincenzo, il minore degli eredi suoi, il beniamino Giambattista, senza l’acume e 1’arguzia di quei due, con un po’ più di forme barocche, cercava di accostarsi, d’intonarsi ai maestri, per tirar l’attenzione e meritare i commenti benevoli della — 14 — nobil brigata. Poveri vecchi, ragionanti e leggenti nel salotto domestico ! si divertivano più facilmente di noi, gente da teatri, da caffè, da circoli, che della conversazione familiare così poco intendiamo e sentiamo. Allora, senza tanta varietà di svaghi, si pendeva da quei racconti, da quelle mostre animate di cose vedute. Mancando il sussidio di un Baedeker, si seguiva perfino con attenzione curiosa il computo delle miglia da luogo a luogo ; si fremeva ai cattivi incontri ; si sorrideva alla pittura degli alberghi; si prometteva a sè stessi di non accostarsi a quelli che nella fedele memoria del narratore si raccomandavano male. Mancando i giornali, o riuscendo troppo scarsi alla curiosità gli Avvisi della quindicina, e il Sincero di Luca Assarino, quei benedetti viaggi erano proprio la man di Dio. Di quante cose non davano essi ragguaglio, e potendo sempre essere commentati, allungati dalla viva voce del viaggiatore! L’udienza del Papa; la seduta del doge di Venezia; il corso delle dame a Milano, a Pavia, a Bologna; la contegnosa duchessa d’Albu-querque e la stizzosa balia del duchino suo figlio; la principessa di Moffetta e le sue divozioni ; il latte dolce della marchesa Malaspina; gli eremiti di Monserrato, con le barbe pioventi alle ginocchia; le dame genovesi a Napoli, datesi di punto in bianco a far da cuoche ; la bella dispettosa di Barcellona che si taglia il naso, e ne nasce un albero che fa nasi per fiori; queste, ed altre mille novità, bastavano ad un mese di allegri discorsi. E non dimentichiamo il cerimoniale di Spagna, che proprio allora invadeva 1’ Europa con le minuzie della sua etichetta. A chi si doveva dire Usted? a chi si poteva dar d’ Eccellenza, o di V. S. illustrissima? Cose gravi allora, più che oggi non sembrino, e che a me per intanto ricordano i dubbi intorno alla gradazione ascendente dell’ Illustre, Molto Illustre, Illustrissimo, di cui è cenno nelle lettere di Gabriello Chia-brera all’amico Bernardo Castello. Allora, perbacco, i superlativi valevano ancora qualche cosa. II. Aggiunge importanza a questi viaggi la persona istessa dell’ Imperiale , che non fu solo eminente per natali e ricchezze, doni del caso, ma ancora per 1’ ingegno che mostrò , per gli uffici che tenne, per le sventure che lo involsero, contendendogli altezze maggiori. Al qual proposito non sarà inutile il dire paratamente di lui, correggendo qualche errore di antecedenti scrittori, aggiungendo notizie non conosciute finora. Gian Vincenzo era nato in Sampierdarena, coni’ egli stesso lasciò scritto nelle « particelle » intramesse ai canti del suo Ritratto del Casalino; e non già nato verso il 1570, come disse il Soprani ; ma nel 1577, se dobbiamo credere alla scritta del ritratto che gli fece Antonio Vandyck (1), dove (1) La riproduzione in fotoincisione di questo ritratto orna la presente edizione. — i6 — al 1621, data del dipinto, è soggiunto : « aetatis suae 44'a. Quanto alla morte, che 1’ab. Giustiniani pone al 1645, bisognerà protrarla di tre anni appunto, poiché, oltre alcuni atti notarili dove Gian Vincenzo apparisce ancor vivo nel 1647, posso presentare oggi l’atto di decesso, che lo dà morto il 21 giugno del 1648 (1). La madre di lui fu Bianca Spinola, sorella del cardinale Orazio, che vedremo, nel viaggio I, governator di Ferrara e fabbricator di fortezze ; il padre fu quel Gian Giacomo pervenuto al dogato nel 1617; il casato originario era quello dei Tartaro, cioè il principale fra i quattro di quell’albergo, che poco dopo il 1300 prese a chiamarsi Imperiale, portando « d’ oro, fiancheggiato d’ argento ; il primo caricato d’ un’ aquila di nero , col volo abbassato, rostrata, membrata e coronata d’oro ». Donde, sia detto di passata, mi par vano il dubbio (1) Dall’archivio di casa Imperiale, traggo notizia di questi due atti: 1646, a’ 28 maggio, col ministero di Stefano Solari notaio, Carlo Saivago e Gio: Vincenzo Imperiale, mariti, di Giovanna Spinola l’uno, e 1 altro di Brigida Spinola, divisero tra loro i beni di Giannettino Spinola, esistenti nei banchi di Spagna, senza accennare gli esistenti altrove. 1647, a’ 20 maggio, le monache di San Bartolomeo al Fossato, di Genova, cedettero in enfiteusi perpetua i beni del Promontorio a Gio: Vincenzo, fu Gio : Giacomo Imperiale. E finalmente, vedendo in un atto di transazione tra i nepoti di Gian Vincenzo riferita la morte di lui alla data del 21 giugno 1648, potei, grazie alla cortesia del nostro collega ed amico mio Arturo Ferretto, avere trascritto il cenno seguente, dal Libro dei defunti della parrocchia delle Vigne: « 1648, 21 Iun. M. Io • Vincentius Imperialis q.m III.”" Io • Iacobi, vir M. Brigittae, ojnnium mundanarum rerum oblitus, saepissime diu aegrotans , Ecclesiae sumpsit sacramenta, ac obiit semper constans sem-perque in Domini sperans misericordia : sepultusque die 23 in sepulcro Sancti Siri ». — i7 — del buon Federici ( Scrutinio della Nob. Gen.), se la concessione fosse dell’ Impero Greco o del Germanico ; poiché 1’ Impero d’ Oriente portava di rosso all’ aquila d’ oro, laddove il Germanico portava d’ oro all’ aquila nera. Il nome dei Tartaro, apparso primamente nel i 161 in un Oberto q. Giovanni, era stato illustrato, nel corso di tre secoli, da molti uomini egregi, dottori, anziani del Comune, capitani di galere , ambasciatori ai più potenti sovrani d’ Europa. Degli studi giovanili del nostro Gian Vincenzo non si hanno notizie, e dobbiamo contentarci della lode che gli dà il Giustiniani d’avere studiato senza posa, in età che i giovani del suo grado attendevano a tutt’ altro : il che pare di tutti i tempi, pur troppo. Nel fior degli anni Gian Vincenzo si mostrò versato non pure nelle lettere italiane, ma ancora nelle latine, e in quelle e in queste animato da vivo desiderio di gloria, che per verità non fu mai vizio di menti volgari. Accrebbe coi viaggi le sue cognizioni ; nè gli undici onde abbiamo le relazioni toccano forse la metà di quelli che fece, apparendo dalle relazioni anzi-dette l’indizio di viaggi antecedenti, e i primi biografi di lui ricordando due ambascerie a Filippo IV di Spagna, una al Papa, un’ altra al Duca di Mantova. Coi quali incarichi tocchiamo già la vita pubblica dell’ uòmo insigne, ma senza speranza di poter ricomporre per intiero il suo cursus honorum. Notiamo, dietro la scorta dei documenti che oggi vengono in luce, com’egli, Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIX. 2 nominato senatore in patria, avesse il comando delle galere in tre diverse occasioni, a Messina, a Barcellona, in Corsica, un’ambasceria a Milano ed una a Napoli, un commissariato delle armi in Polcevera, accennato dai primi biografi, e da lui stesso nei Giornali citati, poi un altro nella Riviera di ponente, che risulta dalla relazione IX della nostra raccolta; mentre nessuno, ch’io sappia, ha fatto menzione del suo commissariato alle fortificazioni di Genova, grand’ opera da lui promossa e compiuta nel 1626, con la cinta murale dalla Lanterna al capo di Carignano ; della quale ci ha lasciato un minuto e importante ragguaglio in una lettera al card. Giannettino Doria, che da Palermo gliene chiedeva notizia (1). Tra le molteplici cure trovò tempo a coltivare gli studi tanto cari alla sua giovinezza, e molto scrisse, così di versi latini e italiani, come di esercitazioni accademiche; nè tutte le cose sue son guaste dalla stemperata imitazione del Guarino e del Marino, onde si lasciò travolgere, ottenendo fama dai contemporanei, ma perdendo grazia presso i posteri. A trent’ anni, accademico dei Mutoli di Genova col nome di « Desioso », aveva già pubblicato il suo poema in sedici parti, Dello Stato Rustico, poi ristampato a Genova con molte aggiunte e poche varianti nel 1611, indi nel 1613 (1) Si legge trascritta nei Giornali. 11 card. Giannettino Doria era allora arcivescovo di Palermo. Uomo di molte lettere, spiacque, per severità di giudizi, ad Ansaldo Cebà, che gli aveva mandata la sua Ester, reputando questo suo poema superiore alla Gerusalemme del Tasso. Niente di meno ! — i9 — a Venezia, arricchito di oltre cento componimenti di poeti grandi e piccini in sua lode, e finalmente, se debbo credere al Giustiniani, in una quarta edizione, a Genova, del 1646. Altre cose seguirono, come una specie di poema polimetro su Santa Teresa, la prosa per I funebri del card. Orazio Spinola, e versi latini e italiani sparsi qua e là, con molti discorsi accademici. Certo, erano brevi cose, oramai ; tanto assorbivano il suo tempo le cure politiche, e, dopo la morte del padre, quelle dell’azienda domestica. Gian Giacomo lo aveva lasciato ricco e straricco; sue le case fiancheggianti la piazza di Campetto; suo il palazzo di fronte alla strada di Scutaria, che, per essere stata rifatta da Gian Giacomo con edifizi tutti nuovi, aveva a prendere il nome degli Imperiali, come attesta ancora la lapide, murata sulla prima casa a destra di chi sale verso San Lorenzo ; suoi molti altri palazzi in città, e la villa di Sampierdarena, col palazzo dell’Alessi, oggi sede di quel municipio, cosa stupenda, che lascia intendere a noi come fosse prediletto soggiorno della famiglia, in quel tempo che la nostra Manchester, partita a ville signorili, era tutto un sorriso della natura e dell’arte. Ancora bisognerebbe contare le partecipazioni della casata nelle imprese commerciali e marittime, fonte inesausta di guadagni, che consentì nel 1631 d’ investire milioni di lire nella signoria di Sant’Angelo de’ Lombardi, comprendente due città e quattro altre terre non piccole. Ingegno coltissimo, ricchezze stragrandi, uffici amplissimi ; furono queste le cagioni dell invidia, ond’ ebbe egli a dolersi? Certo, a mezzo il 1635, Gian Vincenzo Imperiale parve precipitare dall alto suo grado, citato ai magistrati, processato sommariamente e condannato al bando « per discolo ». La frase è del Casoni, che certamente vide documenti ufficiali, oggi scomparsi, 0 tuttavia ostinatamente nascosti tra le migliaia di Diversorum che stipano gli scaffali del nostro Archivio di Stato. Della condanna per discolo potrebbe indurci a dubitare il significato odierno del vocabolo, che suona scioperato, di cattivi costumi ; ma questo nei tempi passati significò tant’ altre cose, perfin contumace, il che poteva anco attagliarsi al caso dell’ Imperiale, che citato non comparve, e in contumacia fu condannato, come appunto oggi sappiamo. Credo nondimeno che di ciò non si tratti, e che per discolo i nostri Serenissimi intendessero un violento, un facinoroso, uno che opera contro le leggi. A confortare la mia opinione occorre una ironica allusione del X viaggio, nel punto che Gian Vincenzo, partito per 1 esilio, si ritrovò ad una sagra di Sant’Antonino presso Piacenza. E mi soccorre poi un preziosissimo documento inedito, che dimostra qual fosse 1 imputazione, quale l’accusatore, e come e perchè Gian Vincenzo fosse condannato in contumacia, essendo allora ammalato in Sampierdarena, e così gravemente, che i suoi non stimarono prudente mostrargli la citazione. Fatalità di circostanze, davvero ; ma strano anche il caso che i suoi giudici, i suoi pari, lo stimassero contumace, avendolo quasi sott’occhio e sapendolo infermo; onde si avvalora il sospetto che nel processo avesse mano la invidia di emuli frettolosi a disfarsi di lui, mentre il documento a cui mi riferisco, una lettera dell’istesso Gian Vincenzo (i) eloquentemente (i) Dai Manoscritti Pallavicino, esistenti nel nostro Archivio Municipale, tolgo copia delle due lettere accennate, ringraziando qui pubblicamente la cortesia del signor Angelo Boscassi, archivista, che primo le ha rinvenute, tra tanta varietà di documenti in quella collezione trascritti: Lettera di Gio. Vincenzo Imperiale al Senato. 1635. Che la ria calunnia s’armi contro la virtù non è cosa strana, perchè non è cosa nuova. Quando io, già travagliato da molti anni, e stanco da infiniti dispiaceri, procuravo dalla mia solitudine la mia quiete, risonò che un tale Carlo Muzio napolitano (*) fusse stato per ordine mio ferito e ucciso. E per quanto sia probabile che io non habbi potuto pensarlo, non che commetterlo, eccetto se fussi tanto empio d’havere pensato contro l’altrui vita mentre che io quasi abbandonato da medici stavo pensando alla mia morte, ò mi fussi tanto meravigliato di havere commesso homicidio nella persona di chi nel giorno di oggi è vivo, e benissimo stante: in ogni modo, studiando la maldicenza, apparita sotto imagine di verità, far comparire me (non sò come) sotto maschera ò d’un qualche giovanotto scapestrato, ò d’ alcuno tristo assuefatto ad assassini, e, quel eh’ è peggio, per certa prova d’ assuefatta perfidia, tentò (benché invano) il medico Martelli acciò falsamente accusasse me per reo d’ alcuni incontri che egli dice di at'ere ultimamente ricevuti da ladroncelli a lui benissimo noti. Io per tre mesi continui sepolto nel fondo del mio letto hò mai sognato quello che non havrei mai imaginato. 1 miei domestici, forse creduli che tal menzogna dovesse rimaner lontana da ogni credito, 0 forse timorosi d’ accorarmi, non hebbero per bene di avvertirmi; l’avviso mi è pervenuto all’ hora che io venni pubblicato per discolo. S."'1 Sig.ri l’innocenza mi rende coraggioso per ricorrere à questo trono che per l’incorrotta loro giustizia a’ delinquenti è sempre formidabile; io non vengo a supplicarle perchè mi assolvino dall’ esilio ; io non sono per fastidirle perchè mi proroghino un sol momento alla sentenza; bensì (dico) che (•) Clic fosse musicista 6 detto da Giovanni Imperiale, medico vicentino, nel suo Thtalrum historicum, nella biografia del nostro Gian Vincenzo. — 22 — dichiara la sua innocenza, come un’altra sua, da Bologna, al medico che lo aveva curato, fa prova di coscienza netta, serenamente tranquilla, e del-1' una cosa e dell’ altra è manifesta conferma nelle mi conviene anteporre la dovuta puntualità della mia solita ubbidienza alla ragionevole ansietà d’ andare alla morte, in iscambio di andare alla relegazione. Ancor che mi trovo in riniedij, non senza male, ma senza forza, questo non importa quel che mi preme al cuore, quel che dimando col ginocchio a terra, non è altro che giustizia; questa riceverò per grazia. VV. SS. Ser.”° come giudici, e padri, se mi scacciano da loro perchè diano più fede a’ sparlatori, ben provo che mi hanno favorito come padri. Maggior pena è dovuta à sì gran colpa ; appartiene all’ obbligo loro non solo il compatire da padri, quanto il castigare da giudici. Per le viscere della Santissima Vergine Avvocata nostra, si degnino investigar il vero del pretesto caso; ne adoprino la suprema autorità, nonché il braccio regio e maneggiato da severissimo rigore; mi mandino fra tanto entro delle carceri fra ceppi, e ritrovandomi un tantino delinquente comandino che questa testa che in qualche tempo per difesa dell’ honor publico sostenne le minaccie della manara, cada per giustissima loro sentenza dal mio collo. Troppo sarebbe insopportabile che quel Gio. Vincenzo Imperiale, il quale invecchiato nei più gravi magistrati, nei più importanti carichi e su i gradi di questi Ser.”1 Collegi, sempre fu dichiar.1"" nemico delle enormità, si fusse hor dato alla scelleratezza; troppo sarebb^ indegno di vita chi nell’incrudelirsi contro un ragazzo havesse avvilite le condizioni del proprio nascimento; troppo dall’ altro canto è da compatire chi sospira per vedersi senza colpa e senza causa condannare, e chi piange per trovarsi in un medesimo instante senza patria e senza riputazione. Questa, che col mio procedere mi ho sempre mantenuta, sò certo che dalla mano loro mi sarà giustamente conservata; di quanto faranno aspettino premio da Dio; per quello tocca a me, se non potrò pagare, almeno saprò conoscere il mio debito. Prometto che in qualunque parte del mondo, dove lascerò le ossa mie, porterò sempre verso VV. SS. Ser.”' quell’ossequio che devo, quell’obbligo che professo, e farò sempre palese che sì come non vi è cittadino che di me tenga maggior pegno nella patria, così non vi è, nè sarà mai chi le habbi maggior affezione. Lettera di Gio. Vincenzo Imperiale a Benedetto Benedetti Riccardo (*). 1636. Con lettera del 19 V. S. mi favorisce e mi obbliga, perchè m’ammaestra e mi consola; vorrei poterle pagare il debito che Le confesso, anzi (*) Cosi scritto; ma il nome vero c Riccardo Benedetto Riccardi. Medico come il Kossauo, fu come lui poeta. Si hanno suoi versi nella raccolta delle lodi poetiche allo Sialo Rustico, e nel volume per la « Incoronazione del Sereniss. Gio: Giacomo Imperiale, Duce di Genova u. — 23 — « particelle » del Casalino, stampato in Bologna nell’ anno seguente. Egli dunque (a non tener conto di certe « bravate » che potevano essere di suoi famigli, ed anche esagerate nei lagni d’un medico Martelli) era accusato d’ aver fatto uccidere, niente di meno, un Carlo Muzio, napoletano e maestrino di musica. Ma il maestrino non era morto. Forse solamente sequestrato, per punizione di molestie arrecate a giovani persone della famiglia di Gian poterle esprimere quel giubilo che ne sento. Oh se ci potessimo vedere , quante cose 1’havrei da dire! Le dico solamente che son sano; non sono più quello che le braccia di V. S. tolsero alla morte appunto è 1’ anno ; la mia quiete è la mia salute. Il peripatetico nella quiete riconosce la felicità; questa si lascia tanto maggiormente godere quanto più lungamente si è fatta sospirare ; la maggior parte di questo godimento si appartiene a vecchi della mia età, perchè o più non sono capaci di quelli altri piaceri che somministra la gioventù, o già sono sazii di quelli altri appetiti che suggerisce 1’ ambizione, o pur sono chiariti di quell’errore che si commette quando per giovare ad altri si danneggia a sè medesimo. Mi truovo dunque negli infortunj taimente fortunato, che sarei pazzo se non fossi contento; la mia contentezza nasce da quella che si è invigorita in altri per la mia caduta; giuro a V. S. che mi terrei beato se nel perder la mia patria havessi perduta la vita per la patria; le battiture de’ padri sono honori de’ figliuoli; è massimamente se quelle non si meritano, che questi si le tollerano. Io mi reputo dalla mia carissima Rep.‘ ingrandito, perchè stimo che dalla mia ruina ella habbia composte al comune beneficio le fabbriche; non è per questo eh’ io non debba morir servo a quella Città dove sono nato figliuolo. Chi mi ha spogliato del possesso non mi ha impoverito del-1’ ossequio ; cederò sempre ad ogni altro cittadino per valore, non cederò mai ad alcuno per affetto. Mi spiacerà non poterlo più mostrare in atto ; ma prometto bene che ogni azione della mia vita sara sempre in testificazione della mia riverenza. Ovunque lascerò 1’ ossa mie, lascerò certezza come sempre 1’ anima mia visse più nel corpo della mia Serenissima Rep." che nel mio corpo. Non mi credeva d’aver tanto a dilungarmi; quando entro in questa pratica non sò uscirne; ecco il fine del foglio e del discorso. V. S. mi ami e mi comandi. Di Bologna 29 aprile 1636. Vincenzo, e come a dire per insegnargli a vivere? Questa congettura mi parve ragionevole a tutta prima, pensando a certi momenti, allora più ovvii che forse non siano stati in processo di tempo, nei quali un gentiluomo offeso, e non ben raffidato della giustizia tardigrada del suo paese, poteva perder la testa a segno di volersi fare allegra vendetta da sè. Ma anche questa congettura ho messa da banda, parendomi in contrasto col carattere di Gian Vincenzo, che tanto leale e buono risalta da tutti i suoi atti, da tutte le pagine sue. Lascerò dunque in sospeso il giudizio, per ripigliare il racconto, e dirò brevemente che in Bologna il nostro Gian Vincenzo fu accolto dai signori Paleotti, uno de’ quali doveva essergli mezzo parente, per avere sposata una Malaspina, figliuola d’una Di Negro, mentre un’altra Di Negro, Maria, era stata moglie ad un Melchiorre Imperiale, fratello al nonno paterno di Gian Vincenzo. Il quale, preso alloggio al Casalino, tenuta dei Paleotti, s’innamorò del luogo, e tosto ne fece soggetto d’un poema, men lungo dello Stato Rustico, ma per mio giudizio assai migliore di quello, essendo tenuto in briglia il pègaso del poeta dal metro, che questa volta aveva scelto, della quartina rimata. Sono nel Ritratto del Casalino molte pitture graziose, fresche e vivaci, che ne rendono gradevole la lettura ancor oggi, tra tanto fastidio del genere didascalico e del tema campestre. Nelle note onde il poema è inframmezzato, sono, come ho detto, frequenti le allu- — 25 — sioni alla condanna genovese; ma vi spira un’aria così blanda, una tal sicurezza della propria innocenza, una tale serenità nell' istesso rimpianto, da lasciar credere che già, a mezzo il 1636, l’autore avesse affidamento del suo pronto richiamo in patria. Fu prosciolto dall’accusa? reintegrato nella sua fama? graziato? Il lodarlo che fanno d’ogni virtù i suoi biografi contemporanei, specie il Giustiniani e il Soprani, contrasterebbe col fatto d’una semplice grazia. Comunque, ritornò in Genova, e ci visse gli ultimi anni di sua vita, non più adoperato, forse sdegnoso d’uffizi, più amante di onesto riposo che non fosse stato da prima. Quando tornasse è ignoto ; io credo tuttavia che il fatto accadesse nell’ istesso anno 1636, e prima del settembre; poiché trovo nelle lettere del Chia-brera a Pier Giuseppe Giustiniani, sotto la data del 14 settembre di quell’anno, un passo molto notevole: « Del signor Imperiale intendo altro che stampe e che Muse; egli fa nozze, ed Imenei, che il nostro Signore gliele faccia felicissime ». Quali le nozze a cui accenna il Chiabrera? Non già del signor Gian Vincenzo, che, mortagli il 17 gennaio 1618 la prima moglie Caterina Grimaldi, sposata il 27 maggio 1606, aveva il 4 agosto 162 1 fatto altre nozze con Brigida Spinola, vedova di Giacomo Doria (1). Non del figliuol (1) Son queste almeno le date dei rispettivi istrumenti dotali, che posso citare con esattezza. 1606, 27 maggio (not. Ambrogio Rapallo) istrumento dotale di Caterina Grimalda. — 26 — suo primogenito Francesco Maria, che nel 1622, a’ 19 di aprile, era già impalmato, quasi diciottenne, a Ginevra Doria, figliuola di Brigida; onde, per la troppo fresca età di quei due, appena fatta la cerimonia, il babbo svelse dalla sposa il giovinetto, e lo condusse allo studio di Padova, allogandolo per maggior sicurezza in casa di A' K un famoso professore di diritto romano; ai cne si ha notizia nella relazione VI della nostra raccolta. Non della figliuola Bianca Maria, sposata ad Agabito Centurione Oltramarino, poiché dalla relazione IX vediamo nel 1631 il genero Agabito ospitare Gian Vincenzo nella sua villa a San Remo, e nei Giornali, sotto la data dell’8 maggio 1633, si vede Gian Vincenzo dedicare quella sua fatica tra letteraria e domestica al medesimo Agabito, chiamato « Figlio e Signor mio ». Altri figliuoli e figliuole ebbe Gian Vincenzo nostro, che appariscono espressi in grandi ritratti di famiglia, ma non altrimenti nell’ albero genealogico che della casa Imperiale lasciò manoscritto il march. Massimiliano Spinola q. Agostino, già senatore del Regno; erudito e diligente lavoro, ma non senza lacune ed errori, come quello d aver fatto 1621, 4 agosto (not. Nicolò Pinceto) istr. dotale di Brigida Spinola, vedova di Giac. Doria. 1622, 18 aprile (not. Nicolò Zoagli) istr. dotale di Ginevra Dona, fig ia del q. Giacomo e di Brigida Spinola. Per Ginevra si sa che il matrimoni fu celebrato il giorno seguente ; ma gli sposi non furono riuniti se non p tardi; credo il 7 gennaio 1626, trovando in atti legali che fino a questo termine Gian Vincenzo ritenne gl’interessi di quella dote, i quali poi stabilì dovessero andare ad aumento della dote medesima. — 27 — Agabito Centurione zio e non genero di Gian Vincenzo. Per tornare al nostro proposito, abbiamo la scelta tra due altri figliuoli del Nostro; un Ottavio, che nella genealogia è segnato come sposo a Maria Maddalena Nattona, q. Visconte, e senza progenie; finalmente Gian Battista, ultimo nato delle prime nozze, amatissimo dal padre, e a lui compagno nell’esilio bolognese. Ma questi sposò Luigia Negrona, q. Gian Battista, nel marzo del 1639. Si tratterà dunque delle nozze di Ottavio ? Questi nel 1636 doveva essere ancora ben giovane (1); ma forse il padre avrà fatto per lui come per il suo primogenito Francesco Maria, premendogli anche più di accasarlo. E poiché Ottavio sposò una Maddalena Nattona, di famiglia manifestamente savonese, può darsi che delle nozze appena disegnate avesse fumo il Chiabrera, vivente allora in patria. Ma esse non potevano ad ogni modo combinarsi lontano da casa; e del resto, il tono della (1) Era figliuol naturale, più tardi legittimato. Ecco un passo assai chiaro del testamento di Gian Vincenzo (7 aprile 1645, in atti del notaio Giacomo Lanata) : « Doverà il mio herede (Gio : Battista) carezzare Ottavio Maria, mio figlio naturale, nato mentre io non haveva moglie, da donna sciolta, e legitimato dalla Santa Cesarea Maestà di Federico II nel 1632, come appare dall’autentico privilegio che ne conservo ». Ordina che sia provvisto di vitto e di abitazione, con annua pensione di L. 1000, sin che non arrivi all’età di 30 anni; compiuti i quali, gli lascia L. 6000 annue. Poiché sono al testamento di Gian Vincenzo, noto che questi lascia come prezioso ricordo a Brigida sua moglie « il quadro di N. S. sopra tavola, miracolo del pennello di Tiziano, ove stanno dipinti la Madonna col puttino, san Giovanni Battista e l’Angelo ». È probabilmente il quadro che l’imperiale ebbe da Gabriello Chiabrera, in pagamento d’ un debito, di cui trattano a lungo le lettere del Savonese a Bernardo Castello. — 28 — lettera chiabreresca esclude una tal congettura, parlando essa di Gian Vincenzo come di uomo che nell’autunno del '36 fosse in patria, e tranquillo (1). Sta bene che il Casa/ino fu pubblicato a Bologna colla data del 1637, e colla dedica dell ultimo giorno di dicembre del 1636; ma ben poteva 1 autore aver lasciato stare, e di proposito, le cose com’erano disposte nel cominciare la stampa, quasi a documento dei fatti, e a dimostrazione della tranquillità dell’animo suo, nell’esilio ingiustamente sofferto. III. Ho detto sinceramente ciò che mi sembra il vero, allo stato degli atti, come dicono i legali, cioè col sussidio dei pochi documenti ritrovati finora. Altri, e più di me fortunato, ne raccolga dei nuovi, che confermino la mia opinione, o conducano ad altre conclusioni ; l’essenziale essendo per tutti noi di fare quanta maggior luce si può sulla vita di un uomo che ebbe grido nel tempo suo, e non merita l’oblio del nostro. Certo, i difetti del poeta e del prosatore furono (1) Non tacerò che negli atti della causa intricata e lunga fra gli ere t di Gian Vincenzo è notizia di una lettera che questi scrisse il 5 settembre 1636 da Bologna a D. Landolfo d’Aquino, suo avvocato in Napoli. Ma il cenno del Chiabrera può alludere cosi ad una presenza in Genova già avverata, come ad una presenza aspettata, mentre quella in Bologna si spiegherebbe colla necessità di attendere alla stampa di quel Casalino che porse argomento alla letteraria curiosità del Chiabrera. Leggasi tutta la lettera al Giustiniani, ove si mostra desideroso di notizie intorno alle pubblicazioni degli amici. — 29 — in lui i medesimi che in tanti letterati magni del secolo XVII ; ma furono suoi 1’ ingegno e la cultura, onde emerse facilmente tra i primi; sua quella ricchezza di fantasia, che, pur volgendo ad esuberanza nello Stato Rustico, non gli offusca il merito della grazia, in tanti luoghi evidente. Qui, poi, non è da osservarlo come scrittore; qui solo è da vederne, in sue note e d’altri, la rara nobiltà dell’ animo, la bella gentilezza del costume, la cara semplicità del carattere. E più se ne vedrà nei Giornali, quando io possa pubblicarli; dove, tra i pregi e i difetti del dettato, è vivezza di descrizioni, giustezza di osservazioni e profondità di sentenze, insieme con una quantità maravigliosa di notizie utili alla storia politica, economica e morale del suo tempo. Queste relazioni di viaggi hanno un pregio particolare, che non sarà negato da nessuno ; poiché, oltre le anzidette notizie di cose e d’uomini, che, interessando per sé medesime, possono anche in un modo o in un altro chiarire punti non bene appurati della storia italiana, esse ci fanno entrare nella vita dei nostri maggiori, a coglierli per così dire sul fatto, con le loro abitudini quotidiane, i lor modi di pensare, gl’ insegnamenti che hanno avuti, i libri che han letti, i sentimenti che hanno provati. Mi auguro, per utilità dei nostri studi, che di tali memorie ignorate se ne ritrovino altre in Genova, e le famiglie che le possiedono vogliano darne notizia ad una Società come la nostra, che è poi cosa loro, e che di simili restituzioni del passato ha cura particolare. Queste, infine, non debbono riuscir fredde e mute pagine d’ inventario, ma scene di vita vissuta, dove i personaggi si muovano di per sè, parlando con la lor voce, facendo di lor capo, insomma, secondo loro impulsi e passioni, amori e sdegni, credenze, opinioni, inclinazioni, interessi. Delle quali rappresentazioni fedeli io non so se altra cosa sia più desiderabile, a rallegrare un ora d’ ozio, volgendola, che è il sommo dell arte, in una lezione di viver civile. Genova, 14 febbraio 1898. Anton Giulio Barrili. - I. VIAGCIO FATTO NEL 1609 VERSO LORETO, ROMA E NAPOLI (1) ..... e passata l’acqua di Pozzevera, e vedute alcune graziose ville e borghi di quella fruttifera valle, si per-dusse vicino a Pontedecimo, terra pagliaresca e di Genova prima posta, a pie’ dell’Alpi nostrali; le quali però nè di balzi nè d’ incolti dirupi hanno dovizia, ma per sentieri spaziosi soavemente si travalicano: e fatta buona pezza della salita pervenne a Pietra Lavezzara, di rape di castagne e di perfette ricotte oltre ogni dire doviziosa. Quivi fece apprestar un par d’ova; e doi monaci bianchi di Monte Oliveto, che mangiavano pan bianco come neve e quaglie più grasse de’ loro abbati, li quali si fanno a peso, furono del suo cammino felicissimo presagio. Arrivò poi a gran giorno nella dilettevole terra d’Ottaggio, (1) Mancano al manoscritto le prime due facce; ma questo titolo si può supplire con sicurezza, leggendo le parole con cui il signor Gio: Vincenzo incomincia la narrazione del secondo viaggio; dalle quali appare altresì che la narrazione di questo primo viaggio fu stesa dal signor Giovan Giacomo Rossano, medico del signor Gio; Vincenzo, suo compagno in questo e in altri susseguenti viaggi. Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIX. 5 — 34 — iS miglia da Genova lontano, perchè fino a Pontedecimo sono mio-lia 8, da Pontedecimo a Pietra Lavezzara mi-glia 4, e poi fino a Ottaggio altre miglia 6. Smontò a casa del signor Giobatta Doria suo cugino, già specchio di gentilezza in terra, ora lume di gloria in cielo ; il quale, per ricevere da quell’ aere temperato nelle sue indisposizioni alcun miglioramento, nelle case del capitan Giovanni Scorza erasi passato. Quivi ebbe una magnifica e splendida cena. La notte poi scese dalle nubi una terribile piova, che durò per insino a tanto che 1 giorno si fu desinato: ma dopo le tavole rasserenandosi alquanto il tempo, accomiatatosi da suo cugino sorse a cavallo per dormir la notte in Serravalle; e camminando ebbe gusto di veder il castello di Gavi, e da poi Serravalle, facendo per allora sole otto miglia ; essendo da Ottaggio a Gavi miglia 5, da Gavi a Serravalle miglia 3. In Serravalle alloggiò con m. Giacopo Montesoro, ove di cena e di letto nobilmente fu adagiato, se bene il sig. Gio. Vincenzo mi diede la parte delle sue vivande, per costume antico un solo pasto il dì facendo. Qui accordò fino a Milano una carrozza; così per tempissimo partendo, il terzo giorno da Serravalle e lungo il torrente di Scrivia camminando, a banda sinistra lasciata Nove, terra principale della nostra Repubblica, e a banda destra Cassano, luogo del sig. Lazaro Spinola, passò la Scrivia, ove li convenne alzarsi i piedi, per 1’ acqua che favoriva di soperchio. Pervenne poi a ora di terza alla città di Tortona, ove udita messa e vedute alcune memorabili ruine che nel castello e nella chiesa la tremebonda saetta fatto aveva, fu a Pontecurone, nel qual luogo di tutte sorti di robe che nel Milanese entrano si paga il diritto, e la — 35 — più trista canaglia di masnadieri sonvi alle porte, che meglio il nome di assassini che di guardiani li farebbe. Indi prese un poco di cibo a Voghera, nobilissima terra, in casa d’ un oste bestemmiatore oltre misura. Uscito da Voghera, entrò nella Pancarana, la quale al villaresco suono delle tre pive di Giacopo cuoco dilettevolmente passata, lungo le rive del Po, prima di giungere al varco, andossi due buone miglia. Passato il Po, passossi anco per barca il Cravalone, fiume assai profondo. E qui si fece sera, tanto che di nottetempo si perdusse al ponte di Pavia, famoso, ampio e antico, d’ un bellissimo tetto e di varie finestre adorno, sotto cui corre il limpido Tesino, fra gl’ Italici fiumi assai nomato. Alla porta un villan poltrone, avanzo di galere e di berline, prima d’aprire buono spazio di tempo lo trattenne : ma col latto-varo letificante d’argento coniato, a spalancarla infine fu forzato, et all’ osteria della Croce Bianca ebbe ottimo trattamento. Il quale venne a tempo, dopo aver camminate in carrozza miglia 38; perchè da Serravalle a Tortona son bene 12; di là a Pontecurone miglia 5 ; fino a Voghera ne fanno altre 5; da Voghera a Pavia miglia 16. Di Pavia, antichissima città che ora fa mill’anni fu seggio de’ re Longobardi, molto avrei e di sue bellezze che dire; ma servasi per altra occasione. Accennerò solo che, fra le altre rare cose, nella chiesa di San Piero in Ciel d’oro del dottor sant’Agostino il venerabil corpo giace. Il quarto giorno da sì vaga città partenza facendo, fu a visitare il tempio de’ Cartusini fabbricato dal duca Gio: Galeazzo Visconti, che ne’ suoi tempi di 29 città d’Italia fu notabile signore. Quivi di porfidi e marmi — 3 6 — . famosa, e di bellissime statue adorna, vi è la sua sepoltura. Questa macchina così dentro come fuori è magnifica oltre misura: ha cento e più stanze, d un vago giardinetto tutte adornate; chiostri superbissimi, e apparati ricchissimi tiene. Ha 65 mila scudi d’entrata, buccinandosi oltre di ciò che di moneta più d un milion d’oro nelle loro arche abbino guardato. Dopo questa mirabile visita mangiò un bocconcino ad una osteria da campagna, la quale un giardino assai folto d arboscelli aveva, su’ quali invece di canori rossignoli un numeroso stuolo di rane gracchiava; cosa più notabile che pennati di frate Cipolla (1). Veduto poi Binasco, castello non mica piccolo nè villano, per una strada dritta e vaga spaziandosi, nella città imperiale di Milano entrò a ore 20, per le 20 miglia gaiamente corse. Perchè da Pavia a Binasco sono miglia 10; da Binasco a Milano altre o 7 miglia 10. Quivi all’osteria dei Tre Re, abitanza di magnifico nome e di menomissimi effetti, smontò di carrozza, e immantinente dal vicario de’ Chierici Regulari (trovandosi per allora il preposito lontano) riverentemente fu visitato. Il buon padre, insieme con Don Bernardo di Fazio e di Paolo Maggiolo, nobili cittadini Genovesi, col signor Gio : Vincenzo, perchè nella casa di loro liberalmente venisse ad albergare, caldi mezzi di preghiere operarono; ma egli non tenne l’invito, come quello il quale più di fare altrui grazie che di riceverne oltre misura è vago. Vero è che la stessa notte una turba crudel di cimiccioni di maniera assaltollo, che la mattina vegnente Lazaro piagato rassembrava. Per che, ritornando (I) Decamerone, Giornata Sesta, X. — 37 — di nuovo il vicario a visitarlo e caldamente istanza facendogli che suo oste fusse, alla fin fine lasciossi dalla lor cortesia far dolce forza, e con gusto di tutti oltre mirabile, ospite di sant’Antonio rimanendo, di camera e di convito in supremo grado fu careggiato. Vide poi nell’ andare attorno per entro Milano la chiesa cattedrale, magnifica sì per la grandezza smisurata e per la dovizia de’ marmi, porfidi, e varie pitture che in sè nasconde, ma per la memoranda sepoltura del beato Carlo Borromeo da tanti voti attorniata, che meravigliosa devozione a’ riguardanti porge. Indi fu al tempio antichissimo di santo Ambrosio, ove preti e monaci Cisterciensi in gran numero stanno, e separatamente ora gli uni ora gli altri gli uffici divini orrevolmente celebrano. In questa chiesa, per le mani di sant’Ambrosio, il salutifero lavacro sant’Agostino prese. Questo è ’l tempio ove le cerimonie Ambrosiane ebbero cominciamento ; qui è sepolto il gran santo; qui il suo pastorale, il suo calice e due sue mitre a dismisura ricche il sig. Gio: Vincenzo vide. Mirò anco sopra una colonna di porfido quel serpente di bronzo che Moisè alzò nel deserto. Di lì andò a San Vittore, chiesa de’ monaci di Monte Oliveto, fabbricata tutta per entro a oro e stucco, e vaga oltre misura. Sotto il coro 36 corpi interi di santi martiri in splendidi monumenti riposano. Partito da questo stupendo tempio, a casa, accompagnato da una lenta pioggia che tuttora entrava nella carrozza, passo passo si ridusse; e sopra vegnente la notte, di cena poco curandosi, e meno di dormire, a scrivere per buona pezza si diede: ma poiché le sue lettere ebbe chiuse, in bianchissimi e odoriferi lini, senz’altro cibo, per ristorare il danno della passata notte coricossi. L’altro - 38 - giorno, ben di mattino, insieme co’ doi padri genovesi Fazio e Maggiolo, per vagheggiare del conte Fabio Visconti le fontane, andossene a Linà (.Leinate). In questo luogo, da rustiche capanne e villareschi abituri attorniato, un magnifico palagio con sale e stanze reali vi risiede. Al primo palco vide una bella sala, un salotto e sette camere, di molte teste di rilievo antiche, di paesi bellissimi e di pitture eccellentissime adorne ; fra le quali quel notabile crocifisso di Michelangelo contemplò, il quale, perchè a suo gusto moribondo apparisse, della morte miserabile d’un povero facchino, pendente allora in croce, fu cagione. Quindi allontanatosi un poco, un laberinto di mortelle grazioso trovò assai tosto. Mirò poi una rara fonte, di opere meravigliose della natura tutta fatta ; e dentro vi sono varie sorti di animali e statue di ricchi marmi, che tutte gettano acque. Il pavimento è tutto di bellissime pietre smaltato, che per mille anguste vene quando occorre getta acqua. A banda dritta della fonte, per una porta di porfido trasparente, in sette stanze tutte fatte a musaico entrasi, e dalla parte sinistra per altrettante stanze nella stessa guisa lavorate si passa. Quivi diversi vasi di madreperla, di paglia d’ India ed altre cose più per la rarità degne di vista che per la ricchezza gli furono mostrate. Dopo, fu a desinare, e sul più bel delle tavole per ordine del conte Fabio Visconte di buona quantità di olive sivigliane e di quattro fiaschi di vino differenti fu presentato. Entrò poscia in carrozza, ove per il cammino, o fusse la diversità de’ vini, o l’amenità del paese, bravamente all’uso di Genova cantassi, intonando la musica al dolcissimo suono de’ zufifoli del cuoco. Visitò, in passando per Rho, l’ampia chiesa di — 39 —' Santa Maria, dove di fresco 1’ imagine santa diversi miracoli fatto aveva. Di lì, cantando quasi per insino la porta del Castello, a Milano pervenne. All’altra mattina, udita la messa alla Madonna di san Celso, chiesa famosa per la fabrica e per la devozione, e concertato una buona carrozza, la quale a Ferrara, a Loreto e a Roma il portasse, prese licenza dai cortesi Padri di sant’Antonio; e dopo mezzogiorno avendo una quaglia mangiata, da quella città nobilissima fece partenza. Della quale vorrei pure alcuna cosa, ma nulla posso dire; e se incomincio pur non so finire. Basti questo, che Milano è un picciolo mondo abbreviato, ove tutto il bello s’ unisce che a molte città d’ Europa il benigno cielo ha compartito. Ora con la guida d’ un carrozziero, a cui mancava una mano, verso Lodi avviatosi, a pena avea fatte tre miglia, quando una frotta di guardie con rustiche parole tutto ciò che portava entro le valigie veder volle. Vero è che con mezzo ducatene assai tosto abbandonò 1’ impresa. Vide Maregliano (Melegnano) grande e magnifico castello, nel bel mezzo del quale il fiume Lambro, uno dei quattro di quello fruttifero stato, vagamente vi passa. Indi pervenuto alle porte di Lodi, fuor delle mura all’ osteria del Gatto fu ad alloggiare. Lodi è città festevole : ha un contado per la presenza continua del fiume Adda non meno dilettevole che dovizioso. Vi si fabricano vasellamenti di terra tanto vaehi o e belli, che punto non cedono a’ piatti Faventini. Il dì seguente, su ’l primo apparir dell’aurora, di montar in carrozza desiderava; ma per la splendida cena che gustò la sera avanti ebbe il sonno chetamente profondo; — 4° - e una folta nebbia che con silenzio giocondo quelle seminate pianure imbruniva, accrebbe di molto il suo sonnifero riposo. Ma perchè aveva da far più cammino che ’1 giorno inanzi, il quale ebbe fine con venti miglia, essendone fino a Marigliano io, e da Marigliano a Lodi io, a forza gli convenne affrontar valorosamente la rin-crescevole nebbia, che per insino al nobil luogo di Castiglione non si disfece. Poi varcato il fiume Adda con barca, prese un poco di cibo a Pizzichitone (Pizzighettone), all’ ostiere della Spada. In questo fortissimo castello il preso re Francesco primo di Francia per tre mesi ebbe soggiorno. Indi per sentieri dilettevoli e d’arboscelli altissimi adornati, che non poco per la loro vaghezza gli occhi e la mente di festevole refrigerio ci empivano, col sole anco alto nella bella città di Cremona si perdusse, et all’ ostiere de’ Tre Falconi smontato di carrozza, e scossa da’ suoi nobili vestimenti la polvere che per 30 miglia l’aveva accompagnato (facendosene da Lodi a Castiglione miglia 12, fino a Pizzichetone altre 6, poi sino a Cremona 12) volle con un poco di volta solaz-zevole alquanto la città vedere; la quale di bellissime ampie strade arricchita e di magnifiche chiese nobilitata è degna d’essere tra le principali di Lombardia annoverata. Vide santo Abbondio, chiesa de’ Chierici regolari, piccoletta sì, ma tutta per entro di oro tempestata. Il Padre preposito, perchè suo oste fusse, tutti i mezzi possibili cortesemente mise in opra; ma spese indarno le 1 • parole, godendo senza modo il sig. Gio: Vincenzo 1 passar con libertà il suo viaggio, tutto che alle volte stia molto disagiato. Poscia all’ampia chiesa cattedrale rivolse i passi; la quale ha una torre per avventura la più alta — 4i — che oggi vi sia nel mondo. Oltre di questo pensava di veder ancora san Sigismondo, tempio de’ Cartusini reale, e miiraltre grandezze: ma l’appetito del cibo e del riposo, il quale de’ corpi salutiferi per il cammino è dominatore, di buon’ ora alle sue stanze fecelo ritirare. E già essendo apprestata la cena, a tavola si mise. E nel più bello delle mense, eccoti venir sudando doi Teatini che per parte del Preposito al sig. Gio: Vincenzo una torta di peri inzuccherati e doi fiaschi di prezioso vermiglio vino presentarono. La torta era tanto buona che trangugiossene per avventura più del dovere ; onde la notte fu anzi grave che no. E la mattina vegnente, per una strada diritta, di pioppi e di quercie sulle sponde adorna, la quale per quaranta miglia con giocondo passamente dura, il suo cammino allegramente seguito, fece mezzogiorno a san Giacopo, albergo assai bene agiato. E quivi presso un ovile al suo Rustico poema da settanta versi non meno spiritosi che dotti aggiunse (i); indi per la stessa via diritta camminando, passò per Bozzolo, terra abbondante e principale. E dilungandosi poco, trovò il delizioso luoghetto di San Martino, serrato intorno da’ più leggiadri e torreggiami pini, che simili non ho già mai in altre contrade veduti. Passò per (i) La prima edizione del poema Dillo Slato Rustico fu del 1607, in tre volumetti in i6.°, stampata in Genova, da Giuseppe Pavoni. Nel proemio della seconda edizione, in un grosso volume in quarto, stampata dall’istesso Pavoni .nel 1611, con poche varianti ma con molte aggiunte diversi qua e là, e di passi intieri, dice l’Autore che la prima edizione fu fatta in piccol numero di esemplari, per mandarli « a fedeli amici, che bontà loro, più cortesemente che giustamente leggendo, mi dessero quegli avvisi, ch’io del prudente parer loro avidamente attendeva ». E pare che fosse davvero cosi, perchè quella prima edizione è diventata rarissima. — 42 — Marmarolo, ove sopra il fiume Loglio (Ogho) trovai un ponte fatto di legno, tanto roso e consumato che a tutti nel passar della carrozza i polsi fece tremare. Vicino a Mantova il tempio di Santa Maria delle Grazie visitò, il quale di vero è uno dei più devoti del mondo per la inestimabile quantità di voti, da’ quali con mirabile magistero adornato accresce di molto la devozione. 1 erve-nuto in Mantova sul tramontar del sole, smontò all ostiere del Cappello, dell’ altre abitanze men disagevole, dopo aver fatto miglia 40 (fino a san Giacomo, miglia 20, di lì a Bozzolo miglia 4, e miglia 16 fino a Mantova). Qui lettere avendo, al preposito da’ Teatini milanesi inviate, fu al tempio di questi cortesi Padri; li quali per ritenerlo in loro casa usarono dolcemente un poco di forza; ma non vi fu rimedio a che restasse, e di subito a una chiesuola di monaci neri di san Benedetto, detta Ognissanti, andò più che di passo, ove una lettera don Angelo Grillo abbate di Montecassino scrisse, ac ciocché il giorno vegnente a desinar seco 1 aspettasse (1) E qui ne venne scuro ; onde, essendo 1’ osteria lontan ebbe assai travaglioso cammino, ma più il medico, ci più volte in diversi marmi, li quali attraversavano strada, diede contro sua voglia. E appena all ostiere (1) D. Angelo Grillo, dei signori di Montescaglioso, patrizio genovese, ^ cassinense, abate in più monasteri del suo ordine, di cui fu anche ^uatt'” generale. In Roma, essendovi abate di San Paolo, con Paolo Mancini on ... jm,eva toccar pw cademia degli Umoristi, e ne fu eletto principe; onore cne ao ^ tardi al famoso cav. Marino. 11 Grillo, nato verso il 1550, mori, secondo ^ Cassinensis, nel settembre del 1629. Poeta gentile, sebbene non al tutto sce^ ampolle del tempo, avrà fama durevole per l’utile amicizia professata a ^jser0 e per le cure indefessamente usate presso i principi italiani affinchè in e a far liberare l’infelice Torquato dalla prigionia di Sant’ Anna. — 43 — perdusse, quando con torchi accesi e nobile compagnia il preposito Teatino di Mantova dentro una carrozza per condurlo seco in fretta venne; ma il sig. Gio: Vincenzo non volle in conto veruno partirsi; accettò bene alcuni fiaschi di vino, che al tempo della cena gli mandarono. Nel giorno seguente, udita messa in Santa Barbara, in quella chiesa ducale un reliquiario d’ oro e di diamanti e d’altre pietre ricco e superbo vide, ove in una arca, di cristallo di rocca tutta fatta e d’ oro smaltato per intorno fregiata, sta un poco di benedetto sangue del nostro Redentore; se ben molta maggior quantità d’esso sangue in Santo Andrea, chiesa principale di quella città, se ne trova. Vide la galleria del Duca, ove di Michelangelo, di Tiziano, di Raffaello da Urbino e d’altri pittori del primo grado, le più belle figure che siano al mondo, vi sono. Il suo palazzo, per ritrovarsi per diporto la Corte fuori, veder non potè; nè anco il palazzo del T, ove dicono essere statue antichissime e rare, e pitture divine. Indi sul mezzogiorno di Mantova uscito, e per pianure amene e boscherecci sentieri avviatosi verso Montecassino, da un monaco presso il varco del Po fu incontrato; il quale con riverenti parole e con una gaia lettera del-l’Abbate al monasterio l’invitava. Dove pervenuto, e da infiniti monaci e da D. Angelo alla prima porta con nobili accoglienze fu ricevuto. A vedere alcuna cosa per far ora di cena immantinente fu condotto, perchè a mirar tutto doi giorni per intero non basterebbono, tal è la macchina di quell’ Abbazia. Mostrarongli tre cantine, anzi tre spaziosi borghi, ove tutte le botti di bianchi e vermigli vini erano piene. Vide la cucina, nella quale certe tortellette di grano si formavano, che. rote di ino- - 44 “ lino parevano anzi che no. Entrò nella loro libraria, ove da 800 libri in foglio reale con latte vaccino stampati tengono, gli quali il carattere parmegiano ritenevano. Ouelli chiostri sono superbissimi, e per un imperatore degni. Il tempio buona parte a musaico è lavorato; ha un organo de’ migliori d’Italia. Quindi essendo già le tavole apprestate, l’Abbate, il sig. Gio: Vincenzo ed il medico furono a cenare. E di vero che quante sorti di pesci nell’onde sue cristalline il Po comparte, tutte quella sera vennero alle mense, oltre diverse altre vivande, parte con butirro, parte con zucchero, e per frutta mille variate conserve non mancarono. Dopo le tavole, da musica soave di suoni e canti per buon spazio di tempo fu trattenuto; e l’Abbate volle anco che Giacopo cuoco li suoi pifferi suonasse. Il quale sforzandosi a più potere di mostrarsi un valente maestro, diede materia di riso a’ spettatori. Il seguente giorno D. Angelo fece il sig. Gio: Vincenzo in una carrozza da quattro cavalli, che volava, montare; e ad alcune abitanze villaresche del-l’Abazia se lo condusse, e primieramente alla Madonna di Vaiverde, luogo di ricreazione, ove talora 1 monaci giuocando alla pallacorda, al pallone e all arancetto (1) fanno carnovale. Indi fu alla Vedova, ove il forma&g" piacentino si fabrica. Di lì passò al Lago Martino ov ^ tengono le loro razze di cavalli, e dove anco i mona gustano alle volte di pescare; et ultimamente andò a palagio della Gaitera, nel quale D. Angelo un convi T7 ì fra le magnifico di carni avea fatto apprestare. Lranvi (i) Palla, cosi forse chiamata, perchè, fatta a spicchi di cuoio lucido, imagine di melarancia. - 45 — altre vivande certi capi di latte, che la bontà de’ romani e de’ napolitani di molto superavano. Dopo le tavole dall’Abbate prese licenza, il quale sino al fiume Secchia da Montecassino per sei miglia lontano accompagnollo. San Benedetto è lontano da Mantova miglia 12. Qui con barca passato il fiume, vide il luogo di Qui-stello, che Tristello per la trista gente che vi annida con più giusto titolo chiamar si puote : e perchè il carrozziero non avea mai fatto quel cammino (come quello il quale non era reale, ma cameriero dell’Abbate, nato e nutrito in quei contorni) fino a Ostilia gir sen volle; però, se bene alla presenza di D. Angelo di sapere a chiusi occhi la strada avevasi dato vanto, per tutto questo più fiate errò il diritto sentiero, le più belle giravolte del mondo facendo fare alla carrozza. Pure alla fin fine, da’ villani che per la via ritrovavansi a caso aitato, si perdusse a Cugnentoli, luogo di bellissime caccie di selvaggiume, ove il duca di Mantova per suo diletto ha un bellissimo palazzo. Indi fu a Revere, terra assai festosa e grande e dal duca apprezzata non poco. D’ incontro vi è Ostilia, e il fiume Po sta in mezzo dell’ una e 1’ altra terra. Ostilia è assai più grossa di Revere; ma il fiume l’ha buona parte ruinata. Il suo paese di risi è tanto dovizioso, che a tutto lo stato Veneziano ne comparte. Qui in Ostilia ebbe assai comodo letto alla Posta. Poco cenossi, per il molto che alla Gaitera su ’l mezzogiorno s’ era desinato. Questa è l’ultima terra del duca ; da Mantova lungi, per lo cammino di San Benedetto, 30 miglia; poiché fino a San Benedetto sono miglia 12; da San Benedetto a Quistello miglia 6 ; di lì a Cugnentoli miglia 6 ; per - 46 - insino a Revere miglia 5; da Revere a Ostilia, per il molto tempo che a varcare il Po si spende, miglio 1. La mattina seguente posto in cammino, buono spazio di giorno per la dilettevole riva del Po si trattenne. E credesi che d amenità questo fecondo paese tutti gli altri lombardi sopravanzi. Oltre di ciò presso queste verdi sponde, l’auriga figlio del Sole in Po cadde e morìo ; e Cigno re di Liguria in bianco cigno converso allorché sì lagrimoso sacrifizio successe, su’ frondosi rami delle tramutate sorelle pianse cantando gran tempo l’ardito e sfortunato caso. Dopo entrò, varcato il Po di nuovo, nella piccoletta villa di Polantone, ove si fabbricano navigli, che per il fiume portano mercatanzie. Qui all’ osteria della Posta se la passò con due ova sole: poscia il vino assaggiar volendo, cum gustasset noluit bibere, tanto era pessimo e ammuffato. Indi su l’ora che ’l sole su le olive di Siviglia comincia a mancar di luce, alla bella città di Ferrara pervenne, avendo quel giorno 30 miglia corse: essendo da Ostilia a Polantone miglia 18; e da Polantone a Ferrara miglia 12. Qui smontato al Castello Ducale, che quasi piccola isoletta da stagno d’acqua è d’ogni intorno circondato, entrò nelle regie stanze del cardinale Spinola, il quale tra sì e no l’aspettava. Vero è che il desiderio di vederlo ardentissimo era oltre misura; imperocché per lo spazio d’anni quattro della sua presenza era stato privo ; onde se quivi giunto fu il ben venuto e con rare accoglienze ricevuto, ve ’l lascio pensare. Cinque giorni interi con 1’ill.mo zio soggiornò; il quale di vederlo e di favellar seco oltre ogni credere godea, e sei ore per volta nelle sue camere segrete se - 47 — 1 teneva, e appena gli affari pubblici aveva forniti, quando immantinente a sè lo chiamava; per onde cinque giorni ad amenduni parvero di cinque ore. E perchè il cardinale in que’ giorni da noiose podagre era angosciato, alla vista di sì degno nepote tanto sollevamento prese, che licenziati i medici e 1’ acque di Garfagnana in vino tramutate, a passeggiar per Ferrara diede felice comin-ciamento. Intanto da’ più nobili signori della città il signor Gio: Vincenzo fu visitato; il signor Federico Savello delle milizie ferraresi, di Bologna e della Romagna meritissimo generale fu il primo; monsignor Massimi principalissimo baron di Roma, e di Ferrara onoratissimo vicelegato, tenne il luogo secondo; corse dietro a loro il marchese Scandiano, il marchese Turco, il marchese Enzio Bentivogli e don Francesco Cibo da Este. Egli poi baciò le mani al Cardinal Bevi 1’ acqua, il quale con mille inestimabili cortesie lo raccolse, invitandolo oltre di ciò alla sua villa di Foscolano, nella quale per suo diporto poche ore dopo di gir pensava, e fu d’uopo al signor Vincenzo, per isbrigarsi, impegnar la sua fede d’ andarvi fra due giorni ; sì calde parole di cortesia il cardinale usava. Visitò un altro giorno il Cardinal Pio, che non minori faville di gentilezza sparse in parlando, e per avventura di vantaggio di quello che Bevilacqua avesse fatto. Dopo, in un mattin sereno, dal signor Gri-maldo Oldoini commissario della Camera, dal cavagliero Ratto, dai signori Giacopo Spinola auditore e Leonardo Spinola coppiero dal cardinale accompagnato, vicino al ponte della Valle Scura lungo la riva del Po fu a cacciare, e ’n un delizioso casino da campagna da dui Firentini doganieri a desinare cortesemente chiamato, _ 48 - con splendidi mangiari fu ricevuto. In que' fecondi piani da 60 quaglie con reti piccole e grand, assai agiatamente si presero ; e se cacciatori esperti vi fossero stati, altre tante di vantaggio alla sfuggita se ne carpivano. Fu ben quella giornata dilettevole e gioconda oltre misura. Andò sovente col cardinale alla fortezza, la quale con diligenza più che umana nello spazio di doi anni a buon termine ha ridotto, che di vero e una mole che aiostrerà di pari co ’l Milanese castello. Fu anco un altro giorno in su ’l tardi a udir la divina musica delle monache di San Vitto, che non cede punto alle migliori del mondo. Vidde fra le altre chiese Santa Maria 1’ Incoronata, ove ora fa gran tempo un gran miracolo avvenne ad un prete. Il quale in celebrando la messa, nel sacrificar dell’ ostia vacillò nella fede, e quell’ ostia sprizzò tanta quantità di sangue, che le muraglie e 1 tetto di quella capella ancora oggidì ne sono ripiene. Preso poi dall’ ill.mo Cardinale un giovedì su '1 mattino con faticoso travaglio commiato, e per insino al passare del Rheno da molti signori accompagnato, dopo una benigna e nobilissima licenza verso la città di Bologna recossi. Passò per la Scala, terra assai popolata e ricca, quindi a San Piero in Casale fu a desinare; poi veduta per cammino la bella e vaga terra di San Giorgio a un’ora di giorno si perdusse in Bologna, avendo 30 miglia, mentre dal dì sopra scendeva una minuta pioggia, spac-ciatamente fatte. (Fino a San Piero in Casale miglia 16, a San Giorgio altre miglia 4 ; e fino a Bologna miglia 10). Qui volle anzi star incognito, per uscir di Bologna alle sue ore destinate, che, palesando il suo nome, dagli onorati compimenti del Cardinal Giustiniano essere trat- — 49 - tenuto. Ed essendo a dare il nome forzato, Lucco Recucco fecesi notare; e smontato all’ostiere dell’Angelo, male agiato di tutte le cose del mondo, dubitò che le piaghe dagli animaletti milanesi la prima notte ricevute, non si rinfrescassero con altrettante punture di Bolognesi cimic-cioni. Ma il signor Benedetto Mariani, nobile cittadino Lucchese, tolselo da sì tremebonda paura ; perchè con una carrozza a visitarlo venendo, tanto lo pregò, che lasciando quell’ albergo, cortesemente fu a sua casa, nella quale tutto un giorno fece dimora, ma con gran paura del Cardinal Giustiniano, che perciò nella piazza poco lasciossi vedere, ma solamente per angoli stretti il pie’ movendo a San Michele in Bosco fu a riparare, chiesa dei monaci bianchi di Monte Oliveto, la quale di vero è una delle magnifiche fabriche, che oggidì per la Italia si contemplino. E perchè il sembiante autorevole del signor Gio: Vincenzo ciascheduna persona a riverenza moveva, un monaco de’ principali immantinente ad incontrarlo venne, e con molta cortesia gli mostrò que’ chiostri, li quali sono reali; e ’l coro della chiesa, con mirabile magistero fatto, appagò molto la sua vista. E qui Lucco Recucco diede un poco di materia di commedia a tutti, fuori che al buon monaco ; il quale desiderando, mentre il signor Gio : Vincenzo accompagnava, di conoscerlo a nome, chiaramente s’ avvide che Recucco a quella nobil presenza non ben s’ adattava. E sopravvenendo la notte, alle stanze per iscrivere a Genova furtivamente si ridusse; nè guari ebbe agio di poter le bellezze della città di Bologna vagheggiare, le quali all’ eccellenza di Milano punto non sono inferiori, e fra le altre cose giustamente si può dire che in nulla parte del mondo così Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIX, 4 - so — commode non vi siano le case, ne la cavalleria sì copiosa come in Bologna. E chi può appieno far racconto della dovizia di tutto ciò che al sostentamento umano appar-tiensi, che ogni giorno su per le piazze di questa città si scorge ? Infine, basti a dire eh’ è Bologna la grassa, ma non per chi vi passa. Ora, partito quindi per tem^ pissimo, dopo aver compitamente della sua benevolenza il Mariani ringraziato, e i suoi festeggiatiti servitori di buona mancia appagati, trovò sopra il fiume Ligeri un nobilissimo ponte dal cardinale Spinola negli anni dorati del suo felice reggimento rinnovato ; vidde Castel Sanv piero, terra ricca e principale; e in Imola, prima città di Romagna di ver Bologna, prese un par d ova, ma-nucando un bellissimo pane da un pessimo vino accom' pagnato. Passato poi il fiume Santerno che irriga quel fecondo paese, e che vicino le muraglie della citta corre, in su ’l chinar dell’ ombra alla città di Faenza si ridusse ; è irrigata dal fiume Lamone e da per tutta Italia assai nomata per la bontà e bellezza de vasi di terra che vi si fanno, ed è da Bologna per 30 miglia lontana; essendo fino a Castel Sampiero miglia 14, di lì alla città d Imola miglia 6, da Imola a Faenza miglia 10. Qui all’ albergo della Corona, meno disagevole degli altri, magramente e di cibo e di sonno ristorò le stanche membra. Ed allo spuntar di mattinevole aurora, dopo lo aver nella chiesa cattedrale devotamente udita messa, postosi in cammino passò per la città di Forlì dal fiume Modon d’ogni intorno bagnata. Indi, lasciandosi indietro Bertinoro nobilissimo castello, e passato di fuori alle mura per la terra bellissima di Forlimpopoli, fu a desinare nella graziosa città di Cesena, all ostiere della Cam- - 5i — pana, ove di vivanda nobilmente fu trattato ; e sopra un bellissimo ponte di marmo passato il fiume Savio, il quale presso le muraglie antiche della città s’ aggira, la sera ebbe onorato soggiorno nel fecondo luogo di Savi-gnano, ove mi raccordo che le quaglie costavano un bolognino 1 una. E questa giornata 30 migliarelle piccole festevolmente corse, perchè da Faenza a Forlì vi sono miglia 10, fino a Forlimpopoli altre miglia 5 , di lì a Cesena miglia 5, e da Cesena a Savignano miglia 10. La mattina vegnente passò il Rubicone, antica meta de capitani di Roma, poiché con esercito armato, sotto pena d esser chiamati nemici della Repubblica, non lo poteano passare. Entrò poi nella città d’Arimini su la marina Adriatica fondata, la quale è bellissima e gioconda, con una piazza tanto doviziosa, che a tutte l’ore della mattina innumerabile quantità di tutta robba vi si ritrova, e le quaglie vi sono a bollissimo mercato. Indi avviatosi verso la Cattolica, terra dove altra volta Alfonso Picco-lomini dalle genti del gran Duca di Toscana fu preso, 15 miglia camminò della più bella strada, e per le carrozze più agiata che indi addietro per anco avesse camminato. Pervenuto a questo luogo, con una buona quaglia alquanto ristorossi, e giunse, dopo di aver passate dieci ore del giorno, nell’ amena e dilettevole città di Pesaro, la quale dal Duca d’Urbino è signoreggiata, e posta su’l mare Adriatico, e ’l limpido e cristallino Metauro, che presso le sue mura nell’onde salse sbocca, e con le sue acque vi fa un poco di porto. È doviziosa senza modo di pesci, di grano, d’uva e d’ottimi fichi; abbonda di tordi, di quaglie e di pernici, meglio che altra città dello Stato Ecclesiastico e d’Urbino. Quivi all’albergo del Sole - J2 - orrevolmente di cena e di letto fu trattato ; e fra gli altri ottimi mangiari, li più stupendi peri bergamotti su le mense vennero, che in altre parti siansi veduti. Pero, quantunque a bell’ ora a questa città giungesse, onde a suo gusto di vagheggiarla ebbe tempo, tuttavia 35 miglia addietro lasciossi ; facendosi da Savignano ad Arimini miglia 10; sino alla Cattolica altre miglia 15» e dalla Cattolica a Pesaro miglia 10. L’altro giorno da sì egregia città uscito, passo vicino o O O alla bella città di Fano, camminando per sentieri per avventura più erti di quello che le rote della carrozza richiedevano. Non volle entrare in questa città, dal Papa dominata, perchè il cammino diritto è la marittima spiaggia, e Tonde Adriatiche alle muraglie di Fano ne’ tempestosi giorni arrivano talora. Poi, non molto dilungatosi, trovò un bellissimo ponte di legno, più di mezzo miglio certamente grande, ove di sotto, il fiume Cesano rapidamente corre. Indi correndo lentamente per la piaggia, e ciò per grazia del carrozziero che piccole giornate per desiderio di maggior guadagno procacciava di fare, vicino a Sinigaglia, città pure del Duca d Urbino,^ passò un altro ponte di legno: ma il fiume che sotto ci corre non ha giammai avuto nome. Qui fuori della città in un alloggiamento, anzi più tosto in una spelonca di ladri, grotta d’assassini e ridotto di masnadieri, un poco di brodo non vollero consentirgli. Ma se tanto di terreno avanzassero i Turchi in Ungheria come 1 oste guadagno co’l signor Gio: Vincenzo, felice il popolo Cristiano. Quando si vide in quella canaglia così villana durezza, la carrozza in quella occasione in buona stanza mutossi, • hi-e tabarri in nobili mense ; e con preziose conserve, - 53 — scotti inzuccherati, e bonissimi vini che’ servidori nella carrozza portavano, schernendo T avarizia di quella pessima gente, festevolmente passò un buon tratto di tempo, il quale diede materia di riso per insino che alla Casa Brusciata si pervenne, avendo fatto 30 miglia ; poiché da Pesaro a Fano sono miglia 5, di lì a Sinigaglia miglia 15, poi fino alla Casa Brusciata miglia 10. In questo albergo ebbe nobilissima cena e comodissimo letto ; e già l’augello cristato col suo canto ogni animale all’ opre aveva desto, quando in carrozza rimontato lungo la via Adriatica avviossi all’ostiere dell’Olmo, la bellissima città d’Ancona per dieci continue miglia avendo sempre davanti; la quale di certo è una dilettosa e mirabile vista. Ora all’albergo dell’Olmo il cocchiero non volle fermarsi, in vendetta forse di quella derrata che l’oste di Sinigaglia co ’l signor Gio: Vincenzo fatto aveva, ma alla stanza dell’ Orco lo condusse, che aveva abbondanza di tutto , ma non v’ era una gocciola di vino, nè pure un micolino di pane. Indi a tre ore di giorno alla Santa Casa di Loreto si perdusse, la quale otto miglia di lontano superbamente appare; avendo fatto quel dì 25 miglia, essendone dalla Casa Brusciata all’Olmo 10, e fino a Loreto altre 15 miglia. Ora di questo santo tempio da per tutte le parti del mondo in tanta reverenza tenuto, non ardisco di parlare, eh’ è d’altri òmeri soma che de’ miei. Ouivi il sionor ^ ò Gio: Vincenzo d’un giorno e mezzo fece devotissima dimora, e tutto lo spese orando inginocchiato nel caminetto della divina abitanza. Presentò un bambino d’argento d’inestimabile peso alla Vergine Maria, e que’ sagrestani che avevano cura della chiesa nel più bel luogo — 54 — della santissima capella il posero. Delle cose notabili che nella sagrestia si videro non dirò cosa alcuna, siccome quello il quale so che parlerei di cose note : ma non posso tacere d’un palio che vi ha mandato 1 Infanta gran Duchessa di Toscana, di sì ricche perle e diamanti • i tempestato, che più di cinquanta mila scuti s apprezza; e ’l Papa, di verso Recanati, per un bellissimo acquedotto buona quantità d’acqua vi fa venire, che per una marmorea fontana, in mezzo della piazza posta, a tutti li pellegrini darà bastevole refrigerio. Partito di Loreto, per un poco di tristo sentiero passar convenendo, il signor Gio: Vincenzo che alle strade cattive starsene solo in carrozza il più soleva, allora volle anch egli in nostra compagnia andarsene a piedi, e la carrozza con grandissimo fracasso sottosopra rivoltossi; miracolo e\i dente che fece Maria Vergine al santo zelo che al suo o ^ celeste nome questo gentil cavaliero tiene. Passo per mezzo Recanati di continuo camminando per sentieri al quanto saglienti, e su’l mancar de’ raggi febèi in Macerata, città metropoli della Marca Anconitana, pervenne, smontando di carrozza all’ostiere della Posta, assai bene agiato di quanto in uno albergo all’ improvviso trovar si puote. Quivi per tener un tratto di passamento, vide un poco di commedia da certi Aquilani fatta, li quali a più potere entravano nel pecoreccio; e tra l’altre più sciocche parti eravi un amante imbardato, che somigliava per 1 ap punto Calandrino di monna Nicolosa incapricciato (0* E questo giorno 13 miglia soavemente fece ; perchè da 1) Decamerone, Giornata Nona, Nov. V. — 5S " Loreto a Recanati sono miglia 3, e quindi a Macerata miglia 10. Ora da questa fruttifera città per tempissimo uscendo, si perdusse con un pochetto di freddo a Tolentino, città povera di gente, ma per le reliquie del suo San Nicolò ricca e famosa. Quivi è la chiesa da lui fabricata; quivi è’l suo santo corpo, che in altri tempi più fortunati stando in un’ arca di ferro potevasi vedere. Al presente, sì prezioso tesoro nelle più sotterranee cave di quella chiesa stassi nascosto, e sotto pena di scomunica giammai si può mirare. Però con grandissima devozione mostransi ambe le braccia, spiccate dal rimanente del suo benedetto corpo per mano d’un frate Tedesco, il quale, cupido oltre ogni modo di portarsele ne’ suoi paesi, fece sì grave misfatto; e in quell’istante le venerande braccia, dopo di essere molte le centinaia di anni da che invida morte le oppresse, gettarono inestimabile quantità di sangue in quel bianco lenzuolo nel quale furono avvolte, ed oggidì il suo naturai colore anco ritiene. Ma volendo partirsi spacciatamente il ladro, fece mille giravolte, e sempre in Tolentino si trovava; tanto che alla fin fine confessò ai frati il suo peccato. Così le sante braccia nella capella dove ora sono umilmente si riposero, serrandole in una cassa, la quale ha tre chiavi: due ne tiene il convento, e la terza è guardata dal Reggimento. * o 00 Si scuoprono di rado, e solo per signori e principi questa vista è fatta. 11 signor Gio : Vincenzo le vide ; vide altresì la tovagliola dal suo sangue piena, la quale di continuo scaturisce manna. Vide parimente un gran fascio di cotone dal suo stesso sangue macchiato; mirò di più il cerchio di ferro con che vivendo si cingea {il Santo) : — Sventrò poscia nell’oratorio del Santo, dove l’effigie sua dal naturale dipinta si scorge. Oltre di ciò gli mostrarono quei buoni padri l’abitanza delle feroci battaglie che di notte tempo co’ perversi diavoli teneva. Presso il luogo nel qual dicono che avesse stanza il benedetto corpo, vi ha un buco che rumoreggia chetamente, e somiglia un bollor d’argento cristallino che sulla sua fonte cada. Vi è una cisterna d’acqua da lui fondata, che mille da grave febbre oppressi ha ravvivati. Infiniti altri miracoli ha fatto questo angelico confessore ; che più, se otto giorni avanti della venuta del signor Gio: Vincenzo un cieco riebbe o la vista? E basti per ora questo; altra lingua migliore dirà poi il resto. Ora avendo veduto quanto di meraviglioso potevasi cupidamente vedere, e buona elemosina per messe e altre cagioni al sagrestano lasciata, partissi con mille devoti sospiri da Tolentino, e passando per mezzo di Beiforte, nobile castello, ruppe il digiuno nell albergo della Posta a Valcimara, nella cui terra, da una squadra di soldati Corsi, all’ Imperiai nome e sembiante fu fatta riverenza. Quindi uscendo, trovò la Polverina, luogo di tartufi assai dovizioso. Poi vide la Mocchia, terra grossa e popolata. Indi con un poco d’acqua e vento a Serra-valle, sopravvegnendo la notte, fu a riparare. Era allora venerdì, con tempo imperversato e abitanza disagevole, onde poco ricovero ebbe quella rincrescevole notte. Però, se la cena fu cattiva, in peggior letto coricossi. Così, non potendo chiuder gli occhi, ebbe agio di contare a minuto le miglia che aveva di giorno camminate. Le quali per tutto ciò il numero di 28 non passarono, facendo da Macerata a Tolentino miglia 12, indi persino a Beiforte miglia 3, da Beiforte a Valcimara miglia 4, - 57 — fino alla Polverina altre miglia 4, di lì alla Mocchia miglia 3 e dalla Mocchia a Serravalle miglia 4(1). La mattina poscia seguente con tempestosa pioggia e furiosi gelati venti andossi a Colle Fiorito. Crebbe poi la rabbia del vento in sì fatta guisa, che appena la carrozza ne poteva sostenere. Nel calar alle Case Nuove, non vibrando Borea sospiri più arrabbiati, respirossi alquanto ; onde assai tosto alla città di F'oligno si perdusse, e immantinente presi tre cavalli da posta, volle il signor Gio : Vincenzo quella medesima giornata andar alla città d’Assisi. E postosi in cammino, correndo di continuo per le falde amene dell’Apennino, il vento sì fieramente soffiava, che le persone a cavallo non pure, gli alberi e le foglie crollar faceva. Asceso in Assisi visitò il sacro tempio, nel quale il corpo del serafico padre S. Francesco riposa; adorò il dorato sepolcro di sì preziosa gioia arricchito ; vide bellissime reliquie, fra le quali è degno d’esser annoverato il cilicio di San Francesco, la corda con che si cingeva, certi pannicelli dal sangue delle sue stigmate aspersi, un paro di sue scarpe di corda, e finalmente tutto l’abito suo. In questa città il casamento dove nacque il Santo vide; mirò la stanza nella quale faceva orazione, e l’anello di ferro dove mille fiate dal rigido padre fu battuto e flagellato. Nella chiesa di Santa Chiara, ove il suo benedetto corpo giace, non entrò per allora, siccome quello il quale altre volte veduto l’aveva; e donata una magnifica limosina a que’ frati conventuali, li quali al devoto signore 24 cordoni benedissero, e diverse orazioni e libretti donarono, a Santa Maria degli (1) E fanno trenta, fra tutte; non ventotto, come aveva scritto più su _ 58 - Angeli fu a smontare, convento orrevole de Minori Os-servanti ; e nella chiesa vi ha una cappella d incredibile devozione, nella quale orando il Serafico padre, un crocifisso , il quale si vede ivi ancora, con parole chiare concesse perdonanza in forma di Giubileo a qualunque pellegrino, confessato prima e comunicato, il quale visitasse quel sacrosanto luogo ; privilegio raro, poiché Iddio di sua propria bocca l’ha donato. La macchina di questo tempio è oltre mirabile; e in un angolo piccoletto san Francesco rese lo spirito al suo Creatore, avendovi per grande spazio di tempo prima di morire soggiornato. E spedito qui ancora alle sue devozioni e carità zelanti, a Foligno fece ritorno, durando tutta via la furia del vento, in maniera che più d’uno fu vicino a cadere. Pervenuto all’ osteria la quale il Corno della Posta ha per insegna, trista e male agiata a tutta possa, il suo cuoco erasi affaticato indarno per apprestargli alcuna cosetta ; ma nulla trovò d’appetibile. Ed avendo fatti certi biscottelli inzuccherati, e torte dolci con butirro, di quelle vivande con alcun fastidio cenò il signor Gio-Vincenzo. Però la notte poscia 1’ ebbe oltre modo trava gliosa, sì per il vento che per entro l’aveva conturbato, come per li cibi di pasta malagevoli molto a digerire, ma co ’l favor di Dio e del reverendo san Francesco, alla mattina sorse di letto sano, tutto che alquanto assetato. E n’ebbe assai buon patto, perchè 32 miglia di pessima strada e di tremebonde scosse a una salma delicata e gentile potevano di maggior danno esser cagione. Perche da Serravalle a Colle Fiorito se ne contano miglia 3 » fino alle Case Nuove altre miglia 4, e di lì a Foligno — 59 — altre miglia 7, da Foligno alla città d’Assisi miglia 9, e di ritorno altre 9. Ora, partendo da Foligno a ora tarda, fu a desinare alla città di Spoleto, nella quale fioriscono molti sbirri, bargelli e carnefici. Però in certi suoi boscherecci colli sonvi da quattordici grotte ove stanno solitarii padri, che di san Paolo primo eremita fanno la vita; spettacolo veramente bello e devoto. 11 cammino da Foligno a Spoleto per le carrozze merita il nome di buono e di giocondo ; ma in uscendo da questa città la bontà svanisce di tutto punto, perchè fino a Strettura altro non vedi che scese e salite, le quali da due pessimi alberghi nomati « le Capanne » sono accompagnate. In Strettura un’ infinita quantità di tartufi odoriferi vi nasce. Ebbe poi in su l’imbrunire davanti la città di Terni, dove alla Posta e di cena e di letto orrevolmente fu trattato. In tutto il giorno corse 24 miglia. Nè paia poco, perchè mille passi Romaneschi vagliono per duoi mila Lombardi ; e si contano a questa guisa da Foligno a Spoleto miglia 1 2, fino a Strettura altre miglia 6, e da Strettura a Terni miglia 6. Nel mattino seguente avviossi alla volta di Narni; da una continua pioggia accompagnato, passò vicino al fiume Negra; quindi entrò in Narni, la quale è posta in monte, e per andar ad Otricoli, ove mangiò un tordotto. Vi è una faticosa strada per carrozze, di maniera che mille volte l’ora conveniva smontare, tanto i sentieri erano dirupati, le salite aspre e le calate ruinose. Otricoli è pur anco in alto posto, e con alcuni passi non meno cattivi de’ primi. Si perviene al ponte del Tevere da Gregorio XIII superbamente fabricato; poi trovasi il Bor- — 6o — ghetto, d’ osterie solo abbondante. Arrivò poscia di notte tempo a Città di Castello (i), ov’è una fortezza inespugnabile. Qui, all’ albergo della Posta, ebbe sì vituperosa stanza, che poco di vantaggio si può dire. Altro che fumo e carne di bufalo non teneva. E questo giorno andaronsi 20 miglia, le quali però possonsi scrivere per quaranta non mica piccole; perchè da Terni a Narni ne ha miglia 6 , da Narni a Otricoli altre miglia 6, di là al Borghetto miglia 4, e altrettante dal Borghetto a Civita di Castello. Poscia quindi partendo nell’ora che per anco la stella amorosa fiammeggia, cavalcò avanti al suo cammino, e per alcuni vestigii dell’antica via Flaminia appressandosi a Regnano, vide la cupola di San Pietro per 2 8 miglia ben discosta, e a Castelnuovo nella magione della Posta t da desinossi moderatamente; quindi per la medesima s Flaminia spaziando si pervenne alla prima posta, pe sette miglia dalla gran città di Roma lontana, e il Tevere, fiume tanto nomato, si perdusse a Ponte Quivi Francesco Bergonzo, nato sì nella Ligure rivie di Ponente, ma per altro giovane discreto e costuma , 1’ aspettava con una nobile carrozza, e con dovuti 1 modestamente pregò il signor Vincenzo che vi fac ^ tragitto. Non pertanto il gentil cavaliero accettò 1 in • Tosi passo anzi nella sua prestamente fecelo montare. r passo di questo e di quello affare divisando entrossi p la porta del Popolo dentro di Roma. E veduto con raviglia inestimabile il superbo obelisco che ivi pre _ Sisto Quinto fece drizzare, non parò (parlo?) da 1 (1) Voleva dire Civita Castellana. — 6i — fin a tanto che alle stanze da Bergonzo apprestategli pervenne, avendo in tutta la giornata 28 miglia cavalcate; essendo da Città di Castello a Regnano miglia 6 ; di lì a Castelnuovo miglia 7 ; da Castelnuovo alla prima posta miglia 8 , indi fino a Roma miglia 7. In questa città santa di Roma giunse il signor Gio : Vincenzo il martedì del giorno ventesimo di ottobre ; e il mercoredì prossimano udita messa nella chiesa di San Piero, e vedute alla sfuggita alcune memorande cose di quella oltre mirabile mole, pieno di meraviglia fu a desinare , ritenendo Bergonzo per suo gusto. In su ’l tardi di quella stessa giornata, per visitare monsignor Spinola, chierico di Camera e prelato orrevole a dismisura, con carrozza assai appariscente inviossi. Monsignore procacciò a tutta sua possa di alloggiarlo ; ma non fu possibile piegar il signor Gio : Vincenzo a che vi rimanesse. Il giovedì, dopo la messa, la quale in la chiesa di San Lorenzo in Damaso ebbe devotamente udita, fu a baciar le mani a monsignor lo cardinale Saoli, ed al decano monsignor Pinello ; ed amenduni che non fecero o non dissero per onorarlo? Il primo, oltre uno splendido convito, signor libero il fece, così del suo casamento come delle sue carrozze ; il secondo in sì ragguardevole stima lo tenne, che onorollo di magnifici conviti, e tiratovi a forza da’ suoi fecondi e amabili discorsi, scrisse una lettera al nostro Serenissimo Senato favoreggiando li Teatini, avvegna che di mandarla in favor de’ Gesuiti nel suo proponimento prima avesse deliberato. Ora il medesimo giorno egli dopo le tavole dal General Teatino, dal vescovo di Brugnetto (Brugnato) e da tutti altri gentiluomini Genovesi che in Roma dimoravano, fu al possibile visitato; nè veruno vi fu di loro che della sua magnanima gentilezza non si dipartisse innamorato. Il venerdì su ’l mattino, veduto il santissimo sacramento della messa nella chiesa di Santa Maria del Popolo, in la quale il Cardinal Cicala orrevolmente sepolto giace, fu a desinare dalla signora Catterina Malaspina ; la quale fra gli altri preziosi mangiari, un piatto di latte fecegli apprestare, che di vero sa del reale. Poi, levate le mense, e postasi la via tra le ruote della carrozza, non ristette, si fu alle stanze di monsignor Rivarola, arcivescovo di Nazarette. Ora, mentre per Roma errando spaziavasi, monsignor Serra gran tesoriero e fra’ prelati di conto per avventura il primo, alla magione del signor Gio: Vincenzo per servirlo con la sua presenza si perdusse; e non aven dovelo ritrovato, con passi tardi e lenti ritornossene alle sue stanze. Il sabbato da poi monsignor Spinola seco a convito il ritenne, e con tanta magnificenza trattollo, che in vero come in lucido specchio videsi chiaramente la orrevolezza del suo core. E dopo del mangiare, Monsignore nella sua carrozza il portò assai festosamente alla villa del Cardinal Montalto, dove sono doi casamenti forniti per ogni stagione di magnifiche tappezzerie, di statue antiche e di pitture sopra belle. Nella domenica, così pregato e ripregato dal Generale Teatino a desinare, nella loro chiesa di San Silvestro presso Monte Cavallo si condusse; e quei gentilissimi padri giusta loro possa procacciarono di onorarlo in tutte le guise che per loro fu possibile di fare. Dopo le tavole avendo in un loro bellissimo giardino, il quale tutta Roma di vista signoreggia, un pocolino soggiornato, poscia avviossi verso Monte Cavallo, ove alla sfuggita vide — 63 — spacciatamele il casamento del Papa, se non tutto, almeno buona parte ; e quelle ampie sale fabricate alla reale diedero all’ occhio di lui notabile sodisfacimento. Quindi si perdusse nel giardino, ove scorse le più belle fontane e più abondevoli d’ acqua che in altra parte del mondo siano per avventura. In prima vista un passeggio vi ha, superbo di marmi lavorati con bellissimi pilastri attorno, che tutti scaturiscono fuori graziosissimi bollori d’acque brillanti ; spettacolo certamente che d’ inestimabile refrigerio 1’ anima riempie. E perchè il giardino di varie strade adorno appare, nella entrata di ciascheduna una fontana ricchissima e da maestra mano lavorata con mille ingannevoli scherzi d’acqua abondante si vede. Però le bellezze di tutte le altre alla fin fine si rinchiudono in un angolo tanto ameno, che la natura per poco in gareggiando ha soperchiato l’arte. Quivi, tra mille vaghi arboscelli e vezzose grotte acqua da per tutto a dovizia stillanti, una fonte tra cento ne campeggia, la quale un organo suona tanto gaiamente, che di sì dilettevole armonia ogni qualunque cuore da ineffabile meraviglia soprapreso ne rimane. Però malagevolmente li pregi di Monte Cavallo si possono annoverare scrivendo, siccome quelli li quali son tanti che l’occhio vi si confonde, non pur la lingua. Quindi partito, alla Villa de’ Medici ne venne ; nella quale invero di molte belle fontane vi risplendono ; non pertanto alle già vedute nè di lavoro nè di dovizia d’acqua possono di parità giostrare. 11 palazzo appare bene in sì supremo grado rifornito di statue e di pitture sopra nobilissime, che di leggieri nel rimanente del mondo, non che in Roma, altrettante sì belle non si potrebbono rinvenire. — 64 — Lunedì, poi, monsignor lo Cardinal Saoli a mangiar con seco il ritenne, invitandovi di vantaggio monsignor Spinola per più onorarlo. E dopo le tavole, per non lasciar a dietro compimento veruno da fare, a veder una sua vigna egli stesso lo condusse. o o Nel martedì vegnente, con la carrozza da sei cavalli, pur del Cardinal Saoli, per visitar le nove chiese si mise in cammino. Fu la primiera San Piero, tempio che di pompa, di grandezza e di bellezza sopravanza oltre ogni credere tutte altre chiese d’Europa. Quivi è la capella Gregoriana e la Clementina, fabricate a musaico per intorno, apparendo ricchissime a dismisura. Una Pietà di marmo, da Michelangelo intagliata, vi si scorge; la quale invero risplende per una meraviglia. La statua di Paulo III, di bronzo, è pur anch’ella una opera rara. La cupola, tutta di superbi musaici fatta, par che col cielo confini e seco di bellezza anco gareggi. In questa chiesa li venerandi corpi di quattro santi apostoli, Petro e Paulo, Simone e Giuda, vi fanno stanza. Una colonna, dove Cristo in predicando s’appoggiava, quivi è posta; la quale per sanar mille da’ demonii fieramente straziati è un antidoto meraviglioso. Il sudario anco devotissimo della Veronica in questa divina macchina fa soggiorno. La seconda chiesa dopo San Piero, che si vide, fu San Paulo, grande fabrica a meraviglia, ma tanto vecchia e ruinosa che niente più. È abbazia de’ monaci neri di san Benedetto, non mica povera, che per ciò ben si potrebbe tanto quanto ripezzare. Non per tanto sì se ne dura. Quivi sta quell’amoroso Crocifisso, che più e più fiate a santa Brigida parlò soavemente. 0 anima benedetta, che faccia a faccia tante volte in quel divino foco — 6 j — ti specchiasti! Pero dimmi, ti prego, o angelico spirito, come da si terribili vampe a guisa di Semele estinta non rimanesti ? Ah, che le vere celesti fiamme non abbruciano le terrene salme; ma chiunque devotamente v’entra, come se orientai Fenice fosse, di beata e sempiterna vita è fatto degno. Oltrecchè, se l'infocata amante dall’amata vista faville d incendio ne prendeva, dall’ aura delle divine parole ineffabile ristoro altresì furava. Non mi pare dunque strano che D. Angelo Grillo, mentre abbate vi fu, di nuove figure e di ben lavorati marmi orrevolmente l’arricchisse. In questa stessa chiesa vi è l’oratorio rinomato della detta Santa , e di sotto il tabernacolo del coro, a musaico lavorato, il suo benedetto corpo dormendo giace. La terza chiesa, che tre piccolissime fabriche nel suo grembo tiene, tutto che invero a’ Santi Vincenzo e Ana-stagio sia dedicata, comunemente è però le Tre Fontane appellata, per esservi quivi il dottor san Paulo stato decapitato, e da tre balzi che la sua testa spiccata fece, le tre fontane scaturite all improvviso apparvero. Videsi in una angusta capella un pezzetto di colonna, dove il suo capo, prima che dal tormentato busto fusse crudelmente diviso, riposero i Gentili. Non guari discosto a sì sacrosanto luogo un’ altra devotissima capella risplende, dove tutte volte che la veneranda messa si canta, un’anima dalle gravi angoscie del purgatorio alle perpetue gioie in un baleno è trasportata. Quivi nel cimiterio di San Calisto le sue benedette ossa con quelle insiememente di 2234 martiri continuamente allumate riposano. La quarta chiesa è l’Annunciata, macchina oltre modo antica, di mirabili indulgenze arricchita e di venerande reliquie adornata. La quinta dal valoroso corpo di Seba- Atti Soc. Lio. St. Patri» Voi. XXIX. c — 66 — stiano, che vi dorme, il nome del glorioso Santo ne ritiene. In questa bellicosa chiesa sonovi di molte sotterranee grotte, nelle quali gli benedetti Santi, a Dio umilmente sacrificando, o di sanguigno martirio coronati, sepolti vi restavano, o dalle troppo astinenze infiacchiti estinti vi rimanevano. La sesta è il favoreggiato tempio di San Giovanni Laterano, il quale innumerabili tesori celesti in sè nasconde. Che dirò della Scala santa, due volte da Cristo e da’ suoi santi piedi calcata, e del suo sacratissimo sangue anco smaltata, che quivi da tutta la cristiana greggia lagrimosamente in ginocchioni e ascesa? Dove lascio la capella di Sancta Sanctorum che la cer-tanza della nostra fede nel suo grembo serra ? Qui vide il signor Gio : Vincenzo da vantaggio la mensa dove Cristo fece l’ultima cena; la verga di Moise; il pastorale d’Aaron; l’arca del Testamento vecchio; la misura de divini corpi di Gesù e di Maria; alcune parti di quelle pietre le quali, in morendo il nostro Salvatore, si spezzarono; que’ dadi con che la perversa setta giocò la sua veste ; la colonna dove cantò il gallo, testimonio verace del vacillamento di Piero; le teste notabili di san Gio. Battista, di san Piero e san Paolo, e che so io? La settima chiesa è San Lorenzo extra muros, orrevole magione de’ corpi de’ santi Stefano e Lorenzo. Qui sta la nobil pietra dove il corpo arrostito del tormentato Diacono si riposa ; qui sono le catacombe oscure e opache grotte, nelle quali senza temanza di tiranni le timide verginelle e mille altri cristiani si ricovravano per potere a suo piacere a Cristo sacrificare. La ottava chiesa Santa Croce di Gerusalemme si chiama; in la quale nell età vetuste alla Dea Iside si rendeva onore. In questo tempio — 67 — buona parte, orando, della sua vita dispensò Elena santa, e 1 maggior pezzo di legno della Croce santa vi ripose, che fra 1 popolo di Cristo oggidì si ritrovi. Undeci spine della corona di Cristo vi si scorgono ; un pocolino del sangue pur di Cristo e del latte immacolato di Maria Vergine qui si vede ancora. La nona e ultima è Santa Maria Maggiore, in quello stesso campo, che a’ cinque di agosto carico di neve trovossi, fabricata. Il tempio è de più superbi di Roma, tiene in sè dell’ apostolo san Mathé il glorioso corpo, e cent’altri di vantaggio ; il presepio e la cuna nella quale in la sua bambolezza Gesù Cristo fu disteso. In questo luogo stesso Sisto V una capella stupenda vi fece lavorare ; e d’incontro Paulo V oggidì acI un altra ha dato sì superbo cominciamento, che ridotta alla sua perfezione soperchierà di molto la già fatta. La sacristia, da questo pontefice rinovata, per avventura è la più bella di tutta Roma. E con questo la devota cerimonia delle nove privilegiate chiese di tutto punto ebbe fine. 11 mercoredì, monsignor Serra un nobilissimo prandio gli diede, e dopo del cibo a baciare gli piedi santissimi di Sua Beatitudine il condusse. E di vero, che pervenuto il signor Gio: Vincenzo davanti a quella Santità reverenda, non pure di sbigottito diede segni, ma conforme la prudenza dell’animo suo in poche parole molto rinchiuse. « Ringrazio (disse) l’alta ventura della mia sorte, la quale di tanto m’ ha favoreggiato che a baciare questi santissimi piedi m’ ha condotto. Il che da me in ogni tempo fu in supremo grado desiderato, ed ultimamente dal Cardinale Spinola mio zio senza fine impostomi ». E molt’ altre o simili parole aggiunse, le quali dimostra- — 68 - rono apertamente la profondità immensa del suo più che umano giudizio. Il Papa con tanta orrevolezza lo raccolse, che poco di vantaggio poteva fare ; e tutto che non bene mi raccordi della sua risposta, spiegherò tanto o quanto mi sovviene ; almeno il dolce suono delle prime (parole) tale fu: « V. S. per mille e mille volte sia il ben venuto; e ci rallegriamo senza modo d’averla conosciuta. Guardi pure in quello che può dargli di gusto l’opera nostra, che volentieri di ciò che per Noi si potrà lo compiaceremo ». E dopo un’ora di dolce passamento, donogli il Papa le più meravigliose indulgenze che a prencipe veruno per lo addietro avesse giammai dispensato. Finito questo nobile parlamento, monsignor Tesoriero portò gran pezzo il signor Gio: Vincenzo per lo Corso ordinario di Roma, ed accompagnarlo per insino alla porta di sua casa ancora volle. Giovedì poscia a prandere con monsignor Spinola di nuovo ne venne, e dopo il desinare buon tratto con monsio-nor lo Cardinal Saoli si trattennero; ed il rima- o nente passeggiando solazzevolmente per Roma si spese. Il venerdì seguente dalla signora Catterina Malaspina fece ritorno, per gustar anco una dramma di quel suo prezioso latte, che la passata settimana assaggiato aveva. Quindi fu al giardino oltre meraviglioso del signor Ciriaco Mattei, e di vero che in Roma, e poco dir volli, in tutto il mondo più bella delizia di questo paradiso terreno invenire non si puote. Ha un casamento a meraviglia vago e appariscente, che di cento e più statue marmoree con maestria divina intagliate e di pitture sopra belle adorno campeggia. Da 36 fontane con mirabile magistero lavorate qui miransi; diversi curiosi laberinti di mortelle — 6c; — e di leggiadri fiori il giardino di vantaggio adornanti vi si scorgono; e nei principii delle girevoli strade assaissimi animali di bianco marmo fatti vi si veggono; gli quali appaiono tanto naturali che il più delle genti ingannate in prima vista che siano vivi stimano senza dubio. Fra queste memorande statue soviemmi di aver in un praticello oltre ogni credere ameno e grazioso, un cuoco veduto ; il quale mentre era vivo Bruttobuono s’appellava. Era costui sì sviscerato delle cose di Spagna, che in sentendo gridare « viva Francia » tirava sassi di santa ragione; e per poco un disventurato e delle genti Francesi amicissimo facchino, stramazzandolo nel suolo, miseramente uccise. In certi boscherecci piani ora una lepre or un daino si vede, quando caprioli, sovente cervi, e talora volpi saltano fuori da que’ graziosi cespugli ; li quali, se bene di stucco sono fatti tutti, non per tanto all’occhio rassembrano meno che naturali. Però tale descrizione compita di sì pregiata e rara gioia è d’altri diti penna che de’ miei, ed appena ottimamente si può vedere, non pur in iscritto dispiegare. Il sabbato andossene di nuovo a San Silvestro a’ soliti conviti del Generale Teatino ; quindi fu a prender congedo da’ cardinali Saoli e Pinello, come di mattino nello stesso giorno dal Cardinal Borghese ito se n’era. Il quale in tanta orranza lo tenne, che avendo alle sue porte una torma d’arcivescovi, di prelati, signori di portata, e di più d’un Duca ambasciatori, volle che del signor Gio: Vincenzo l’autorevole vista a tutte altre udienze avanti andasse. 11 quale, dopo di averlo con infinite accoglienze cortesemente ricevuto, lo costrinse a forza d’ardentissimi prieghi a promettergli di continuar lettere seco in ogni tempo. La domenica vegnente, che fu il giorno d’Ognissanti, poco curando di veder capella, di udir la messa del Decano, di contemplar l’adorazione che al Papa tutti gli Cardinali fanno, di gustar l’angelica armonia di voci di Sua Beatitudine propria, di vagheggiare il rimanente delle cerimonie che in sì ragguardevole sacrifizio sono d’uopo, andossene umilmente alla chiesa de’ Teatini, passando quell’ore matutine in dolcissime devozioni per 1’ anima sua. Quindi fu al magnifico prandio del Cardinal Pinello, che molto ne l’aveva pregato. Dopo le tavole, dal signor Paris Pinello a udire la miglior musica di Roma o ° in Santo Apollinare nelle carrozze del Cardinale fu portato. E quivi sostato un tratto, avviaronsi dopo alla chiesa di San Gregorio, ove l’anniversario degli uomini defunti per 10 spazio d’otto giorni con mirabile concorso di tutte persone si celebra devotamente. Qui diversissime dame, tanto ricche di vestimenti quanto povere di bellezze, occorsero agli occhi di loro; le quali in alcuno diedero per altro incitamento a sospirare. Nel seguente lunedì, inverso Napoli dirizzò il suo cammino , accompagnato dal capitan Paolo Emilio Pozzo-diborgo, e da una valente squadra di ben dodeci soldati Corsi, ma più da una copia rincrescevole d’acqua, che facevaio sovente imperversare. Passò per lo mezzo d Albano, luogo del Duca Gaetano, famoso per li suoi vini, 11 quali sopravanzano di bontà tutt’ i migliori di Roma: quindi non guari lontano un bel lago di pesci abbondantissimo si vide, e cominciaronsi a rinvenire in camminando alcuni vestigi così di moli ruinate, come dell’antica via Appia. Poi nell’ imbrunirsi alla città di Veletri pervenne. Qui del capitan Paolo Emilio fu oste; il quale un nobi- — Vilissimo convito apprestar fece, e fra diversi preziosi mangiari un pasticcio d’animelle su le mense venne, il quale fu appetibile a meraviglia. E questa giornata ebbe fine con miglia 22 ; essendone da Roma ad Albano miglia 14, da Albano a Veletri miglia 8. La mattina del giorno vegnente, cavalcando innanzi al suo festevole cammino, passò per le vigne di Veletri, che fanno una strada al possibile trista e fangosa, nella quale i cavalli per quella sdrucciolevole calla accennavano, con angoscia straordinaria di chi gli premeva il dorso, di momento in momento di cadere. Quindi uscito e dilungatosi buona pezza, entrò nelle vigne di Sermoneta, non meno rincrescevoli di quelle di Veletri. All’ osteria di Sermoneta cibossi parcamente, conforme la sua costuma. Non pertanto il rimanente di sua compagnia del poco fu contenta, che trangugiò in un baleno una ragionevole quantità d’ova dure, anzi durissime ; le quali poscia al buon medico diedero la mala ventura. Qui, nel cupo di certe selvatiche montagne, sonovi alcuni bagni d’acque sulfuree e bituminose, salutifere non poco alle malattie de’ nervi ; e vicino a questo luogo vi corre una cheta fiumara appellata la Ninfa, d’acque chiare e cristalline brillante, la quale per insino a Terracina navigabile appare. Partito da Sermoneta, ritrovò in andando la terra di Sessa, nobile per li buoni moscatelli e migliori olii che produce ; e poscia da una intempestiva pioggia immantinente soprappreso, per molto che lo desiasse non potè però troppo girne avanti, che fu costretto, per dubbio che l’acqua di soverchio non lo favoreggiasse, a sostarsi all’ostiere delle Case Nuove, tutto che a gran giorno vi pervenisse; ed appena, in quel dì noioso, 23 miglia fece, — 72 — poiché da Veletri a Sermoneta sonovi miglia 15, da Sermoneta a Sessa miglia ò, da Sessa alle Case Nuove miglia 2. Quest’ albergo fu il rnen disagiato di quanti ne provò camminando fino a Napoli. E perchè la fiumara di Sermoneta passa altresì vicino a questa osteria, quella stessa sera per l’appunto vi giunse di ver’ Terracina una barca da tre remi, che un vescovo napoletano (il quale tenne per meno inconveniente il venir contr’ acqua che gire in lettiga per fanghi e paludi fra Terracina e le Case Nuove riposti) allegramente portava. Non pertanto, con la com-modità della barca, con la trista nuova del terrestre cammino, co ’l dover a seconda dell’acqua correre, deliberò il signor Gio: Vincenzo d’imbarcarsi; e quantunque dal cielo una minuta piova cadesse, poca pena arrecava alla nostra barca, posciachè l’acqua del cielo incantavasi co ’l moscatello di Sessa. Onde assai per tempo arrivossi a Terracina. L’ acqua di questa fiumara, oltre la chiarezza limpida che tiene, è salutifera non poco a’ cagionevoli di rabbiosa scabie. E in certi suoi curiosi nascondigli que’ pescatori Romaneschi fannovi sdrucciolar le anguille, ed a questa foggia ne prendono assaissime. Però quant’ a forza ne porti seco il tempo quindi scorger si puote, posciachè dove oggidì corre l’acqua, nell’adolescenza dell’Imperio di Roma la via Appia vi passava; e peranco quindi intorno ne appaiono alcuni dimorati vestigi. All’ ostiere di Terracina uno de’ sargenti del capitan Paolo Emilio buona quantità di pesci aveva fatto apprestare; e quantunque il signor Gio: Vincenzo d’ un par d’ova s’ appagasse, la sua festevole brigata attuffossi in quei frutti — 73 - marini, di maniera che spacciatamele diluviaronseli tutti. In Terracina, città su ’l mar Tirreno, mirasi una fortezza, o per meglio dire uno scoglio vivo, che di vero è inespugnabile a maraviglia; e contasi dalla semplicità di que’ popoli grossolani, che vivendo peranco la gentilità ne’ Romani, e risplendendo in que’ tempi Terracina di magnificenza e di grandezza, avevano per uso quelle genti che in arrivando gli loro governatori all’ età canuta e sazievole di 60 anni, sopra di un cavallo più che neve bianco, a guisa di splendidi Imperatori vestiti, su la cima d’uno scoglio, che puranco al presente tutta la città signoreggia, portavanli festosamente, quindi poscia co ’l cavallo e insieme con le imperiali insegne bestialmente dirupavanli al basso; legge, se come crudele così vera fosse, stimerei costantemente che tutti i sterminii in Terracina di tempo in tempo avvenuti non derivassero d’ altronde che da questa impia e scelerata costuma. Ora, cavalcando avanti al suo viaggio, passò per la porta dell Epitafio, che dallo stato Ecclesiastico al regno Napoletano le persone tragitta. Poscia in venendo sera, alla citta di Fondi ne pervenne. E in questo giorno 34 miglia delle buone lasciossi addietro; perchè dalle Case Nuove a Terracina, se vai per acqua, sono miglia 24 (se cammini per terra 15 ne fai); da Terracina all’Epitafio contano miglia 5 , e fino a Fondi altre 5. Fondi ha poco anzi nulla di buono: solo vi trovi a dovizia limoni, melaranci e provature co ’l latte di bufala stampate. Stallossi quella notte all’osteria dell’Aquila, magione anzi da mulattieri che albergo da cavalieri. In questa città dal signor Gio: Vincenzo il capitano Paolo Emilio accomiatossi, essendogli vietato con gente guer' riera per entro lo Stato di Napoli il camminare. Così 1’ uno verso Roma e 1 altro in ver Napoli avviossi, e camminando avanti continovamente per la via Appia, passo per mezzo Itri, terra assai popolata e non mica piccola* E dilungatosi buona pezza da questo luogo, vide lontano la graziosa città di Gaeta, che per una punta amena sporge in mare; la quale, con doi altri borghi magnifici e grandi al pari della propria cittade, per poco rappresenta agli occhi de’ risguardanti una mezza luna; e si crede che di vaghezza questa dilettevole riviera tutt’altre d’Europa di molto sopravanzi. Appresso di lei trovasi sul cammino reale Castellone, nè quasi discosto quindi, si perviene a Mola, su la medesima riviera fabricata; la quale è tanto abbondevole di pesci, quanto altra terra siasi giammai veduta. Nell’ ostiere della Posta di Mola un conte piemontese con alcuni gentiluomini di Toiino d’ accompagnare il signor Gio: Vincenzo si compiacquero, conciossiachè essi altresì per diritto a Napoli erano incamminati. Così di corbellanza (i) allegramente si pervenne alla foce del fiume Garigliano. E perchè la barca più grossa erasi sfondata, convenne sopra una piccola fregata ad uno ad uno travalicar nuotando gli ca E qui dove si varca il famoso rio, eravi anticamente Minturno, città ne’ tempi delle civili turbolenze primiere della Repubblica Romana in ragionevole stima tenuta, ed ora appena dell’ alte sue ruine i memorandi segni (i) Vuol dir « di conserva », forse facetamente prendendo l’immagine dai cor belli appaiati che formano il carico d’ una bestia da soma. — 75 - una torricella cadente si scorgono da’ peregrini. Dopo, in su ’l nascondersi del Sole, ciascheduno diè di sosta a’ cavalli nell’ osteria di Sant’Agata , la quale aveva dif-falta di letti, ma più di vivande ; a tale che per fuggire tostamente da sì fetido albergo, a mezzanotte si misero le bestie in assetto, e camminossi avanti al sentiero reale. Però il tempo e 1’ aria in quell’ ore notturne tacevano con tranquillità sì benigna, che ne portavano innanzi festevolmente; tanto che a bonissima ora di mattinevole tempo arrivossi alla città di Capua, irrigata dal torbido Volturno, fiume rapidissimo, ingrandito non poco dalle acque fortunate di Linterno, famoso per le ceneri memorande del divino Scipione. Quindi, poi d’avere preso una coppia d’ova, usciti gaiamente da Capua, trovò la brigata un sentiero tanto bello per insino a Napoli, che più bello al mondo non si può vedere ; onde allettato e invitato ciascheduno da sì graziosa veduta, a correr di galoppo e ridere con molta festa diede cominciamento. Ma nel più bello del corso, eccoti un cocchio da quattro cavalli venir volando ; ed eccoti uscirne in prima fuori tre padri Teatini, prepositi di Napoli, che è quanto dire li tre più venerandi ministri di quella gentilissima religione; il primo in San Paolo, il secondo nella chiesa de’ Santi Apostoli, il terzo nel tempio rinovato di Santa Maria degli Angeli risiede. Ed eccoti insiememente con essi loro saltar correndo tutto allegro, tutto gioioso e tutto festevole, il buon padre D. Paolo da Cremona; e poscia tutti quattro girne incontro al signor Gio: Vincenzo, e con tanta umiltà e cortesia abbracciarlo, stringerlo, accarezzarlo, che da suprema gioia infocati più volte stillarono dagli occhi alcune gocciole di verace - 76 — affetto. Questo è certo che al Cardinal Borghese non avvrebbono fatto nè potuto fare più magnifici compimenti. Ma tutto se ’l meritava 1’ ineffabile amore che la orrevolissima casata Imperiale a’ Chierici regolari di dì in dì crescendo maggiormente porta. Dopo, al suono cortese d’ ardentissimi prieghi, entrò nel cocchio di loro, e passando lungo le muraglie della città d Aversa, a poco a poco givansi appressando alla meravigliosa citta di Napoli. Qui stupido rimase il signor Gio: Vincenzo in vedendo che continovamente per sedici miglia le sponde felici delle strade erano adornate d altissimi pioppi, tutti per intorno di vigne abbondevoli ripieni, che vini asprini in tanta dovizia dispensano. Quindi passò per mezzo Sant’Antonio, fra’ tre borghi di Napoli il mag giore. Entrò poscia nella città imperiale l’Imperiai signore per la porta Capoana ; avendo in questi doi giorni, c per la Campagna felice felicemente aveva cammin fatte 58 miglia, tanto auguste quanto lunghe. Primiera mente dalla città di Fondi a Itri sono miglia 5 , da a Mola miglia 5, da Mola al Garigliano miglia 7, ^ * 1 * ^7 d ri Garigliano a Sant’Agata, dove dormitte, miglia 1, Sant’Agata alla città di Capoa miglia 18, da 1 ad Aversa miglia 8, dalla città d Aversa a P miglia 8. Entrato dentro di Napoli, lungo strada Capo ^ perdusse a San Paolo, il quale nella giovanezza d perio di Roma s’ appellava il tempio d Apollo, e P _ Preposito in due superbiose stanze e d orrevoli for: 1 guarnite alloggiollo. Del rimanente, se da indi a ^ da questi padri, in Roma e in Milano, fu caregg ^ molto più fecero in Napoli D. Paolo da Crem — 77 — prepositi ancora. E di vero, se cento lingue avessi, una menomissima parte appena ne potrei spiegare. Quella prima sera ebbe una splendida cena; e quantunque venerdì fosse, innumerabili pesci vennero su le mense. Però questi poco o niente di meraviglia m’ arrecarono, perchè di simili tanto o quanto in altre parti ne avevamo veduti. Però di quello che stupido rimasi, fu la soverchia abbondanza di vivande inzuccherate, e le innumerabili guise di conserve, e la strana foggia d’ insalate, che si videro in tavola di giorno in giorno migliorate. Il sabbato vegnente udendo ancora messa, il marchese Imperiale con doi suoi figli a visitarlo ne venne. E ’n prima vista parve sdegnosetto anzi che no, per non essere smontato il signor Gio: Vincenzo, in arrivando, piuttosto alle case d’un amorevolissimo suo parente che al monastero de’ Teatini. Però la colpa di sì ragionevole diffalta addosso ai padri, che per istrada se l’avevano fatto prigione, cortesemente gettossi. Quindi furono di compagnia a gli Armeni, li quali vendono tutte sorti di robbe di seta; dove il signor Gio: Vincenzo comperò per sè tanto velluto da vestirsi, e d’altrettanto al suo medico ne fece liberalissimo dono. Ma essendosi in questo luogo buona pezza trattenuti, tornaronsene a San Paolo; nel qual luogo D. Paolo Tolosa vescovo di Bovino l’aspettava con ardentissimo desiderio, per baciargli le mani, di più rimanendo co ’l preposito di Santi Apostoli a desinar seco. E se la cena della preterita notte fu magnifica a dismisura, questo prandio in nulla parte gli era inferiore. Poi su ’l tardi a visitare la marchesa Imperiale si condusse; la quale d’ agre parole armando la sua lingua - 78 - mostrò al signor Gio: Vincenzo che male aveva fatto in lasciar case di genovesi cugini , per alloggiarne con preti stranieri. Però le scuse fatte prima co 1 marito servirono altresì tanto e quanto con la sagace Donna; le quali furono intanto per buone accettate, pur che la mattina della domenica vegnente con esso loro desinasse. Così per tempissimo venne colla sua carrozza a portarlo via il signor Marchese; e in questo mentre a fargli riverenza corsero a torme quanti gentiluomini Genovesi in Napoli tenevano casa aperta. E tutto il rimanente di quella giornata parte si spese nel regio convito dal Marchese, abbondante di tutte quelle diversità di preziosi mangiari che si sogliono per un prencipe apprestare, e parte consumaronlo all’ ordinario Corso delle bellissime dame Napolitane. Il lunedì prossimano vedendo il preposito di San Paulo che a gara tutto dì era da questo e quello signore furato il signor Gio : Vincenzo, per rimediar alla scarsità del tempo volle con un prandio di carne onorarlo, come di cibi marittimi già fatto aveva; e chiamatovi per sua compagnia il vescovo di Bovino e gli altri prepositi Napoletani , tante maniere di vivande con zucchero, differenti dalle primiere , apprestarono in quel giorno, che non finivano per poco. Tutte certo erano appetibili e saporite ; ma fra le altre alcune torte, che pizzo di dama si chiamano qui, parvero le migliori. Nel martedì poi ebbe un altro prezioso convito fatto alla genovese dal signor Bonifacio Nazello, al possibile meraviglioso, e tanto abbondevole di pasticci così all Inglese come all’ Italica usanza, che per cinquanta persone sarebbe a sufficienza bastato; e sovvienmi che nel mezzo — 79 — delle tavole un certo Micco diluviatore (i) a dismisura trangugiò avidamente ottanta pasticci piccolini. Il mercoredì fu invitato da monsignor di Bovino, e nelle sue case ebbe un altro superbissimo convito, con sì mirabile ordine divisato, che meglio non si potea vedere, nè di vantaggio desiderare. Nel giovedì il preposito di Santi Apostoli, dalla nobilissima casata de’ Pignatelli orrevolmente disceso, avendolo tenuto a desinar seco, tanta varietà di cibi aggiunsevi per sopravanzare D. Paolo Tolosa e quelli che • prima di lui se l’avevano invitato, che mal si ponno dalla fievolezza della mia memoria annoverare. E per onorar il signor Gio: Vincenzo di vantaggio, volle che 24 chierici, cavalieri di seggio, alle tavole per coppieri e per paggi lo servissero alla reale. Nel venerdì, favoreggiandolo Apollo con serenità di raggi tranquilli e mansueti, il marchese Imperiale per tempissimo ne venne, per portarlo con la sua carrozza a veder le meraviglie di Pozzolo. Vide primieramente in camminando il delizioso borgo di Chiaia, adorno di palazzi e di giardini oltre ogni credere vaghi ; e a’ cavalieri Genovesi pare che agevolmente si possa chiamare un pargoletto San Pier d’Arena. In appresso mirò un poco Santa Maria di Piè di grotta, chiesa di grandissima devozione per infiniti miracoli dappertutto 1’ universo nomata, e per la sepoltura di Virgilio, che presso di sè tiene, altresì famosa e chiara. Quindi entrò nella meravigliosa grotta incavata, secondo la più volgare opinione, (i; Non sarebbe, per caso, l’istesso narratore, mostratosi, per tutto il corso del racconto, così allegro e intendente ghiottone? dall’ imperator Caligola cominciata e a perfezione ridottala quale per lo spazio di mezzo miglio passa dall’una a 1’ altra parte del monte Posilipo, con un solo spiraglio di balcone da D. Petro di Toledo allora viceré fatto fare. Li miracoli poi naturali di Pozzolo con questo ordine se gli vide: 1 Averno, lago che non ha fondo, a vedere fu il primo; poi la grotta, d infinita grandezza, ma oscura, della Sibilla, co 1 suo bagno e la stanza fatta a musaico, con cento altre camerelle di lei, fu la seconda; la grotta d’Agnano , che priva di moto e di sentimenti quanti v entrano dentro, fu la terza. Vero è che gettati incontinente nel suo lago vicino ricovrano assai tosto il tutto; e di ciò che dico se ne fece l’esperienza per via d’ un cane. Li bagni d’ acqua limpida e bollente, alla frigidità de lo stomaco salutiferi, da Cice-rone, che soventi volte gli usava, cosi del suo nome appellati, furono gli quarti. Il sudatorio è opera in vero mirabile oltre modo, che altro però non è che una grotta ampissima, entro della quale chiunque vi passeggia co 1 viso alto immantinente suda a dismisura, e camminando avanti come lumaca non pur non suda, ma sente un aria temperata, che a nulla persona rincrescevole pare; e questo fu il quinto. Quindi sopra certi mansueti asinelli, in linguaggio napoletano detti chiucci, con un sacco per sella, e per freno una corda, senza staffe o altro guar-nimento, per cammino sagliente lu a rimirare il fetido campo della Solfatara, ove dalle viscere della terra pullulano fuori rumoreggievoli bollori di fervente zolfo, che impestano quivi intorno il cielo, non pur il suolo. E qui fece sosta al faticoso esercizio di quella mattina, così calando soavemente a Pozzolo , entro il palazzo di D. Petro di loledo, generale delle galere di Spagna, ebbe un magnifico prandio dal Marchese suo cugino. Dopo le tavole passeggiò alquanto nell’ ameno giardino del palazzo, vago e grazioso senza misura e di mille arboscelli di cedri, limoni e melaranci, leggiadramente adornato; li quali per l’aere temperato di quel luogo in ogni stagione abbondano di saporiti frutti e d’ odoriferi fiori. Qui scorgonsi ancora certe miserande reliquie degli archi superbi di quel famoso ponte che fondò nell’onde maritime Caligola Imperadore, per gire da Pozzolo a Baia, tre miglia buone discosta, col piede asciutto. Su ’l tardi poscia entro una feluca montato, il signor Gio: Vincenzo per marina a Napoli fece ritorno, ed ebbe gusto mirabile di veder alcune cose, prima di giungere alla città, tutte nuove e tutte belle. Vide il monte Miseno, memorando per la morte del divino trombetta di Enea: mirò l’isola non guari lontana di Procida, piccola si ma fruttifera oltremodo: vagheggiò un po’ più discosto l’isola d’Ischia, meno dell’altra coltivata, ma d’acque alla salvezza di nostra vita accomodate assai più ricca; passò per lo mezzo di Nisida e Chiapino; la prima circonda un miglio, ma non ha palmo di terra che tutto non sia grano, vino e olio, l’altra di uno scoglio piuttosto che d'isola merita nome. Ha una grotta sì grande, che la feluca vi ebbe comoda in passando l’entrata e la uscita. Quindi i marinai mostraronli il casamento ruinoso delle Fate. Poi veduta la celebrata dal Sannazaro montagna d’Antiniana diede principio a contemplare le bellezze di Posilipo e’ tanti graziosi casini di piacere, e’ vaghi innumerabili ritrovi che nelle sue falde tiene. Qui, di state tempo, tutto Napoli vi concorre Atti Soc. Lio. St. Pat*u. Voi. XXIX. 6 - 82 — per l’ombra desiata, che passato poco più di mezzogiorno vi scende, e per 1 aura benigna di zefiro soave che sempre vi tresca. Sbarcò in fine a Mergellina, ove nella chiesa di San Giacopo la tomba marmorea del Sannazaro mirò per buona pezza. E poi qui ebbe giocondo fine il piacevole giorno. Il sabbato tu a visitare fuori di Napoli la signora sua Cucina senza ristoro di cibo per sino alla notte durando, ò * che perciò D. Paolo cupido di rimediare alla stracchezza del criorno fece una sì abondante cena apprestare, che 6 # # poteva certamente bastare per doi conviti. E mi rimembra di aver su le mense vedute tante conserve allora, che furono assai per empirne una valigia. La domenica il signor Stefano Cattaneo, facendo fare il personaggio e la spesa a Giacopo 1 latten suo cognato, invitollo altresì nelle sue case a desinare con cinque altri signori Genovesi in sua compagnia ; e questo con-vito non fu di molto inferiore ai passati. Nel lunedì poscia il preposito di Santa Maria degli Angeli, nel suo prandio tanto più altamente si fece onore quanto la sua magione di tutte altre ancora era più alta. Qui vennero alle mense gli stessi mangiari che nel casamento del vescovo di Bovino e in Santi Apostoli ave\a assaggiato. Qui ebbe al servizio di tavola cavalieri di seggio altresì, come in Santi Apostoli: ma due vivande gustaronsi di vantaggio, stupende a dismisura. La prima furono certi fichi bruggiotti e prune saporite, per esser fuori di stagione tenute meravigliose; la seconda alcuni piatti di cibi genovesi fatti per mano delle più belle, gentili, e non meno graziose ad onorare, dame nella nostra citta nate e nutrite, che per avventura in Napoli faceano stanza. — 83 - Nel martedì ebbe il signor Gio: Battista Sopranis ventura di poterlo aneli’ egli con un convito nobilissimo careggiare. Tredeci giorni in Napoli fece soggiorno, e doi appena furono asciutti. 11 rimanente di rincrescevoli pioggie fu ripieno ; onde poco delle grandezze di Napoli appagò la vista. Vide alcune strade, tutte meritevoli di lode: la più perfetta è strada Toledo; la più favorita 1’ Incoronata; la più larga la via Carbonara; la più lunga quella di Seggio di Nido (Nilof); la più antica la strada Capoana, e quella dell’ Olmo la più popolata. La piazza poi dell’ Olmo e quella del Castello appaiono vaghe e spaziose; ma senza fine di tutto le sopravanza la piazza smisurata del Mercato, ove da Carlo Angioino il principe Corradino in un angolo piccoletto fu decapitato. Ma tutte le perfezioni di Napoli si rinchiudono in una preziosa gioia, entro piccola cella di chiesuola ingastata {incastonata?}. Questa è la tanto celebrata Suor Orsola, (i) che d’ ora in ora è rapita in cielo con tanto fervore che fa intenerire qua’ più indurati cuori vivono in peccato; ed è gran cosa che al nome dolcissimo di Gesù e di Maria subitamente perde ogni sentimento ; e ritornando in se stessa d’ altro non favella che d’ umiltà, de 1’ amor divino e di sacrosanta penitenza. Non è da lasciare involto nelle tenebre del silenzio neanco un reliquiario d'uno drappiero, tutto d’oro, di perle, di diamanti e di mili’altre gemme orientali lavorato, che vale per lo meno scudi venticinque mila. Tiene fra mille reliquie, e più ancora, un pezzetto d’osso di san Pantaleone e un (i) La venerabile Orsola Benincasa, fondatrice delle Teatine nel 1581, morta in odore di santità nel 1618. - 84 - poco di sangue di lui ben congelato, ed in accostarsi 1’ una parte all’ altra il sangue liquido e fresco ne divenne. Ora delle sue bellissime chiese, delle tre fortezze Castel Nuovo, Sant’Elmo e Castel dell’Ovo, di Pizzofalcone antica e magnifica stanza de’ conviti e del riposo di Lucullo, dell’Arsenale, dell’innumerabile popolo che mantiene, ed infinite altre sue meraviglie, non è giusto che la mia grossolana lingua ne favelli, perche di facile male parlando, potrebbe dimolto le sue divine lodi scemare. Dirò solo poco di Poggio Reale, degli Aragonesi principi reale stanza, al quale per una strada diritta d alberi altissimi su le sponde ornata e di sette bellissime fontane arricchita vi si perviene. Per Poggio Reale passa sotto un angusto letto tutta 1’ acqua che in Napoli abbonda, e ’n diversi suoi giardini corrono tanti ruscelli che ne fanno perpetua primavera, 1'erbette verdi e’ fiori freschi mantenendo. Questa deliziosa stanza da’ Gesuiti, per far penitenza ne’ studi, a Filippo II di Spagna re possente fu domandata; ma quel signore pietoso non volle in conto veruno macerarli di tante astinenze. E con questo il signor Gio: Vincenzo in compagnia delli stessi padri che dentro nella città avevanlo condotto, da Napoli il mercoredì mattina fece partenza, e nella città di Capoa in un loro monastero aggiunsero una post-scritta alla lettera tutta di nobilissime carezze piena con un altro magnifico prandio, per non lasciar di fare tutto ciò che per loro si potesse co ’l signor Gio: Vincenzo. E levate le mense, preso da tutti compitamente congedo, con una staordinaria abondanza d’ acqua entrò in lettica e di notte tempo a Sant’Agata in uno albergo, male agiato a più potere, fece soggiorno. Il secondo giorno, - 85 - con l’acqua pur su la testa, fece mezzogiorno a Mola, e la notte a Fondi. Il terzo dì a’ confini della Chiesa fu d’ uopo alle guardie Napoletane con dodici carlini dar sodisfacimento. E presso Terracina il sergente Corso venne aci incontrarlo con una valorosa banda di soldati. In Terracina prese poco cibo. Avviatosi poi verso Peperna quindi lontana dodici buone miglia, camminando di continuo per sentieri acquazzosi e di fango inespugnabile smaltati, passò grandissimo travaglio fino al luogo di Peperna; nè minore lo sofferse per altre quattro miglia insino alle Case Nuove. Il quarto dì pioveva sì fortemente che per molto che di gir avanti procacciasse, non potè passar il luogo di Sermoneta. Il quinto giorno, accompagnato parimente dall’acqua, si perdusse a Veletri in casa del capitan Paolo Emilio. Il dì poi sesto giunse per tempo a Roma ; ed alla porta eravi il signor Bernardo De Franchi con la sua carrozza, nella quale entrando il signor Gio: Vincenzo, in sua casa ne venne ad alloggiare; e ciò con grandissimo sentimento di monsignor Spinola, che pensava di ritenerlo seco. Venne ben tosto il gentilissimo prelato a visitarlo ; il simile facendo il signor Vincenzo Giustiniano che a tutte guise il giorno seguente voleva che dormisse al suo grazioso luogo di Bassano, dal reai cammino per sole quattro miglia distante. Però nulla se ne fece. Qui mi convenne per la mia febbre fermarmi, con tormento inestimabile del signor Gio: \ incenzo, che non pensava senza di me di Roma partire. Però io, che della sua pena m’angosciava assai più che della mia, volli che per sua e mia salute il giorno vegnente verso la cara patria s’inviasse; ed io per alcuni giorni dal signor Bernardo, che mi fece ineffabili carezze, fui rin- crescevole oste. Ed egli in compagnia del signor Paolo Fiesco per la porta Angelicata (sic) alla chiesa di San Pietro assai vicina, dalla gran città di Roma fece partenza, e per un sentiero non troppo sagliente, ma di fango noioso, grave in lettica avanti al cammino andando, giunse alla Storta, villa capace d’un paro d’osterie. Ristorossi poi a Baccano con un poco di cibo, e fece notte in Monteroso, con 22 miglia sulle spalle della lettica; essendo da Roma alla Storta miglia 8, di 1) a Baccano altre miglia 8, poi fino a Monteroso miglia 6. Il mercoredì mattina, di continuo costeggiando per colli salvatichetti, passò per Ronciglione, terra assai grossa de’ Farnesi; e dopo, altro che salire e discendere non facendo, a Viterbo città principale e n bella pianura posta, prese un pochetto di riposo. Giunse poi senza sole alla città di Montefiascone, abondevole di vini perfetti. Fece soggiorno alla Porta, in una stanza posta in mezzo della stalla e della cucina. E ’n tutto giorno camminò 26 miglia; perchè da Monteroso a Rossiglione (correggi Ronciglione) sono miglia 8, di 11 a Viterbo miglia 10, e da Viterbo a Montefiascone miglia 8. Nel giovedì, per tempissimo, fra’ piedi del cavallo mise il diritto sentiero, avendo sempre innanzi agli occhi il chiaro e cristallino lago di Bolsena, che arrecava gioia non piccola alla vista. Però il gentil Signore, amareggiato per mille cure, poco o niente gustava; e ’n quello instante 1’ ordinario di Genova presso Bologna giunse con sue lettere, piene di ta’ conforti, che sole l’angosciato suo cuore poterono tranquillare. Passata Bolsena, e per buono spazio lungo il dilettevole lito del lago soavemente andando, ascese le graziose montagne di San - 87 - Lorenzo: quindi, poi di avere un piccolo fiumicello sopra un ponte di pietra varcato, passò nel melanconico e freddo luogo d’Acquapendente, ove fermossi alquanto per rompere il digiuno. Quindi passò per Centino, trovando un ponte sopra il fiume Paglia da Gregorio XIII fabricato , avendo fatto quattro miglia del più scelerato calle che in piano fangoso si possa fare, poco aitandogli la serenità del cielo contro il zaccheroso bitume della terra. Qui comincia 1’ ertezza di Radicofani, e presso le sue falde in un piccolo torrente cascandovi la soma, tutti gli cofani fecero ginocchioni in terra, bagnandosi, reverenza al Re loro di cofani (i); ma nel di dentro restarono asciutte le robbe. Poi con vento, nebbia e freddo, a due ore di notte si perdusse all’osteria, la quale con una buonissima cena diede rimedio a tutti gli mali che di giorno s’erano passati; avendosi lasciato addietro miglia 26, essendone da Montefiascone a Bolsena miglia 6, da Boi-sena ad Acquapendente miglia 8, di lì a Centino miglia 4, da Centino a Radicofani miglia 8. 11 venerdì, apparendo di mattino il giorno chiaro e temperato, fu avanti al suo viaggio; e giunto al piano, su un ponte di legno passò un fiumicello; e lasciatosi addietro la Scala (con /’) ostiere della Posta, arrivò in montando a San Quilico, alto per poco sino al cielo. Qui fu forza abbandonar la lettica, per avergli un chiodo maledetto tutto fracassato un piede (ad un de cavalli); e però con un bello ma fello cavallo per Torre Nieri passò, con travaglio grave di lui. Onde quivi tramutò la bestia in un’ altra migliore, con la quale giunse a Buonconvento, e vicino al fiume (1) Bisticcio sul nome del paese: Radicofani, Re dei cofani - 88 — Ombrone un buon tratto del cammino andando, fece notte alla posta di Monterone ; nel qual luogo laidamente a parer mio fu trattato, con aver quel giorno pieno di fosca nebbia fatto 25 miglia; essendo da Radicofani a San Ouilico miglia 12, da San Ouilico a Buonconvento ^ o ^ miglia 8, da Buonconvento a Monterone miglia 5. Il sabbato, di due ore avanti giorno partendo, in su 10 spuntar del Sole furono a Siena, ove il signor Gio: Vincenzo incontrò il signor Francesco Centurione, che a Roma camminava ; e con dolcissimi abbracciari spiccatosi 1’ uno dall’ altro seguirono il loro felice viaggio. Ma per avventura andava più in fretta chi alla patria s’appressava. 11 quale da Siena per girsene a Pisa cavalcando, e per amene montagne spaziandosi, fu a mangiare a Poggibonzi; quindi uscito passò vicino a Certaldo, famoso per aver dato al mondo il Boccaccio, luce eterna della vera lingua toscana. Poi, giungendo a Castel Fiorentino, riposò al-1’ ostiere della Corona, nella quale ebbe per avventura men cattivo albergo di quello che vi credeva. E in questa giornata andò 29 miglia delle buone; perchè da Monterone a Siena sono miglia 7, da Siena a Poggibonzi sono miglia 12 , da Poggibonzi a Certaldo miglia 4, da Certaldo a Castel Fiorentino miglia 6 ; nè fu poco il camminar queste miglia, essendo la strada fangosissima e perigliosa, piena di mille ponticelli di legno con fossi d’acqua stra-ripevoli, e ’n uno fu vicino a cadere. Però, s’egli n ebbe temanza, uno de’ suoi servitori provò 1’ angoscia, ma con poco costo. Infine, tutta Val d’Elsa è ben amena, ma di fango è troppo ripiena. La domenica, con tempo nubiloso avviandosi verso Pisa, sopra un ponte bellissimo di pietra varcò il fiume - 89 — Elsa; passò per la Scala; poi camminando per lieti e piani sentieri si vide all’ incontro di San Romano, convento orrevole de’ Zoccolanti franciscani, nella qual chiesa udissi la santa messa. Dappoi fu a prender un poco di cibo a Ponte d’Era, così nomato dal fiume che sotto vi corre ; e quindi alla bella città di Pisa pervenne. E spargendo la fama subito nuova della sua felice giunta, il signor Gio: Battista Marino (i), che a Napoli andava, il magnifico signor Giulio Guastavino medico eccellentissimo e il magnifico Giancardo prestamente vennero a visitarlo. E questo dì giocondo fece miglia 28, essendone da Castel Fiorentino alla Scala miglia 8, dalla Scala a San Romano miglia 4, da San Romano a Ponte d’Era miglia 4, da Pontedera a Pisa miglia 12. Lunedì, per tempissimo, seguendo il suo viaggio, passò il fiume Serchio con barca, quindi giunse a Viareggio. Qui rinfrescati gli cavalli, camminando continuamente per le pianure selvaggie del Bosco, pervenne a Petrasanta, indi con noioso stento per la vigliaccheria del cammino si perdusse alla gaia e dilettevole terra di Massa, nella quale ebbe onoratissimo albergo: avendo fatto miglia 24; essendone da Pisa a Viareggio miglia 12, da Viareggio a Pietrasanta miglia 6, da Pietrasanta a Massa, miglia 6. (1) Dovrebb’essere un gentiluomo della casata genovese de’ Marini, e non l’omonimo poeta napoletano; il quale in quell’anno 1609 era in Piemonte, e appunto allora dal duca Carlo Emanuele fatto cavaliere mauriziano. Se di lui veramente si parla (che ben potrebbe avere intramesso nel soggiorno a Torino una corsa a Napoli) dobbiamo rimpiangere che il narratore Rossano sìa rimasto a Roma , trattenuto dalla sua piccola infermità; onde, compiendo poi d’udita il suo racconto, ha dovuto riuscire più scarso di particolari intorno alle persone incontrate in quest’ ultima parte del piacevole viaggio. — 9o — Martedì, a buona ora di mattino cavalcando pur avanti al cammino, passò per Lavenza (Avenzà)\ poscia fatto un migliarello, ed entrato nello Stato genovese, andò a Sar-zana, città fortissima e tutta per intorno murata e di nobili terrapieni corredata. •»$* « Doppo, con barca travalicata » la Magra pervenne a Lerice, nella qual terra, imman- > tinente accordò una fregata di Savona, che a mezza » notte quasi e con grandissima fatica, per esser il mare » in poco d’ ora cresciuto all’ ingrosso, si perdusse a » Sestri. Mercoredì vegnente, durando pur tuttavia la > collera del mare, non però sì furiosa come la preterita > notte, non per tanto imbarcatosi giunse felicemente » col nome di Dio a ore 22 alla nobilissima città di > Genova sua patria. » (I periodi virgolati sono nel manoscritto annullati da due tratti di penna, e premessavi la croce di richiamo, che si ripete in capo alle carte da 59 a 62. Sulle quali, si legge la conclusione del viaggio, come parve più conveniente di scriverla). Ora, lasciatasi addietro Sarzana, pervenne alla Magra, termine antico della Toscana e della Liguria, la quale in que’ giorni procellosi per le molte pioggie gonfiata, in varcandola diede assai che fare. E travali^ cato oltre di ciò il monte, ombreggiato foltamente di pacifiche olive, il quale presso la foce del rio è appellato Corvo, si perdusse a Lerice, terra piccola sì, rna in guisa di popolo e di traffico abbondante, che per tutte le parti dell’ universo è mentovata. Vero è che le osterie sembrano spelonche rusticane, cosa eh’è molto sconvenevole , essendo in sì bella parte fondata, che da tutta gente una delle scale principali d’ Italia non senza ragione — 9i — è tenuta. È posta su ’l lido della marina, nel golfo che modernamente si dice della Spezia; però ne’ tempi antichi il golfo di Luni s' appellava. Luni fu città ne’ preteriti secoli famosa, la quale con le sue ruine in tempi che da barbari settentrionali fu saccheggiata e depredata, diede principio a Sarzana; ma tutta la valle, dall’Appen-nino oppressata e dalla rapida Magra in due riviere partita, per insino a Pontremoli a’ nostri giorni il nome di Luneg-giana per anco ritiene. Questo golfo della Specia è una delle più belle gioie d’Italia, non pur di Liguria. In prima vista somiglia una superbissima scena di commedia; e la celebre terra della Specia, di fortissime muraglie, ma più di nobilissima cittadinanza adornata, sembra la prospettiva; quindi allargandosi un pochino da banda diritta la sagliente villa di Malora (Marola?) appare, assai rinomata per la brava gente pescatrice che produce, e dalla sinistra riva mirasi Santo Arenzo (San Terenzo) per la rara bontà de’ suoi vini commendato; camminando più avanti, Porto Venere, colonia già de’ Romani, ora dell’arte marinaresca altrice sovrana, da una punta sporge in fuori, e dall’altra Lerice si vede, che dànno la perfezione alla scena. Li tre castelli, poi, del Forte, di Lerice e di Portovenere, che rappresentano agli occhi una bellissima figura triangolare, servono per notabile sicurezza: 1’altre torri, poi, che sono ivi aggiunte di moderno, l’abbelliscono d’ornamento, già che non ponno accrescere la fortezza. Nella prima entrata l’isoletta del Tino, abbondevole di selvatiche caccie di fagiani e di fonti belissime naturali, difende in gran parte il golfo dalla tirannide gagliarda de’ soffi occidentali. Ora, quell’istesso giorno il signor Gio: Vincenzo, per — 92 — dormire a Levanto, da Lerice volle in tutta guisa far partenza ; ed uscito con qualche travaglio da quella bocca del golfo assai angusta, scorse di lontano la villa di Biascia (Biassa) erta a dismisura, ma poco oggidì abitata; quindi non quasi discosto ebbe all’ incontro le Cinque Terre, le quali da certi greppi dirupati, da alcuni monti diroccati, da diversi scogli ruinosi (cosa che arreca stupore a tutti gli risguardanti) scaturiscono due qualità di nettare amabile, razzese, anzi divino, che sopravanza di bontà e di dolcezza qualunque altro licor di Bacco al mondo è più celebrato. La prima delle cinque Rio maggiore s’appella; si chiama la seconda Manarola; la terza vien detta Corniglia; Vernazza tien nome la quarta, e la quinta eh’ è la principale, o meglio popolata, si dice Monterosso. Poscia, andando trasportato da troppa furia di vento, vide le pampinose due terre dell amena montagna del Mesco, assai a Levanto vicina ; alla qual terra desiando pure d’ appressarsi, non lo favoreggio di tanto il mare che ciò potesse eseguire ; onde fu costretto di notte tempo alla volta di Sestri indirizzarsi. Levanto è una bellissima terra, anzi una gran conca, fra doi monti altissimi posta; la quale ha sopra il suo capo 22 popolate ville, vicine per lo spazio di mezzo miglio 1 una dall altra, da’ marchesi Malaspina un tempo con loro danno signoreggiata, però da cento e più anni a questa parte sotto 1’ imperio di Genova felicemente riposa. Ascondendosi poi in un baleno, per la rabbia del Libecchio, questo luogo, e passando anco Montegrosso, si lascio addietro Bonasola, luogo tanto ricco di capperi, che ne dispensa da per tutta 1’ Italia. Indi mirò allo scuro, sopra un ec- — 93 — celsa cima, la terra di Framura, ove sono le più belle cave di marmi misti che si ritrovino al mondo. Poi vide Deva (Deiva) la quale in la bambolezza della nostra Repubblica era il cominciamento del suo Stato. Dopo, trovo Moneglia, antichissima terra, favorita dal cielo di si salutifere vigne, che la nobiltà Genovese per poco d altri vini non beve. Di lì scorse la gran piaggia di Fregoso ( Trigoso) per due volte a’ nostri tempi preda di barbari Corsari; ed infine, essendo presso la mezzanotte, entrando per la punta di Manara, principio del- 1 odorato golfo di Rapallo, a Sestri si perdusse. Questo golfo sopravanza di fertilità, senza dubbio, di ricchezza e di grandezza di terre, quello della Specia ; poscia che Sestri, che di ver' levante si ritrova in prima, ha bellissime pianure, amenissimi giardini. Sallo Genova, che gusta de suoi melloni in stagione intempestiva. E sulla costiera di Giarolo produce famosissimi vini. Ha un isolotto grazioso a meraviglia, il quale porta sussidio inestimabile a tutte le gondole erranti; perchè, o frema da levante o dall occaso il vento, tutte poggiando verso la parte a quel fragore opposta, arrivano felicemente a terra. E in questo giorno andò 35 miglia, avendo sempre davanti agli occhi, o ville, o terre, o castelli. Il mer-coredi a buon’ora da Sestri felicemente partendo, alla sfuggita mirò da lungi il borgo di Lavagna, orrevole di nobiltà più di qualsivoglia altro che la figlia di Giano in seno della sua Liguria nasconda. E gli orti suoi in sì avanzato tempo dànno frutti, che fanno stupire que’ di Genova, li quali allora appena han donato gli fiori. Presso, via via contemplò con letizia grande il luogo - 94 — di Chiavari, che solamente ha tre strade ; che pero sono tanto ampie, che tre città anzi che tre borghi appaiono in vista ; infine, a parer di molti, è la più bella terra d’Italia. Quivi cardinali, vescovi, arcivescovi e duci di Genova furonvi sempre mai. Vicino a sì allegro paradiso trovasi Zoagli, tanto d olii abbondevole, che su’ scogli ancora ne fioriscono gli olivi. Quindi poi si vede Rapallo, che in lavoii di tela e di filo poco cede a’ lini Olandesi ed a ricami di Fiandra. Discosto di qua un miglio si vagheggia 1 ameno sito di San Michele, ove i nobili Genovesi per migliorare nelle malattie si riducono sovente. Fatto un altro miglio, l’ampio borgo di Santa Margherita si mira, d’ aria cotanto perfetta dotato, che non 1 offende mai caldo nè gelo. Poi nel fine del golfo si saluta Portofino, pregiato assai per la sicurezza del suo porto. Passato questo luogo entrasi nella punta di Capo di Monte, e sotto le sue falde si varcano cinque miglia, trovandosi quasi nel mezzo l’abbazia di San Fruttuoso, antico jus patronato del principe Doria. Non pertanto al presente dal cardinale Orazio Spinola è signoreggiata. Finito il monte, si contempla da lontano la superba città nostra, che da Nervi fino alla Lanterna pare una cittadinanza unita. Poscia, a’ piè di Capo di Monte vi è Camoggi, abbondantissima di olive, ma più di pesca tori, li quali con suoi ordigni prendono di state tempo incredibile quantità di tonni. In appresso si trova Recco, ove sono le migliori vitelle di Italia; poi Sori e Bogliasco, in qua’ luoghi tutti gli drappi lavorati di seta, che si mandano colà ne’ Paesi Bassi, si fabbricano solamente. Quindi su ’l principio di Capo Lungo cominciano le - 95 - divine vaghezze di Nervi ; il quale ha due primavere per uno inverno. Di questa villa alcuna cosa direi ; ma le sue delizie sono troppo più lodate di quello eh’ io sapessi mai dire. Parlino per me gli carchioffi, le rose e’ garofali, che a’ maggiori freddi e ’n tutti gli mesi dell’ anno per tutto il mondo a dovizia manda. Quindi poi sino a Genova tutto è palagi superbi, ameni giardini, liete campagne, giocondi colli, vezzosi boschi, coltivati scogli, terricciuole allegre, come sarebbe a dire Quinto, la Castagna, Quarto, Sturla, Vernazza, Albaro pompa di natura e miracolo dell’ arte; poscia il paradiso terreno degli orti infiniti di Bisagno; e finalmente Genova, lontana per trenta miglia da Sestri. VIAGGIO FATTO NELL’ANNO 1612 PER VIA DEL PO, VERSO FERRARA, VENETIA, PADOA ED ALTRE CITTÀ DI LOMBARDIA (i) È pensier mio di scrivere succintamente tutto ciò che nel mio terzo viaggio per le parti dell’ Italia condotto, avendo maggiormente consolata la vista, può di maggior gusto ricrear la memoria. E non porrò cura in raccontar distintamente di tutti i luoghi, massime de’ piccioli, o i nomi, o le distanze ; essendo per me questa impresa stata altre volte felicemente guidata dal signor Gio : Giacomo Rossano nella relazione del cammino nostro, fatto l’anno 1609 a’ 21 dì settembre verso Loreto, Roma e Napoli. Basterà dunque di me dir solamente che partito da Genova nelli 28 di aprile del 1612, in sabbato mattina alle ore 10 e */,, con determinazione di indrizzarmi (1) Narra Gio: Vincenzo in persona prima, e buttando giù le sue note, che ha date a copiare, non rivedendo poi la copia. L’amanuense è d’una ignoranza che contrasta colla chiarezza dei caratteri. Non sa leggere negli uncinetti del principale, sbaglia i nomi dei luoghi, salta incisi di periodo, trasforma parole, frantende concetti. Ho sudato a rabberciare; e non sempre m’è venuto fatto, segnatamente dov’ egli pecca d’omissioni. Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIX. _ 98 - a Ferrara, cavalcai con principio felicissimo di giornata favorevole all’intento mio, essendo il sole dalle nubi assai coperto, la strada per la soavità de’ tempi molto arsiccia» la campagna e verde ed odorosa, e di mille rossignoli risonante. Verso Pietra Lavezzara trovai il signor Damiano Pai lavicino con la signora sua moglie e socera inviati 3 Loreto; e nel medesimo luogo fui ritrovato da pioggte minuta, che terminò fra mezz’ora, e intanto ne apport più diletto che offesa. Non tacerò di raccordare il diport ch’io sentii, servendo al Padre Predicatore di Santo Siro P. Paolo Arese, padre per esemplarità di vita, per qua ìt di costumi, per nobiltà di sangue, per eccellenza di stu e per gloria di predicare, meritevolissimo di esser tutti osservato e servito, sì come da tutti i conosci di lui sommamente riverito. ^ Giunsi nelle 16 ore e mezza a desinare, o per propriamente, a far collazione in Voltaggio, ove regalato dall’oste Stefanazzo di ottimi vini, di acq freschissima e della solita politezza. Di qui mandai ^ lettera a Genova, per nuova a miei, e provvidi a faccende al viaggio necessarie. Poscia cavalcando Serravalle, ed ivi a buonissima ora giunto, spinsi tona, ove prima della notte riposai, fatte 42 miglia qu giorno. Quivi si alloggiò alla Posta \ecchia, presa p errore per la Nuova; la quale da ostiere Genoves^ nome e non di animo è servita. Perciò mi e pia notarla, a fine di non mai più rivederla. Si sarebbe male di cena, se l’aiuto da’ nostri recato da casa n soccorreva ; e si sarebbe patito di letto, se la fatica giorno non 1’ avesse fatto parere men grave al riposo ~ 99 — Alla mattina seguente a giorno levatici, e udita la messa del P. Predicatore, si pensò di aver carrozza, e si procurò sollecitamente, ma invano; perchè valendosi 1 interessato ostiero della occasione de’ ferardi (Ferardi?), che per Piacenza facevano partita il dì seguente, non fu modo di averne: anzi trovammo a pena tante cavalcature per condurci in Voghera; ove giunti, atteso la tarda partenza nata dalle negoziazioni suddette, alle 14 '/, pigliai finalmente carrozza per Pavia, con patto però che sino in Milano dovesse servire al detto Padre. E nell’entrare in carrozza anco ne convenne aspettare i servitori, più di un ora rimasti addietro e senza nostra saputa trattenuti dalli Burlandotti in Ponte Corone per la visita delle robbe ingiustissima. In fine, quando a Dio piacque, si prese cammino, ed alle 19 ore giunsi in Pavia digiuno. Mi ristorai col pranzo al luogo del Falcone, ove altre volte e sempre bene ho albergato ; quindi partissi il Padre verso Milano, non senza martello mio per la perdita della presenza sua. E perciò concertai un burchio già statomi dal Francesco Borrone ad instanza delli signori Cotta per ducatoni ventiquattro caparrato, acciò per l’acqua mi conducesse il dì seguente verso Ferrara. Scrissi alcuna lettera con la relazione dell’esser mio, e riposai due ore. Poi rivoltando per la città, ove in detto giorno si vide processione generalissima, e corso di dame e di tutta la nobiltà più del solito frequente, alle 14 ore a casa mi ricondussi, ove per qualche spazio dimorata la cena, passai felicemente il rimanente della notte. Il giorno delli 30 partii di Pavia: ma prima si udì la messa, e visitossi il corpo del beato Alessandro Saoli, venti anni sono vescovo di questa città, ed ora nella •ii • n devozione di chiesa del Domo, piena di mille voti a f . . • A* molti lumi e quel donatore d’infinite grazie, intorno a sepellito. Si vide nella piazza delle Erbe il stata bronzo, e sopra esso la statua di Antonino ^ presa da gli (?) in guerra. Ora alle 11 ore ,m^arC^nchè burchio detto di sopra; e per lo Po cammini1 • j* «nre alle 15 ore era vento alquanto contrario, per esser di ma . ... . • -1 7Uf.ro (?) discosto arrivai ad un piccolo luogo chiamato il £-n ^ _ miglia 12 da Pavia; qui, sempre valicando belli ^ solitarie rive, al fine del nostro pranzo s incon ^ur^ guardiani di Po contro li forusciti, ed in apprcS ^ landotti, che gli uni e gli altri cun più maniere (mancte si lasciarono soddisfatti. tando Quindi l’istessa umida ma graziosa strada segui » certo ui- mentre io era per diporto attento a comp< scorso per l’Accademia di Perrara destinato, ecc ^ della veduta di Piacenza, la quale dal mezzo ad a ti ^ alberi sorgenti nel piano di larghissime campagne, mostrava delle sue vesti (torri?) e campanili altere cime. Si toccò terra alle 22 ore in circa ove dicono il °r ' discosto dalla città un miglio. E desideroso io di ve era. a piedi m’indrizzai a quella cala, convenendo in og modo, prima di partirci, d’ aver certa licenza dal capitano della città; quale subitamente s’ ottenne. Entrato in quel luogo da me non mai più veduto, rimasi assai contento della larghezza di quelle strade ^ della lunghezza e copia loro. Mi condussi a casa Frate Ferardi, ove da Francesco Pinceti fui guidato a veder le più belle cose di Piacenza, fra le quali il monastero di Sant’Agostino, per la grandezza della chiesa e marmoree colonne doppie, per la maestria delli claustri d - 101 — giardini bellissimi arricchiti, cosa mirabile. Si vide la cittadella, che, sebbene anco imperfetta, si mostra palazzo de’ più belli per la facciata, che siano in Italia. Contigua alla Cittadella vidi la casa vecchia dei Duchi Farnesi, ove è la finestra ancora chiusa, per ove fu il sig. (i). E perchè in quel tempo il Duca ebbe il primo suo maschio, ci abbattemmo quella sera in mirar fuochi ed allegrezze del popolo con tamburi ed archibugi , che a folte squadre camminando per la città gridavano : viva il Duca. Finalmente ritornati ad un’ ora di notte alla nostra stanza, vidi molti amici Genovesi, scrissi a Genova lettere, e cenai con regalo di persichi bellissimi ed ap-pecicati (forse apprcciati') vini : ebbi buon letto, buona stanza e buonissimo sonno, massime dall’acqua che continuamente si lasciò sentire sulle tegole assai gagliarda. Vigorito, alla mattina, che fu del i.° di maggio, udita messa ivi alla stanza assai vicino, perchè la strada era tutta fangosa e l’aria piena d’acqua, mi servii di carrozza fino al solito burchio, col quale a i 2 ore verso il nostro solito cammino si fece partenza. Il tempo ne favorì con l’aria rinfrescata e nubilosa, ma senza pioggia: così, piacevolmente le riviere del Po da ambe le parti graziose rimirando, si trovò un picciolo borgo dalle parti verso di sopra, che chiamano la Costa, da Piacenza discosto miglia 12. Intanto attendendosi al desinare, si scorse, benché larghi dalla riva miglia 6, la città di Cremona, alla quale si andò nell’altro viaggio, e dalla costa discosta miglia 6. (l) È lasciato in tronco il periodo; ma s’intende che Gio. Vincenzo dicesse: « per ove fu il signor Pier Luigi Farnese gittato nella fossa sottostante, poiché fu trucidato » (io settembre 1547). I Qui si pagano dazii in più d’un luogo. Da Cremona in l’altra riva ritrovasi Lunghezza (?) ec* a cluesta $ miglia appresso il casale di Polesina; quindi a 4 migli uno picciolo borghetto. E quivi, assai avvicinandosi 1^ notte, ritrovammo certe barche di ritorno, che in que^ luogo da (doi?) forastieri furono allora allora assassinai e spogliati affatto. Dalla qual novella entrati noi in giusti timore per noi stessi, e non essendo per noi altro rime che il procurar difesa, benché assai deboli contro qu che veniva referto esser (1) da me si misero in ordin^ gli schioppi, ed ognuno alla sua parte si pose ad aspe 1' assalto, con qualche strapuntini trovati per archiera e così raccomandatici a Dio e a nostra Signora benedet ^ animosamente entrammo ed uscimmo per grazia d da quel passo sì pericoloso. Ma non pertanto si mane della stessa guardia, sino a tanto che giungessimo ^ Torricella, ove, benché in porto, nel burchio stesso S passò la notte. Ma questo nostro arrivo non puotè seguir prima delle 3 ore di notte, per essere da Sumi (.) * Torricella da 20 miglia; nè si trova altra abitazione eh Zibello, lontano da Siimi miglia 4, che non e luogo » albergare; e di più, di notte tempo camminando, ed a solito con l’acqua del Po bassissima, si diede in un» lunga e larga secca, nella quale affondatosi il naviglio* molto s’oprò co ’l senno e con la mano prima che po terne uscire. Onde aggiungevasi in me al travaglio e corpo la pena dell’animo, per esser in luogo sospettis^ simo di genti cattive, a cui poteva, quando di noi si fossero avveduti, crescere tanto maggiormente la volontà il) Manca una parola; forse vicini. di offenderne, vedendone senza rimedio nelle mani loro. Ma piacque a Dio ed alla Vergine Santissima, che col silenzio e con l’oscurità della notte, senza esser sentiti nè veduti, non fossimo maltrattati. Ora ripigliando il tralasciato cammino nelli 2 di maggio a ore 10, con tempo prima pieno di nebbia e poi rischiarato dal sole, felicemente passate 8 miglia si trovò Casal maggiore, ove si pagano dazii, e poco vicino a’ belgan-tini di guardia si sborsano le solite mancie. Quindi fatte 6 altre miglia, si trovò verso la parte di sotto un piccolo luoghetto che si chiama Vaccelli (1), e di qui fatte 2 miglia verso la parte di sopra videsi Viadana, luogo assai grossetto. Il primo è del Duca di Modena; 1’ ultimo è del Duca di Mantova. Qui, nascosti in certi molini, si videro da noi quei galantuomini, che, chiamati Farinelli, sono assassini de’ viandanti. Erano armati, ma non di tal coraggio che avessero ardimento di assaltare di giorno, con l’avvantaggio che avevamo noi di vascello più Assai presto si trovarono alquanti casali o villaggi, che, per essere di poco momento, non raccordo. S’incontrò Pomponesco, luogo di Mantova assai grossetto. E questo è discosto da Bracelli miglia 5, situato però sull’ altra riva, lungo la quale per quattro altre buone miglia ritrovasi Guastalla. Qui pervenuti nelle ore 16, e di già avendo desinato, mi fermai a certa riva, che è il ponte di Colnozzo (?); indi inviai un servitore per intender nuova del signor Principe di Molfetta, signor di quel luogo, parente e padrone mio (2). E saputo ch’egli se i) Più sotto è Bracelli. Si tratta di Brcsccllo. (2) D. Ferrante Gonzaga, marito di D. Vittoria di Gianandrca Doria. — 104 — ne stava a diporto, alla sua volta, senz altra cerimonia m’ indrizzai, e al bellissimo palazzo di Sua l’eccellenza m' condussi, che assai v cino (era) alle porte della terra, al centro di essa. Fui subito da suoi cortegiani intro" dotto dal Prencipe, che in giardino bellissimo presso d\ cortile del suo palagio se ne stava godendo il rezzo di lunghissimo passeggio in compagnia d un litterato > all* uso di quel buon signore, che di cosa alcuna maggiormente non gode che di trattar di lettere, quali in lui fra miir altre qualità gloriosamente risplendono. Ora, a Sua Eccellenza appresentatomi, fui non pur cortesissimamente ricevuto, ma benignamente della visita ringraziato, e con famigliari sì, ma con savu discors» lungamente trattenuto. Domandai intanto introduzione alla visita della signora Principessa, bramoso di pigliar commiato da loro, e partire ancor prima della notte; ma intendendo che essa signora stava fora 8 miglia da Castalio (Guastalla), mossa a dura divozione di Nostra Signora e che ora per ora attendevascne il ritorno, m» affrettai a cedere alli comandamenti del Prencipe, per la necessità della suddetta visita, e per conseguenza fermarmi, come feci, col detto Signore tutto quel giorno, con notabile onore e profitto mio. V enuta poi la notte, ma non ancor la Principessa, piacque a Sua Eccellenza che a me fosse portata la cena, ritirandosi egli, come non solito a cenare. Dappoi mi fu data notizia dell'arrivo dell’aspettata signora; onde, indugiato tanto i tempo che 1’acceno (la cena?), fui introdotto da le., e da lei ricevuto con parole e dimostrazioni più confacenti alla sua generosità, che proporzionate alla mia bassezza. Non cessò mai di esprimere gusto grandissimo nella mia - loj — visita, nelle nuove di Genova e nelle informazioni particolari di tutte le pratiche alla sua patria correnti ; ed all incontro dimostrò disgusto della mia partenza, facendo il possibile per trattenerla almeno un giorno; ma il desiderio di terminare il mio viaggio mi fece in ogni modo pigliar licenza. Alla mattina per tempo veduta messa nell’ istesso palazzo, feci riverenza al Prencipe, che nel far del giorno si desto, e nella carrozza di lui fino al mio burchio fui servito ; ed ivi ritrovai per ordine di quei signori grande apparecchio d’ogni sorte di rinfrescamenti, acciò potessi vantarmi d’ esser ospite loro, se ben fuor di casa loro. Nelli 3 dunque di maggio, giorno della santissima Croce, sulle io ore '/, ricominciammo a navigare, ma con nebbia sì folta d’ ogni intorno, che non essendo possibile scorgere a sè da vicino cosa alcuna, s’incontrò col vascello assai presto anzi spesso in seccagne, e non senza gran pericolo ci trovammo una volta intricati entro certi tronchi d’alberi grossissimi, che in mezzo dell’acquatico corso erano radicati. Distaccossi finalmence ver’ le 14 ore, ed alle 15 ci trovammo in Borgoforte, lontano da Guastalla 14 miglia. Si desinò, e sempre alla via camminando ver’ le vent’ una si trovò la terra d’ Hostia (Ostiglia) e di rimpetto di essa Creulia (Rcvcrc) ambi del Duca di Mantova, 16 miglia lontani da Borgoforte. Qui preso da i marinari certo vino, e licenziatosi da noi rag.1' (ragunati? ragionantif) Guglielmo Cavallo che destinato a Padova, di qui discosta miglia 40, venne da Voltaggio fin qui godendo la compagnia nostra, si camminò per la solita strada, e si trovò, fatte due miglia, Manala (?) borgo, e primo confine del Papa in quelli passi. Ci fermammo io 6 — in burchio, alle due ore di notte. Passato a dormire pero ^ ^ sotto la terra che chiamano Stellada (Stella^1) miglia X da Manala suddetta, ebbi notte piacevo nel far del giorno partiti di quivi, alla volta di Ferra ci indirizzammo. Così in detto giorno delli 4 lTiak£ alle ore 13 fummo al ponte del Lago scuro, lontan miglia tre da Ferrara suddetta, ove per terra si pu0 dare, e vi è strada anco per un canale d’acqua morta, per mezzo di barchette a tal uso preparate: ma per esser questo cammino troppo malinconico, mandai a pigliar carrozza in Ferrara, di ove dal signor Cardinale Spinola nostro fui mandato a ricevere subito in sua carrozza^ ^ sei cavalli, e visitato da un suo gentiluomo; prima l’arrivo del quale mi trattenni gran pezza m l’Isola, già una delle belle delizie dello Duca ferrarese, ove bellissimi giardini, boschi, laghi, strade d acqua, casini, vasi, ed altri diporti, benché mezzi rovinati ancoi, si goderono. Entrato poi nella carrozza suddetta. e 1 breve spazio di tempo giunto dal Cardinale, che mi aspettava con affetto e desiderio grande, conforme solito della gentilezza sua, dimorai un quarto d ora seco in varii ragionamenti. Scritto a Genova per dar del mio salvo arrivo, a chi dovevo, avviso, desinai col signor Cardinale, che un pezzo si trattenne più del suo solito per favorirmi. Dopo d’aver goduto per tre ore la con^ versazione di lui, alle mie stanze mi ritirai per cangiarmi d’abiti e riposarmi. Fui visitato dal signor Vicelegato e dal signor Enzo Bentivoglio; e poi col Cardinale volteggiando fino a notte in carrozza, vidimo la Fortezza. Si consumò in tal vista il primo giorno del mio ospizio. Alli 5 di maggio si udì la messa nella chiesa di Nostra — io7 — Signora di Consolazione, luogo bellissimo e devotissimo: indi visitai l’illustrissimo Cardinal Leni, e da lui con molte premure fui favorito ed obbligato. Poscia diedi volta alla Montagnola, finché, essendo vicina 1’ ora del pranzo, ritornai a casa del signor Cardinale, col quale me la passai fino all’ora solita, di negozio a lui e di riposo agli altri. Fui favorito di visite diverse, come dal signor Francesco Saracini, dal signor marchese Galeazzo Valenghi, dal signor Enzo Bentivoglio e da altri. Io visitai 1’ illustrissimo Cardinal Pio, che mi tenne seco più di tre ore, famigliarissimamente discorrendo, a segno che, con volteggiar un poco in carrozza la Fortezza, fecesi buio. E ritornato a casa ritrovai il signor Francesco Cibo e il marchese Scandiano, indi il conte Ippolito Giglioli, il signor Claudio Acquilini (Achillini), con i quali sino alle 2 ore di notte mi andai godendo il frutto delle dotte conversazioni loro (i). Dominica, alli 6 di maggio, mi alzai da letto per tempo, volendo assistere, come feci, alla messa del nostro signor Cardinale ; il quale all’ incontro, per dar luogo più alla mia che alla sua commodità, assai più tardi del suo solito si levò. Udita la sua messa, lo servii a dar volta a piedi (i) Figurarsi con che gusto avranno ragionato di poesia, il Nostro e messer Claudio Achillini! Questi, nato a Bologna nel 1574 e morto nel 1640, celebrato dottore e maestro di giurisprudenza in Bologna, Ferrara e Parma, è l’autore del sonetto a Luigi XIII di Francia: « Sudate, 0 fuochi, a preparar metalli ». A quel re, per la nascita del Delfino, mandò anche una canzone, che dal cardinale di Richelieu gli fu pagata con una catena d’oro del valsente di mille scudi; onde poco esattamente, secondo il Tiraboschi, l’Arteaga (Rivolu^. del Teatro music, it. t. 2, p. 16) fu condotto a dire che un pessimo sonetto dell’Achillini fosse pagato quattordicimila scudi. Ma certo, anche mille scudi per la canzone furono spesi male. Delle rime ddl’Achillini, si ebbero nel Secento due edizioni, a Bologna 1632, a Venezia 1650. •— io8 — j • nra con sì grato verso li giardini del Tosso, e goduto un c - ^ pranzo. esercizio la sua dolce conversazione, andam11 ^ rjtjra] Dopo il quale un’ altra pezza insieme dimora- jjentjss;rn0 nel mio appartamento, ove ebbi visita dell ec ^ ^ qUGSta signor Federico Savelli, generale delle arn ^ ^ m0. città. E intanto avvicinate le 19 ore si °al 1 ? mUSjca da nastero delle monache di San Vito, ove si 11 ^ molti loro fatta in ogni perfezione, accompagni ^ ^ prima varii concerti, sì di voci come di strumer ^ ^ beni-della mia partenza volendo le ISIadri per ma^onastero, gnità loro goder della pratica mia, apersero ^ ^ ^ mji. e sulla porta di esso ne arricchirono di fi° ^sjmava 1’ altri regali. Ma perchè 1' ora intanto s app ^ ^ di andar a volta col Cardinale, a casa ritorn ^ s0]a. Signoria Illustrissima fino alla notte carrozza , ^ jej]a mente per la città, ma per le deliziose vei^ Montagnola, ove molte compagnie di dame e di quando in quando vi s’incontravano. forg\o, ove Alli 7 vidi la messa nella chiesa di San 1* ^nplla Citta, la festa di San Maurilio, vescovo di q canto • • :i corpo sau^ lennemente si celebrava, per esser quivi be|jjssjma e di lui onorevolmente custodito. Vi fu fatta oTazi0so sontuosa musica; ne fu mostrato il suo grand monastero, che di notabile ha un superbo refet ^ ^ ^ quadro d’una ricca dipintura, che nella faccia ^ ^ra meraviglia bella si considera. Questo luogo piacevoli campi, mezzo miglio appena dalla citta ^so E qui fece pomposa vista in quel giorno 1 concorso della gente che d’ ogni qualità vi si er nata. Ritornai dal mio Cardinale verso le 13, e ^ trattenni circa alle 19; e da queste fino alle 24 — 109 — passai in visitar il signor conte Giglioli, e nel sentir poi una profondissima disputa fatta tra il padre Gaetano ed altri Gesuiti e Domenicani per una parte e tre certi Ebrei per l’altra; i quali a quest’ effetto mandarono al Collegio dei detti Padri tre dei loro più valorosi rabbini. E ritornandomene a casa, fui accompagnato dalli signori Gua-lenghi, Giglioli, Scandiani, Cibo ed altri. Mi tenne poi seco il Cardinale sino alle tre di notte. Alli 8 feci levata di bonissima ora, per cavalcare alla volta della Fortezza nuova col signor Cardinale, che n’ era l’architetto, udita la messa sulle g ore. E udita la messa conforme al solito, andò rivedendo tutti i lavoranti di quella superbissima fabrica e delle artellarie di essa. E perchè quelli signori dell’Accademia ferrarese desideravano di accettarmi al possesso di quel luogo che in quella passai (?), concedettero per loro mera inclinazione e bontà; essendosi ben fuor della stagione delle adunanze loro convocati, anco delle ville, tutti quelli cavalieri eh’erano sino a 30, mi fecero ad essi cortesemente invitare. Io, nell’ora destinata, alle stanze loro benissimo adornate indrizzatomi, fui nel principio delle scale da due di que’ signori, cioè il signor Grimaldo Alduijni commissario della Camera Apostolica e il signor Francesco Saracino protettor si può dire di quella Accademia, in nome di tutto il Collegio cortesemente incontrato. Poi dall’ingresso dell’antisala ove que’ signori risiedono, fui da due altri aggiunti anche nel modo di prima ricevuto, che furono il signor conte Giglioli e il signor don Francesco Cibo. In tal maniera da tutti quattro accompagnato nella stanza ove risiede il trono dell’Accademia, e da tutti saluta'0 per esser giorno del mio ingresso, e così — I IO — fui messo a sedere in cadrega forastiera a tutti gli altri superiore, da un lato del trono ove il magistrato andava a risiedere; di modo che ebbi occasione e commodità di ringraziarvi, come feci, l’Accademia, in breve discorsetto, al quale, per essere il signor Enzio Bentivoglio principe loro assente, dal signor conte Scandiano secretano loro mi fu con bellissime parole risposto; ed a esso per fatta certa breve replica di cerimonia, s introdusser molti negozi dell’Accademia; su’ quali essendosi buona pezza ragionato, ognuno alle sue case s inviò. Al dopo pranzo mandai al signor marchese Gualengii Ippolito suddetto ed al signor card. Leni uno de m libri Dello Stato Rustico per cadauno. Indi dal signor Francesco Saracino e da altri signori guidato nella sala vecchia del palazzo il superbissimo apparato delle maniche (1macchine ?) che si fecero nel ca ^ passato per opera del signor Enzo Bentivoglio nomina o, con occasione di un campo aperto in detta sa . e d’una barriera, l’uno e l’altra di numerosi cava . jn ricchissime livree e di pompose invenzioni arricc appresso fui pur con detti signori ad ammirare i ^ viglioso teatro Accademico, la scena davanti a con le maniche di rilievo apparecchiata in esso p rappresentazione del Bonarelli (i), trattenuta dal pa al venturo carnevale, per la morte succeduta del D di Mantova, principe di quella. Nè dirò altro into; (i) Due Bonarelli, d’ Urbino, scrissero pel teatro; il conte Guidubaldo e il frate^ suo Prospero, contemporanei di Gian Vincenzo Imperiale. Ma il Solimano, ^ ^ la prima tragedia di Prospero, non venne in luce prima del 1620, e qui si ^ ^ certamente alla Fille in Sciro, di Guidubaldo; acdamatissima favola pastora *, fu stampata la prima volta nel 1607 in Ferrara. — Ili — quelli apparati, eccetto che sin ora si mostrano superiori a qualsivoglia altro mai veduto in Italia; onde ridotto alla perfezione quel lavoro, con la compagnia della musica e coll’aiuto dei lumi, sarà opera da far stupire. Goduta questa pregiatissima vista, fummo in carrozza a godere di quelle che la natura dispensa nelle graziosissime verdure della Montagnola, e delli serragli intorno alla città, per lunghissime carriere e dirittissime in mezzo di alti e folti boschetti drizzati. Così consumato il giorno, e nell’ arrivare a casa visitato dal signor Duca Odoardo Cibo, alla conversazione solita del signor Cardinale per tutto il rimanente della sera mi rimasi. Alli 9 detto, per esser giorno dedicato alla divozione del Carmine, a piedi verso quello m’indrizzai, ove in una grande e politissima chiesa di San Paolo è la capella tutta dorata di Nostra Signora. Quindi, udita la messa, a visitar il signor marchese Gualengo mi condussi ; col quale sino a ora di pranzo, di lettere sempre discorrendo, mi trattenni. Il dopo pranzo venne quasi per un’ ora certa pioggia che si rendette graziosa oltre ogni credere. Fui favorito di visita dal segretario del signor Cardinale Pio, persona dottissima e di poesia latina molto erudito. Fui anco visitato dal signor Alessandro Guerrini, figlio del cav.re, emulo famosissimo di un tanto genitore. Andai con loro, carrozzando fino a notte col Cardinale. Nè altro si fece. Alli X, giovedì, mi levai a 9 ore per veder messa co ’l Cardinale e cavalcar seco verso la Fortezza, come si fece fino alle 14. Mi trattenne poi lo rimanente della mattina seco, sino all’ora del pranzo; quale fu nelle 17 sonate, per essersi aspettato il Principe Perrotti, quale fu ospite del signor Sardinelle, mentre egli per diporto se ne giva in Venezia. A me toccò andargli incontro, come feci. Fugli fatto un solennissimo banchetto ; e dopo quello, essendosene Sua Eccellenza andata anco mentre pioveva dirottamente a visita di dame, io mi posi a scrivere a Genova. E in quel mentre, da Genova ebbi anco le desideratissime lettere, per mezzo di Angelo Vedraro, che a me parve angelo celeste. Consumai in detta scrittura di lettere quasi tutto il giorno, non sentendo gusto mao-cnore come nel parlar con li cari miei in quel meglio modo si poteva. Fui visitato dal signor Claudio Achillini, dal signor conte Giglioli, e presentato di certi libri dal sicrnor Alessandro Guerrini ; ne mi partii da casa, trat-tener convenendomi sino a dopo cena, col Principe suddetto, come feci ; molto al tardi essendosi il signor Cardinale ritirato. Alli XI mi levai di buon’ ora, per assistere a servire come sopra il detto Principe. E seco udita in casa la santa messa, fui alla Fortezza, che tutta al di dentro si scorse; e di essa si videro le artiglierie quasi cento, e l’armeria per 6000 uomini. Poi visitati seco li signori Cardinali Pio e Leni, si fu al desinare. E dopo di quello essendosi Sua Eccellenza licenziata dal signor Cardinale, il quale sino in carrozza l’accompagnò, io lo sei vii a vedere il Teatro e la sala della giostra, siccome alla vi sita del signor Enzo Bentivoglio, allora rimasto a letto alquanto indisposto. E quivi presa egli la sua carrozza da cammino, Sua Eccellenza mi licenziò, con infiniti ringraziamenti e cento offerte gentilissime, lo consumai il resto del giorno, parte col Cardinale, parte a visitar li signori Cibo, Claudio Achillini, e parte nel volteggiare - ii3 - per li Serragli, godendo sempre la conversazione del detto signor Achillini, piena di dottrina e di dolcezza inestimabile. Sabbato, alli 12 di maggio, si fece tardissima la levata per risarcimento delle antecedenti mattinate, e per 1’ occasione del tempo malinconico e piovoso, che continuò con freddo ed acqua minuta, a segno che altro non si fece che veder la messa nella chiesa del Duomo contigua al palazzo; e dopo essa visitare il generai Savelli, rendendogli il favor ricevuto. Dopo pranzo, stato gran pezzo in mia camera ritirato, andai col Cardinale in visita dal Leni, e pure a volta, benché col freddo grande nel-l’aria. Fui favorito dal signor Achillini di certi suoi versi (1). Nè altro si fece. Domenica, alli 13 detto, sentii la messa del nostro Cardinale, e seco a piedi volteggiai nella strada de^li Angeli, lunghissima. E dopo pranzo visitai li signori Vicelegati, Enzo Bentivoglio, conte Ottavio Scandiano e don Francesco Cibo. Essendosi a contemplazione mia radunata l’Accademia, da que’ signori domandai licenza, e loro imposi la mia impresa accademica (2); ed ivi poi si accetto in quel numero il signor don Ferrarese Bentivoglio, cavaliere ricchissimo e di grandissimo valore. La dedicazione delli Diporti della Bonarella al Cardinale Spinola, ed altre cose si trattarono; quindi a carrozzare (1) Forse quelli che dell’Achillini si leggono, con altri molti dei poeti di quel tempo, in lode di Gian Vincenzo, nella seconda edizione (Venezia, 1615) del suo Stato Rustico. (2) L’impresa di Gian Vincenzo ^'Intrepidi di Ferrara fu questa: un monte in mezzo al mare; cavernoso, contro cui da opposti lati, agitando le acque, soffiano due venti. Motto: Reboat non nutat. Nome accademico: Il Ripercosso. ' Atti Soc. I.ig. St. Patiiu. Voi. XXIX. per la città e per la Montagnola col Cardinale io fui, godendo del passeggio di dame e cavalieri, che in quel giorno si radunarono a dar volta, per esser diverso del-r antipassato. Finalmente alla sera presi licenza dal Cardinale; benché alla mattina differissi anco il salutarlo. Lunedì, a’ 14 di maggio, col nome di Dio e di Nostra Signora, levatomi alle ore 8 nell’alba, entrato dal signor Cardinale, che pure erasi a levar destro, e faceva lite sue divozioni da letto, da lui presi commiato. E la carrozza sua da sei cavalli fui alle 9 in Franco ino, discosto da Ferrara miglia 5, non essendosi potuta ca minare la strada, tutta rovinata dalli fanghi per e an cedenti pioggie. Francolino è piccolo borgo, e non altro che di pochi casali, d’ una osteria e di carrozze e di barche pe' viandanti. Qui ci licenziammo dal signor cavaliere Ratto, che con la carrozza ebbe ad accompagnarmi ; e in una peotta a quattro remi armata navigato, la quale sin dal preterito giorno fu per ordine mio quivi per dì 8 confermata, feci viaggio felicemente per lo 0, e verso le 14 ore passammo le Papozze, 22 mig ia a Francolino discosto, e confine. Quivi dal signor rin cipe (?) Giglioli con occasione d’un bellissimo suo veneziano assai vicino podere più volte ad alloggiar con tuttavia, per non perdere il tempo al viaggio dest’ non accettai quelle onorevoli profferte, ma destinato in propria barca, sempre placidamente camminanoo eziandio con l’aiuto della vela, in quelle parti ritrovammo Loreo, podesteria de’ veneziani. Discosta dal e Papozze miglia 18 è Loreo. Allontanatici 2 miglia ritrovammo il canale di Tornova, ove due dazii si pagarono. Da Loreo si pervenne alla città - ii5 — di Chiozza, discosta da Loreo miglia 15; la quale, per la imprudente risoluzione di Pietro Doria, tanto per li Veneziani fortunata quanto per li Genovesi di vergognosa memoria a noi si dimostra. Qui licenziatici dall’acqua (dolce), per una parte toccando il Po e per 1’ altra la Brenta, e per lo mare con venti di scirocco il nostro viaggio seguitato, alla vela camminando 17 miglia, incontrammo Malamocco, ove nel grandissimo circuito del suo porto più di 40 grosse navi allora ammirammo, ed il galeone di 8.ma (sic) salme da’ Veneziani ivi inutilmente su l’ancora tenuto. E passato Malamocco dopo 8 miglia toccammo la città maravigliosamente (bella) di Venezia; la quale, per più di due ore nel cammino a noi mostrandosi come vicina, tanto maggiormente si faceva desiderare. Qui ponevamo (?) alla scalinata di S. Marco, per la licenza della Sanità, poco, dimorammo ; poi col proprio vascello nostro nel Canal Grande entrati verso San Stae, quivi alla casa delli signori Ferrari, da’ quali ero invitato, mi condussi. Con (quanta) liberalità e cortesia da loro accolto fossi non lo dirò in questo luogo, dovendo serbarmi in altra occasione, a far fede co’ fatti e delle grazie loro e degli obblighi miei. Assai di subito dal signor Paolo Giustiniano, poi dal signor Orazio Bava, in appresso dal signor Giorgio Remondino qui abitante, fui benignamente visitato. Ebbi lettere da Genova, col solito riscontro da me ; cenai, e mi diedi al necessario riposo. Martedì, a’ 15 maggio, venne meco il signor Gio. Battista Ferrari per favorirmi. Seco udita, benché tardi, la messa in San Marco, chiesa per antichità, per grandezza, per nobiltà, per lavori (e tutti di musaico), per statue di bronzo entro e fuori, principalmente e per lo — 116 — sito la più superba, fummo in Palazzo, ove la licenza dell’abitazione fu impetrata. Qui vidimo il concorso grande di tutta la nobiltà, chi per luoghi, chi per magistrati, chi per conversazione adunato; qui innanzi a certi officii alcuni litigii di avvocazioni gustammo di sentire, come rappresentazione di quelle repubbliche antiche, delle quali questa mantiene ancora in tutto i lodevolissimi damenti; qui le loggie di statue e colonnati di m tutte adorne rimirammo: ma essendo ormai 1 ora e verso il ponte di Rialto incamminati, il quale no per i marmi che lo reggono, per le balaustrate &ra sime che 1’ adornano, per gli edificii che lo cin&o , p le acque che lo circondano, quanto per le bot^ & lo arricchiscono, per le arti tutte che lo nobilita , p le genti varie che ’l riempiono è cosa maravigliosa, um da coloro che certi arazzi di seta chiamati tabili (. gliono vendere, e d’ alcuni per mia casa feci c P poscia agli Orefici per certi pendini da donna a un francese maestro dimorai ; quindi verso le 16 ore ^ g dola tutti a desinare ne condusse ; dopo il quale il ^ Nicolò Foscari, Teatino, e principalissimo cavaliere e neziano, ebbe a visitarmi, e a sua casa invitatomi c la solita loro gentilezza. Scrissi a Ferrara al signor^ dinaie, con dargli di me novella, e ’l rimanente giorno si volteggiò la città, per il Canal Grande, le rondarne nuove e San Marco, dove vidimo uscire tutti i Prega da Palazzo, ove s’ era giuntato. E fu vista certo molto nobile. Entrammo nella chiesa dei santi Giovanni e Paolo, officiata dalli Padri Domenicani, ove, fra molte belle capelle bellissima, in luogo ritirato risiede quella di N. Signora Santissima del Rosario, tntta ad oro e a figure — i '7 — ricchissimamente adornata. Nella piazza che sta innanzi a detta chiesa, sopra una gran marmorea colonna la statua di bronzo di Bartolomeo Colleone sopra un grandissimo cavallo è posta, in grata memoria di quanto egli col valore già oprò per la Repubblica Veneziana. Venuta 1’ ora di casa, feci quella del letto. Mercore, a’ 16 detto, s’udì la messa nella chiesetta di Santo Restachio (sic) dal nome corrotto chiamato di San Stai. Era pensier nostro di vedere il Darsenale; ma l’acqua sopraggiunta, la quale, benché minutamente cadendo, continuò tutto il giorno, non lo permise. Perciò cangiata intenzione, vidimo la sala del Gran Consiglio, tutta ad oro e a pitture tanto nella soffitta quanto nelle pareti d’essa mirabilmente adornata. Vidimo la sala delle statue, ove grandissima quantità di esse, e la maggior parte antiche, stanno collocate. Vidimo la libreria, in una parte della quale il fiore di tutta la lingua Greca, nel-1’ altra il tesoro di tutta la Latina, innumerabili volumi a mirarli, è studiosamente riposto. Vidimo le stanze di tutti li Magistrati, le sale e i tribunali dei Procuratori di San Marco; nè lascerò di far menzione di molti contradittorii, che con nostro piacere sentimmo dinanzi a que’ signori dai loro avvocatori altrimenti sostenersi che con orazioni veramente licenziose e con maniere venali, con grida e motti violenti, ma con le parole e i concetti operando, e per tutto ciò attinenti a magistrati. Fummo nella sala dei Collegii, ove introdotto come forastiero in compagnia d’altri ch’ebbero udienza, vidi il Doge Leonardo Donati, che con la maturità del consiglio cresceva forza alle opinioni concette del suo valore, con l’abito venerando aggiungeva maestà alla gravità de’ suoi portamenti e — 118 — col temperato e savio suo reggimento pareva adornasse la corona dei consiglieri e senatori che a lui facevano nobilissimo cerchio. Al dopo pranzo dimorato al sonno alquanto, fui al luogo di Murano, per più d’ un miglio da Venezia separato. Questa è terra in sè stessa picciola, ma non d’altro che di officine di cristalli doviziosa. In queste io volsi pur entrare, non tanto per provvedermi di certi vasi, quanto per ammirare l’artificio della loro fabrica, che certo è da stupire. Nel ritorno visitai li signori Gio: Filippo Cattaneo col fratello Giacomo, in febre(!?) che per diporto eran quivi capitati e nella locanda delli Istriani vicina al Rialto albergati; stanza veramente accomodata all’ uso d’ ogni principe. Al i 7 detto si udì messa alla chiesa di Nostro Signore dalla faccia e si visitò il gran Darsinale di questa citta, grande meritamente per fama essendo grande per merito, grande facendolo la grandezza del sito che circonda tre miglia intiere, grande per il numero (maracaro nel ms.) delle galere, e delle galere capitane, e delle galeazze, che in tutto arrivano al numero di 300, e grande sopra tutto per gli innumerabili e vastissimi magazzini che ad uso di quelle servono; al vario esercizio de’ quali servono anche più di 800 varii artigiani, qui continuamente dal pubblico pagati. Qui da una parte vedi d’ogni sorte ordigni all’ uso marinaresco destinati: qui dall’altra ammiri un ostinatissimo travaglio, gli stessi ordigni al medesimo uso preparati mirando stupito. Qui tra quattro e più gran sale politissime risplendere d’ogni sorta armature, che a guernirne da 100000 uomini di milizia s’adattano, ove non so se la quantità o la forma dei lavori, o se la maniera — II9 — o 1’ ordine del custodirli gareggiando precedano, ivi la ricchezza qui la diligenza contrastando di pregio. Qui tra molte e molte altre, tanta innumerabilità di artiglierie in schiera ben distese, che alfine sei costretto a giudicare che altro non siano che le officine. Qui fattosi pietoso il guardo, e più benigne viste desiderando, ad altra parte mi volsi. Vidi un lunghissimo corriero di corso arcato (?) l’ordine del fuor (?) le funi, la guisa dell’ordinar le vele, del tirare i remi, la maniera, la custodia con cui conservano le palle delle artiglierie ecc. Ma sigillo di tutte queste cose viste è la veduta superbissima dell’augusto Bucentoro, sopra il quale dovendo il Principe con tutti i capi della Repubblica risiedere nel giorno dell’Assunzione Santissima del Signore, dedicato per lor cerimonia antica allo sponsalizio del mare, come reggente (raggiante ?) era per meglio servire alla nobiltà di tanto capo, alla gravità di tali membra, alla solennità di tanto giorno, alla importanza di tal mistero, tutto d’oro e di statue grandi che lo reggono tutte d’oro sfavillanti adornato, e con musiche e compagnia di galere. Al dopo pranzo, riposato buona pezza, visitato dai signori Cattanei e dal signor Paolo Giustiniano, con loro andai a vedere il monastero dei Cappuccini, bellissimo, fatto loro per voto della Città, più grande di quello che sogliano avere; e il monastero di San Giorgio dai Padri Benedettini fabricato e custodito, che è una delle più belle cose d’Italia; chiesa grande, colonne marmoree che la reggono, quadri maravigliosi, coro stupendo per cancelli tutti di noce, lavorati a rilievo di figure superbissime. Quattro evangelisti di bronzo grandissimi seggono sopra l’altar maggiore, e sopra esso Dio padre, fatto di bronzo — 120 — oltre il naturale. E dentro giardini e laberinti ; viHa grande con frutti ottimi; viste di terra e di mare, stupendissimi passeggi di loggie di sopra e di viali al di sotto, ma superiori alla riva del mare, qui si vedono. E perchè venne l’acqua grossissima, con tuoni dal cielo, ne convenne qui indugiare fino alla sera tardi. Venuti a casa, tornò l’acqua, e grandine, che durò fin che io me ne andai, benché senza cena, a letto. Alli 18 detto, venerdì, fummo in San Marco, godendo più di veder la frequenza di quel foro. Poi dimorammo alla libreria di Chiotti (Ciotti) buona pezza, ivi vedendo la quantità di libri che ivi tiene. E di essi certa quantità scelsi per uso mio, e latini e volgari. E perchè ero invitato, come di sopra accennai, dal Padre D. Nicolò Foscari, sapendo esso Padre mangiar a buon ora, verso le 15 a quel monastero a San Nicolò di Tolentino dedicato mi condussi col signor Gio: Battista Ferrari, che pur ivi dimora. Vidimo la chiesa loro assai grande e bene ornata, massime di capella maestosa. Entrammo nel monastero, che appunto era in fabrica, perciò più discomodo -che bello. Desinammo con quei Padri, più assaporando 1 condimenti della sua gentilezza che quelli della mensa, tutto che fosse per noi apparecchiata alla straniera e ricca particolarmente d’ogni sorte di delizie che nella marina si ritrovano, come cenali (?) cappe lunghe, cappe sante, granchi, dattili e cose simili. Dopo di ciò riposati alquanto, col detto Padre che in quel tempo tenea luogo di preposito (andammo) a casa di Giacomo I alma pit tore eccellentissimo, ed ivi rimirammo più bellissimi quadri. La gagliarda maniera di quel pittore mi ha particolarmente (colpito'). Ciò fu osservato ed ammirato in — 121 — un Tizio, da lui sì al vivo sopra una gran tela figurato, che 1’ occhio si sarebbe dato ad intendere di vederlo vivo, se per la pietà dell’ altrui pena non fosse giovato all’intelletto il considerarlo come morto. Quindi accompagnai al monastero 1’ amorevole Padre che mi fu compagnia, e alla mia solita stanza feci ritorno, aspettando con avidità nell’arrivo dell’ordinario le desiderate novelle della mia città. Venne l’ordinario con buon avviso de miei ; e intanto il tempo, al solito burrascoso, si sfogò per un’ ora con acqua continua; cessata la quale visitai il signor Paolo Giustiniano; indi passai a Rialto, a fine di veder certi lavori fabbricati dal Francese di sopra nominato; poscia a casa con tempo turbolento e a dismisura freddo mi condussi. Dopo la solita cena, ebbi il solito riposo. Sabbato, a’ 19 di maggio, veduta messa in San Marco, fui introdotto da un Clarissimo nelle sale dell Armeria secreta di Palazzo, destinata alla difesa della nobiltà, quando unita nel Consiglio avesse necessità di armati contro qualche improvviso assalto; e per ciò dette stanze hanno tra le altre una porta secreta che serve per adito alla Sala grande di quel palazzo, della quale, in occasione di Consiglio, sempre il Doge tiene appresso di sè le chiavi. Qui armi per 800 uomini e più si trovano ammannite; qui ogni sorte di guernimento alla difesa accomodato, ed ogni maniera d’istrumento all offendere opportuno si considera; qui la maniera del conservarle e 1’ ordine del custodirle si rimira in perfezione, di modo che se in quantità l’armeria dell’Arsinale è di gran lunga a questa avvantaggiata, questa a quella per qualità e senza pareggio superiore. „ • j; San Marco videS’’ In questo giorno nella piazza di „ ••• n\ Ai triplicata torca quasi tre statue, armare i nicol (.) di F avand vefSo infame triumvirato di galantuomini, che i • f ntìCCSC \ nid u*-' Lissa foxina svaligiorno un viandante r< ^e\ l'atto istesso dell’assassinio loro, come di mezzogiorno, s’imbattè a passar per co ^ venerand^ Clarissimi, che da loro conosciuto con ^ ^ legò persona li atterrì, e con l’aiuto di pochi e Fui a Rialto, ove a certe coserelle si^ ^ ^ ^ per Genova; indi a casa, ove dimorai deg]i e da queste fino alle 24 me la passai "e al Cran Ebrei, e nel ritorno in costeggiare 1 ^ ^ che ammirando quella nobile e liquida una paI-te per 4 buone miglia a pena termina, c ^ palaz2i ; e da l'altra della sua riva è adornata c ^ tralasCj, tra' quali quello del Foscari non menta c ' ^ ^ ^ per la memoria d'esser stato 0Sp‘*!° . ^hissjme chiese Francia. Tra questi, belle macchine di rie d; si sollevano, tra le quali memoranda s ^ ^ santo Santa Lucia, per il tesoro ere in essa1 vi corpo di quella gloriosa martire. E perci consum3' sino all’ ora del sonno non andasse a vo tutto quel tempo in scrivere alla Citta. ronvento Dominica, a’ 20, andai per veder la messa < ^ de’ Frati Minori, che dal vocabolo Veneziano, ora> cope troppo abbreviata, chiamasi de Fran. ^ per esservi predica, non mi riuscì 1 intento. Questa ne passai all’ oratorio di San Rocco qui contigu . ^ ^ chiesa è fabricata in modo che non può esser _ve non laudata, poiché, oltre l’ornamento principa tiene, contenendo in se per suprema ricchezza 1 — 123 - santissimo del beato Rocco, e questo in una chiesa più antica, nell’altra chiesa poi più moderna vedesi una facciata maravigliosa tutta da colonne marmoree rilevata, al di dentro, e di scale di marmo e di sale dorate e di pitture del Tintoretto e di statue antiche in modo è a-dornata, che di più desiderarvi non sa 1’ occhio. Onde compito qui all’obbligo dell’anima e al diletto dell’animo, ritornammo a piede assai di buon’ora alla nostra stanza, per sbrigarci del desinare prima dell’Avemaria, per entrar in tempo nel Gran Consiglio, che verso quell’ora e nelle feste sempre si raduna. Così appunto succedette ; onde nelle 16 ore introdotti nella gran Sala, un luogo d’essa ne fu assegnato, onde comodamente si osservò la prontezza di quei zelanti cittadini, che in numero di più di 1400 quasi in un momento si giuntarono. Si considerò la puntualità non solo di giuntarsi ma dell’onorarsi ; si esaminò l’ordine ivi tenuto di nominarsi e di eleggersi ai carichi pubblici. E spedita questa azione, verso la chiesa delle Monache di San Lorenzo c’ indrizzammo, informati che per esser ivi indulgenza, il concorso di tutta la Città doveva ritrovarvisi ; cosa che a’ forastierl vaghi di novità molto aggradisce. E ben ne riuscì grato il mirar in questa chiesa, benché patissimo di eccessivo caldo, per lo spazio di due ore, come flusso e riflusso di mare, copia di gente numerosa entrare ed uscire; ma principalmente delle più principali e più vistose dame della città più di 200 si videro, tutte di vesti sontuosissime abbigliate, dando a noi di godere assaissimo la bellezza di quei volti quanto la stravaganza di quegli abiti. Finalmente mi licenziai dai signori Gio: Filippo e Giacomo Cattanei, e Paolo Giustiniano ed altri che mi favorirono di com- — 124 — pagnia; e visitai il Padre De Nicolò Foscari e il ^ Baffo, ma tanto brevemente che ancora al bar gg nel Canal Grande diedi luogo, fin che la notte mi richiamò. . Lunedì, a’ 21 di maggio, giorno destinato a ^ ^ partenza, a ore 8 mi levai, ma prima delle 9 ;i P 1 • • Uorra • e volendo dimora del gondoliere mi condussi in ’ • , 'r i signori P'errari, per eccedere nella solita cort ’ • j- con loro fino anche meco per certo spazio di cammin , ^ a Lizza Foxina mi feci dalla gondola condurre, prima delle XI ore si pervenne, benché non sia eie ^ miglia discosto da Venezia; perchè volendo scorciar la strada, in certa palude seccagna inco . • x Lizza Fosina. ove quasi un’ ora per uscirne si consum . p d va è isolotto che fa porta {punta?') a \ enezia 'er , r ai /?ìe Malamocco sì come Marghera lo fa verso Alessas— w ^ verso Ancona Ferrara. E qui ritrovai la carroz. , p con nel giorno dinanzi m’ avevo fatto accapar . ^ mi portai a Padova verso le 16 ore: e non fu stanza, perchè sebbene sia la tirata di 20 migli P ^ rpea la strada tuttavia le pioggie antecedenti avevano _ ^ malagevolissima, in modo che fui anco nec suq1 navigar per due volte nella strada ove la carro^ ^ fare il proprio corso, perchè, essendovi acqua s* pancia de’ cavalli, fecimo tragitto entro certi che parevano di carta, pel quale buon spazio de •j* il crran muro finalmente arrivati come sopra, vidimo 5 ^ d’Antenore tutto di alberi e di parapetti erbosi d intorno coronato. Ma pria che altro ne dica, non ^ ^ _ scierò di far menzione di centinaia di giardini deliziosi che per la strada che da Lizza Fosina a Padoa condu - 125 - sempre lungo la torbida Brenta camminando s’incontrano. Questi di laberinti artificiosi d’ ogni sorte e di frutti e di boschettini paiono il tesoro, come che siano il tesoro delli Clarissimi veneziani, i quali pongono in ciò studio, ricchezza e ingegno particolare. A Padova rientrando, fui qui dal signor Ferrari incontrato, dall’oste della Scala ben alloggiato, di carrozza per Milano mediante 24 scudi ben provveduto. Tre cose notabili qui si vedono ; lo Studio, chiamato il Bue, per la vastità del vaso, per la qualità de’ lettori, e per la numerosità de’ studenti ; seconda, la chiesa di Santa Giustina, per la fabrica della chiesa, per la nobiltà del monastero e per la ricchezza dell’entrata, che arriva a scudi 100,000 l’anno. Finalmente la Capella di Sant’Antonio, per esser santo di tanta qualità, per esser vescovo del luogo, e per aver un ornamento dei più ricchi che si vedano oggidì in Italia. Partito dunque da questa città a 18 ore e colla carrozza nuova, verso le 23 a Vicenza mi ritrovai, essendo opinione che da Padova a Vicenza siano 20 miglia ; ma chi dicesse 25, a parer mio, non s’opporrebbe al vero. Trovasi lungi da Padova un miglio la Brenta, prima di Vicenza tre la Tesina; dentro pur di Vicenza, la quale parte nel piano e parte sul colle è fabbricata, vedonsi correre fra quella divisi due fiumicelli, cioè il Bacchiglione ed il Retrone (nel ms. Teniorè). Qui si mirano due cose particolari, cioè il Teatro delli Olimpici, fatto con tal arte e ricchezza che vince di maestria e di pompa ogni altro d’Italia; e certo ebbi ammirazione nel riguardarlo. In appresso godesi del giardino delli conti Valmarana, che a suo mal grado e delli paesi, ogni stagione mostra — r26 — viali di cedri, vasi di rose, e di gialsemini. Anche p^ fontane e peschiere stanno qui, di pomposa &en Alloggiai al Cappello, e stetti male. < Martedì, a’ 22 detto, con principio di giorno assai ^ re ^ a cagione di certa burrasca venuta alla notte, ^ „ • • ancora il delizio^ ora ci partimmo. E per via si vide ancu giardino del conte Valmarana, qui sopra acce ^ E camminando per via sempre fangosa e piena • 1 di ponte m&1 trovammo prima certa acqua, che sopra. r sicuro si trapassa; vidi assai vicino Monticello, ^ ^ da Vicenza miglia 10. E da questo discosto mig ^ fermammo all’ ostiere della Posta, ove per la ^io & ^ nè anco vi era stanza da fermarsi, eccetto que ^ co’ i guidoni è comune. Pur non essendo quiv ^ posata vicina, fu forza cedere alla forza de luoghi. q • t8 '/ Par' non sol fatta colazione ma fermatici fino a /2 • i* pQsena<^ timmo verso Verona di qui discosta 14 mlS 1 ’ da Vicenza a Verona per l’appunto miglia 30* Ma P ^ ^ fatte cinqua miglia, vedesi il borgo San Michele^ ^ un miglio appresso la città, trovasi la chiesa della Rotonda, in figura rotonda appresso marm ^ colonne quel piccolo tempio fra quelle campagne vandosi. Finalmente entrammo nella città suddetta, quale meritamente ebbe il titolo di Verona, essen vere una fra le città del Veneziano Dominio. Questa p grandezza di sito, di strade, di palazzi, di giardini, no è inferiore ad alcun’altra; per nobiltà illustrissima, Pe le professioni tanto delle armi quanto delle lettere m celebre, e per la memoria de’ Pontefici e de’ Cardinali, de quali è madre, molto stimabile. Tre fiumi la irrigano a di dentro, sopra de’ quali tre ponti massicci altamente — 127 — si vedono; ma tutti tre di uno stesso genitore son nobilissimi figli, come che non siano altro che (tre pieghe) dell Adige famoso. Questi è un particolar tesoro, che poi nell’estremo della città insieme addrizzato, per larga e profonda via verso il mare Adriatico alle bocche di Chiozza, come la Brenta, si reca ancor esso ad addolcire il mare, portando sopra il liquido suo dorso le some marinaresche al viandante mercatore, in quella guisa che il Mar Rosso vediamo soler fare. Qui mira il pellegrino con ammirazione il Teatro Antico, capace di ioooo persone almeno. Certo ivi è l’Arena tanto di giro immensa, che invece degli antichi spettacoli, a giostre e a barriere ministra campi e carriere vistosissime. Alloggiai alla Torre, ove si poteva star meglio, trovandomi io per lo caldo patito essere bisognoso di ristoro. Mercore, a’ 23 di maggio, entrati alle 10 ore in carrozza, non prima aprendosi le porte della città, e fatte 10 miglia di strada sassosa, trovammo il borgo di Cavalcasene. Poi la stessa lastricata via continuando altre 3 miglia, entrammo nella fortezza di Peschiera, che è appunto in fine del lago di Garda ; la dilettosa maestà del quale qui cominciammo a vedere. E presso questa bella veduta, lunga di 7 miglia di strada assai buona, camminando, trovammo il borgo di Desenzano, posto sulla spiaggia appunto di detto lago. Qui fermatici e di campioni (carpioni?) e delle..... (1) di loro e di quel (lì Qui è una lacuna; lo spazio è d’una parola, ma forse l’amanuense ne ha saltate parecchie; ed altre che seguono non hanno senso. Dei carpioni è cenno più sotto, come di cibo « desiderato in tutto quel viaggio ». Onde è da credere che alla fermata di Desenzano si lagni di non averne potuto assaggiare. — 128 — luogo, anzi io per colazione sostato avendo insieme (?), essendo questo che a noi più usato tanto più si fa conoscer dilettoso; alla frescura poi d’una loggia posta appresso alla vista della riviera di Salò fino alle 18 ore stettimo, essendo alle 16 qui pervenuti. Indi partitici e certi monticelli valicati alquanto a salire difficoltosi, trovammo una strada a cui facevano da una e dall’ altra parte verde spalliera altissimi alberi. Appena fatte tre miglia, si trovò la terra chiamata Lonà, assai grassetta e bellissima in vista, per esser festosa assai. Poi trovammo l’osteria della Posta, chiamata Ponte San Marco, lontana da Desenzano io miglia. E qui appresso il fiume Chiese, che sopra il ponte si passò, e mentre per la strada suddetta verdeggiante e sassosa assai felicemente, ad onta della caldissima stagione, camminavamo, ecco ribaltarsi quasi la nostra carrozza tutta da un lato. E non sapendo anco la cagione, rimasti tutti confusi, e saltati giù da essa, udimmo esser in mille pezzi rotta una delle maggiori ruote ; e non essendo al rimediarla alcun mezzo, e pur convenendo alle cose nostre pigliar risoluzione, massime trovandoci in luogo molto disabitato e discosto anco 6 buone miglia da Brescia ov’eravamo dirizzati, il rimedio fu, per condur la carrozza, cercare una benché piccola ruota da certi villaggi lontani, all’ uso de’ carri ; e così zoppicanti la condussimo. Noi parte a piedi ce la pigliammo. Io ebbi, grazie a Dio, da un villano di certa villa, a cavalcare un suo cavallo, con la bardella per sella e per gualdrappa. Così mi condussi, e Dio sa come, alla grande ma poco abitata nobil città di Brescia, verso le 24 ore, in quella appunto che le porte stavano per chiudersi. — 129 — Alloggiai alla Torre, ove si stette male di cena, e bene di letto. A’ 24 detto, giovedì, alle X partimmo da Brescia, non prima aprendosi la porta. Frattanto si vide qua la messa e si concertò nuova carrozza, poiché la nostra solita per l’accidente della ruota non poteva in tutto quel giorno esser apparecchiata, Così per via buonissima camminando fra l’ombre degli alberi e le vedute di larghe e graziose campagne, ove, intricato l’azzurro del fiorito lino col verdeggiante ondeggiare delle immature spiche, pareva un vero mare d’ogni intorno la terra ; la quale anco in certe praterie non coltivate si mostrava in luogo di frutti fertilissima de’ suoi non seminati ma naturali fioretti, ove tra ’l giallo delle margherite, e ’l rosso de’ papaveri selvatici e ’l bianco de’ ligustri parea benissimo che fosse il letto di Flora, per man di Primavera allor gentilissimamente adornato e grazioso. In questo, fatte 15 miglia, si trovò Compiano (leggi Pompiano) e poi fattene tre gli Orzi vecchi, appresso il quale 2 altre miglia gli Orzi nuovi, fortezza fortissima, e da vedersi con stupore come dalla pianura si solleva, che intorno intorno spazia. Poi fatte 4 miglia si trovò Soncino, luogo del Re di Spagna. Ma prima si passò il fiume 1’ Oglio, che fra mezzo al confine di Spagnuoli e Veneziani vicendasi ogni anno fra di loro il dominio di lui. Quasi alle 16 ore qui si fece colazione, e volendo dormire a Lodi, alle 18 ore partissi. Ma non tacerò di una campana che mentre si faceva colazione suonò con rimbombo tale, che mostrò bene di esser campana Spa-gnuola. In fatti, nè anco San Pietro e il duomo di San Marco ha tal struménto rimbombante, come questo pic- Atti Soc. Lio. St. Pjitru. Voi XXIX. 9 — 130 — colo luogo di Soncino. Ma poi si camminò 6 miglia, che diedesi in un passo tanto cattivo della strada, che fummo astretti a passar per certe vie traversali, e per riconoscerci nel cammino maestro girai più d un ora per certi campi tutti di lino ; e per occasione di questo tutti abbeverati di grossissima acqua; nè si trovò mai tra que’ contadini uno che fosse tanto manco villano del solito, che la strada per noi volesse insegnarne. Finalmente, superati mille fossi e tutte quell’acque della teira, quando entrati in istrada credevamo far buon cammino, ecco l’acqua del cielo venirci addosso con furia tale, che finalmente fummo astretti e per la pioggia e per la stanchezza de" cavalli a rinfrescarci in Crema, città assai grande e polita, non più di miglia X da Soncino, ove non essendo più di 21 ora si stette fino alle 23 a veder piovere e a giuocare a sbaraglino, con quel poco gusto che suole avere chi non può il suo desiderato fine conseguire. L’ osteria fu quella dell’Angiolo; la cena non fu mala; la stanza buona; i letti infami. Venerdì, a’ 25 detto, partiti di Crema sulle X ore, per buonissima strada carrozzando si giunse in Lodi, fatte da Crema miglia X: quindi camminando, fatte altre X miglia, si giunse a Marigliano, ove si dimorò, essendo già le 15 ore; sino alle 16 regalati da un ostiere, fuori della porta, con ottimo vino, alle 17 ore ritornati in carrozza. E fatte da qui altre X miglia per strada tanto piana che oltre il mio solito mi addormentai, si cominciarono a veder le porte di Milano. Giunto a questa vastissima città, feci guidarmi dalla carrozza alla casa dei Padri Teatini in Sant’Antonio, ove dal Padre D. Paolo Arese fui non solo graziosissi- — I3I — mamente ospitato, ma in stanze per mio conto apparecchiate nobilissimamente anzi superbamente favorito. Inviai subitamente uno dei miei servitori al signor Francesco Rivarola, mosso dal desiderio e dalla speranza di averne lettere da Genova; e la speranza mi fu dal Cielo stesso confermata. Diedi ordine a certe mie faccende, presi provvisione di carrozza per seguitare il viaggio nel dì seguente. Fui col detto Padre Arese in Duomo; visitai il corpo (sepolcro ?) del glorioso san Carlo Borromeo ; vidi il suo privilegiato corpo che nell’incorrotta sua carne oggidì ancor testifica la innocenza della vita di lui, e solamente la testa si è col tempo scarnata, perchè per sua rara modestia avendo il Santo rifiutato d’esser ritratto in vita, si giudica che impetrasse da Dio che la sua effigie non potesse esser dipinta dopo morte, quale a questo gran servo di S. D. Maestà servì per scala al trono empireo nell’anno appunto quarantesimo sesto dell’età sua, spesa in quelli atti continui d’esemplare carità che a tutti son manifesti. Vidi la Libreria modernamente istituita dal Cardinal Borromeo, nepote del Santo e imitator di Lui, arcivescovo di questa città, che dalle sue sostanze ha tolto più di 30 000 scudi per annate diverse, a fine di empiere quel palazzo d’ ogni sorte di libri e di trattenervi ogni sorte di lettori a comodo d’ ogni sorte di studenti, ed ha arricchito di 5 000 scudi d’entrata questo luogo, a suddetti onorati e piacevoli (ms. patticevoli) fini, lasciando addietro la fama di qualunque altro studio al titolo del nome che seco porta, la Libreria Ambrosiana. Fui visitato dal signor Giulio Arese, fratello del detto Padre Paolo e presidente del Senato. Resi a lui la visita — 132 — e feci riverenza alla contessa Margherita sua moglie, indi fui a far orazione a N. S. di San Celso, chiesa pubblica, ricca di rendite e pomposa di marmi, onorata dalla frequenza di tutta la nobiltà e da nobili in tutto governata. Così fattosi sera, a Sant’Antonio ritornatomene, da quei Padri fui reficiato con ottima cena, splendida per le vivande, tra le quali la trota, il carpione, desiderato in tutto quel viaggio, erano niente a pari del resto, e perfezionata da varietà di preziosi vini tutti nel ghiaccio, eh’ a’ viandanti pieni di caldo apportano la vita. Dopo sì doviziosa cena, tanto furono dolci e copiose e sane (le vivande) che si presono, con quei valorosi Padri, e particolarmente con P. don Gaetano Costa, e con il P. don Dionisio Dentice (si stette così piacevolmente a discorrere), che il dover troncare sì cara consolazione e conversazione per la necessità del dormire fu molesto ; ma in ogni modo riuscì poi tanto gustoso il riposare tra quel letto bene accomodato, che parve troppo violento il corso dell’ alba vegnente. La mattina dunque, a’ 26 detto, in sabbato, presa licenza da quelli amorevoli Padri, carrozzando tre ore e mezzo solamente, giunsi a Pavia, fatte 20 miglia senza avvedermi del cammino, tanto oltre ogni modo fu piacevole assai. Ed accrebbe non solamente il diletto ma la prestezza del cammino certa emulazione di carrozzieri, che gareggiando tra loro a chi prima toccava la meta delle mura Pavesi, ben si può dire che volassero e non camminassero, perchè ora di galoppo ed or di carriera fecero l’ultima lor prova a costo dei miseri cavalli, che appunto non avevano ancor bevuto tanto, quanto i loro padroni. In Pavia volteggiai alquanto a piedi; feci co- — 133 - lazione al Giardino, ove giunse poco appresso il signor conte di Tassarolo, che mi fece molte carezze. Mi visitò il signor Alessandro Saoli, figlio del signor Paolo, che qui studiava; e da altri fui parimente onorato. Ma (in Pavia) voltando, arrivai anco a far notte in 1 ortona. Questo giorno, cambiata qui la carrozza, ripigliai cammino nelle 18 ore. Giunti a Voghera ne giunse la pioggia, che alquanto impedì, ma non mi tolse l’arrivare sulle 24 ore in Tortona, ove alloggiai al Villano, che non villanamente' ne trattò. Domenica a’ 27, con la medesima.... (1). (1) Qui resta in tronco, a fin della pagina 54. Ma quelihe è perduto non deve esser molto, poiché il viaggiatore era giunto alla penultima posta. ' . - ' _ III. VIAGGIO FATTO IN SPAGNA NEL 1619 (1) Avendo li Serenissimi Collegi concesso quattro galere alla M. C. perchè di Barcellona portassero in Italia il Duca di Albucherche ambasciatore al Papa per il suo Re, decretarono nell’ istesso tempo che 1’ illustrissimo signor Gio: Vincenzo Imperiale, generai delle Gallere, dentro il termine di sei giorni s’ imbarcasse ; ed egli conoscendo che colui solo è degno di comandare che prontamente sa ubidire, con lieto animo e pronto sotto-mise il suo volere al voler della Repubblica. E quantunque avesse scarsità di tempo, non pertanto con la medesima fretta si accinse al dipartire; onde, postosi in ordine nel breve corso di sette giorni, a’ 25 di maggio, in dì di sabato, a ore 8 deliberò di far partenza. In quella mattina, dalla nobiltà tutta fu visitato ; la quale, (1) Così scritto di pugno di Gio: Vincenzo sulla prima pagina di un quaderno di 22 carte non numerate. La scrittura è chiara, grossa, diritta, elegante, quasi senza abbreviazioni; lo stile accuserebbe la mano del medico Rossano, che del resto appare presente come « medico delle galere » in questa spedizione. E lo dimostrerebbe altresì la solita propensione a lodar cibi e vini, come l’altra, più ragionevole, di esaltar l’amico e patrono. Se così è, convien dir che il Rossano, tenendo ufficio elevato nella spedizione, avesse anco segretarii di bella mano di scritto, per mettere la sua prosa a pulito. — 136 — non sendo per anco paga di questo compimento, nel-l’uscire di casa volve eziandio accompagnarlo. Quivi era D. Carlo Cibo duca d’Ayello e marchese di Carrara, D. Francesco Doria figlio del Duca, l’illustrissimo signor Gio: Stefano Doria, e finalmente tutto il bello e il buono della città, con un concorso tanto numeroso di popolo Genovese, che pareggiava il corteggio dell’illustrissimo signor Gio: Giacomo Imperiale, nella fine del suo Ducato. La sua livrea comparve oltre modo gaia e vaga : era di panno bianco e càrmesi fino, con guarnimenti attorno di trenini di seta verdi e gialli ; con giubboni di raso O ' o pur giallo, e ben guerniti di passamani spessi. Aveva sei staffieri e otto paggi : li primi portavano calzette di filaticcio, gialle; li secondi di seta; quelli avevano li giubboni di raso semplice, questi stampato. E le guarnizioni de’ paggi apparivano tanto spesse, che appena si scorgeva il panno. E tutti tenevano in testa cappelli con fascie larghe trapuntate d’oro e seta; e portavano collari nobilmente lavorati, e piume di verde colore. L’ altra gente di servigio più riguardata, come maggiordomo, provveditore e simili, era vestita di velluto, lavorato con catene d’ oro. Così, con questa corte, giunto al ponte degli Spinoli, prese un gentil modo di licenza da quei signori che l’avevano corteggiato, e sopra la feluca imbarcatosi, andò volando alle quattro gallere che l’aspettavano allegramente. E perchè la Capitana per degni rispetti non potè servire, posto lo stendardo della Repubblica sopra la padrona, comandata dal capitan Orazio Giustiniano, ivi s’imbarcò. Subito che il Generale entrò nella poppa, ebbe prospero principio, per ciò che fu visitato dalla - 137 - signora Luisa Gentile e da sua sorella signora Oriettina L)oria, dalla signora Elena Cattanea e dalla signora Giovanna Cattanea, dame principalissime che in compagnia de’ mariti, fuori la prima, ivano per loro devozione alla Madonna di Savona. Onde egli, per secondare 1 augurio, gettando da sè lunge i panni vedovili e postosi in dosso un bizzarro vestito di velluto riccio argentino tutto fregiato di bindellini de l’istesso colore, con una innumerabil quantità di bottoni d’oro smaltati di diamanti, fece di sè una vaga e felicissima mostra. A ore 19 ebbe cominciamento il viaggio. Passata la Lanterna si salutò con trombe Santa Maria Incoronata, e tre miglia presso a Savona s’onorò parimente con trombe Santa Maria dello Scoglio. Giunti in su l’imbrunire al porto di Savona, il Governatore con 50 gentiluomini Savonesi raccolse alla riva orrevolmente il Generale, avendolo prima fatto visitare su la gallera dal Commessario del bosco {porto?) e gli diede passeggiando la banda dritta, che è quanto dire la precedenza. E subito che fu dentro di Savona, in compagnia del signor Angelo Lomellino suo cugino, sopra due ciglie da mano andos-sene quella notte alla Madonna. E qui ebbe fine la prima giornata. La dominica, del 26, ritornò il Generale dalla Madonna a Savona a ore 11. Alla porta della città ritrovò li quattro capitani delle gallere, la sua camerata e tutta la sua gente di livrea, che l’aspettavano per accompagnarlo. Subito rese la visita al Governatore e baciò le mani alla signora Governatrice. Fatto questo compimento, a ore 13 imbarcossi, e con placidissima calma a poco a poco scorrendo la bella - i38 - Riviera e le deliziose terre del dominio Genovese, vide presso i lidi Savonesi la nova fortezza di Vado. Qui si desinò superbissimamente. Al convito, oltre tutti li capitani delle gallere, vi furono il signor Gio: Filippo Pallavicino del signor Agostino e il signor Angelo Lomellino. E tra sì dolci esche pascendo l’appetito, eccoti un soave levante, che l’invita a far vela. Così alzata quella del trinchetto, continovò, mangiando, il viaggio. Scòrse il capo della città di Noli, indi Finaro, poscia la Pria, dopo Lovano, il Ceriale, Borghetto, l’isoletta e la città di Albenga, e finalmente a ore 20 in Arassi diede fondo, quel dì camminato solamente trenta miglia. La terra salutò subito, con quattro pezzi d’artiglieria, lo stendardo, e li Consiglieri d’Arassi presentarono al Generale sei bacili di varie cose, uno di biscotti bianchi sardi, uno di aranci, uno di limoni, uno di cedri, uno di frutte di semora (1), ed uno di vini straordinarii. Qui il Generale rassegnò la gente delle gallere, così d’armi come marinaresca. Nella sua Capitana v’erano due suoi gentiluomini, il signor Doriotto Doria e il signor Gio: Andrea Novara, il signor Orazio Giustiniano, capitano, il signor Paolo Vincenzo Galliano, scrivano di razione, il capitan Agostino Coltellero valorosissimo piloto, il magnifico Gio: Giacomo Rossano, medico delle gallere, 15 officiali, 12 timonieri, 8 parti mezze, 12 marinai di guardia, quattro proeri, quattro garzoni d’officiali e tutta la servitù, e sessanta Svizzeri moschettieri. Nella Diana, comandata dal signor Dominico Clavesana, trovò la me- (1) Semolino? Ma allora non si tratta di frutte, bensì di farina ridotta a gra-nellini. O s’intende di pasta inzuccherata, e in forma di frutte ? Lascio l’indagine a più esperti ricercatori, 0 più fortunati. - 139 — desima quantità di marinai e sessanta Corsi, parte archibugieri e parte moschettieri. Nella Vittoria, padroneggiata dal signor Paolo Doria, fece rassegna delli stessi marinai e di cinquanta Corsi. Nella gallera San Giorgio, governata dal signor Gio: Geronimo Imperiale, vi ritrovò li medesimi marinari, 30 soldati Corsi e 25 Svizzeri mo schettieri. Però questi ultimi, per ordine del Generale, passarono sopra la Capitana. Ed imbarcò sopra San Giorgio altri venti soldati Corsi di quelli della Diana. Fatta la rassegna, armò li marinari di buoni moschetti ed archibugi, dando a tutti le loro munizioni militari conforme il bisogno, e a ciascuno ripartì li posti suoi. E certo, s’egli per tutto il tempo della sua vita fosse vissuto fra Tarmi, non poteva distribuire li carichi con ordine migliore. E non volse calar in terra, per non dar occasione a’ maledici di mormorare che attendesse a passeggiare per essere sberrettato. Ora, fatta questa necessaria diligenza, aspettò che venisse notte, e prese un bocconcino. Alle due ore fece partenza: e perchè allo scuro le disgrazie sono più pronte, e ne’ governatori dormiglioni meno scusabili, il buon cavaliero, tutto che dilicato e male avvezzo, non volse mai gire a letto. Su l’alba del lunedì, 27 di maggio, le gallere trovaronsi presso Nizza, sopra il porto di Villafranca , avendo fatto sessanta miglia ; per ciò che da Arassi al capo delle Mele ve ne sono 10; 15 alla valle di Diano; 20 a Oneglia; 30 a San Remo, 40 a Ven-timiglia, 50 a Monaco, e sessanta a Nizza (1), città (1) Intendasi sempre contando per ogni luogo da Arassi, 0, come oggi si dice, Alassio. — 140 — del Duca di Savoia, benissimo popolata e forte. Le manca solo il porto che ha Villafranca. Passato Nizza, lunge 15 miglia scòrse la città di Antibo, fortissima quanto altra del mondo, avendo una fortezza in isola inespugnabile, fatta come Livorno. Qui ha principio il regno di Francia. E dopo altre cinque miglia, presso li Capi Rossi, si passorono le isole di Santa Margarita, continui ridotti di Corsari affricani ; li quali, avendo infame lega con li provenzali, fanno qui mille assassinamenti, ma più assai all’isole d’Eres (1), vicine a queste sessanta miglia. Alle quali s’arrivò, col favore d’un gagliardo Sirocco a ore 18. Stando in queste parti, la sentinella de l’albero diede segno d’un vascello. Subito il Generale vi mandò la feluca, e per vederne il fine ivi si trattenne per lo spazio di 3 ore; ma la feluca non potè arrivarlo, essendo da lei molto lontano, e camminando con vento fresco. Vi fu bene opinione universale che quel legno fusse francese. Passate 1’isole d’Eres a ore 22 si giunse a Tolon, la qual città ha un gran porto, ma poco sicuro, e le gallere si fermorono alla foce del Golfo, presso la cala di S. Giorgio, 30 miglia lontana dall’isole d’ Eres. Quivi a mezzanotte vi fu rebatto (2) grandissimo, stante che a capo Sezzé (Sìcié) vicino mezzo miglio a S. Giorgio, furono fatte due fumate, segni ordinarii di Galeotte; per lo che il Generale gridò all’armi, ed in un subito per li suoi buoni ordini videsi ogni Gallera pronta a combattere, li soldati alli suoi posti e li marinari bene armati. Però fi) Hyéres, in francese; fronteggiano la rada omonima. (2) Voce dell’ antico genovese, corrispondente al moderno remescio ; agitazione, tramestio. — I4i — assai tosto cessò il rumore, essendosi saputo che quei legni erano francesi. Martedì mattina, che fu a’ 28, dopo trenta miglia di cammino contra vento, andossi alla Città (dotai) villa assai bene abitata e fatta ricca per il commercio co’ Genovesi. I utte le navi e barche di Provenza si fabricano in questo luogo. Quivi il Generale mandò un bando, che nessuno sbarcasse senza sua licenza. E perchè Gio: Francesco Granara non ne fece caso, il Generale cominciò a dar a vedere quanto nell’armi sia necessaria l’obedienza, conservatrice della gloria militare, poiché, sapendo che Granara s’era sbarcato contra il suo divieto, n ebbe disgusto; e poi, quando per discolparsi gli venne davanti, il Generale gli fece mettere una catena al piede; e non guardando che fusse amico suo grande, e quasi allevato sempre in casa Imperiale, al mercordì mattina 29 di maggio, nel partire dalla città, gli fece dare nella gallera San Giorgio due tratti di corda. Quel giorno, con vento contrario camminando, arrivossi all’ isole nominate le Crocette, che sono trenta miglia lontane dalla città e 20 miglia da Cassiscia (1). Qui si trovarono li maestri tanto gagliardi, che non si potè gii e avanti. Di lì si vedono di lontano le Pomeghe, che sono tre isolette vicine cinque miglia a Marsiglia. L una è (1) Cassisela, 0, come è scritto più sotto, Cascissa, corrisponde al francese Cassis, nel piccolo seno tra la baia della Ciotat e il capo Croisette a levante di Marsiglia. Quelle che il narratore ha chiamate le Crocette son le isole davanti al capo di tal nome ; la maggior delle quali è l’isola Maire, cioè la Madre. Quanto alle tre Pomeghe, davanti a Marsiglia, le due maggiori portano oggi i nomi di Pomègues e di Ratoneau; la terza, e più piccola, conserva il nome antico di Chateau d’ lf. — 142 — San Giovanni, l’altra Cagastrasse, dove allora stavano le 20 gallere del Duca Doria, e la terza Castel d’ If, nella cui fortezza sta un presidio di 500 soldati francesi con un castellano, famoso guerriero. Giovedì, che fu il dì del Corpus Christi, 30 di maggio, per la rabbia de’ venti maestri non potè il Generale, com’ era il suo desiderio , andar alla volta di Marsiglia per baciar le mani al Duca Doria ; anzi fu costretto a ritornare dieci miglia addietro a dar fondo in Promin (Poti Miou) porto fatto dalla natura, dove s’entra per una bocca che rassembra in prima vista foce di fiume, tanto è stretta. È securissimo dal mare ; ma tal ora dal vento travagliato a segno, che le Gallere non vi possono far tenda. Vicino a questo porto mezzo miglio v’ è la terra di Cascissa, alla quale per udir messa il Generale andò per terra con la sua camerata ; e vi giunse in punto che la processione era già fuore. Fu bella vista vedere le strade tutte tappezzate di fiori; ma più bella mirare le fenestre delle case, le quali per ornamento avevano pendenti tutti gli arnesi domestici, vestiti di mariti, robbe di donne, fascie di figliolini, coltre di letti, lenzuoli, tovaglie, tovaglioli, e una mano di braghieri assai compiti. Vero è che fra una infinita moltitudine d’uomini e di donne assai comodi e ricchi, un solo prete cantava rispondeva e portava il Sacramento ; e così rozzamente addobbato, che non aveva punto di seta intorno. Nè già più bella era la chiesa, poiché il suo maggior fregio consisteva in 15 lampadi ai vetro, piene parte d’olio negro e puzzolente e parte d’acqua; chiaro e manifesto indizio della poca divozione di quegli uomini, mezzo cristiani, mezzo bestie e tutti eretici. A’ 31 di maggio, dal solito mal tempo trattenuto il — 143 — Generale nel porto di Promin, ad altro non attese che a far provvigioni di pane e di vino. A ore 16 giunse un pedone del Duca Doria al Generale, c subito con la risposta fu rimandato a dietro. In questo luogo non si potrebbe dire quante diligenze e quante guardie, in terra di soldati, e per la marina di marinari, ordinasse il Generale acciò non fuggissero schiavi, stante che in queste parti li Mori che arrivano a Marsiglia restano liberi e salvi. Con tutto ciò, su l’alba del primo di giugno uno schiavo della Diana fuggì ; e ciò per negligenza de’ mozzi, che la sera inanti non gli avevano ribattuto la catena. Il Generale n’ ebbe sentimento tanto più grave, quanto straordinarie guardie s’erano per sua parte ordinate e comandate; le quali se non giovorno, la colpa fu de’ ministri, non del superiore. Ora essendosi nell’istesso giorno mitigata alcun tanto la rabbia del vento, il Generale fece partenza dal porto per andare a Cascissa a far acqua; della quale provvedute le gallere, s’accinse a gire avanti. A’ due di giugno, su le undeci ore del giorno, giunse alle Pomeghe presso il castello di Castel d’If, fra Cagastrasse e il porto di San Giovanni, fortezza che nelle rivoluzioni di Prancia, allora che Enrico quarto per anco non regnava, Ferdinando Granduca di Toscana da Don Giovanni suo fratello fece fabricare; sono lontane cinque miglia da Marsiglia e 15 da porto Promin. Il Generale di lì andò subito a Marsiglia ; fu visitato dal luogo tenente del generale di Francia, col quale trattò dello schiavo fuggito. Quel Monsù, per quanto si vide in apparenza, usò gran diligenza perchè la Città lo restituisse; ma li grandissimi interessi che li mercatanti Marsiliesi hanno con — 144 — li Barbari mori, impedirono la restituzione. Ben s’offersero li Consoli della Città di pagarlo al Generale ; ma simili cortesie, come indegne della riputazione Genovese e del nome Imperiale, dal signor Gio : Vincenzo furono rifiutate. Il quale con poche parole mostrò a quei Francesi aperto il suo coraggio, dolendosi del torto che li era fatto. Nel medesimo giorno visitò la chiesa di San Massimo , la quale per avventura è la più antica del Cri-stianesmo. Ivi sono innumerabili reliquie, ma chiuse in modo che la fede serve per vista. In appresso, diede un poco di volta per la città ; la quale è assai bene popolata, ricchissima di traffichi, adorna di belle dame, con un porto nobilissimo, il quale di notte tempo si serra con catene. A 3 di giugno il tempo non ne diede comodità d ingolfarci, e ne trattenne al solito ridosso di Cagastrasse. E il Generale, per ingannar in parte la noia del tempo, andò a caccia di marittimi uccelli col suo cane da acqua, ma non potè far presa. Scorse con molto suo gusto quelle Isolette francesi ; ma perchè conosceva che nei giorni estivi in un punto s’accomoda il tempo, per questo rispetto mandò il capitan Paolo Vincenzo Galiano a Marsiglia a provvedersi abondantemente di pane, e volse parimente che due gallere andassero a Marsiglia la vecchia a far acqua : avvedimento di provido capitano per goder subito del vento quando migliorasse. Dopo questo essendosene ritornato nella sua Gallera, egli chiamò a sè tutti li capitani, comiti e piloti e consiglieri; e con esso loro discorse della partenza. Nessuno voleva partire, temendo del tempo: però il Generale, confidato nella stagione e nella stracchezza de’ venti, inanimossi al — 145 ~ partire, con speranza di mutazione, la quale per appunto segui prima della sera. Così a mezz’ora di notte, col favor di una calma ragionevole, si prese il golfo. A 22 ore del giorno seguente, che fu il dì 4 di giugno, approdammo a Capo di Creo, che dà fine al monte famoso de Pirenei. Camminammo su l’alba alla volta di Palamos. Vero e che il Generale andò con feluca a Cadache, a visitare il Duca Doria e Don Melchior Borgia, ivi giunti due ore prima del giorno, avendo più tardi che noi passato il Golfo. Il Duca Doria, intesa la venuta del Generale, levatosi subitamente di letto con una pelliccia andò a riceverlo alla scala di poppa, avendo prima fatti sparare quattro pezzi d’artiglieria. Le accoglienze furono conforme al grado loro ed al parentado. Poscia licenziatosi, la Gallera capitana del Duca salutollo con le medesime cerimonie della venuta. Lo stesso ebbe da D. Melchior Borgia. Indi, passato Cadache, si scorse Roses che oltre il buon porto ha uno stagno pieno di cigni. Di più fatte 40 miglia si giunse a Palamos, luogo del Duca di Sessa, celebrato per molte cose; prima per l’abondanza straordinaria di pollarla, di pesci e d’infinite sorte d’uccellami, in appresso per li formaggi della Selva, saporitissimi e nominati per tutto il mondo, e finalmente per garofani vaghi a dismisura. A ore 16 vi arrivammo, ed il rimanente del giorno si spese in vettovaglie per Gallera, ed in garofani ancora. A mezza notte partimmo, e su l’alba de’ sei di giugno, che fu giovedì, passammo sopra San Lilio, delizioso castello e lontano da Palamos diece miglia. Fatte altre cinque miglia vedemmo Tozca, villa abbondante di buoni claretti. Dopo altre cinque miglia Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIX. 10 — 146 — fummo vicini a Blanes, luogo più grande de’ sopradetti ; indi a Canetto, lontano da Blanes quindeci miglie. Questo è un bellissimo luogo, abondante di tutto, ma specialmente di vino bianco e negro, e di ottima mal vasia. Corse di più cinque miglia, trovammo Mattaron, luogo di tremila fuochi e famosissimo per le fornaci di vetri, che tanto onorano la città di Barcellona. Vicini a Barcellona incontrammo il Duca Doria con sette Gallere , il quale per divieto della città non poteva andar avanti. Qui il nostro Generale, salutato lo stentardo Reale con una salva, prima di moschettate, poi con quattro pezzi, di nuovo salutò il Duca, e fu a visitarlo sopra la sua Gallera; dove fermatosi alquanto, dopo ambedue andorono sopra la nostra Capitana, e il Duca vi stette più di un’ ora : intanto si ebbe la licenza di entrare in porto. Il Duca con sette Gallere s’allargò due miglia da Barcellona; il resto della sua squadra, che fu di 13 vascelli con la guida di D. Melchior, capitan generale delle quattro di Denia, entrò in porto con una bella sparata. Ma più bella assai fu tenuta la nostra, ordinata dal Generale con mirabil giudicio ; di modo che li Catalani ne rimasero sodisfattissimi. Dalli moschetti della Capitana incominciossi; indi la Diana si fece sentire; poi la Vittoria, e in fine San Giorgio, con un rimbombo universale d’artiglierie straordinario. Appena giunto in Barcellona, che fu a ore 26 del medesimo giorno, il Duca d’Albucherche mando il suo secretario a visitare il Generale, e con li soliti compimenti alla Spagnola mostrò di gradir assai la sua venuta, con speranza di parole che fra quattro giorni s’ imbar-cheria. Il Generale, se ben conosceva che la gravità — 147 — Castegliana porta seco una gran tardanza, co ’l Secretario mostrò di credere quel che non credeva, ed immantinente s’ accinse per visitare il Duca. Vero è che prima di gire vi mandò il signor Doriotto Doria suo gentiluomo, acciò l’avvisasse della sua venuta; ed egli in appresso si mise in cammino per sodisfar all’obligo suo. Il Duca ebbe cara l’ambasciata, e mostrò d’aver più cara la presenza del Generale, quando s’aboccorono insieme. Il Duca gli disse : « V. S. III.'"'' sea bien venido » ; e poi si parlò sempre di V. S. Vero è che nella Corte di Spagna tanto vale il titolo di V. S. quanto in Italia V. S. 111.1"*. Baciò le mani alla Duchessa, dalla quale fu raccolto con molta cortesia, essendo ella una signora compitissima. Fatto questo compimento, il Generale tornossene alle sue maritime stanze. A’ sette di giugno, venerdì, vi furono brave rivolte per conto del Duca Doria. Il quale avendo avuto notizia che ’l Duca d’Albucherche voleva visitarlo, non consentì la dolce natura di quel gentilissimo signore che il Duca lo vincesse di cortesia; ma subito deliberò di andare in terra a baciargli le mani. E quando egli si trovò nelle case del Vice Re, la città di Barcellona comandò che si serrassero le porte, affinchè egli non potesse uscire, se prima non dava ordine alle sue gallere che entrassero nel molo a salutare la città. Questa fu la causa apparente di sì fatta novità; ma da più alta e profonda radice traeva principio. Fu opinione universale che la perdita della nave Catalana fusse mantice di questo foco. Così per questa strada la Città ebbe l’intento suo. Ed il buon Duca Doria essendo rimasto libero, appena pose il piede in gallera che uscì fuori del porto ; e il Duca d Albu- — i4§ — cherche, vago di visitarlo, venne sopra la nostra Capitana, baciò le mani (i) al Generale, e su la medesima gallera andò alla capitana del Duca Doria. Li compimenti loro furono con titoli disuguali. Albucherche, per esser grande di Spagna, ebbe « Eccellenza » e diede al Doria di « V. S. 111."“ ». E questa onoranza da pochi anni in qua suole costumarsi nella gran Corte di Spagna. Finito questo compimento, il Duca Doria indirizzò al momento il suo cammino alla volta della città di Cartagena, principio delle glorie sopra umane dell’ antico Scipione. A’ otto di giugno il Generale nel suo proponimento diliberò di girsene rimesso e senza pompa, solo co ’l marchese della Paglietta e con poca servitù, alla divozione di Monserrat, tempio lontano da Barcellona sette leghe Cattalane. Desinò primieramente a Martorello, abondevole a maraviglia di neve e di frutti ; indi giunse a Spara-ghera, villa soggetta all’abazia di Monserrat, e la quale, con fabriche infinite di panni, di molte ricchezze pompeggia. Nell’entrar dentro vi ritrovò grandissimo bisbiglio di feste, giostre e processioni, le quali alla vittoria della Concezione di Maria Vergine erano destinate. A piè della montagna poi di Monserrat vi è Corbatton, luogo che produce vini in bontà straordinarii. Quivi arrivato diede principio alla rincrescevole salita del monte, alta più di sedeci miglia (2), dove stanco alla fin fine essendo pervenuto, prima di cercar riposo, con molta umiltà nella sacrosanta capella della Beata Vergine Maria tutto divoto ritirossi; ed ivi per lo spazio di un’ora inginocchiato (1) Non materialmente: è modo cerimonioso, e sta per salutare. (2) Di cammino; vuol esser inteso per discrezione. — i49 — fece dimora. Poco appresso uscito fuori, trovò un venerando monaco, il quale per uso antico ha pensiero particolare di alloggiare li peregrini. Questi allora con tanta umiltà e cortesia raccolse il Generale, che non poteva fare di vantaggio al Principe di Spagna, per ciò che nelle più orrevoli stanze del monasterio quella notte gli diede cortesissimo albergo. A’ nove di giugno, dominica mattina, propose con devota curiosità il Generale di visitare alcuni solitarii eremitorii, li quali sopra quei dirupati sassi miracolosamente fondati sono; nobilissima vista e degna della sua pietà cristiana. Ma prima d’ entrare più avanti, non sarà per avventura disconvenevole favellare in prima della chiesa. Giace quasi in gran conca fra due montagne la chiesa di Nostra Donna, ed in quella solitudine remota rapisce in guisa gli animi devoti, che rassembra per poco agli occhi de’ riguardanti un paradiso terrestre La macchina veramente è grande, se ben piccolissima alla grandezza di Maria; la quale co ’l suo benedetto figlio in braccio nella parte principale del tempio divinamente scolpita appare. La sua cappella d’oro e di lampe d’ argento oltremodo ricca e bella risplende ; opera in fine di Filippo secondo, da lui nell’anno 1596 superbamente rinovata. Gran concorso vi è sempre di peregrini, li quali con maravigliosa carità nutriti sono per tre giorni e ristorati. Li monaci di S. Benedetto ne sono padroni, e se bene, per quanto dicono eglino, hanno a pena nove mila scudi d’entrata, con tutto ciò ne spendono altrettanti sette volte: onde convien dire che la Divina tesoriera loro aumenti le ricchezze. Fra le belle cose che mostra, il Coro tiene il primo luogo, sendo di noce — 150 — oltremodo vago e lavorato. Ha bella Libreria, un Capitol ben dipinto, un grande e nobilissimo Refettorio, e tutto il resto del Monasterio ai luoghi sopradetti corrispondente. Tiene l’Abbazìa sotto di sè 37 terre, onde (jic>) e^a manda Governatori che faccino giustizia. Sono quei o ^ monaci molto amorevoli e gentili, e con mirabil maestà dicono in venerando silenzio e voce bassa i sacrosanti officii divini. Il nostro Beatissimo Padre con liberal mano a questo divino tempio tutte le indulgenze delle sette Chiese di Roma ha conceduto, e quelle di San Gregorio per le anime de i defunti. Dalla Francia e dalla Spagna in grandissima venerazione è tenuto. E chi desideri saperne alcuna cosa di vantaggio, legga la sua santa Istoria, 00 1 00 della ‘quale publicamente tutte le librarie ne sono piene ed adorne. Su la piazza piccola della Chiesa vi è la strada che a gli Eremi conduce; la quale in vero è fuori di modo aspra e scoscesa; anzi a chi non vi è mai asceso impos- sibil pare di poterla salire. A modo di scala è fatta, poiché per arrivare al primo Eremitorio montar conviene 780 scalini per forza incavati in quei dirupi; di modo che fa ragionevole penitenza de i suoi peccati 1 anima curiosa di queste viste. Il primo Eremitorio è dedicato a Santa Croce in Jerusalem, sotto nome di Santa Elena. Il secondo a San Dimas (Disma) il buon Ladrone. Sono tredeci in numero, e nessuno eremita aver luogo vi puote, • 1! se per 20 anni continui prima non ha dato segni ai grandissima umiltà e devozione. Ciaschedun di loro ha la sua piccoletta chiesa per orare, stanza per dormire, luogo per ristorarsi e giardinetto per ricrearsi. Gli Eremiti - IJI — non possono dormir in lenzuoli, nè mangiar mai carne. È bella vista contemplarli, avendo alcuni di loro barbe nevate sino al ginocchio. 11 Generale ne visitò dui, e per dubio di soverchia stanchezza non volse veder gli a tri, eh’erano più alti sei miglia. Tornato a basso, comprò diverse cose, che sono ivi in grandissima divozione, cioè misure di seta di Nostra Donna, candele di cera con 1’imagine della Vergine, medaglie d’argento, bacoli con I’ intaglio di Monserrat, stampe in rame di quella santa montagna; e avendoli fatti benedire e toccarei imagine di Maria, stette tutta la mattina in chiesa, orando e sentendo messa. Dopo, avendo fatto un poco di colazione, diede molte doble a quei Padri, per messe, e partissi alla volta di Barcellona. Passò per Sparaghera in tempo che la processione della Madonna usciva fuori ; la quale, per esser fatta in villa, non fu da disprezzare. Vi erano molti archi, infinite tappezzerie, diversi confaloni, e molta bizzarria di soldati. E sopra gli ornamenti vi erano questi quattro versi Castigliani in lode di Maria : No cupo la culpa en Vos Virgen sancta bella y clar a; Que si culpa en Vos entrar a No pudiera caber Dios. Veduta la cerimonia, passò avanti a dormire a Mar-torello. La mattina del lunedì, che fu a’ io di giugno, ritornato in Barcellona, trovò che li marinari Spagnoli delle gallere di Denia avevano con superchieria ferito in testa doi Corsi, soldati della Diana ed il barrillaro della Vittoria. Di questo assassinamento il Generale n’ ebbe gran disgusto, e per evitare nello avanti disordini mag- — I 5 2 — giori, fece publicare un editto, che nessuno osasse partire di gallera, sotto pena di cinque anni di catena. Questo bando, se ben parve grave alli marinari, non pertanto fu accettato, tanto più in Barcellona, dove per poco li forestieri sono maltrattati ; e il Generale ciò fece dalla necessità non dal volere, avendo sempre amato la sua gente fuori di modo. E ben n’ ha dato in tutto il viaggio chiari segni ; di che ne ponno far fede le buone e grasse razioni che faceva dispensare. Egli voleva vedere ed assaggiare il tutto, pane, vino, formaggio, carne; e godeva che la sua gente rimanesse paga e sodisfatta ; e certo non s e mai veduto maggior zelo. Ora, fatta questa necessaria diligenza, fu visitato 1’ i-stesso giorno da D. Melchior Borgia; ed egli 1’ accolse con la cerimonia di quattro pezzi di artiglieria, così alla venuta come al ritorno. Venne parimente D. Maurizio, fratello del Duca d’Albucherche, il quale fu ricevuto con le stesse accoglienze. Vi giunse ancora D. Luis Bravo, ambasciatore di Venezia (intendi : a Venezia), e fu da lui accolto come sopra. Alli ii, martedì, il Generale, invitato dal Duca d’Albucherche, fu a desinar seco; e D. Maurizio con doi cocchi venne a condurlo a palazzo. Al dòpo desinare, cominciossi a trattare del viaggio, ma freddamente; e non parendo bene al Generale di riscaldarsi, in questo accomodossi al voler del Duca. E quel giorno ebbe fine con un poco di passeggio, e con la visita eh’ egli fece alla moglie del Signor Marc'Antonio Grillo. A’ 12, che fu mercordì, il Generale andò al monastero delle Monache di Sant’ Iago, nobilissimo certo e anzi unico nella Cristianità. Chi vuole entrarvi fa profes- - i53 - sione d’hidalghìa, come li cavalieri. E si consente tal volta 1 uscita dal monasterio; ed ognuna può maritarsi e vivere a quella maniera nella sua prima regola, portando il segno sopra il manto, e sopra il petto la croce di Santo Iago. S’ella resta vedova, può ben tornare nel monasterio, ma 1’ uscita allora per sempre gli è proibita. A 13, giovedì, tornò il Generale a desinare co’il Duca; il quale, per onorarlo maggiormente, la notte fece festa di Dame in palazzo, con la rapresentazione di una bellissima comedia. A’ió, venerdì, fu visitato dal Governatore di Barcellona; il quale avendo inteso che non si lasciava uscir di gallera persona veruna, pre-gollo che consentisse un poco più di libertà, stante che si erano messe guardie alle porte, in difesa della gente di gallera ; cosa non mai più sentita per lo avanti ; però la gentilezza del Generale, accompagnata dalla maestà della pompa e della livrea, allettava gli animi a dismisura. Partito il Governatore, si diede licenza a diversi soldati e marinari, per gire entro la città. Quel giorno il Generale invito 1’ Abbate di San Paolo e il Reggente Michele Sala a desinar seco, e loro diede un superbissimo convito. Su ’l tardi andò con essi in cocchio alla Chiesa maggiore, onde (sic) vide infinite reliquie pomposamente tenute; fra le quali non si può lasciar in silenzio il corpo intiero di uno de gl’innocenti, chiuso dentro un’arca d’argento, che rassembra pur allora morto, ed una custodia del Sacramento, d’oro massiccio in peso di 122. A’ 15, sabato, egli se n’andò in compagnia de’ sopradetti Signori e col marchese della Paglietta al monastero de’ Certosini, lontano due leghe di Barcellona; — 154 — il quale, se non è de’ più superbi della cristianità, senza dubbio è de’ più devoti; posto in un colle ameno e remoto, folto di arboscelli, abondante d’acqua, sotto cielo temperato. Tiene 22 monaci e 22 capelle ritirate per dir messa. La chiesa è assai comoda, e tutte le stanze hanno giardini e fontane curiose, e vaghi arboscelli di cedri e aranci. Il desinar fu assai compito di buona pescagione, di varii frutti, di ottimi vini, d’ abondanza di neve, e sopra tutto di due cibi che non posso a meno di lodare ; 1’ uno di fagioli acerbi non anco usciti dalla scorza, li quali sono più dilicati al gusto de’ piselli; l’altro di una minestra di semola fatta in maniera che sopravanza la rosata (orzata). Sopra la chiesa mezzo miglio questi monaci v’hanno una casa di ricreazione, situata in vaghissima parte. Qui sono boschetti pieni di fiere silvestre, in guisa che si prendono li conigli con grandissima agevolezza. Fra le altre curiosità che in sè rinchiude, v’ è un albero maraviglioso per la tragica rimembranza di chi 1’ adornò di fiori. Perciocché una devotissima fanciulla, essendo vanamente amata da un cavaliero, il quale fra le altre belle parti lodava il suo naso, ella, per mostrar il poco caso che faceva della sua frale bellezza, con un rasoio se lo spiccò dal volto e glielo mandò subito in dono. L’ amante, addolorato del caso, gli diè per sepolcro un giardinetto di questo monastero, il quale (1) per molto tempo produsse in abondanza certi leggiadri fiori che parevano nasi. Videsi il luogo, 1’ albero, ma non li fiori. Quei Padri però n accertarono che 1’ istoria era vera. Al ritorno in Barcellona, (1) Il giardinetto, naturalmente; ma producendo prima l’albero da ciò. - >55 - il nostro Generale, curioso, portò seco un vaso di garofani Indiani bianchi càrmesi. Sono più piccoli de nostri; ma un rametto solo ne tiene uniti più di mille. A 16, domenica, su l’alba, il Duca d’ Albucherche e la Duchessa andarono a Monserrat, lasciando speranza di presta partenza: e così, il Generale diede ordine che il giorno seguente si spalmasse. Egli udì messa in San Francesco; trattò poi co’1 secretario circa d’imbarcar la robba e le persone. Il ristretto fu di trovarsi insieme il mercordì su la poppa della Capitana, per fare li re-partimenti. In questa domenica altro non seguì che un bellissimo passeggio di cocchi di Dame alla Marina, dove anco superbamente adornato pompeggiò il nostro Generale. A’ 17, lunedì, la Capitana diede principio a sbarcar la roba, per potersi spalmare, ed il Generale fece apparecchiare un superbo desinare per goderlo in compagnia dell’ abbate di San Paolo, del reggente Sala, e della sua camerata, nel giardino di Mossen Serra; che ha una bellissima fontana, dove sono varii giuochi di acque. Però, nel volervi portare 1’ argenteria, alla porta vi fu intoppo. La colpa di ciò s’ ascrisse a Geronimo Negrotto. La maiolica bianca di Savona servì quella mattina per piata (1). Sul tardi il Generale visitò la moglie del reggente Sala, invitandola per il giovedì in compagnia d’altre Dame a barcheggiare. Ella accettò la proferta, e il Generale se ne venne a Gallera, dove, per essersi sbarcata ogni robba, armaronsi padiglioni dove ognuno ebbe albergo e cena, con buona guardia (1) Fiala, in lingua spagnuola argento. — i)6 — di squadroni Svizzeri; li quali però alterorono gli umori della Città. Quella medesima notte il Duca tornò di Monserrat. A’ 18, martedì, antivedendo col suo giudizio il Generale che Barcellona farebbe qualche novità per le guardie notturne de’ nostri soldati, per questo comandò che la soldatesca tornasse ad imbarcarsi al momento. E appena l’ordinazione fu eseguita, che da parte della Città venne un jtirato al Generale, il quale gli protestava disgusti se non toglieva dal molo i soldati. Egli sorri- o o dendo rispose che gli ordini de’ Consiglieri di Barcellona erano prima stati ubiditi che veduti. Indi fu a palazzo, e discorse a lungo della partenza co’ 1 Duca ; ma il termine per anco non si seppe. A’ 19, mercordì mattina, giunsero le due Gallere di Saoli, che avevano lasciato D. Melchior Borgia al Al-fache. Il Generale in quel giorno rese la visita al Governatore della Città ed insieme a D. Luis Bravo ambasciatore di Venezia. Tornato in Gallera, vi trovò il secretaro del Duca con la nota della robba e gente che bisognava imbarcare ; e fatto il repartimento, rimase la nota in potere del Generale. E partissi il Secretano con poco suo gusto, perciocché, avendo per fine di conculcare l’autorità della Repubblica e dare gl’ imbarchi a sno modo, il signor Gio: Vincenzo volse che il tutto passasse per sua mano. Onde al Secretario toccò dare solamente la nota, e al Generale fare li imbarchi. Fornita questa facenda, D. Pedro di Leiva, figlio del principe d’Ascoli, ed il Marchese di Settimo, vennero in Gallera a baciar le mani al Generale. Furono ricevuti con trombe; di che si dolse il Marchese di Settimo, il — 157 — quale aspettava di essere accolto con quattro pezzi di artiglieria, come Don Maurizio, stimandosi non inferiore a lui di condizione; vana pretensione e sciocca arroganza di chi, poco misurando la forza del tempo, non vedeva chiaro che le accoglienze di D. Maurizio facevansi così in grazia del fratello, come per suoi proprii meriti. A’ 20, che fu giovedì, il Generale diede a molti licenza di uscir fuori di Gallera. Onde alcuni Svizzeri, passando dalle tende de’ vetri, con quei loro bragoni alla martingalla, ne ruppero alcuni; di che nacque tal rivolta, che se non v’ era la camerata del Generale, ne seguiva un bravo bisbiglio. Riparossi al danno, e s’acquetò la questione. Verso la sera alcune Dame principali, in compagnia della moglie del Reggente Sala, vennero sopra la Capitana ; furono condotte a spasso per la Marina, dal Generale ; e nel ritorno al porto egli diede loro una merenda sì superba, che in Barcellona sarà sempre nominata. A’ 21, venerdì, il Secretario mandò al Generale alcuni biglietti d’ imbarchi per passeggeri che non erano scritti nella nota del concerto : per questo se ne tornarono indietro protestati. Parve ciò grave al Secretario, non av vezzo a praticare con Principi liberi e franchi, come quello che stimava falsamente che dal voler del Duca pendessero tutte e quattro le Gallere. Il Generale mandò al momento uno de’ suoi gentiluomini al Duca, a dargli di ciò ragguaglio, non volendo per niun partito che la Repubblica rimanesse di sotto. Perciò fu mandato di nuovo il Secretario a Gallera; il quale, spogliandosi di boria, al volere del Generale rimesse il tutto. Aggiustata questa facenda, s’ attese con gran fretta alla spedizione, / “ 158 ■orno di San e il Duca publicò la sua partenza per il S1 Gio: Battista. qUe’ dui A’ 22, sabato, il Generale spedì la causa cnver- (Y aver su sciagurati, li quali avevano avuto querela a _ fur_ chio temperato il vino: per che, essendo con ^ pena beria, come appare dal processo, condannoll* a ^ CQS^ d’ uno anno di gallera e di dui tratti di corda- ^ la sentenza, un miglio lungi dal porto, fu subito ^ A’ 23, dominica, s’attese alla imbarcazione A' r> una Dei" e della gente del Duca. E il generale ordin ^ vannr lissima luminaria, solita a farsi la vigilia di San v • • 1 ni che le Dame ma per li tristi tempi non venne a luce. Ui u derla di Barcellona sentirono disgusto, perchè per avevano coperto tutto il molo di cocchi. , A’ 24, lunedì, festa di San Gio: Battista, il fu visitato da molti Signori di Barcellona, dall ^ ^ di San Paolo, dal reggente Sala e da molti alt dopo desinare fece un ponte di legni sopra una benissimo ordinato, il quale da terra giungeva sop gallera; ed a 22 ore venne il Duca e la Duches imbarcarsi, e per quel ponte venne a Gallera con la sua compagnia. Qui s’io volessi contare con eh perbia fu ricevuto, mi fallirebbe prima il tempo ch^ ^ materia. Basta che al Re di Spagna non poteva far vantaggio. Fu salutato con tutte le artiglierie , racco con grandezze reali, e banchettato la notte imperialme E quel che non si può dire senza gran meraviglia, 1 Generale fece vedere in quell’ occasione ogni compì tezza; perciocché nel corpo d'una piccola Galera ad un tempo s’apparecchiarono sette tavole imbandite; la prima del Duca e della Duchessa ; la seconda del Generale, in - i59 — . compagnia di cui mangiavano D. Maurizio fratello del Duca, D. Giovanni suo figliuolo naturale, D. Luis di Leiva suo cugino, il figlio del Principe di Ascoli suo nepote, D. Beltram de la Cueva suo parente, e finalmente il suo Confessore, il capitano Orazio Giustiniano, il Signor Paolo Vincenzo Galiano. La terza era delle Dame più favorite; la quarta delle Dame di servizio; la quinta de’ gentiluomini del Duca, e le altre due della servitù più dozzinale. Fornita la cena, nella poppa s’armarono doi letti indorati, con padiglioni di seta lavorati d’ oro, per il Duca e per la Duchessa. Agli altri Signori e Signore fu provveduto di strapontini di damasco superbissimi ; di modo che ciascuno restò contento e sodisfatto. Prima dell’ alba del martedì fu la partenza di sei gallere , cioè quattro nostre e due di Saoli, le quali però militavano sotto il nostro stendardo. E non s’aspettò il giorno, per l’augurio infelice del martes (r). Il quale però non si potè fuggire, perocché travagliati da venti contrarii, dopo d’aver corso venti miglia, presso Matalone fu forza tornar indietro a Barcellona. Il Generale ben si trattenne buona pezza per non voltare le prue; ma il tempo tristo ebbe vittoria. Così tornati alla città, il Duca e la moglie se n’ andorno alla casa di D. Beltram de la Cueva, dove dormirono quella notte. A’ 26, che fu mercordì, su ’l tardi imbarcandosi di nuovo, a quattro ore di notte si fece vela. Ma prima di partire, il Duca e la Duchessa determinarono di passar (i) Dura ancor oggi in Liguria il proverbio: Di Venere e di Marte non si sposa e non si parte. — i6o — alla tavola del Generale, già che ’l Generale non volea mangiar con esso loro. Ed a questa maniera se la passarono sino alla fine del viaggio, con grandissima sodi-sfazione di tutti. Giunte le Gallere in Palamos alla mattina del giorno seguente, il giovedì 27 del mese, a ore 16, il Duca e la Duchessa sbarcarono in terra, andarono a riposare un poco nella casa, per non dir osteria, di Massone Genovese, dove il Generale fece portare di Gallera un superbo desinare. In tanto li scrivani comprarono un poco di vino per servigio universale. E a ore 18, essendosi tutti imbarcati, camminammo alla volta di Cadache; nel qual luogo giunti verso la mezza notte si prese risoluzione d’ingolfarci. Però la rabbia soverchia della tramontana non consentì che si passasse molto inanti ; anzi fummo costretti assai tosto ritornarcene a Cadache. A’ 28, venerdì, partimmo alla volta di Colivri, 30 miglia lontani; e perchè navigavamo contra vento, durammo fatica a giunger la sera in porto. Il 29, giorno di San Pietro, nella terra di Colivri, ognuno attese a sentir messa ; e fatta di nuovo una conveniente compra di ragionevole quantità di vino, tentossi un’altra volta il Golfo, ancorché, con poco favore di vento, il travaglio nel principio fu grande. Contuttociò tirammo inanti alla volta del capo di Alicata (o Silicataf) e di lì al monte di Seuta (Cette), di modo che dominica mattina, 30 di giugno, a 4 ore di giorno, ci ritrovammo sopra le Pomeghe di Marsiglia; e vaghi di finire il cammino, a due ore di notte si diede fondo a Tolone appresso la cava di S. Giorgio : quivi dormimmo riposatamente fino a giorno. Lunedì mattina, primo di Luglio, il Duca fu curioso — 161 — di vedere quel golfo. Così, montato sopra la feluca in compagnia del Generale, andò verso la fortezza di San Giorgio ; e dimoratovi alquanto, tornossene poscia a gallera. E drizzate le prore alla volta dell’ isole d’ Eres, con gran calma vi arrivammo assai presto. Ivi tardammo fino al tardi per far acqua : dopo, senza fermarci, tutta la notte navigando, su l’alba del martedì, 2 luglio, fummo presso l’isola di Santa Margarita, dove li monaci di S. Benedetto hanno un delizioso monastero detto Sant O-norato. Ivi, con l’aiuto d’un ponente fresco, fatta vela della borda, tirammo tanto inanzi, che, montato il capo delle Mele, dormimmo alla Lengueggia. Mercordì mattina, 3 di luglio, lasciata la Vittoria in Alassi a comprar formaggio Sardo, le altre gallere andarono alla volta di Loano, dove il Duca voleva desinare. Però li sirocchi freschi non glielo consentirono, e convenne sotto Noli ricovrare, per far un poco di colazione. La notte arrivammo in Savona a ore 23. Il Duca e la Duchessa, nel calare in terra, dal Signor Angelo Luigi Rivarola governatore furono incontrati; il quale se gli offerse con molta gentilezza. Però il Duca, se ben mostrò nelle risposte molta cortesia, tutta volta trattollo sempre di V. M. (1). Indi montati in seggia andorono alla Madonna, raccomandando caldamente il Marchese loro figlio al Generale; il quale dalla Marchesana vecchia di Garresci (2) provveduto di un bellissimo quarto del suo (1) V. M. cioè Vostra Mercede; cosi scrivono gli Spagnuoli, ma pronunziano Usted. . (2) La vecchia marchesa di Garessio era Leonora della Rovere, dei signori Vinovo, vedova nel 1578 di Alfonso Spinola, signore di Garessio, Fangliano, Pruneto, Levice, Cagna, Dego e Giusvalla e d’altri feudi fino al numero di do- II Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIX. — 162 — palagio, fece armarvi superbissimi letti per il Duca e pe^ la Duchessa, ed egli stesso nelle sue braccia vi porto il.... (i) marchesino, e lo pose nella sua cuna, de qual cosa avendo preso collera, a parer mio, Ja aia, invece di gire a questo palazzo, andò correndo alla Madonna, volendo più tosto scapricciarsi che dare ali mento al piccolo infante. Il Generale, quando non la vide comparire, conoscendo l’umore Spagnuolo, mando per le poste alcune persone verso la strada della Madonna , ed un marinaio Savonese la trovò presso la chiesa mezzo miglio, e la condusse al palagio dov’ era il bambolino. Poscia il Generale se n’ andò a cenare col Governatore, C 1 * ed appena ebbe mangiato un bocconcino , che fu c u mato fuori per ricevere il Duca, il quale ritornava dalla sua divozione. Ed avendolo condotto alle sue stanze, e postolo a tavola, stanco se ne tornò nella casa del Go vernatore, per dormire. Giovedì, 6 di luglio, li sirocchi e levanti soffiarono con tanta traversia, che non consentirono la partenza. dici. Era stata aia o governatrice dei principi di Savoia. Tornata in pa ^ Savona, viveva nel palazzo della sua famiglia, detto il palazzo di Giulio I in età assai grave, il 9 maggio del 1629. Vedi Memorie di Savona del Ve . ! rimaste inedite fino al 1891 ; nel qual anno furono pubblicate a Savona, P del Bertolotto, per cura del can. Andrea Astengo Ivi il Verzellino così l’arrivo dell’Alburquerque all’[anno 1619: « Addi 3 luglio, Don Francesco della Cueva duca d Albucherque 'enne consorte e servitù in Savona, con galere di Genova. Andò a N. S. di Mis ’ ^ e riposatosi nel palazzo del marchese Spinola, si partì poi per Genova «ddi notizia del duca d’Albuquerque recano le Memorie del Verzellino. « 1625 8 febbraio il Duca d’Albuquerche con sua consorte entrò con 5 galt-e ne p di Savona per navigar in Spagna, e per il tristo tempo e gra'.e neve sb in terra, ed alloggiarono nel palazzo di Camillo Grosso ». (1) Qui nel manoscritto era bambolino, fu cancellato subito e sostituitovi zhesino. Dio guardi se ne fosse lagnato al babbo ! - 163 — Poi la Duchessa mandò un nobilissimo regalo al Generale , di guanti, d’ambra, collane di mosco (muschio), di borse e pastiglie d’ambra, di biancherie lavorate e d’altre cose; le quali il Generale rifiutò tutte per non parere di riceverle in pago dell’ospizio. Alla fine, poi, astretto dalle preghiere della Duchessa, accettò gli odori. Quella notte tutti dormirono in gallera. E venerdì mattina, 5 di luglio, tutto che il vento fosse contrario, cam-minossi alla volta di Genova, avendo prima sbarcato il marchesino figlio del Duca, e dal proprio Generale condotto nella Vittoria, acciò il rimbombo dell’ artiglierie non lo spaventasse. Arrivati sopra Pegli, D. Juan Vives, ambasciatore, sopra la gallera Santa Maria venne a visitare il Duca d’Albucherche ; indi baciò le mani, sopra la Capitana di Saoli, a D. Luis Bravo, ambasciatore di Venezia. Giunti nel porto di Genova, dopo tutte le salve alla Città ed al Duca, il Generale disbarcò alla scaletta del Principe Doria; e nel licenziarsi non furono sazii marito e moglie di lodare ed esaltare 1’ ospizio che a proprie spese il Generale da Barcellona a Genova gli aveva fatto con tanta diversità di sontuosi apparati, che un Re di corona fare di vantaggio non avrebbe potuto. Dopo di questo, il Signor Gio: Vincenzo andò a far riverenza alli Dui Serenissimi Collegi, alli quali con una succinta orazione diede sì compito ragguaglio del suo viaggio, che lasciò della sua facondia maraviglia a quei Signori, li quali non si possono saziare di lodarlo ed inalzarlo sino al Cielo. VIAGGIO A MESSINA (i). .....festa di San Lorenzo (io agosto) in su 1 ora del desinare, entrarono dentro nel Faro, onde la corrente dell acque, in sito angusto rinchiusa, di modo s aggira e bolle che tutto dì spaventa più d’un nocchiero; quindi presero (i) Quaderno di 30 pagine, non numerate. Manca la prima carta (penso almeno che sia una sola,i; onde il quaderno doveva averne 32. Vi si narra d una fallita partecipazione di galere genovesi ad una spedizione di Emanuel Filiberto di Savoia, gran priore di Castiglia, contro i Musulmani. Ma di qual anno? L essere il quaderno cucito dopo il III, che è del 1619, mostra che il racconto è posteriore per 1’appunto al viaggio di Spagna. E il racconto di quel viaggio conchiudendosi il 5 luglio coll’arrivo dell’ Albuquerque a Genova, e il racconto di questo quaderno IV appartenendo all’ agosto, essendo tuttavia l’Imperiale capitan generale delle galere (non però tutte le stesse del viaggio antecedente) conferma che 1 impresa del Principe Filiberto fosse del 1619. 11 Guichenon (Ehi. Gènéal. etc., voi II) di Emanuel Filiberto non accenna altra impresa che quella del 1614. Il Verzellino, Memorie Savonesi voi. II pag. 175, narra di esso Filiberto, della sua venuta in Savona con 5 galee il 5 agosto 1614, e della sua partita il 7, « essendo aspettato a Messina dall’ altre galere per opporsi all armata del Turco che minacciava l’isola di Sicilia, » e s accorda col racconto del Guichenon. Vero è che nell'istesso Verzellino (pag. 183, II voi.) all’anno 1619 per 1’ appunto rivediamo il principe Filiberto. « Addì 4 novembre arrivò in Savona la padrona Reale del generalissimo principe Filiberto, restando con essa solo tre — 166 - materia i poeti di favoleggiare che dalla parte diritta la rabbia canina di Scilla sommergeva i legni, e dalla banda sinistra Cariddi famelica gli affogava. Per tutto ciò, dopo che l’Austriaco Tridente frena e sio-nore£gia cluel marl ’ ò *11 • gli arrabbiati mostri sono divenuti placidi e tranquilli. Ora, giunto il Generale presso Messina quattro miglia, seppe assai tosto che le Gallere di Malta due dì prima entrate in porto non avevano per anco la nostra dovuta precedenza dal P. Filiberto ottenuta. Perchè egli questo punto sospeso tenesse non si sa : dicono alcuni che aveva mira di non dare a nessuno delli dui stendardi la superiorità, per valersi in questa giornata così dell uno come dell altro. Ma questo disegno negli eserciti non può riu scire, però che ivi ogni grado è distinto. Altri discorrono che s’ era trattenuto per dubio che le nostre Gallere in favor loro alcuna cedola di precedenza non portassero: giudicio che avrebbe saldi fondamenti avuto, s’ ella fosse stata data come promessa. Vi fu chi disse che sino all’ ultima ora della partenza questa dichiarazione lasciasse galere in siverno (isverno) di 14 che gli fecero compagnia, essendo sbarcato il Principe a Portofino per portarsi a Torino. Passati poi 5 mesi, cioè addì aprile dell’altro anno (1620) partirono le dette galere da Savona, imbarcate le robbe e la guardia di detto principe con i suoi paggi; e calato a Finale, il principe s im barcò verso i lidi di Spagna. » E nel 1621, dall’istesso Verzellino, lo rivediamo il 5 maggio a Savona; donde 1’8 agosto ripartì per Napoli con 14 galere. Può dunque trattarsi di una impresa del 1619, ma che non ebbe grido, per non avere avuto resultati. Del resto, la data del 1619 appare in due documenti di questa impresa, i quali si leggeranno in nota alla presente narrazione; senza contare che il Casoni, ne’ suoi Annali la conferma in ogni punto, soggiungendo che l'impresa fu contro Tunisi, e fini con un vano assalto a Susa, dopo che l’armata (di 56 galere; si ridusse ai suoi porti italiani. E forse, dopo questa testimonianza, parrebbero inutili le antecedenti considerazioni, se queste non aiutassero a dimostrare che veramente l’impresa, a cui le galere genovesi non parteciparono, fu vana, e, come tale, dimenticata da storici magni e da cronisti del tempo. — 167 — sospesa, per astringere le due squadre a venire, 1 una per amore con la superiorità, e 1’ altra per forza con le minaccie. Però non cape simil pensiero nel sangue di Savoia. Molti affermano che il Principe sino al nostro avviso si trattenesse, per vedere quale delle due squadre d’arme e soldati meglio fornita comparisse, e che stimando Malta di gran lunga superiore, di secondare il genio alla fine poi diliberasse: ma questo vantaggio è molto lontano dal vero, attento che le nostre Gallere, fuori di molti gentiluomini di fiorita età, oltre li comiti, piloti e consiglieri, che sono per avventura de più avvan-taggiati della Cristianità, portavano con esso loro 500 moschettieri, tutti giovani e nelle battaglie maritime più che mezzanamente pratichi e versati, e con la giunta gagliarda delle sette compagnie Napolitane senz alcun fallo con qual si voglia potentato giostravano di paro (1). Ma torniamo al nostro cammino. Quando il nostro Generale fu presso al porto, un suo gentiluomo al Duca di Tursi mandò, per investigare 1 animo del gran 1 riore. Il Duca, tutto che co ’l suo giudicio 1 infelice riuscita di questa precedenza e luogo antivedesse, non per tanto potendo essere falso indovino (perchè gli animi de Grandi, in troppo cupa e secreta parte inabissati, malagevolmente possono penetrarsi) sollecito e zelante alla nostra Capitana volando se ne venne, e co 1 signor Gio: Vincenzo a favellare con gran secretezza si chiuse. La somma de’ loro consigli e ragionamenti non si seppe: però dagli atti esteriori poco gusto si (1) Di costa a questo e al seguente paragrafo, in margine, e scritto di pugno di Gio: Vincenzo, si legge: « Intorno alla negotiatione lo scrittore parla senza notizia del vero ». — 168 — comprese. Tutta volta le Gallere fecero con gran maesta la loro entrata. Accostaronsi prima allo stendardo Reale, più e più volte con tutta la moschetteria salutandolo, e dopo con tutto il rimbombo delle artiglierie onorandolo; e la Reale rispose con due tiri. Indi la Capitana, conforme l’uso, con tre pezzi il castello del Salvatore salutò, e poi con la fortezza della Città il medesimo compimento fece ; e n’ ebbe risposta pari. Fornita questa cerimonia, il Doria, per aspettar in palagio il Generale, di Gallera sbarcò. Intanto, ordine espresso venne dal Gran Priore che si spalmasse; infelice principio, presagio d infausto avvenimento. Per questo le Gallere andarono a porta Reale, sito assai lontano e quasi fuori del porto, ma comodo oltra modo e fresco. Era già il sole agli ultimi lidi tramontato, quando con alcuni cocchi il Signor Gio : Vincenzo fu a palagio : quivi trovò molti Signori principali, che per accompagnarlo nelle stanze del P. Filiberto erano insieme adunati. Tra questi v era il Gran Marchese di Santa Croce, della Repubblica nostra fuori di misura parziale; E). Diego Pimentel ambizioso a più potere del nostro gusto; il Duca Doria, figlio della libertà di Genova, sendo uscito di quel sangue che prima gli ha dato lo spirito e poi conservata la vita; ed infine vi si scorgevano tutti i primati della armata Cristiana, fuori di Malta, quali il nostro desiderio alla scoperta favoreggiavano. Ora qui non ispenderò parole in lodare 1’ orazione che il Generale al principe fece, essendo la sua rara eloquenza a tutti nota e manifesta: fu bene allora in sì supremo grado eccellente, che un negozio per poco disperato a qualche leggiera speranza ridusse. Indi con — 169 — segnalata comitiva di titolati, e con infiniti torchi, presa da tutti licenza, tornossene a gallera. La domenica, 11 del mese, al P. Filiberto di novo fece riverenza; e se bene con lieta e serena fronte fu ricevuto, non ebbe però lieta risposta, stante che il Gran Priore, consigliatosi per avventura con l’affetto della sua bianca Croce, in dare al nostro stendardo la debita superiorità duro e difficile trovossi. Per questo il Generale con sì fatta conclusione al suo parlare diede fine: « O V. A. mi dia il luogo, o licenza, perchè gli ordini della mia patria sono in guisa limitati, che, non avendo labanda migliore, incontanente convienimi partire. » Allora, per queste risolute ragioni, udironsi alcune voci risentite; le quali punto non isbigottirono quell’animo Imperiale, apparecchiato a spargere più tosto il proprio sangue, che lasciare contaminato il suo nome ed il decoro della Repubblica. E con questo, la lite per anco indecisa rimase. Tra questo mezzo dolevasi della nostra disventura l’armata Cristiana, essendone dinegato quel luogo che già da D. Giovanni D’Austria, poi dagli altri Generali, e finalmente da Sua Maestà per relazione di secretarii e d’ ambasciatori, n’ era stato giustamente conceduto. Ma se la fiamma del valor Genovese, che oggi dì fra le ceneri del riposo coperto posa, spandesse fuori le sue solite faville, nella scena del mondo non comparirebbe certo una contesa tanto disuguale com’ è questa, di una Repubblica signora di regni e di provincie, libera, indipendente, con un ordine di Cavalieri, nobili veramente, ma che alla fine altro non è che un convento di frati, moderno al paragone della nostra anzianità. Prima che la croce al mondo trionfasse, trionfava mill’ anni — 170 — innanzi il nostro imperio; e quando li Frati Ospitalarii servivano gl’ infermi di Gerusalemme, la potentissima armata Genovese liberava la città di Cristo: l’Asia, l’Afifrica e l’Europa per noi fanno testimonianza e fede : tante vittorie di corone ed imperii nell’ Egeo gorgo ottenute, tante isole guadagnate, tante città prese, tante armate reali disfatte, e tutto in tempo che Malta non dispiegava nel regno di Xettunno pur una bandiera : niente di meno la passione ha tanta forza in questi tempi, che fa legge della volontà. Però, mentre trascorro co ’l discorso, fra Cariddi e Scilla lascio il mio Generale, quinci dall’ amor della patria combattuto, e quindi dallo sprone di gloria stimolato. Era ben desideroso di servire S. A. massime in sì bella occasione di cristianissima giornata, da lui fuori di misura aspettata e procurata ; ma come poteva ciò fare con manifesto pregiudizio della sua Repubblica ? Cari sono gli amici, cari i protettori, e caro l'acquisto in guerra di lode; ma dove entra la carità della patria, non v’ha luogo nè rispetto di amici, nè riverenza di protettori, nè sodisfazione di proprio gusto. Fermo adunque e costante su questo pensiero, nell’ora di vespro, in compagnia del Duca Doria, che in questo importantissimo punto nè con la forza nè co '1 consiglio non l’abbandonò giammai, egli se n’andò dal Secretario Colonna (1); usò diligenza, pregò, dimandò di nuovo la sua posta, ma tutto indarno. Per lo che, veggendosi tolta ogni speranza di precedenza, tolse egli non meno ogni spe- 1 Colonna nel nostro manoscritto : Coloma nella copia d’ una sua lettera, che riferisco più sotto dai « Manoscritti Pallavictno ». E negli Annali dJ Casoni il personaggio è cliiamato ® Pedro Coloma ». - I7I - ranza di servire ; chiuse 1’ orecchie alla richiesta delle tre gallere, e poi de’ 200 rematori; non fece caso d’altri partiti, apertissimamente conoscendo che fuori della precedenza , ogni altra convenzione per la sua Repubblica era perdita manifesta. A chi nulla possiede il poco è molto ; però a chi merta il tutto il poco è nulla ; e con questo prese congedo. Fu poscia visitato da infiniti Signori, da Don Diego d’Aragona, stradico di Messina, dal Signor Giulio Montauto generai di Firenze, dal maestro di campo Ro, e da tutti li principali capitani del Duca Doria. La mattina del lunedì 12 d’ agosto, giorno memorando per l’accertata risoluzione del nostro Generale, egli con un solo gentiluomo alla Capitana di Spagna determinò d’ andare ; per ciò che. volendo ritornarsene addietro, prima di partire dal Marchese di Santa Croce voleva licenziarsi, e ad un tempo dolersi della poca stima fatta di chi molto meritava, protestando che se in quella giornata non serviva, la colpa era d’altri, non sua. Però, appena era corso avanti quattro passi, vide la Capitana di Malta a remi battuti accostarsi alla Reale, pigliarsi il nostro luogo, e ridersi della nostra pretensione. Se questo spettacolo il Signor Gio : Vincenzo affliggesse, non v’ è lingua che appieno possi raccontarlo. So ben questo, che per soverchio dolore appena si rattenne in piedi. Ora essendo in questo stato, eccoti un’altra saetta che gli trapassa il cuore. Il secretario Colonna (1) da parte (I' Nel volume 922 dei Manoscritti Pallavicino volume intitolato: Lettere larie Secolo X VII) esistente al N. 1043 della Biblioteca del Civico Archivio Genovese, ci furono fortunatamente conservate le lettere scambiate in tale occasione, che esattamente corrispondono alla narrazione del nostro Codice. Le riferisco, insieme col breve cenno che le precede : V “’72- • timatoquelle di S. A. gli scrisse che per non aver egli 5 j. aVeva dimostrazioni che in onore del nostro stendardo » pubbli ; fu da « Gio Vincenzo Imperiale era Generale delle Galee della Reper andare con essa mandato in Sicilia perchè si unisse con l’Armata Cattol^3 Pe prjDcipe FiU' essa a qualche impresa contro Infedeli, che si trattava di fore d‘l berto di Savoia o. « Al General de las Galeras de la Republica de Ge,1°'ic servir Su Alt.* me ha mandado diga a V. S. de su parte, que pl,eS fCCue \e dim^s-en està occasion, como S. M. lo tenia despuesto haviendo (stc)> c ^ ^ y. S. la tradon que se a visto, con el stendardo de la Republica, y dich^j se despo-estimation y gusto de S. M. en honrarlo y que en està conformi ' coD sodisfa" nerea en darle puesto combeniento de manera que se podesse seDu £-uera justo, tion, y viendo que la Republica no haze de esto la estimation ^Ue^enSz de la ni acendo (forse acuerdo) a obligaciones tam precisas, corno la ^ Q de sto Christianidad y servitio de S. M., manda S. A. que salga V. S. u puerto con sus Galeras sin dilacion. Dios guarde V. S. muchos annos. En Messina a 12 Agosto i^r9 Pedro Coloma »• « A Don Pedro Coloma Segretario di S. A- ■ honori che ha La mia Repubblica nel mandar qui le sue Galee aspettò quelli 0 ternpo procurato sempre meritarsi servendo prontamente al Re Cattoli'-0^ * ^lo stesso con tutte le sue forze, spendendo le proprie facultà, anzi arrischiar» sj è Stato, e si pregia che di tutte le attioni S. M., col mezzo de’ suoi m ^ qUella dichiarata soddisfatta. Non dubitò mai che le dovesse essere impe antjchi, precedenza con Malta, la quale non meno per le ragioni e per h €Se™^nevasi si-che per le risposte e promesse moderne degli stessi ministri Regi'» cjie cura; pertanto mi espedì qua con molto gusto e grandissimo zelo, nii^ Q^n\ suo ubbidissi a’ comandamenti di S. A., anteponendo questo suo f>ne a posto danno et incomodo, e questo mentre le nostre Galee fussino favorii ^ Jiora loro e non altrimenti. — S. A. non si è risoluta compiacermi, anzl ^ ^ prin-quello che m’impone. Io parto subito; prego bene V. S. ad assicurare ^ poter cipe, che sicome la mia Republica haverà dispiacere grandissimo di 1 nQn godere si gloriosa occasione in servigio di S. A., così a me pesa al V'^nservar poter di vantaggio. Alla mia Città fu necessario darmi tale ordine per ^ la riputatione et osservar la legge propria ; a me è conveniente ubbidirla p mancare al debito di buon cittadino, e sodisfare all’obbligo di buon ministr Dio guardi V. S. - Dalla Capitana di Genova li 12 Agosto 1619- Gio: Vincenzo Imperiale. - !73 - fatto, e per rifiutare quel luogo di convenevole sodisfa -cimento che gli era stato assegnato, negando in questa armata di servire al Re ed alla Cristianità, gli comanda che al momento e senza veruna dilazione esca dal porto di Messina. Ouesta fu la somma dello scritto. Del rima-nente, in favor nostro dimostrazione alcuna non si vide, nè proferta di considerazione venne in campo. A cotali parole il Signor Gio: Vincenzo rispose, che per non avere la Repubblica di Genova conseguito gli onori meritati sì per le sue buone ragioni come per gli esempi addietro, era pronto a partire, sicuro d’aver compito al debito, non meno di cavaliero che di zelantissimo cittadino, obligato a servare prima gli ordini della patria, che a servire S. A. Ciò fatto, immantinente comandò che la fanteria Napolitana sbarcasse (i); la qual cosa con tanta prestezza fu eseguita, che parve un baleno, causato solo da zelo ardentissimo di libertà. Già la Capitana con le gallere Santa Maria e San Lorenzo cominciavano a vogare, e la Vittona e San Giovanni Battista a sbrigarsi d' alcune reliquie di fanti frettolosamente attendevano, quando dal P. Filiberto venne comandamento espresso che la gente non calasse a terra. Però fu tardo l’avviso; e per questo, mentre s’ ha tempo non s’ aspetti tempo. Allora le due gallere rimaste, temendo d’esser trattenute, per seguir le compagne , nulla curarono di tagliar sarte, lasciar ferri e portar via soldati. Qui vanno mormorando alcuni che il Generale doveva in partendo di nuovo salutare lo sten- (i) Erano 500 fanti Spagnuoli che l’imperiale aveva imbarcati a Napoli, con incarico di sbarcarli in Sicilia. Cosi narra il Casoni; e di ciò si avrebbe notizia nel nostro manoscritto, se non fosse giunto a noi mutilo della prima sua pagina — 174 — dardo del Re: ma 1’amor della patria, che non consentì giammai che indegnamente servisse, nè anco il consigliò che fuori di tempo salutasse. Primieramente, essendo, si può dire, fuori del porto e lontano dalla Reale più d’ un miglio, non era obligato a questo : ma quando anco fusse stato dentro, per niun partito a far nuovo saluto non doveva più avvicinarsi ; imperocché, o non gli era reso, o correva pericolo d’essere trattenuto. Se non aveva risposta, come pure ebbe avviso, eccolo vilipeso; se era sequestrato, come avveniva, eccolo burlato. In queste occorrenze di punti d’ onore ogni dimora è tanto dannevole e pericolosa, che un attimo, un momento fa nascere intoppi di nuovi ordini, di nuovi editti, come pure assai tosto fulminarono ; li quali, per essere stati preveduti, furono anco schivati. E però ben disse quel savio, che una impresa ben cominciata, senza la scorta di forte giudizio, da un pessimo fine viene accompagnata. Oltre di ciò, non era giusto che il nostro stendardo, dal regio stendardo avvilito e calpestato, onorasse chi lo disonora, desse obbedienza a chi gli toglie 1’ opinione, s’ inchinasse a chi tanto lo declina; ma ribattendo l’offesa far chiaro e palese al mondo che li Genovesi sono liberi, non servi, signori, non vassalli. Tutti coloro che inanzi agli occhi proprii qualche inaspettato oltraggio si veggono fare, dall’ ira e dal furore spinti, sono costretti onoratamente a risentirsi; nè bisogna pensarvi troppo, perchè la soverchia considerazione ha più del timido che del prudente, e chi è coraggioso si trova sicuro: tra volontà conformi e non dissenzienti le convenevolezze sono necessarie, ma fra collere e sdegni i compimenti non v’hanno luogo; e - 175 — chi può meno sempre sta di sotto. Onde, se in quelle rivolte d’animi commossi e mal sodisfatti, il Generale avvicinandosi allo stendardo il salutava, la gloria acquistata con la partenza si perdeva nel saluto: nobilissima partenza, veramente, degna d’ un tale e tanto cavaliero ; il quale, se dalle minaccie fosse stato vinto, o dall’ interesse accecato, la nostra libertà tanto o quanto rimaneva negletta, e per poco annichilata. Quando il Generalissimo ne vide fuori del porto, rimase grave e pesato, perchè non s’imaginò già mai che nel Signor Gio: Vincenzo un sì gran core albergar potesse, che contro il suo comandamento, a giorno chiaro, in mezzo d’ una potentissima armata, intorniato da fortissimi castelli, senza far segno alcuno di riverenza ardisse di lasciare 1’ armata. Del resto, in questa occasione, ben sarebbe stato in mano di S. A. il servirsi della forza; ma, come disconvenevole al miglior sangue d’ Italia, di tutto punto 1’ aborrì. Prese perciò partito di valersi del-1’autorità reale; onde, prima di fidar le vele al vento, un editto rigoroso fece, nel quale, sotto grandissime pene alla Città comandava, che non avesse ardimento nc d’ imbarcar sete ne’ nostri legni, nè di darne soccorso di verun sostentamento, nè di lasciarne entrar in porto ; di modo che si leva il guadagno a chi lo spende solo in servizio del Re, e tolto il sostentamento a chi sostiene con tutte le sue forze la parte di Spagna, niegasi l’acqua a chi dà il sangue; e finalmente, in tempo di fiera libera e comune, è proibito il porto a quella Repubblica che in ogni occasione con sì larga mano le concede 1’ entrata de’ suoi mari. 0 tempi! o miserie! Ora, quel medesimo giorno, presso la bocca del Faro — 17 6 — l’avanzo de’ soldati Napolitani fu messo a terra. E su l’ora di vespro, con orribil fracasso di bombarde e di tuoni 1’ armata Cristiana di 58 galere a vele gonfie fece partenza, e verso levante inviossi. A’ 13 del mese, martedì, non ebbe per bene il provvido Generale di partire; e ciò per dare comodità a’ mercatanti, a fine di sbarcare quelle balle e cassette, le quali per anco non s’ erano potute distribuire e consegnare. In questo , venne a ritrovarlo il Conservatore del porto di Messina, ed insieme a ragguagliarlo da parte dello Stradico del pericolo grande in che le Gallere cadrebbono, se, per la proibizione da S. A. fatta, avessero per fine di rientrare in Messina. Sorrise il Generale, e ringraziando lo Stradico 7 o rispose che osserverebbe 1’ editto. Verso il tardi 1’ istesso Stradico al Signor Gio : Vincenzo un presente inviò, degno di chi lo mandava e di chi lo riceveva, cioè di giovenchi, vitelli, galli d'india, polli, prosciutti, un’infinità di varii casi (caci?) siciliani, quartaroli di vino, corboni di pane, molti bacili di frutte, alcune balle di neve, bellissime torchie, innumerabili candele. Il Generale a’ portatori una mancia di molti e molti pezzi da otto reali cortesemente diede; atto d’animo veramente adorno di liberalità. Perciocché non meritano titolo di liberali coloro che indifferentemente spendono e spandono dando il suo, ma ben ne sono degni quei cavalieri che opportunamente e quando conviene allargano la mano a farsi onore. Quindi volendo partire, dal provveditore gli fu detto che non v’era nè biscotto, nè ricovero veruno. Procurò per via di Messina d’ averne secretamente alcuna quantità: non vi fu luogo, perchè la tema di contravvenire - 177 ~ al bando Reale spaventava la gente. Tentò di comprar formaggio ; ma si parlava a sordi. Per questo rispetto , mercordì mattina 14 d’agosto, per far provvigione di biscotto alla città di Reggio con lettera del Duca d’Ossuna la gallera Santa Maria mandò. Quel governatore effettuò subitamente il volere del Vice Re, consentendone tutta quella quantità che in un giorno potè imbarcarsi. Tornata con recapito sì buono la gallera, il Generale su 1’ imbrunire diliberò d’ uscir fuori. Erano tre ore di notte quando le gallere passarono il Faro. Nello spuntar dell’aurora, il 15 del mese, festività di Maria divina Assunta, costeggiando la feconda Calabria videro la città di Paola, memorabile e venturosa per avere nelle sue viscere rinchiuso e dato al mondo il santissimo Francesco, de Minimi frati fondatore. Nell’ ora poi del desinare, essendo elle assai vicine alla Scalea, il Generale vi mandò la feluca a comprar remi ; però questa diligenza riuscì vana e infruttuosa, stante che per la,squadra del Doria eransi già tutti compri, e con due barche a Napoli travalicati. 11 16, verso il tardi, per la rabbia de’ ponenti ricorremmo al promontorio di Palinuro miseranda sepoltura dell’ antico piloto d’ Enea, allora che, per non partirsi nè di giorno nè di notte dal suo governo, cadde all’ improvviso in mare. Sabbato, giorno 15 di agosto, risoluto il Generale di non gire a Napoli, per dubbio di non rimanervi agevolmente inviluppato, a mezzo dì giunse a Capri, e vi fece acqua per le gallere, della quale sentivano la scarsità. Questa è quella isoletta, stanza antica di Tiberio, dove fra solitudini remote in profonde sotterranee grotte rilasciava il freno a tutte quante sorti di lascivie e di scelle- Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIX. — 178 — ratezze, che dal baratro infernale fussero già mai pullulate in terra. Qui giunto, il Generale al capitan Gregorio Ottone impose che a Napoli si trasferisse, con dar notizie delle gallere al signor Gio: Ambrogio Casella gentiluomo Genovese, perchè egli tutto il lunedì vegnente, per poterlo imbarcare, a Procida l’aspetterebbe. Il capitan Gregorio subito andò, parlò con chi doveva, e gli ordini del suo Signore compitamente eseguì. Intanto il Generale con la sua camerata diede un poco di volta per quell’isola di Capri, e se bene l’età per poco 1’ ha distrutta, per tutto ciò fra le sue ruine pur anco mostra alcuni vestigii sparsi delle auguste maraviglie di quei primi secoli di gloria; al presente una piccola città, da cui l’isola prende il nome, vi si scorge ancora, con un debile vescovato che di rendita 500 ducati gode, li quali dalla presa delle quaglie si raccolgono tutti. Partiti da quel luogo nella primiera guardia notturna, innanzi che spuntasse l’alba della domenica 18 d’agosto a Procida passammo; dove per due dì fermandosi le Gallere, di frutti e di erbaggi in ogni abbondanza si provvidero. Lunedì sera, 19 del mese, sendo venuto chi s’aspettava, assai tosto partimmo, e vogando tutta quella notte e buona parte del seguente giorno, che fu martedì 20, a Monte Circello approdammo. E non s’ andò più avanti, perchè il vento contrario no ’l consenti : ma per non perdere ivi tempo indarno, essendo quel monte boschereccio d’ alberi assai folto e spesso, le gallere per uso loro buona quantità di legna vi caricarono. Poscia nella terza guardia, con placidissima calma a scorrere la piaggia Romana si diede principio. Ed appena 1’ amorosa stella - 179 - a fiammeggiare nell’Oriente aveva cominciato, quando la sentinella alcuni legnetti di lontano scorse, che gli parvero di corsari; e facendone motto, costrinse il Generale a muovergli addosso le gallere. Però assai tosto si comprese eh’ erano fregate d’ alcuni pescatori di tonnare. Quel giorno, 21 del mese, per la traversìa del ponente non si passò Nettunno, già castello de’ Signori Colonnesi, ed ora fortezza della Camera Pontificale. Ne’ primi secoli della libertà Romana era detto Anzio da un promontorio vicino, che pur anco oggidì l’istesso nome ritiene, e perchè aveva un tempio famoso, alla Fortuna sacrato, in grande estimazione era tenuto. A’ 22, di notte tempo, nel porto di Civitavecchia si diede fondo; poi verso la mezzanotte le Gallere il loro viaggio seguirono. Ed essendo già trascorse otto ore dal seguente giorno 22, e passato a fatica il monte Argentaro contra vento, le sentinelle una galeotta di 20 banchi presso dieci miglia videro. Allora il nostro comito Reale, fatto calar le vele, a darle furiosa caccia diede gagliardo principio. Nelle prime battute di remi ebbesi qualche speranza di presa ; ma sopravvenendo la notte, le nostre allegrezze andarono in fumo, perciocché cadendo 1’ ombra la galeotta di vista si perse; e ciò con tanto sentimento del Generale, quanto si dee credere d’ un animo alla gloria nato ed all’ immortalità. A’ 23, prima di mezzogiorno, a Piombino si pervenne, in tempo che fra 1’ Elba e la Capraia cinque gallere di Biserta, e due altre fuste Africane bravamente armate, due navi combattevano. Dalle guardie di Piombino, poi dal governatore di Porto Ferraio e poi dal castellano di Porto Longone, tosto al Generale di ciò fu dato avviso. o 7 Il quale con la sua prudenza egualmente la perdita e il g — 180 — Ouadagno in quella impresa contrappesando, 1 ardenti simo suo desiderio raffrenò, tutto inteso a dare un subito assalto a quelle barbare Galeotte, per almeno liberare le due navi Cristiane, quando far di loro presa n°n aveSse potuto; perchè infine l’andar cinque Gallere assai stanche e lasse, contra sette gagliarde e fresche, era partito troppo temerario e pericoloso. Aveva ben proposto di non fermarsi in Piombino, sì per seguire terra terra il suo viaggio, come per non dare una menoma mostra di temere quei sette legni: ma perchè tutti li suoi capl~ tani, piloti, comiti e consiglieri, discorrendo giudicarono esser meglio il rimanente di quel dì lo stare che il Par' tire, egli della volontà loro contra sua voglia a se stesso fece legge. Sabbato 24, festa di San Bartolomeo, udita messa, verso Livorno dirizzammo le prore; e lentamente andando, a due ore di notte appena ci arrivammo. Ora avendo noi fuori del porto le ancore in mare gettate, in un baleno di verso tramontana turbossi in cruisa il vento, che 1 apparecchio d’una tempestosa procella annunziava, e però il Generale, al consiglio de’ piloti attendendo, fin che l’oscuro nembo trapassasse, ivi fermossi. Dopo, essendosi quel temporale in breve pioggia risoluto, inanti che venisse giorno (che fu domenica, 25 d’agosto) divenuta 1 aria serena e tranquilla, prima di nona, all’isoletta di Portovenere si giunse; e costeggiando la bella Riviera Genovese di Levante, godevamo oltre modo di vedere tra quei dirupi delle Cinque Terre pompeggiar viti, che producono il vero Nettare fra di noi. Poi sul tramontar del sole in Portofino le gallere si ridussero. Lunedì 26 del mese, a 3 ore di giorno, nel porto di Genova entrarono. — 181 — Il Generale, sendo immantinente calato in terra, a fare riverenza a Serenissimi Collegi ubidientissimo corse ; li quali, udito il racconto de’ suoi preteriti successi, fecero un decreto, anzi una memoria all’eternità del Signor Gio: Vincenzo Imperiale, lodando ed esaltando quanto con la lingua e con 1’ operare, nel progresso del suo viaggio, magnanimamente egli aveva fatto: premio degno d’un ottimo cittadino, il quale, affaticandosi per la sua patria, si sente in su ’l fine da tutti i buoni a forza lodato e celebrato. V. RELAZIONE DEL TERZO VIAGGIO FATTO DALL ILL.M° SIGNOR GlO : VINCENZO Imperiale nell’ isola di Corsica e di Sardegna in su ’l fine del suo Generalato, l’anno 1620, 19 d’aprile (i) La Serenissima Repubblica di Genova, il dì terzo d’Aprile dell’anno fruttifero di nostra salute 1620, con provvido consiglio decretò che 1’ ili."10 Signor Gio: Vincenzo Imperiale con cinque gallere rinforzate solcasse il mar Tirreno, affine di purgar la Corsica ed i paesi vicini di Corsari: onorata risoluzione, e degna di chi la fece e di chi la pose in esecuzione. Subito che il Generale ebbe di ciò avviso, procurò giusta sua forza d’ aver a dovizia tutte quelle cose che gli parvero a sì fatto cammino necessarie, perciocché uno spirito elevato si conosce principalmente ne’ consigli, ne’ dispacci e ne’ negozii; va sempre al punto, e per (1) Cosi scritto sul frontispizio del quaderno, completo, di 40 pagine; bel ca-rattere, lo stesso del quaderno I. Il signor Gian Giacomo Rossano, come si vedrà dal testo, partecipò anche a questa spedizione, coll’ufficio di « medico delle Galere d. — 184 — mezzi in nessuna maniera comuni; non ha confusione ne suoi discorsi; sottile nelle azioni, pronto ne’ partiti, e presto nel capire. Però, se bene le provvisioni a compimento furono ordinate, 1’ effetto poi non giostrò di paro con 1’ intenzione; onde il generoso cavaliero, come si suol dire, s’imbarcò senza biscotto. La qual cosa fu di notabil danno all’ impresa, stante che più volte egli si vide astretto, nelle migliori occasioni di far presa, cercar panatica per la gente. A’ 19 d’Aprile, giorno solennissimo di Pasqua, dopo d aver sodisfatto al debito di devoto Cristiano, attese a dar compimento all’ obbligo di zelantissimo patrizio. E così, accompagnato dagli ecc.m0 D. Carlo Doria Duca di Tursi e D. Carlo Cibo duca d’Iello e da infiniti altri titolati, in su ’l vespro se ne uscì dal porto. Quella sera, per aspettar la gallera Diana alcun tanto rimasta indietro, diede fondo a Portofino, dove, essendosi aspramente commosso il mare, con suo grandissimo cordoglio a fermarvisi per lo spazio di sei giorni fu costretto. Forsi il cielo con questo intoppo volle mostrar chiaro che in simil festa, giorno di resurrezione, giorno d’allegrezza, non era convenevole il far partenza. Lunedì mattina, 20 del mese, a tutti li capitani che per tempo erano venuti a corteggiarlo, sotto caldissime preghiere ordinò che fussero ogni mattina a desinar seco; dimanda che da tutti fu non solamente in parole accettata, ma con sommo gusto delle parti allegramente eseguita. Egli ne faceva tanta stima, che nelle più importanti bisogne ebbe sempre a caro il parer loro, apertamente conoscendo che per buono e saldo che sia il giudicio d’ un superiore, pur gli fa di mestieri d’aver chi 1 aiuti. — i8) - Martedì 21, veggendo nel porto alcune fregate Francesi che in Sardegna pescano a’ coralli, gl’ impose che non partissero prima di lui: prudente avviso d’ottimo capitano, sapendo che sì fatte Coralline assai sovente, trovando galeotte di Mori, procurano la grazia di quei Corsari con servire di spie, e li fanno immantinente fuggire. Mercordì, 22 ; una nave Inglese da fiero temporale trasportata, nel golfo di Rapallo si ridusse; ed appena egli lo seppe, che vi mandò la sua feluca a pigliar lingua. Il capitano di quel vascello venne alla sua presenza incontanente, dando di sè ottima sodisfazione. Fu cortesemente licenziato; perciocché tra le altre virtù del nostro Generale, l’affabilità in lui tiene principalissima parte, e la maestà che dimostra in apparenza, nelle sue parole s’ addolcisce tutta. Giovedì 23, ebbe gusto di visitare l’antico Monastero della Cervara, deliciosa Abbazia de’ Monaci neri di San Benedetto ; li quali in solitudine remota contemplando i divini misterii, levan da terra al cielo l’intelletto. Venerdì finalmente, 24 d’ aprile, festa di san Georgio, valoroso protettore della libertà Genovese, con più travaglio che calma giunse al golfo della Spezia : ma perchè il tristo tempo non era per anco sazio di tormentarlo, con più fiera tempesta di bel nuovo imperversò il mare. Sabbato 25 andossene con le Gallere a Lerice, dove imbarcò 150 moschettieri di quel paese, sotto la condotta di quel colonnello Angelo Maria Petriccioli. Domenica 26, indirizzò le prore verso il Monastero di San Venerio, abbazia di Monte Oliveto, per antico posta in quel golfo. L’abbate D. Ippolito Veneroso venne assai tosto a visitarlo, e perchè era un religioso di — 186 - buone lettere, e di santi costumi, fu sempre suo convitato ; tanta forza negli animi nostri ha la simpatia della virtù. Lunedì 27, durando tuttavia l’impedimento della navigazione, rassegnò la olente di Gallere, cioè 260 marinari e 380 moschettieri; e tutti furono in questa guisa ripartiti: 60 marinari su la Capitajia, e nell’altre gallere 50; 80 Svizzeri ebbe seco il Generale; li 150 paeselli, parte restarono su la Patrona, della quale era capitano il Signor Paolo Doria, e parte nella Gallera Santa Maria eh’ era padroneggiata dal Signor Prospero Lasagna. Sopra la Diana, comandata dal Signor Tomaso Porrata, v’ era la metà di 150 Corsi, gente forbita e valorosa sotto il comando del capitano Alfonso Gentile; 1’ altra rimase nella gallera San Lorenzo, che aveva per capitano il Signor Pier Francesco Rebuffo. La Capitana per quel viaggio solo fu comandata dal Signor Gio. Andrea Novara. Le camerate del Generale erano queste: il signor Gio. Francesco Spinola, elevatissimo ingegno, e li signori Gio. Geronimo e Gio. Francesco Imperiali, gentilissimi cavalieri. A Lerice vi s’aggiunse il capitano Marc’Antonio Pe-triccioli, il quale con molta prontezza s’offerse di servire in quella giornata per soldato avventuriero. Oltre li sopradetti, v’ era il Signor Paolo Vincenzo Galliano, provveditore delle gallere, ed il medico Gio : Giacomo Rossano, antico e parzial servitore della casa Imperiale. Martedì 28, spese il suo tempo a fornire la soldatesca di munizioni militari, li marinari di moschetti, e le gallere di molti ordigni, raccomandando a’ capitani la vigilanza, agli alfieri la diligenza, 1’ ordine a’ sargenti, a caporali delle squadre ed a’ soldati, e a’ marinari 1 obe-dienza. Diede a tutti li suoi posti ed i carichi, e mostrò — 187 — chiaro, tutto che nuovo nell’imprese, ch’egli era vecchio nel mestiere. Quanto importa aver l’intelletto benissimo coltivato e nelle più alte scienze in supremo grado raffinato ! Con questa teorica s’apprende subito ogni cosa , perocché i libri mostrano in poco tempo quel che con fatica di molti anni insegna 1’ esperienza. Mercordì 29 aprile, essendosi acquetata la marina, in su 1’ alba drizzò le prore verso mezzodì e sirocco alla volta di Capo Corso; e fatte 50 miglia lasciò a mano dritta la Gorgona, isoletta del Gran Duca, la quale in sè non tiene altra abitazione fuori che una Torre con presidio di 25 soldati; e dopo altre 40 miglia scorse a banda sinistra la Capraia, isola della nostra Repubblica, che nel giro di 18 miglia in sè chiude fecondi terreni, abondevoli di grano, ma più di vino scelto e potente , tutto che tenga il color dell’ acqua. La città di Genova vi manda un de’ suoi gentiluomini per commessario, con guardia di 150 soldati. Alla fin fine, avendo varcate altre 3C miglia, giunse verso la sera al Capo Corso, famoso per 1’ abondanza de’ vini che da per tutte le parti d’Italia e spezialmente a Roma sono celebrati. Da gran tempo in qua molti Signori, li quali traggono origine di Genova, dalle nobili famiglie de’ Mari, Negroni e Gentili, in nome di Feudo 1’ hanno sempre signoreggiato. Gira 60 miglia : dalla banda di fuori termina nel golfo di San Fiorenzo, anticamente detto Nebbio, città già famosa ed ora disfatta ; dalla banda di dentro finisce appresso a Bastia. Quella notte fermaronsi le gallere in quella punta, stando sempre senza tenda in agguato, quasi avessero il nemico alle spalle; ed il buon Generale fece tutta la notte una straordinaria veglia. — i ss — Giovedì mattina 30 di aprile, camminando alla volta di San Fiorenzo, udironsi di lontano alcuni tiri d’artiglieria; 1 per lo che stimando il Generale che quella sparata fusse alcun segno di Corsari, camminò con più forza inanti. Ed appena corse quattro miglia, quando la guardia scoperse tre legni, cioè due grossi in alto mare ed un sottile a terra presso Canari; e perchè questo, che radeva il lito, per poco pareva una fusta Barbaresca, il Generale non capendo in sè stesso di soverchia gioia, voltò le prore alla sua volta : ma giuntovi addosso, vide con suo disgusto eh’ egli era il brigantino di patron Sansone, Corso. Allora deliberò di seguitar le due navi, che a vele gonfie poggiavano verso Capo Corso. Quando le nostre galere vi si ritrovarono vicine, la gente delle navi da falsa credenza di avviso ingannata, che la nostra squadra fosse quella di Biserta, al momento nel Galleone più forte si ridusse tutta, e con vedersi ottimamente corredata s’ apprestò alla difesa. In questo, il Generale al comito Alessandro di Portovenere comandò che con la feluca a riconoscer quei vascelli n’ andasse. Il Comito, dopo avere con ogni accuratezza qualunque cosa spiato, seco alla Capitana condusse il capitano; il quale con lettere patenti diede di sè compita giustificazione, con dire eh’ egli era di Tolone, indirizzato a Napoli per tragittar mercanzie, e per servire nell’ occorrenze di guerra il Duca d’Ossuna. Così presa licenza, il Generale tor-nossene addietro per gire a San Fiorenzo, dove in su le 22 ore agiatamente pervenne. È posto il luogo di San Fiorenzo nel più intimo seno del Golfo, tre miglia distante dal capo delle Mortelle, e ben che sia nella spiaggia, è però alquanto sollevato. — 189 — Da una banda è attorniato da un certo stagno, o palude, che rende l’aria pestifera, massime di luglio, agosto e settembre, e ciò per la calda e fetida esalazione de’ fumi, li quali dalla palude pullullando ingombrano 1’ aria di maligne impressioni. Questo nome di San Fiorenzo a mio giudicio prende origine da Santa Fiore, vergine e martire, il cui santissimo corpo in quel Duomo seppellito, con miracolo evidente, ogni dì primo di maggio, quando la Chiesa celebra il suo martirio, egli manda per un buco fuori dal suo sepolcro un soavissimo e celestiale odore. Nel castello vi sono 200 soldati Italiani, co ’l suo commessario, che sempre è gentiluomo Genovese. Qui non fu salutato lo stendardo, stante che nella fortezza v’ era 1’ ill.mo Signor Camillo Moneglia, governatore del-l’Isola, il quale pretendeva il primo saluto. Quis justius hoc, princeps dijudicavit (1). Per questo rispetto, fra questi due Signori, per altro amicissimi e cari, non vi seguirono altri compimenti di qualità, fuori che di mandarsi 1’ un 1’ altro a visitare. Venerdì, primo di maggio, il Signor Gio: Vincenzo tornò verso Capo Corso, a Nonza, villa de’ Signori Gentili, bisognoso di comprar vino ; e non ve ne ritrovando , accostossi ad un altro luogo, detto l’Agoggiastro, onde ne prese a sufficienza. Quivi nell’ora del desinare il Governatore gli spedì un cavallo leggiero, con lettere in quel punto ricevute, avvisandolo che due vascelli quadri 1’ ultimo dì d’ aprile infestavano la parte di dentro del Capo Corso. Di questa nuova egli poco si mosse, te- (1) Forse era più acconcio dijudicabit, poiché la questione, nata allora allora, non poteva dal principe esser gi;\ definita. • • i lui prima nendo per fermo che fussero que’ medesimi eia • • • risposta licenziati: ringraziò bene con una gentilissima . la sera 1’amorevole diligenza del Governatore. Verso . pila villa; alterandosi la marina, fu costretto a lasciar quc jyjor e per arrivare a porto sicuro sotto la punta delle ^ ^ telle, egli passò travaglio assae. Oui venne un fig^10 capitano Gio: Agostino Lomellino, commissario ^ Fiorenzo, il quale da parte del padre fece rivere nza ^ Generale, e con molti presenti non lasciò di carez Sabbato 2 di maggio, egli tirò avanti, vago di pe venire a Calvi ; passò l’Aggriata, regione fertile ed^abo dante; poscia, varcata la Balagna, fruttifero giardino Corsica, a ore 18 entrò nel porto di Calvi, avendo fatt 40 miglia. Questo luogo ritra’ quasi alla forma quadrata, è posto sopra un promontorio che sporge in mare, dagli scogli erti e scoscesi, che non si possono scalare , • l’altra ne viene che per le tre quarte parti attorniato, per onde col terreno si congiunge, è da grosse mura cinto, e da un profondo fosso con altri ripari oltre modo forti ficato. Ben è vero che da un poggio, vicino al Convento de’ Padri Conventuali riformati, si può battere assai bene. All’ arrivo delle Gallere, lo stendardo con gran moschet teria e diversi pezzi di bombarde dalla terra fu salutato, e la nostra Capitana con due tiri gli rispose. Fatto questo, il Signor Gasparo Suarez, commissario del luogo, con gran comitiva di Calvesi venne prima a far riverenza al Generale ; poi con sontuosi regali gli diede a divedere quanto era servitore di casa Imperiale. Ed il Signor Gio: Vincenzo verso la sera con numerosa compagnia di capitani e soldati andò nel luogo, ed entrando per la porta di presidio, ove sono 150 soldati, con grande moschet- — i9i — teria e molti pezzi di bombarde fu regalmente ricevuto. Rese la visita al Commessario ; vide con diligenza quella piazza; osservò la fortezza del sito, la finezza dell’ aria, e sopra tutto la fedeltà de’ paesani. In questo porto si conturbo sì fattamente di nuovo il mare ed il tempo, che per altri cinque giorni gli fu proibito uscir fuori del porto. Dominica 3 del mese, monsignor Lomellino vescovo di Sagone, ma residente in Calvi, venne a visitarlo in Gallera; e fra varii presenti che a lui fece, gli mandò in gallera vivo un bel cignale, nobil compimento, il quale poi costrinse il Signor Gio: Vincenzo a ritornar in Calvi, per ringraziar quel reverendissimo prelato in sua casa. Lunedì 4, il tenente della Balagna co ’l suo cancelliere vennero a baciargli le mani, presentandolo di due vitelli e d’ altre galanterie. Quel dì non volse uscire di gallera, per frenar la gente, che non travalicasse con qualche eccesso, venendo (egli) mal volentieri alla sferza ; amico più tosto di spaventar con parole, che di punir con fatti. Martedì, poi, 5 di maggio, visitò il Convento de’ Cappuccini, posto in luogo eminente, assai vago e bello, e mezzo miglio dalla terra lontano. Fra le altre curiosità tiene un giardino sì fruttifero e leggiadro, che provvide sempre le Gallere d’erbaggi, d’insalate, e d’altri favori di primavera. Passato mezzogiorno, il Governatore di nuovo con un cavallo leggiero gli scrisse la continuata scorreria che li dui vascelli quadri tra Capraia e l’Elba facevano. Ma non per tanto si mosse, stimando con ragione che fussero i medesimi di prima (1). (1) Gio: Vincenzo, che ha di suo pugno sottolineato « stimando », aggiunge al paragrafo, che cadeva appunto in piè di pagina: « Anzi n’era sicuro, e conosceva l’inganno di quell’avviso, a che fine tendea ». - 192 — Mercordì, 6 del mese, impaziente dell’ indugio, tentò la partenza; ma 1’ acqua, il mare ed il vento a suo mal grado lo risospinsero in porto. Giovedì 7 cominciò 1’ aria a rasserenarsi e il mare a farsi tranquillo; di maniera che agli 8, venerdì, « che non fa mai come gli altri dì », poco prima della diana egli spuntò avanti, passò in Revelata (.Rivellata) di Calvi, ed il Gargano (is. di Gargalo) spelonca di corsari, indi varcò il golfo di Gi-ralatte, ov’ è un porto più sicuro per barchette che per gallere ; dopo, lasciatisi addietro i Capi Rossi, entrò nel golfo di Sagone, antichissima città, ma, come l’altre della Corsica, disfatta ; perciocché d’Aleria altro vestigio non si trova che la spiaggia, Meriana è distrutta, Nebbio ruinato; solo Aiazzo (Aiaccio) è stato rifatto. Alla qual città siamo tanto vicini, che, passata l’isola Sanguinara, principio del suo bellissimo golfo, vi si perviene. La città d’Aiazzo è posta di là da’ monti, nella banda di fuori, 15 miglia addentro del golfo. È di grande importanza , per la qualità del sito, per la vaghezza del luogo, per la fortezza della cittadella, dove la Repubblica mantiene un presidio di 150 soldati, e spezialmente per 1’ abondanza straordinaria d’ ogni cosa appartenente al vivere umano. Da Calvi è lontana 60 miglia lunghe a dismisura. Erano tre ore di giorno, quando entrò nel porto. La cittadella con nobilissima sparata di moschetti e bombarde onorò lo stendardo della Capitana, che con due tiri le diede risposta. 11 Signor Gio: Battista Cahz-zano, commissario, in compagnia del cancelliere e di molti signori d’Istria, subitamente venne in gallera per baciargli le mani, facendogli in appresso tanti e tanti presenti, che non si ponno annoverare. Il Generale visitò - i93 — la moglie poi del Commessario, indi la cittadella; e nell’entrar dentro rimbombò l’aria di belliche bombarde. Finalmente, veduto avendo con accuratezza il tutto, alle marittime abitazioni ritornò. La notte, crescendo alcun tanto il mare, ritirossi con le gallere alle Canne, stanza di considerazione, non meno per la sicurezza del porto che per la malvagità dell’ aria. Sabbato, 9 del mese, a ore 17, egli fece partenza; e passato capo di Muro, giunse a port’Erice, fortezza 30 miglia lontana d’Aiazzo e ben guernita d’ordigni militari. Dominica mattina, 10 di maggio, prima d’ ogni altra cosa, si volse udir la santa messa: indi alla volta di Bonifacio il cammino dirizzò; nel qual luogo a mezzo dì sarebbe pervenuto, se un vascello Francese che da Cagliari partito se ne giva in Provenza tanto 0 quanto non l’avesse trattenuto. Per questo ei gli diede la. caccia, risoluto di non lasciar per quei mari legno alcuno che da lui non fosse appieno conosciuto; tanto era vago di gloria e desideroso di far presa. A ore 21 diede fondo sotto Capo di Feno, tre miglia presso Bonifacio ; ed ivi, per tema di non esser scoperto, deliberò di non entrar per allora in quel porto. Bene spedì al momento il Provveditore al Commessario di quella fortezza a pigliar lingua, essendo quella terra comodissimo ridotto per le armate Cristiane , le quali bramano aver notizia di Mori e di fuste. Su ’l tardi ritornato il Signor Galliano senza nuova di rilievo, egli determinò quella notte di navigar a quar-tiero , per trovarsi in su 1’ alba all isola Bucinare, nascondigli di ladri, ricoveri di corsari e caverne d’assassini. Sono 16 in numero; e così picciole, che l’ultima è lon- Atti Soc. Ljo. St. Patri*. Voi. XXIX, — 194 — tana da Capo di Feno miglia 30. Chiamansi volgarmente le Bocche di Bonifacio: hanno porti sicurissimi e grandi: sono tanto vicine alla Sardegna, che sembrano per poco attaccate insieme: tengono vaghezza di prati, di fonti e di varie caccie ; ma non v’ è pur una abitazione. Lunedì mattina degli 11 egli si ritrovò allo spalinatore, chiamato per altro 1’ Isola della Maddalena, porto sicurissimo, dove le galeotte assai sovente sogliono spalmare; ed ivi fermossi alquanto all’ arbitrio di fortuna. In su 1 fine avendo senza profitto discoperto il paese, andò più avanti, cercando minutamente di punta in punta i nascondigli di quelle isolette disabitate. Era un gusto vederle ; tanti laberinti di verdi scogli, tante volte e rivolte di lidi erbosi avevano. Finalmente fermossi all’ isoletta di Villamarino, più di qualunque altra amena e graziosa. Qui fece notte. Martedì, a’ 12, volendo per tempo arrivare a Taulera, 30 miglia lontana da Villamarino, il sirocco non glielo consentì, di modo che gli convenne un’altra volta scorrer le Bucinare. Ma non fu possibile ritrovar cosa veruna ; onde questo viaggio fu poco avventuroso, tutto che bene inteso. Infine Rade volte adivien eh’a bei disegni (1). Fortuna ingiuriosa non contrasti. Non bene conveniunt, neque in una sede inorantur fortuna et virtus. Mercordì, a’ 13, veggendosi senz’acqua, fu costretto andarsene a Bonifacio, dove giunse a mezzo dì. Bonifacio, (1) Petrarca , Canzone a Cola di Rienzo, dove per altro è scritto: « Rade volte adivien eh’all’alte imprese o. - 195 — antichissima colonia de’ Genovesi, è posto sopra un sollevato promontorio rivolto a mezzogiorno nell’ ultima parte dell’isola inverso Sardegna; e vi s’entra per un canale tanto stretto, che per poco rassembra un fiume regale. Sporge quasi tutto in mare, eccetto che in una parte sola, che di grosse mura, di bastioni e di contraforti è cinta. Il canale dura poco meno d’un miglio, e finisce in un porto da balze dirupate circondato, dove il mare non ha forza veruna. Sessanta miglia è distante da Ajazzo. Qui non furono nè saluti, nè rumori di bombarde , perciocché in tempi di corseggiare quei rimbombi sono buoni messaggieri d’armate nemiche. Il Signor Alessandro Scorza, commessario del luogo, accompagnato da orrevole comitiva di Bonifacini venne a baciargli le mani, e poscia per tre fiate visitollo, con tai presenti, che in quel maggio non ne vide nessuno più superbi, nè in maggior quantità. 11 Generale ebbe gusto di veder quella fortezza, la quale è la chiave dell' Isola. Alla porta evvi un presidio di 200 soldati italiani. Bonifacio gira intorno due buone miglia, abonda di erbaggi, di frutti e di tutti altri cibi, e convenevolmente di grano e di vino. Entratovi dentro, visitò prima la signora Commessaria, appresso tutta la fortezza, che gli parve inespugnabile affatto. Fra le cose più notabili vi è un bosco dentro, foltissimo e grande più di mezzo miglio, con varie tombe di marmo antichissime e fabricate all’ uso antico Romano. Alla sera, prima di cenare, inviò diverse guardie per quelle punte, affine d’ esser ragguagliato d’ ogni minimo evento. Giovedì 14, Longo Sardo, torre di Sardigna , fece una fumata in segno di vascelli; ond’egli subito uscì — 196 — dal porto. Ed essendo nel canale fra la Corsica e ^ Sardegna, presso le Bucinare vide un legno quadro c pareva inimico; ma correndovi addosso venne assai tosto in cognizione ch’egli era Francese, partito da Palermo carico di grano per girsene in Lingua d’oca. Con questa sodisfazione convenne aver pazienza. E perche il caP1 tano di quella nave bugiardamente affermò che a au^ lera due fuste 1’ avevano combattuto, ei fu cagione che Generale, invece di ritornarsene a Bonifacio, andasse Taulera, infame ridotto di tutte le fuste che vanno vengono di Barbarla. Questo è uno scoglio altissimo , quasi penisola, che gira due miglia, arido e secco, ed su la punta di Sardegna. Non ha porto alcuno ; tuttavolta la calma del mare diede licenza alle gallere di fermarvisi quella notte e il dì seguente. Venerdì 15 del mese, in su ’l desinare, destandosi con forza un maledetto sirocco, incamminossi il Generale verso le Bucinare, e diede fondo sotto una punta chia mata Mezzo Schifo, perchè la rabbia del mare durava tuttavia. Sabbato seguente, a’ 16, dopo d aver appena corso diece miglia, fermossi a Pozzo, bonissimo riparo contra quei venti poco felici. Dominica 17 alla mattina, in quell’ora appunto che il vento faceva tregua, ricovrò a Longo Sardo, e verso la sera entrò in Bonifacio. Lunedì 18, non potendo raffermare l’impeto generoso dell’ animo suo tutto coraggioso e tutto guerriero , impaziente di riposo, deliberò di gire all’Asinara, isola che gira 25 miglia, vicina un tiro di balestra alla Sardigna e comoda stanza per tutte le fuste di Corsari ; nè lo spaventò punto in quella occasione una voce sparsa che sei gallere di Biserta di facile sarebbono all’Asinara : anzi per questo medesimo rispetto accelerò di vantaggio la partenza, vago d’azzuffarsi con esso loro. E nel partire ammalò gravemente di febbre maligna il Signor Gio: Andrea Novara, con disgusto inudito del Signor Gio: Vincenzo; il quale, in 18 giorni che durò l’infermità, in guisa lo careggiò, che pose in oblio sè medesimo per la salute dell’ amico. Aveva buona quantità di galline allevate a pane e latte; gliele diede tutte. Le conserve, per la sua bocca riserbate, restarono dell’ infermo. Gli agri di cedro, le cotognate, i canditi, gli aranci e le mele, che per lui dovevano servire, consumaronsi in beneficio dell’ ammalato. Lo scagnetto della poppa. che resta sempre il camerino secreto del Generale, allora fu stanza del capitano; eia sua propria servitù finalmente, lasciando il padrone, attendeva al servizio del febricitante. Di maniera che affermar con verità si puote, che per grazia del Cielo e del Generale egli ne ricuperasse alla fin fine la sanità. Quella giornata medesima di 18, corse fino a Castello Aragonese, eh’ è la più forte piazza di Sardegna. 11 vescovo della città, con grande compagnia di gentiluomini Sardi venne a visitarlo in Gallera; ed egli poscia alla sera, per uscir d’ obligazione, da tutte le sue camerate e da’ capitani accompagnato, gli rese compiutamente il favor ricevuto. Però quel Monsignore, leggendo nel signoril sembiante del nostro Generale una rara maestà degnissima d’ Imperio, la medesima sera, tutto che non l’avesse altra volta già mai veduto, non per tanto, in segno d’essere rimasto invaghito delle sue rare occellenze, con — 198 — bellissimi presenti di formaggio di Gallura e altre frutte Sardesche tornollo a visitare. Martedì, 19, seguendo il viaggio, poi di (aver) fatte 20 miglia, fermossi tra l’Asinara e la Sardegna, sotto la torre della Perosa. Qui l’arrabbiato libeccio gli fece ta^ guerra, che per cinque giorni fu d’uopo trattenersi con grandissima pazienza in quelle arene deserte. Intanto di nemici vascelli non se ne vide orma veruna ; nuova di momento non s’udì giammai. Valoroso cavaliero, come in questo cammino è stato, continuamente da tre potentissimi inimici (fu) perseguitato ; dal mare, dalla fortuna e dall’ invidia. Il mare non gli fu mai per due giorni interi mansueto e tranquillo; la fortuna in ogni suo pensiero gli fu sempre contraria, imperocché, quando egli era assediato alla Torre della Perosa, le fuste trattene- . • • vansi agiatamente presso le Bocche ; mentre poi si ri- • • trovava in Bonifacio, li Corsari stavano in agguato vicino a Taulera; di modo che per lui non c’ era mai stagione. L’invidia, poscia, che non fece e non disse? Ouai non sparse discordie e risse per turbar l’impresa? Gli fu scarsa dispensiera d’ ogni cosa ; in maniera che neanco ebbe palle da caricar li moschetti ; la panatica, per tre mesi di conformità pattuita, riuscì di 50 giorni. Per questo rispetto, mercordl 20, fu costretto con suo grandissimo cordoglio a scemar le razioni di gallera. Oh che dolore! oh che disgusto sentiva, di quegli innocenti soldati e marinari ! li quali in premio de’ lunghi travagli , erano pagati d’intempestivi digiuni. Giovedì 21, avendo necessità di spalmare, perocché neanco un poco di cevo (sego) gli fu concesso nella partenza, spedì con una corallina il Provveditore alla volta — i|9 — di Porto Torre, affine che da Sassari e da Larghe (Alghero) egli cavasse quella maggior quantità di biscotto, pane, vino e cevo che in quei luoghi avesse rinvenuto. Venerdì 22, fermossi in que’ scogli aridi e secchi, onde una goccia d’ acqua neppure aver si poteva. Ed uno schiavo della Capitana, mentre giva in terra per cercarne con la barile, da galantuomo tentò la fuga; però essendo assai tost opresote condotto alla presenza del Generale, egli comandò che gli fosse tagliato il naso e gli orecchi. Tutta volta poi, avvertito che sì fatto esempio potrebbe arrecar danno a’ Cristiani schiavi, egli per pietà loro dal decretato castigo s’ astenne. Sabbato 23, veggendo mitigato il tempo, passò capo di Caccia e diede fondo a Porto Conte 40 miglia distante dalla Perosa. Questo è quel porto che per lo più riceve in suo grembo tutte le navi ed altri legni che mezzo rotti, franti e disfatti si disferrano nel golfo di Lione. La medesima sera il Provveditore mandò di Larghè (Alghero) lo cevo da spalmare. Domenica 24, volendo il Generale uscir tosto da questo fatto, Dario comito reale, troppo invero superbioso, tutto che marinaro esperto, disse che simili operazioni in giorni festivi effettuati apportano talora alle gallere mesto presagio d’ infelice ritorno ; onde si dilatò la cosa al giorno seguente. Lunedì 25, s’ attese a spalmare le gallere. E per servigio del Generale una barraca armossi, dove egli si trattenne a godersi con tutti li capitani; quali a più potere ingegnavansi di rallegrarlo ; tanto più che il Signor Prospero Lasagna con un soave tenore e il Signor Gio : — 200 — Tomaso Porrata con un bassetto da camera accrescevano quel dolce passatempo. Oh come nelle dimestiche conversazioni il Signor Gio: Vincenzo appariva tutto differente da quello che nei maneggi di governo si ritrovava ! Nelle prime era tutto giubilo e tutto festa; ne’ secondi tutto considerazione e tutto prudenza. Martedì 26, egli con la Patrona e con la Diana an-dossene a Larghè (Alghero) città per avventura la più antica di Sardegna. Molte paludi e stagni che la cingono intorno, fannola d’aria poco sana e molto calda ed umida. E se bene le dame (siano) bellissime e vaghe in prima vista, pur tutto ciò che si nasconde a così degni aspetti non risponde; perocché tutte, o almeno il più di loro sono piene e smaltate di scabie imperlata. Al presente il luogo è grandemente spopolato ; anzi la maggior parte degli abitanti trae l’origine dalla gran terra d’Arassi (Alassio). Siede su la spiaggia otto miglia lontana da Porto Conte; onde bisogna stare all’erta, perciocché, non v’ essendo riparo per le gallere, ogni piccola tempesta le mette, in pericolo di perdersi. Abonda fuori modo di grano, di vino e di formaggio. Costa il grano un pezzo da otto reali il sacco; vale il vino quattro lire la mezzarola, ed il formaggio due scuti il cantaro. Il Signor Gio: Vincenzo, chiamati a sè tutti li marinari e soldati, diede loro ampia licenza d’ imbarcar grano e vino conforme il bisogno loro ; ed eglino altresì aiu-taronsi a più potere. Dicano pure li maligni checché si vogliano ; son bugiardi e maldicenti, mentre vanno mormorando che egli non diede a nessuno comodità d imbarco ; la licenza cortesemente fu concessa. Ben è vero che diversi marinari abusarono della sua cortesia , per- — 201 — ciocché per quattro tattere (i) vergognose, impedirono in guisa il servigio publico, che non fu possibile in due giorni metter in salvo la metà della roba comprata. Mercordì 25, vigilia della Santissima Ascensione, le altre due gallere addietro rimaste, per non aver potuto un giorno solo tutte insieme spalmare, vennero a Larghè. Qui non posso lasciar di dire che passeggiando il Generale per quella città, tutte le persone in guisa ammirarono la sua magnanima e reai presenza, che correvano d’ogni parte a rimirarlo. In su ’l vespro, il padron della feluca desiderando di spalmare, richiese un’ora sola di tempo; e gliene furono concedute più di tre a buona misura. Però il galantuomo se ne prese per sua cortesia altre sei di vantaggio; in maniera che essendosi a ore tre di notte partite le gallere , per due volte il Generale tornò indietro a ricercarlo. Alla fine, passate le quattr’ ore, mezzo ubbriaco e tutto carico di vino e di formaggio raggiunce le gallere. Il Signor Gio : Vincenzo, fatta prima nettar la feluca di bazzicature, ordinò che il padrone all’ uso di gallera s’ incatenasse. E se bene ogni castigo meritava per aver con sì poco rispetto vilipeso 1’obedienza d'un Generale, tutta volta con due tratti di corda pagò l’errore; tanta era la clemenza del Signor Gio: Vincenzo. Giovedì 28, festa dell’Ascensione, avendo prima udito messa, prese il cammino verso la Torre della Perosa, dove giunse a ore 23 di quella giornata. Venerdì 29, volendosene gire a Bonifacio, le tramontane noi consentirono. Sabbato 30, durando tuttavia la rabbia del vento, (i) latterei, bazzecola, bagatella, ciarpa, cosa di poco pregio. « ivi si trattenne; e perchè a Larghè non s’era presa tutta la panatica compra, convenne di nuovo mandar il Prov' veditore per terra a Sassari a far nuova provvisione. Domenica 3 1 girò l’Asinara, per non lasciarsi addietro cosa veruna intentata ; ma nulla vi ritrovò. Lunedì, primo di Giugno, inanti desinare trovossi a Porto Torre, maritima chiave di Sassari, anzi di mezza Sardegna. Tra le sue più memorande curiosità in sè tiene la chiesa antica di San Gavino, cavalier Romano, e dell Isola protettore. Il suo corpo ivi si trova intero. E perchè egli in compagnia d’ altri soldati Cristiani morì martire combattendo per la fede valorosamente contr a Mori, di tempo in tempo in quella chiesa vannosi ritro vando infiniti corpi santi, li quali con grandissima devo zione s adorano dagli Isolani. Questo porto è / 2 miglia distante da Sassari, città per avventura la più bella e più grande e più doviziosa di Sardegna. Qui venne tosto il Provveditore, il quale con mirabil diligenza in brevis simo spazio di tempo raccolse insieme bastevole provvi sione, e prima che fusse notte imbarcossi tutto alla meglio-Martedì 2 di giugno, costeggiando la Sardegna in su 1 mattino ritrovossi presso alla Torre di Vignolo, bella per 1’ amenità del paese e per la straordinaria peschiera di tonni che vi si fa. Oh che raro gusto ivi si prese il Generale, in rimirando quelle verdi e fiorite piaggie> che parevano per poco pitture di Fiandra ! Qui non palazzi, non teatri e loggie, Ma in lor vece un abete, un faggio, un pino, Tra l’erba verde e ’l bel fiume vicino (1) (1) Pet, morto a Venezia nel 1628. « Egli fu » dice il Lanzi « l’ultimo pittore dalla buona epoca, e il primo della cattiva ». Sentenza concettosa, la quale forse s’intenderà, ricordando che il Palma fece meglio finché ebbe gioventù ed emuli famosi da tenerlo desto, ma poi il mancar di questi e il correre degli anni lo fecero volgere a trascuranza e fiacchezza. — 215 - A’ 8 vidi la casa del dottor Singlitico, ove dovea alloggiarsi mio figlio , e con lui concertai il tutto. Udita messa, dimorai con quei Padri. Al dopo pranzo fui a Santa Giustina, fabrica immensa, per la grandissima chiesa, per l’amplissimo claustro, e per la campagna che possiede, quale rende ai quei Padri centomila scudi 1’ anno. Qui visitai il signor David Imperiale, ammalato (i). E lasciammo passare una orribile burrasca di pioggia e tuoni, che per due ore durò. A’ 9 di maggio, lunedì, fummo alla casa degli Accademici Dclii, ove bella sala, buone stanze, le loro Imprese, le scuole d’armi, la cavallerizza, i cocchi da maneggio, tanto coperti come sospesi, osservammo. Entrammo nel palazzo delli Lettori, detto il Bò (2), vidimo le strade e piazze più principali, e alquanti giardini di fiori, ìndi si fece esercizio a piedi per 4 miglia almeno. Francesco Maria era già andato al possesso della sua abitazione : al dopo desinare ritornò da me, e andammo in carrozza al giardino de’ semplici (3), vicino al Prato della (1) Chi sarà costui? Il vederlo a Padova, mi fa ricordare che un ramo della casata Imperiale era passato innanzi il secolo XVII nel Veneto. Appartenne a questo ramo, e fu contemporaneo di Gio: Vincenzo, quel Giovanni Imperiale, medico e letterato, che scrisse il Musaeum Historicum, dove recò notizie abbastanza esatte della condanna di Gio- Vincenzo nel 1635. Ma il nome di David, con cui s’indica l’ammalato di Padova, mi riconduce col pensiero ad un altro ramo degli Imperiali, passato innanzi il 1600 a Napoli, dove un David Imperiale, per l’appunto, acquistò il marchesato di Oria Abbiamo veduto, a questo proposito, nel Viaggio I, un marchese Imperiale, a Napoli, dolersi « per non essere smontato il sigpor Gio : Vincenzo, in arrivando, piuttosto alla casa d’ un amorevolissimo suo parente, che al monasterio de’ Teatini ». (2) L’Università; così detta per modo popolare dal nome d’una osteria, che anticamente era in que’ pressi, all insegna del Bue. (3) Orto botanico. — 2 I 6 — Valle che fa piazza a Santa Giustina. Quivi era il generai Taneto (?) sopra l’armi veneziane, che facea riforma di genti. Voltammo poi le mura di quella città, che girano 7 miglia, terrapienate ed alberate tutte a meraviglia. A’ 10 fummo a veder tanti giardini, che ci stancammo. o 7 Al dopo pranzo, quale (pranzo) ebbi dal signor Alessandro Singlitico (1) molto regalato, fummo nel giardino di Bell’ ora (?), indi a visitare il signor Canonico Belloni e a riverir la chiesa di Sant’ Antonio, molto antica, grande, ufficiata da 120 frati Franciscani. La capella del Santo è tutta di marmi intagliati a figure di rilievo con arte o o stupenda. Vidimo anco nella chiesa delle monache di Santa Sofia la . . . Beatrice Giuller (?) monaca institutrice, che benché abbia 100 anni si conserva in . . . (2). Alli 11 non mi partii di casa, sì per esser piovuto tutto questo giorno, come per essermi sentito male. Alli 12 1’istessa mia indisposizione; dimorai più in letto che altrove. Alli 13 come sopra. Vidi una signora, madre di 42 figliuoli (!). Alli 14 sentita messa, fecimo col nome del Signore la partenza desiderata. Passammo da Sant’ Antonio, ove si prese la perdonanza. Trovammo per tre o quattro miglia la strada tutta rovinata per la pioggia venuta la (1) Alessandro Singlitico, professor di diritto romano nello Studio di Padova, è ricordato da Giovanni Imperiale nelle ultime pagine del suo Musaeum Historicum, e dato come vivente all’anno 1640. « Legum si quispiam exquirat gloriam, cn Alexander Synglilicus, nobilis Cyprius, Cuiacii praeceptoris aemulus, cuius ex ore Caesarum sanctiones impolluta traditione promuntur, etc. (.2) In fine di pagina; logoro il margine, illeggibile. II senso porta a leggere « in buona sanità ». — 217 — notte e li giorni precedenti: finalmente si dimorò a certa osteria di Polesine, discosta da Padoa miglia io, ed arrivammo alla città detta di Rovigo, per mezzo la quale passa 1’ Adige. Qui alloggiammo all’ osteria del Pallone; fatte questo giorno miglia 25. Osteria pessima. Alli 15, udita messa a’Cappuccini, per strada tutta fangosa ci storpiammo la vita dalle 9 ore fino alle 15 , che giunsimo al posto di Francolino. Passammo due -acque per barca, ed altre due al dopo pranzo, che verso le 22 ore ne condusse a San Pietro in Casale. P'atte 4° miglia, cioè da Rovigo a Francolino miglia 20, da Francolino a San Pietro miglia 20. Qui si alloggiò benissimo, all’oste Rosso, con ottimi vini. Alli 16 per via bonissima partimmo alle 9 ore, ed alle 12 ci trovammo in Bologna, città grande e bella. . Andammo subito a veder messa a Nostra Signora della Vigna; passammo per la Piazza, andammo a San Domenico, tornammo all’ osteria. Li Padri Teatini di San Bartolomeo mi violentarono ad accettare il loro ospizio, quale non poteva fuggire in casa delli Signori Galeazzo e Camillo Paleotti, genero (questi) della marchesa di Fosdinovo (1); quali visitai subito. E in carrozza andai a San Michele in Bosco, ove ammirai il chiostro ottangolare, dipinto da’ primi pennelli del mondo, e vidi il corpo della Santa Catterina, che da 300 anni in qua si serba (i) Il titolo marchionale di Fosdinovo fu dei Malaspina. E qui si tratta di una signora genovese, parente di Gio: Vincenzo; D. Vittoria, di Giacomo Di Negro, maritata ad Andrea Malaspina, marchese di Fosdinovo. Da questo matrimonio nacque Lelia (14 giugno 1588) che andò poi sposa al marchese Camillo Paleotti di Bologna. Onde l’amicizia di Gio: Vincenzo coi Paleotti, e 1’ospitalità che gli offersero al Casalino, in occasione del suo bando da Genova, si spiegano colle ragioni della parentela tra gl’imperiali e i Di Negro. — 2 1 8 — intiero affatto, e sta seduto, senza appoggiarsi, e in piedi ancora. Vidimo poi il corso solito, con comitive di dame e cavalieri, di iSo carrozze. Alli 17 vidi messa alla chiesa de’ Mendicanti, ove il pubblico (ospizio) alloggiare potrà 1500 persone. Vidimo un bel giardino, ove osservai certi vasi che di sotto hanno tie spilli d’ acqua, e di sopra un arancio piantato ; e fummo 1 > in molte chiese a veder pitture del Guido Reni e eie Caraccioli (Carracci) tutte bellissime. Andai a render visita alli signori Galeazzo e Camillo Paleotti, presso del Corso. Alli 18 fummo alla Madonna, di mano di san Luca fatta. Sta nella divota dimora che è fuori di Bologna 4 1 • miglia, sopra collina bellissima, veramente devozione 1 gran stima, vedendosi quel santo viso profilato, con occhi neri grandi, naso aquilino, che si stringe il suo bambino in braccio dalla parte del core. Quelle monache si vieen dano dal monastero della città ogni anno, e sono del l’ordine Domenicano. Andammo alla Certosa, ove bellissime pitture si videro ; poi a mangiare con li signori Paleotti ; quindi a vedere le pitture in casa del signor Guido Reni (1), 1’Accademia delli Ardenti, ove sono da 28 putti nobili che si educano, e finalmente il palazzo del Legato Gaetano (leggi: Caetani) sopra la porta del quale è la gran statua di bronzo di Gregorio pontefice XIII dirimpetto alla piazza e al gran barchile, col Nettuno di marmo, che getta acqua in più spilli. Dentro sono loggie grandi, stanze infinite; e vidimo la libraria e studio, che ri) Nato a Bologna nel 1574, morto nel 1642. Certo era presente a questa visita del suo studio; ed è peccato che gli appunti dell’imperiale siano in questo luogo, come in altri, tanto sommarii. — 219 — fanno di Ulisse Aldrovandi sì celebre uomo, che ha sì gran libri da stampare che a pena da dieci persone in dieci anni si possono scrivere (i). A’ 19 si vide messa a San Francesco di Paola; si provò il cane (2) fuor della porta della città; si andò a veder San Domenico (3), ove la santa testa sua si adorò; la cantina si spasseggiò, ove 300 vasi di vino si conservano ; si andò a casa del signor Lodovico De Maestri ; ed allo studio di certo Scolare. L’ acqua ne spinse a casa. A’ 20 si vide il monastero di Nostra Signora de’ Servi; bella chiesa, spazioso convento. Ogni stanza ha statua sopra la porta, ed ornamenti di rilievo. Nella sagrestia tengono due idrie di marmo, che son le stesse che nelle nozze di Canna, in Galilea, Iddio nostro Signore be-nedì, e 1’ acqua che in loro era convertì in vino, del quale hanno ancora il colore e serbano 1’ odore. Sono ornate, lavorate con certa edera intorno, pur del medesimo marmo. A’ 21 ritornai a vedere la beata Catterina, indi il palazzo dei signori Angiolelli, ricco di certe stanze tutte bellissime, e al palazzo dei signori Campeggi, ove tra nuli) Ulisse Aldrovandi, naturalista bolognese del secolo XVI ; a detta Del Buffon il più laborioso e il più dotto di tutti i naturalisti. Lasciò un immenso numero di opere manoscritte, di cui è ricca la libreria dell’ Istituto di Bologna, intorno alla pittura, architettura, musica, poesia, antichità, storia, geografia, critica, medicina, filosofia, teologia, matematiche ed arti meccaniche. (Fan ruzzi, Vita del-l’Aldrovandi). (2) Detto in senso metaforico, per fare una passeggiata a piedi. (3) Cosi leggo in una disperata abbreviazione, fidandomi al cenno di Leandro Alberti, che a pag. 328 della sua Descriiione di tutta Italia, Venezia 1561, scrive: «... la chiesa di S. Dominico, ove giace esso santo in una sepoltura di candido marmo ... e in uno ricchissimo tabernacolo si vede il suo sacro capo ». •. L-c- - — 220 — merose stanze la sala istessa si rimira che fu abitata dal Sacro Concilio di Trento per un anno intiero, ed ivi per una volta si fece la prima sessione di quei cento santi Vescovi. Al dopo pranzo a volta, e a vedere un fabricatore di statue, fatte di creta cotta, molto belle. A’ 22 si vide una compagnia di Confratri, che con buona musica entrò dalle Ville ad appresentar la Madonna della Vite. E quivi s’ udì, nel riceverla, tutta la miglior musica di Bologna. Al dopo pranzo resi visite, e vidi correr un palio da sei Barberi de’ più scelti, ove fu grandissimo concorso di spettatori. A’ 23 udita messa a San Bartolomeo, a giorno, e da quei Padri licenziatomi, nelle 9 ore a cavallo m’inviai alle Alpi che dividono Bologna da Firenze; altissime, discoscese, e tanto sempre piene di neve, che le cime loro sono incolte, e li alberi ancora non spuntavano il verde. Quella mattina si fecero 16 miglia prima di far colazione. Riposati alquanto in Discarica l’asino, si rifecero 16 altre, tutte lunghe e pessime, finché arrivammo a Firenzuola, borgo assai grosso , ove alloggiai bene. A’ 24 nelle 9 ore a cavallo; e per salite ertissime e poi per calate dirupevoli, fatte da me a piede, nelle 13 ore arrivammo al piano, ove è la terra di Scarperia, contigua alla quale vedesi una fortezza assai vasta, benché all’antica. Di qui fatto un miglio, riposammo a certo borgo detto il Ponte. A 17 ore c’inviammo, e fatte 6 miglia ci fermammo al delizioso loco di Pratolino, che è fuori della strada ordinaria solo mezzo miglio. Quivi vidimo il Palazzo, che ha bel portico e belle logge con balaustrate all’archi superiori. Tiene 15 stanze a quel piano, ed altre 15 al pian di suolo, tutte tappezzate ed ornate di quadri bellissimi. Dalla parte superiore signoreggia un gran prato, in cima al quale siede un Gigantone di pietra, che getta acqua, e dalle bande ha 13 nicchi per ogni parte, fatti di edere, dentro ai quali sono statue di marmo. Dalla parte di sotto mira in faccia un lungo e largo viale, che dalle parti ha bosco di abeti, e al piè loro, per sostegno o base, sono muri coperti di edere e banchi di pietra, con spessi barchili dell’ istessa, che gettano acqua. Da ambe le parti, dentro al proprio bosco, sono due fontane: una esprime il Parnaso, ove sentimmo a forza d’acqua sonar un organo perfetto ; dall’ altra è Cupido, con mille giuochi d’ acqua. Ma le più belle fontane sono sotto la stessa casa, perchè vi è la grande e due altre piccole, con stanzioli contigui per bagni e per mangiamenti, il tutto fatto di pietre preziose. E quanto alle fontane, troppo lungo sarebbe il narrare gl’ innumerabili scherzi che vi fa 1’ acqua, a forza invisibile della quale si muovono più di 50 figure grandi e piccole, che in varii giri formano differenti oggetti di gusto all’ occhio spettatore. Vennero le 21 ore, e per arrivare al fine del nostro viaggio bisognò lasciar quelle delizie, ed esporci di nuovo, benché stanchi, all’offese del sole. Assai presto vidimo dalla parte sinistra la città dell’antica Fiesole, oggidì mezzo distrutta: appresso si scoprì Firenze, che in forma ornata fa vista anco di fuori assai superba. Nelle 3 ore vi fecimo la nostra entrata, e nell’ osteria della Carrozza il nostro alloggiamento ; avendo fatto anco questo giorno oltre 32 miglia, come il precedente. Perchè da Firenzuola a Scarperia son miglia 16, ed altre 16 a Firenze; e tutte pessime, per la Dio grazia. A’ 25 si celebrava la festa di San Zanobio, vescovo di questa città. Onde andammo a Santa Maria del Fiore, che è il Duomo; ove si adorò la testa del Santo. Poi si vide messa alla chiesa dell’ Annunziata, anzi nello stesso sacello che sta in fondo d’ essa chiesa, tutto cinto di balaustrate di marmo, sopra quali sono vasi d’argento che sostengono doppieri accesi. D' alto poi è una cupola tutta rischiarata di lampadi d’ argento. La devozione è grandissima. La Madonna dicesi esser fatta da mano divina, perchè mentre il Pittore devotamente si raccomandò a Dio che gli dettasse 1’ effigie che desiderava fare, si addormì e se la trovò fatta. Dopo di questa si videro i Serragli di leoni, orsi, lupi, tigri e pardi, che tiene S. A. per diporto delle sue caccie. Si stupì poi vedendo appresso la chiesa di San Lorenzo la sontuosa cappella, anzi dirò chiesa, che si sta facendo da quelle Altezze, a fine di conservarvi li corpi loro e dimostrare in perpetuo la loro potente e pia splendidezza. Sono 17 anni che il Gran Ferdinando III la cominciò, ed appena il basamento è finito ora, tutto contesto di taccolini di alabastri svariati di Sicilia, Sardigna, Corsica; di pietra di paragone, di lapislazari e di agate. \ i sono, ad og’ni rilievo di piedistalli, arme fatte d’intarsiamento di varii marmi e pietre, atte ad esprimere le inseg'ne di 1S città soggette a questo Dominio, tra mezzo le quali vedesi un orran vaso di fiori, tutto contesto del medesimo intar- o siamento. Sopra questi basamenti s’ ergono pilastri tutti lavorati alla stessa maniera, e fra loro sono nicchi, ove — 223 — andranno statue di bronzo dorate. Insomma, è la più bella e ricca cosa del mondo: e (a dimostrare) che così sia, varrà almeno, dicono, 12 milioni d’oro. Fummo indi in Piazza, ove le statue di marmo e di bronzo erette in cinque (?) luoghi rivedute, andammo in Palazzo; e nel Palazzo si vide il gran salone fatto tutto a pitture e ornato di statue. Poi nella Galleria, lunga 250 miei passi, ornata tutta di statue antiche e di ritratti. Da questa si entrò nella stanza delle guardarobbe, tutte piene di gioie e di galanterie: si vide la sala della Comedia, l’altra galleria che è dirimpetto a questa, ove sono le arazzerie e le fabriche delle pietre preziose. E in cima poi un giardino, tutto fatto sopra cassette, che nutriscono aranci; e sono queste tanto vicine, che fassene spalliera a quei muri. Vedute tutte le maraviglie del Palazzo, e stanchi ritornando a casa, incontrammo la serenissima Arciduchessa col gran Duca suo figlio in cocchio, scudferato o o dalla guardia di alabardieri e seguitato da 20 carrozze di cavalieri e dame della sua Corte. A’ 26 si andò alla santa messa nel Duomo, di ove si vide uscire in solenne processione, per accompagnare il sacrosanto Sacramento nella di lui festa, 70 compagnie di confrati, seguitati poi da tutti i conventi di frati, e questi da tutto il clero in gran numero. Veniva poscia sotto baldacchino l’arcivescovo di questa città, che in mano portava 1’ Ostia della vita. Il Serenissimo Gran Duca, e poi tutti gli ufficiali della città, nuncio ed ambasciatori, in abito solenne seguitavano; gran numero di alabardieri corteggiavano, ed infine faceva pomposa vista 1’ universa! brigata della migliore cittadinanza. Passò — 224 — questa processione per le strade più nobili ; quali e di razzi (arazzi) e di quadri, e di altre divise eransi adornate da’ particolari. Entrò nella chiesa de’ Padri Domenicani , ove l’Arcivescovo sotto baldacchino aspettolla sino al fine. Al dopo pranzo, pigliate due buone carrozze, ci partimmo da Firenze, e fatte miglia 5 s’incontrò e passò la montagna di Montelupo, che tra salita e scesa durò per 7 miglia di cammino. Fatte poi sette altre miglia, si trovò Empoli, terra assai grossa lungo le rive d’Arno. Indi si camminò tre altre miglia, e si trovò l’osteria della Stellata, sola in questa campagna; ove, per esser già quasi tre ore di notte, ci riposammo, e, senza dispogliarci, l’alba si aspettò del dì seguente. A’ 27, nelle 8 ore lasciata la Stellata, alle 13 ci trovammo in Pisa, fatte miglia 20, sempre per buona strada ed assaissimo piacevole, a mezzo la quale si trova Pon-tede~a e due altri borghi. Pisa è città bella, polita, assai grande, loco di Studio ; fra ’l suo mezzo scorre con onde argentate 1’ Arno. Ivi è la bella chiesa della religione di Santo Stefano; il Campanile di marmo, che e in atto di cascare; la porta di detta chiesa, figurata di bronzo ; il Campo Santo, che fra certe (?) ore spolpa ogni cadavero. Qui si pigliarono due carrozze alte, che ne condussero a 23 ore in Viareggio, lontano miglia 12 da Pisa, ed otto dall’ Arno, quale si valicò per terra. Giunti a Viareggio c’imbarcammo sopra un liuto di Genova, bene all’ ordine, quale ne condusse a Lerice alle 6 ore di notte. — 225 — A’ 28 nelle 7 ore partiti da Lerice, ed assai costeggiate le Cinque Terre, nelle 14 ore ci fermammo a Levanto. Qui la pioggia dirottamente venuta ne trattenne sino a 23 ore. Si navigò tutta la notte, eccetto che si fece un’ ora di posata sopra Sestri, e nelle 11 ore, con la grazia di Nostro Signore Dio e della Vergine Santissima, alli 29 mi trovai ritornato in patria. Atti Soc. l.io. St. Pathu. Voi. XXIX. VII. VIAGGIO FATTO A MILANO NEL 1623 A’ 30 DI MARZO (1) Col nome di Dio e di nostra Signora. A’ 30 di marzo del 1623 feci partenza in giovedì mattina, nell’ undici ore, da Genova, per qualche rispetti che mi obbligavano alla segretezza. Entrato in bussola mi feci portare alla mia villa di San Pier d’Arena, ove lasciati i servitori perchè cavalcassero appresso, entrato in lettica mi avanzai al cammino della Polcevera, quale si passò felicemente, non ostante l’acqua in assai lochi inondasse. Passata la Bocchetta assai vicino alli Molini (1) Relazione sommaria, in dieci pagine, di carattere abbastanza chiaro, ma di amanuense poco intelligente, mal pratico della mano di scritto del signor Gio : Vincenzo : il quale solo in due punti e in cose di poco conto ha fatto correzioni di suo pugno; un avvisai nella prima pagina, ove mutò in \ela la esse dello scriba, e un angiolo che mutò in agiuio; poi nell’ultima, dove scrisse s’incontrò invece di un garbuglio inintelligibile, e fece maiuscola la effe di Fiano che era scritta minuscola. Questi appunti hanno importanza per la cagione del viaggio, non detta, ma accennata come importante in principio. Si tratta evidentemente della gita che fece l’imperiale per un accordo con gli Spagnuoli contro gli apparecchi del Duca di Savoia ai danni della Repubblica Genovese. — 228 — # j* di Voltaggio, il mulo di dietro spaventato da alti 1 mu traversò ed uscì fuori dalla riva in parte ove il pieclPlzl° era di mezzo miglio. Si riversò la lettica, e trascinata dal mulo che nell’ aria stava appeso alle stanghe, per più della sua metà si trovava già sbalzata fuori, sopra il dirupo. Mi vidi indubitatamente morto; quando piacque alla Vergine Santissima di ascoltar la mia voce, che in' io -il il suo agiuto, onde miracolosamente si trattenne que caduta mortale. Ne sia sempre laudata, e con perpetua, memoria riverita. Alli Molini si rinfrescorno le bestie, poi si passò Voltaggio ; e sguazzati molti rami del Lemmo. che per le pioggie venute e per le nevi disfatte era gonfio assai, all’ ultimo passo nel mezzo dell acqua la lettica traboccò, non senza grandissimo pericolo di affo garsi ; onde mi trovai nel secondo pericolo. Sia laudato Dio, il danno fu solamente restar bagnato fino alla gola, tanto che giunsi a Gavi, ivi vicino, e feci notte in Ser ravalle, nell’osteria posta all’entrar della porta, da parte di essa, bonissima. Da Genova a Voltaggio sono migha 20, da Voltaggio a Serravalle miglia 10. A’ 31 presa carrozza da sei cavalli, per quanta dih genza si facesse, non si passò Voghera; tanto le strade si trovorno guaste, sfondorate e con fango fino al collo de’ cavalli. Si alloggiò all’osteria della Posta, che è da parte sinistra nell’ingresso di Voghera, e si fu ottimamente servito. Si fece solamente, questo giorno, miglia 2 1, perchè da Serravalle alla Scrivia , che si passò in barca, sono miglia 12 ; dalla Scrivia a Tortona miglia 2 ; da Tortona a Pontecurone miglia 3 ; e d’ivi a Voghera miglia 4. Al primo di aprile, nelle io ore, ripresa altra carrozza di sei cavalli, con bonissimi carrozzieri, sempre conti- — 229 — nuando pessime le strade, si ritrovò Schiatezzi (Casteggio), poi Broni, indi la Stradella, tutti lochi di Sua Maestà; Castel San Giovanni, terra de’ Signori Sforza, dove si fece colazione, che erano già le 21. Si passorno molte colline, più sopra barca la Trebbia, e a lei vicino un miglio si trovò Piacenza, ove alloggiai in casa del Signor Bernardo Morando, e quivi mi abbracciai con mio figlio, che fu lo scopo del presente mio viaggio (1). Da Voghera a Broni sono miglia 12; da Broni a Castel San Giovanni miglia 8; da qui a Piacenza miglia 12. A’ 2 si udirono la messa e la predica del Padre D. Felice Maggiolo, nella chiesa di San Vincenzo, de’ Teatini: al dopo pranzo si andò fuori della città in carrozza, verso 1’ ospitale di San Lazzaro, ove fu il concorso di tutta Piacenza. Il giorno era bello, e bellissima la vista, in quelle pianure, di tante carrozze ; nè altro poi visitai, per scrivere a Genova. A’ 3 si vide la chiesa di San Sisto, bellissima, officiata da Benedettini. Han molte (migliaia) di scudi d’ entrata. Si andò a’ Teatini, ove si fece notte. A’ 4 si udì la predica de’ Teatini, e si andò alla sera alla Madonna di Campagna, ove sono frati Zoccolanti ; chiesa di molta devozione. A’ 5 si vide la chiesa di S. Gio: Laterano, grandissima, de’ Canonici Regolari che chiamansi di S. Agostino (2). Alla sera si andò alla Rocca del Po (3). (1) Sarà vero? È in contrasto colla dichiarazione delle prime linee. Del resto ha proseguito per Milano, e ha molto confabulato laggiù col duca di Feria. (2) 0 Rocchettini, che torna lo stesso? Nel manoscritto, di amanuense mal pratico, si legge: « Canonici R.Ji che casmine di S. Relentorno » (3J Cosi è scritto; ma forse dovrà leggersi « alla riva del Po ». A’ 6 alla predica, e a volteggiare a San Sepolcro, chiesa dei Padri Olivetani ; bella, con grandissimo convento. A’ 7 si fu a Nostra Signora di Campagna, ove si udirono musiche. A’ 8 nelle io ore partiti da Piacenza in carrozza, si passò il Po, e camminando strade assai fangose si arrivò a Lodi verso le 17 ore. Si desinò all’osteria di fuori col Gambo di ferro (?) che trattò bene assai. Nelle 18 ri-pigliossi il viaggio, sempre accompagnato da pioggia minuta. Si passò per Marignano, e fatte cinque miglia si entrò in Milano al fine delle 22 ore. Da Piacenza a Lodi sono miglia 24, e 20 da Lodi a Milano. Ma queste paiono più brevi, per esser la strada migliore, e sempre fra campagne bellissime. In Milano smontai alli Tre Re; poi mi alloggiai con li Padri di San Marco, agostiniani , che d’ appartamento nobilissimo mi regalarono. A’ 9, domenica, si udì il Passio, nella chiesa di San Marco, bella e grande assai. Dopo desinare si visitò il Duca di Feria, che con mille favori mi tenne seco tre ore. Si andò a San Carlo, e nel Duomo si videro le processioni delle 40 ore, che con molta luminaria si facevano quella sera in quella chiesa. Poi si andò alla perdonanza in Santa Maria della Fontana, ove tutto il Corso con tutto il concorso della nobiltà si rimirò. Piovve tutta notte, e quasi tutto il giorno. A’ 10 fui a veder le botteghe, e a veder il Procaccino. Ebbi molte visite. Corteggiai il Duca di Feria, e seco andai alle stazioni del Duomo. A’ 11 venne tanto diluvio d’ acqua, che non — 23 I — uscii, eccetto alla messa. Visitai don V. Pimentello e.... (i). A’ 12 (passata) tutta la mattina scrivendo a Genova ; il dopo desinare in udire li uffizi al monastero della Passione, grandissima e bellissima chiesa dei Padri Ca-misiotti. Si udì musica maravigliosa. A’ 13, alla mattina, che era il Giovedì santo, si sentirono gfli uffizi nella medesima chiesa di San Marco. Alla sera in San Simpliciano, monasterio di Benedettine, con musica grande. Si andò poi in Crea (o Brea, per Brera ?) per vedere un bel Sepolcro ; poi a visitar San Carlo, indi (a vederj passare la Casaccia dei Genovesi. A’ 14 si udirono gli uffizi alla mattina a San Marco, alla sera alla Passione. A’ 15 parimente si dimorò la mattina in San Marco. Al dopo pranzo andai al Duomo, alle botteghe, a casa del Secretario Piccia Ecc.a (Pimentel?) , ed alla Pace, monastero alle mura della citta, dei Padri Zoccolanti, ove stetti col Duca di Feria fino alle 2. A’ 16, Pasqua, al Duomo; al dopo pranzo ebbi visite, ed andai al corso di Sant Angelo, che fu bellissimo, benché da tuoni e pioggia alquanto interi otto. A’ 17 fui visitato dal Principe Landi, dal Principe Trivulzio e da molti altri. Andai a visitar S. E. che in quella mattina ebbe conforme al solito le visite di tutti i maestrati e nobili della citta. Poi fui a Santa Margarita ad udir messa, con musica ricca di quelle monache. Indi a San Pietro, in casa dei Signori Caravaggi. Poi fui (1) Qui due tratti di penna, che non voglion dir nulla. L’amanuense non avra capito nel manoscritto del signor Gio: Vincenzo, e avrà lasciato a lui la cura (che questi non prese) di colmar la lacuna. — 232 — a veder le pitture del signor Scipione Toso, che di un suo quadretto mi regalò ; poi al Corso, molto numeroso, ma per la pioggia poco ordinato. 18. a veder messa a San Carlo; a visitar il Duca ed altri Signori; indi a casa; poi a scrivere a Genova, non avendo la pioggia, dirottamente continua in quel giorno, lasciato andar a torno persone. 19. Diluviando continuamente, non uscii, eccetto al dopo pranzo, ove col signor Caravaggi fummo a veder pitture, in casa di Leone Aretino, del signor Ottavio 7 o Arduino, signor Camillo, signor Carlino, Cesare Procaccino (1). 20. A casa del Principe Trivulzio: alla Madonna di San Celso a messa, alle Monache di San Paulo. Alla sera al Corso di Sant’Ambrogio; andammo verso le Tenaglie vecchie del Castello. 21. Col nome di Dio, Maria e San Carlo, ripartimmo da Milano. E se ben dentro di carrozza da sei cavalli, si durò viaggio di sette ore per arrivare a Pavia; tanto le strade erano guaste. Da Milano a Binasco sono miglia 10, ed altre 10 a Pavia, ove si alloggiò alla Posta. Fu stanza regalatissima. 22. Per le pessime strade lasciata la carrozza, e presi cavalli, si fecero cinque miglia di buona strada, benché (1) Vediamo di cavar qualche cosa da questo guazzabuglio. Siamo tra pittori, i cui nomi trascrive un amanuense mal pratico, non intendendo quelli, nè altro. L « in casa » è certo il primo errore di questo passo disperatissimo; ma non c è rimedio di congetture. Forse nel a Leone Aretino » che segue, si nasconde un Leonardo da Vinci Da «Ottavio» non si può cavar nulla; ma «Arduino» può essere il Luino. Quanto ai signori che vengono ultimi, Camillo, Carlino e Cesare, son tutti della famiglia pittorica dei Procaccini, viventi ed operanti per 1 appunto in Milano, nell’anno 1623 a cui si riferisce il racconto. - 233 — fangosa, e poi si trovò il Po, che si passò sopra la solita barca. Bisognò fuggire la Pancarana; per essere le strade ruinose, si pigliorno le vie trasversali verso la mattina, ma per tutto tanto ruinate che appena si passò Voghera e si dovè fare queste 15 miglia in più di cinque grosse ore. Finalmente giunti ed alloggiati alla Posta, fui visitato, e invitato a pranzo da D. Ercole Gonzaga. Poi ripigliata carrozza da sei ; e nelle 16 ore di cammino, benché lo stesso fosse pessimo, ci condussimo a Serravalle ad un’ ora di notte. Si alloggiò alla Posta per necessità; vigliacchissimo albergo. 23. Si udì messa a Sant’Agostino. Si presero cavalli. Per la strada s’incontrò il Duca di Fiano, che andava a Milano per la restituzione della Valtellina. Si giunse a 16 ore a Voltaggio. Alle 19 desinati partimmo, ed alle 23 arrivammo a San Pier d’Arena, dopo aver passata mille volte la Polcevera grossissima, con buona pioggia che veniva, che sia laudato Dio e Nostra Signora Santissima. Del tutto qui mi riposai nella mia villa; e qui dò fine alla mia relazione. Vili. VIAGGIO FATTO A NAPOLI VERSO IL PRIMO DEL 1628 (1) Col nome di Dio e di nostra Signora Santissima Si fece partenza dalla spiaggia di San Pier d’Arena il giorno ultimo del 1627, a ore 12. Imbarcati sopra due filuche, e con alquanto vento di terra nel principio, poi con bonaccie, si giunse verso le 23 ore in Sestri, fatte da Genova miglia 30. Ivi si alloggiò regalatamente in casa del Signor Nicolò Doria, di cui si spasseggiarono i bei poderi, intanto che si facesse notte e cena. Sabbato, giorno primo dell’anno, assai per tempo fatta levata ; ma consumatone una parte nello scrivere a’ nostri, si vide la Santa messa ; indi presa licenza e benedizione da monsignor Spinola vescovo di Brignato (Brugnato), si indirizzò il cammino a Lerice; ma nel mezzo giorno fu necessario ritirarsi in Levanto, ostandoci il levante. Fummo bene accolti in casa delli Serra; (1) Relazione sommaria di n pagine. Solo il titolo è di mano del signor Gio: Vincenzo, e qualche correzione qua e là, sul manoscritto di un discreto amanuense. — 2 j6 — si visitarono tutte quelle chiese, che in quella solennità erano popolate. Fattosi in questa mezza giornata solamente miglia 15. Domenica, udita la santa messa nel monastero di San Francesco di Paola, godendo un buon vento e una felice veduta delle Cinque Terre, anzi un ottimo amabile (1) che da quelle si pigliò (oltre il donatomi dal cap. Cesare Durante) giunsimo assai per tempo alle bocche di Portovenere. Si vagheggiò la solita, ma stupenda vaghezza del golfo della Spezia; indi si arrivò in Lerice, fatte da Levanto miglia 20. Qui si stette alloggiati dal capitano Marcantonio Petriccioli, alla musica dei cani e d’altre bestie, che non possono quietare in questo mondo nè in l’altro; ma con l’armonia del nostro Michelangelo, atto col suo violino a raddolcire ogni amaro, e con la dolcezza di buoni fiaschi di vino presentatoci, si passò tempo. Lunedì, a’ 3 di gennaro, si fece partenza nelle 8 ore. Assai presto si cominciò a trovare la tramontana della Magra e a sentire il freddo di quelle annevicate montagne della Lunigiana. Si lasciò Viareggio assai per tempo, e si giunse in Livorno verso le 21. Fatte questo giorno miglia 60. Qui si aspettò un pezzo alla porta della Darsina il custode delle bullette, provandosi in ogni parte del mondo i mancamenti delli ministri venali, avvegnaché servano a padroni valorosi. Si osservarono le grandezze di questo (1) « Amabile » è qui sostantivo, per indicare una qualità di vino delle Cinque Terre. Strano, e piacevole ad un tempo, veder ricorrere le Cinque Terre in quasi tutti questi viaggi. I nostri antichi, di certo, non impacciandosi affatto coi vini forestieri, gradivano molto il fiasco paesano. — 237 — luogo, benché non grande, ma nuovo, forte, e vago, 1 01 dine di quel che si appartiene al negozio delle navi, e al mantenimento delle galee. Si albergò ad una tale osteria mezzo Spagnola, altrettanto Francese, e in tutto finalmente Genovese. Martedì, 4, nelle ore 15, veduta messa e da Livorno incamminatici a Piombino, vi si arrivò nelle tre di notte; e però si dormì in feluca, non essendo parso al signor D. Francesco Foda, misero caporale in quella infelice guardia di Spagnoli, di consentir l’ingresso di quella sontuosa piazza, a chi andava per grazia Dio a’ servizi del Re (1); e piuttosto che cedere al puntiglio, si dimenticò l’interesse della mancia; caso forse non mai più venuto a luce. In questo giorno si sono fatte miglia 60. Mercoledì, pur nelle 15, presi alcuni rinfreschi, e presa umilissimamente licenza da’ superiori (superiori però di quelle capre) e sempre con buon tempo navigando, si pervenne a Castiglione, ove il fermarsi fu posto in consulta: ma l’infelicità di quell’angustissimo albergo, l’ora ancora al viaggiare opportuna, e la necessità di avanzar cammino, ne spinsero fino a porto Santo Stefano, non però prima delle sei di notte ; massime essendoci per due volte impantanati nelle seccagne che il fiume di Grosseto forma d’ogni intorno. Qui si occupò quasi tutto il luogo, benché appena una stanza sola racchiudesse tutta la nostra camerata. Pur vi si trovò buona volontà. Da Piombino a Porto Santo Stefano, si sono fatte, a quel che dicono (se ben misurate a passo di gigante) miglia 60. (1) Viaggio politico, adunque, e per qualche segreto accordo della Repubblica genovese col re di Spagna. - 238 - Giovedì, 6, appena si arrivò a Porto Ercole ; tanto si faticò nel valicare Monte Argentaro, per essersi armato gagliardamente contrario a noi il sirocco, indi il libeccio, che ne fece ringraziar Dio, quando ci trovammo opportunamente in porto, anzi miracolosamente in salvo. Fatte miglia 15. Qui invano si ricercò la messa, benché a pena {ussero ore 12. Si alloggiò fuori di quella piccola terra, se bene assai guarnita di forti. La mia stanza fu tanto qualificata, che aveva comune la cucina, la cantina e il tinello, se pur 1’ orrido fumo, fattosi qui mio compagno, mi lasciò ben osservare il vero. E pur in questo purgatorio fummo condannati a pianger tre giorni e tre notti, sinché saputa dal Signor Lelio Grillo, affittatore di Orbitello, la nostra miseria, e subito trasfertosi al nostro abituro, con regali compiti di viveri, ne alloggio in una casa delle più comode di questo loco, che ne fu forza godere fino alli 11 del mese, assediati dai libecci, e tempi fortunevoli in terra ed in mare. In questi cinque giorni altro non accade raccontare che ne sia occorso, eccetto la necessità di aver sicura pazienza, e l’essere stato un giorno a vedere Orbitello, per tre miglia discosto da Porto Ercole, fra terra, posto in un gran lago ; borgo assai grande dal Re Cattolico dimandato città. Quel Governatore del loco ed altri ne fecero mille accoglienze. Martedì mattina, che fu alli 11, nelle 14 ore imbar-cossi, e sempre da un serenissimo maestrale favoriti, costeggiando la spiaggia Romana, trovammo, lontano da Port’Ercole venti miglia, Montalto. Lunge 10 altre miglia da Montalto, si trovò Corneto. Fatte altre 10 miglia Civita Vecchia. E si terminò per questogiorno il nostro cammino in Santa Severa, discosta 10 miglia da Civita - 239 — Vecchia. Fatte questo giorno bone e molto lunghe miglia 5°- Qui appena è un poco di Torrione, una chiesuola ed una osteria, ove potrebbe alloggiare un paio di conventi di frati. Mercoledì a’ 12, nelle 12 ore, imbarcati con bonaccia grande e poco vento, fatte 10 miglia si trovò Palo, ove una vecchia Torrionessa fa porta a quattro case. Fatte poi miglia 20 si arrivò a Fiumicino, ove nel mezzo di lunga palificata sbocca il Tebro. Indi ostinatamente vogando sino alle 3 di notte, si pervenne in Nettuno. Fatte questo giorno miglia 70. Si ricoverò fuori della terra in una tale osteria, della quale per tempissimo si uscì, e si andò ad alloggiare ad un palazzo del Cardinal Cesi, separato da Nettuno due miglia; essendosi turbato cotanto il mare, che a pensare al viaggio non era luogo, e il fermarsi a Nettuno era di troppa soggezione a chi bramò fuggir visita col Cardinale Borghese, ivi pervenuto da Roma il giorno avanti. Giovedì mattina, dunque, altro non si fece che salvarsi nel detto palazzino, ove si dimorò assai piacevolmente tutto il giorno e la notte; visitato e regalato da D. Santi Ricella ed altri di quel luogo. Venerdì, a’ 14, inaspettatamente Dio ne favorì di bonaccia; onde nelle 14 ore navigando a remi e vela, nelle 21 si trovò Terracina, per miglia 40 discosta da Nettuno : e nelle 4 di notte passate ci condussimo in Gaeta. Fatte questo giorno miglia 70. Gaeta, città antica e grossa, fabricata si vede in sito dalla natura grandemente favorito, per amenità di giardini, per fortezza di scogli uniti da baluardi, per la miracolosa devozione della Santissima Trinità che si adora — 240 — sul monte, che si aperse nel giorno della morte del nostro Redentore : onde, dopo aver passato il rimanente della notte in casa d’ un certo ostiere nel Borgo, alla mattina, cioè alli 15, si entrò in detta città; si andò per la cortina di essa a trovare il luogo miracoloso suddetto, ove si udì la santa messa. Si videro poi molte chiese del luogo, tra le quali il monasterio di San Francesco, ove dell’abitazione che vi tenne il gran Santo si conserva o memoria. E finalmente, nelle 12 ore ripigliate le feluche • • • e il cammino, con calma grande, verso Procita, ivi si o 7 arrivò passate le sei ore di notte, fatte da Gaeta, e sempre a remo, da miglia 50. Qui si diede nella prima osteria che nello sbarcare si trovò ; e fu bel caso 1’ aver tenuto necessità, per accomodare noi, di scomodare un gentilissimo porchetto, lascivo animaletto, che covato, come era suo uso, se ne giaceva sotto una stessa coperta con l’ostiere. Chi legge consideri il rimanente. Alli 16 si spedì a Napoli, perchè il nostro albergo al nostro arrivo si trovasse preparato. Si vide il delizioso loco di Procita, rincontro a cui nella chiesa, che al Palazzo è contigua, si udì la messa. Si spaziò in molti giardini ; si pranzò ; poi si ripigliò il cammino per terminarlo ; e benché proreggiando contro il scirocco continuo, non guari s’ indugiò a trovar Nisita, indi il capo di Pausilippo ; ove da molti signori Genovesi fummo amorevolmente incontrati ed accompagnati al molo della città. Ouivi le carrozze nostre e di molti amici stavano aspettando il nostro arrivo, che fu, grazia di Dio e di Nostra Signora Santissima, in buon punto. Fatte da Procita a Napoli miglia 15. RAGGUAGLIO DÈL COMMISSARIATO per la Serenissima Repubblica tenuto in Riviera l’anno 1631 (1) Hiesus Maria 1631, a’ 22 d’aprile, eletto da’ Serenissimi Collegi come uno dell’ ill.mo Officio di Guerra, commissario e visitatore Generale per tutta la Riviera di Ponente, con suprema autorità e cura di visitar tutti li posti, riveder le milizie e riformar l’esercito; partii da San Pier d’Arena, e con galea destinata a questo servizio mi condussi in Savona. Quivi alloggiato in casa, del Signor Pier Francesco Grimaldo, Governatore e mio cugino, e mandate le mie camerate all’abitazione preparatami dal Publico, diedi quelli ordini che stimai opportuni alla destinata faccenda. A’ 23 per tempo riformai la Compagnia del capitano (i) Dodici pagine, tutte di pugno del Signor Gian Vincenzo. Il quaderno, prima di entrare nel codice, era piegato in quattro, pel verso della scrittura. E sul dorso della guardia si legge a rovescio, di pugno dell’imperiale: 1631 a 22 di aprile | Viaggio in Riviera da me | fatto come visitatore Gene- nerale | dell’ essercito. Atti Soc. Lio. St. Pit*u. Voi. XXIX. ,6 — 242 — Giovanni Moralto, Svizzero, licenziandone cento dei meno abili e lasciandone 165 altri al Signor Moralto. De set- • • tantasette di Clainaz, residenti in Savona, licenziai venti. Del capitano Belisario Spiriti, Romano, levai dodici; sei da Petriccioli. Ed avvisai all’ Officio di Guerra il tutto. 24 detto, ritirato il posto di Loreto; e conosciuto il numero de’ suoi difetti, per darne a suo tempo 1 dazione a Genova. Rassegnai le quattro compagnie delli scelti di quel colonnellato, cioè di Arbizzola, Spotorno, Cugliano, Vado, e le due ultime appoggiai al capitano Anton Giacomo di San Pietro, a cui, con molta sua lode, erano appoggiate le due prime. Lasciai qualche ordine per la osservazione necessaria ; trovai alcuni inutili, cangiai capi. Pagata, rimediata, riformata la gente in Savona, e fatto compra di cento moschetti ad uno scudo d’argento per pezzo dalli soldati riformati, m’ imbarcai con sirocco, e giunsi verso le tre ore di notte in Alassi. 25 partito da Alassi, ed incamminato a Ventimiglia, ebbi così gagliardo il vento, che fu forza scendere in San Remo, ove quelli villani non vollero mai aiutare al nostro sbarco per denari, nè minaccie, ma si fuggono tutti come dalli Turchi. È vero che con la carcere ne furono anco premiati. Il Signor Agabito, mio genero, mi alloggiò quel giorno e quella notte (1). 26, per tempo, udita messa, mi condussi per terra a Ventimiglia, provando i disagi e pericoli di quei sas- (1) Agabito Centurione, che sposò una figliuola di Gio: \incenzo, e fu da lui molto amato. A lui l’Imperiale indirizzò con una affettuosissima epistola dedicatoria, il grosso volume de’ suoi Giornali, da Napoli, negli anni 1632 e 1633, importantissimo per copia di notizie politiche e letterarie, come per descrizione di costumi del tempo. È inedito ancora; ma non sarà tale per molto. — 243 — sosi dirupi, che da San Remo al capo della Bordighera sono onendi. Qui pagai la Compagnia di Aniello Dal Giudice, e da essa riformai dodici. Visitai li posti, e udii molte differenze. 27. Rassegnai li scelti, cioè la Compagnia di Campo Rosso, assai buona, e quella della città, assai fiacca; tutti mal esercitati, benché sia assai zelante quello stipendiato Gio: Francesco Quilichino. E sin a notte ebbi a tribolare nelle audienze. 28. Rivedute le mura della città, e trovatele per ogni parte difettose e indefensibili ; con tre pezzi di cannoni in pericolo ; la mezza luna della porta mezzo ruinata ; ma vi vogliono 1600 scudi a rifarla. Scrissi a Genova per li grani, che mancano, e per la grida dell’ armi, eh è pur necessaria. Passai la Compagnia del Cavalierino, della quale lasciai 30 a Rodrigo Cattaneo, e gli altri 60 lasciai al Porto. Dalla Compagnia di Ferdinando Aicar, in numero 77, si licenziarono 24, dei quali 11 a Genova, con le loro armi. Visitai il forte di San Paolo, e feci nota di quel che seppi osservare intorno ad esso. 29. Partii da Ventimiglia, e con la galea mi sbarcai, sebbene con pessimo mare, a San Remo, ove rassegnai li scelti, che in due compagnie sono da 400, ma tutti poveri, stracciati, disarmati per la maggior parte, niente disciplinati. In rimedio di tanta disubidienza fui astretto intimare mezza regola a quei del Consiglio, da’ quali aspramente fu tollerata. Lo stipendiato Poderico è più conforme all’umore che al bisogno di quella gente. 30. Per strade diabolicissime mi condussi a Pigna, veduto prima Baiardo, frontiera verso Perinaldo, usurpato dal Signore di Dolce Acqua. Mi fermai in Castel Franco, — 244 — da opposto a Pigna, e frontiera al nostro Stato, 200 uomini da combattere, ed assai forte per _ a' Corsi dei da batterie da mare. Pagai la Compagnia o1 ^ i j Ane Giorni capitano Marc’Aurelio da Costa; ed avendo au « .... . - ^rchè dalla prima inviati gli ordini al capitano Gaudenzi pe . ... ilo =;era con valle di Oneglia si trasferisse qui, giunto alia . : > tntta nella parte della sua gente, che poi si congrego mattina, trattai e conchiusi seco il partito della rifor non senza grandissime dispute e ripugnanze. _ i.° di maggio. Licenziai 162 soldati Tedeschi, 5° quali scelti per lo Palazzo, ed inviati tutti a San^ R ^ ^ per ove diedi anticipatamente gli ordini dei viveri e alloggi. Saldai li loro conti; nè fu poco dalle 12 . . • 1; Srelti di alle 20 lo sbrigarsi. Dopo desinare rassegnai Ceriana, Castel Franco e Baiardo, che in tutti sono 15 > ma ottima gente ed ottimamente disciplinata dallo ^ ^ pendiato Anton Bastiano di San Pietro. Qui pure lascia molti ordini opportuni; mancando bandiera, moschett schioppi, picche, ecc. 2 Detto. Ritornai in San Remo verso il tardi, ricono gli Alemanni mandati da Pigna, de’ quali non era giunta ancor la metà. Procurai che fossero alloggiati, e si stet aspettando la galea per essi. 3 Detto. Levai da Triora 46 Tedeschi, lasciati 5*- ,n detto loco. Rassegnai li scelti di Taggia e della Riva. Sentii li consiglieri di S. Remo, ed attesi alla spedi zione de’ Tedeschi. 4. Domenica. Lodato Dio, comparve pur finalmente la galea, che nel giorno avanti doveva trovarsi in questa spiaggia ; onde, rassegnata di nuovo tutta la gente, provveduta di danari, di pane, e poi caricate le arme - 245 - e spediti molti altri affari che mi perseguitarono sin da Pigna, mi condussi al Porto Maurizio; ove fin di quel giorno riformai Raimondo Dattilo; pagai li Tedeschi, tutti assai buoni sotto un ufficiale assai buono, e diedi molti ordini. 5 Detto. Per tempo voltai le fortificazioni del porto, e della mia relazione apparecchiai il contenuto. Vidi le munizioni, fra quali quella della polvere, maltrattata. Alcuna doglianza si udì del munizionerò in materia di pane, scarso e cattivo, che non si provò bene. Pagai ed aggiustai le due compagnie di Biassa e di Mercante. Rividi dopo pranzo tre compagnie de’ scelti, che vi sono sotto la carica dell’aiutante Nicolò Poschi, molto diligente e pratico-; e con tutto ciò mi convenne dare alcun rimedio alle compagnie per la loro freddezza nel servizio publico. M’imbarcai, se ben tardi, e ad un’ora di notte fui in Albenga. 6 Detto. Come che, per spedire la galea verso Genova, con tutti li Tedeschi, armi ed altro ch’erano per colà destinati , mi convenisse scrivere ed inventariare, e fino alle 8 non mi coricassi a letto, riposai sulla mattina alquanto. Desinai con buona camerata, poi rassegnai le due Compagnie de’ scelti, sotto cura di (il nome e lasciato in bianco). Sono così così. Procurai, essendovi molti mancamenti , e deliberai che la gente del Borghetto facesse da per sè una compagnia, atteso che, per le discordie fra loro e quelli d’Albenga, non era sicuro unir quella gente a questa. Pagai quella del capitano Rusticone Tox, tenuta da lui con molta regola, non solo militare ma cristiana. Molti però di essa servono alli commissarii in campagna. Visitai le munizioni, e presi nota delle istanze. — 246 — A’ 7, giunsi alla Pieve, ove pagai le due Compagnie, cioè di Simone Agretti e di Alfonso Gentile, ambedue buone. Alloggiai in casa di Francesco Aicardi, al quale feci far pace con li parenti, eli’erano di molti anni fra loro nemici. Scrissi a Genova. A’ 8, feci marciare avanti a me la Compagnia del governatore Gentile, e m ’ inviai ad Ormea, passando per Pornassi, strada assai pericolosa in molti lochi. Giunsi in Nava, osservai quella verde prateria, circondata da altissimi monti, da’ quali con poca difesa è coperto il nostro dominio. Usciti da quei monti per bocca assai stretta, si passò il ponte del Tanaro, divisorio da Savoia a noi. D’ivi a tre miglia trovai Ormea; loco ritondo, murato, che fa da 500 fochi, adesso assai distrutto, con castello alquanto da noi accomodato, ma sempre debole, di qua sino a Garessi discosto cinque miglia. Pagai la Compagnia di Bruscino, fatta di Pinaschi, e le due de Corsi. Licenziai quella de’ Romani, e riformai quella de Tedeschi. Li alloggiai in Pornassi, Onzo, Mendoga. 9. Verso la notte mi trovai di nuovo nella Pieve. 10. Rassegnai li scelti della Pieve e delle due ville, y m • • inferiore e sottana; tutt’e tre assai buone; e m inviai a Zuccarello. Ma perchè la strada è di 20 miglia almeno, e la pioggia diluviosa tutto il viaggio ne accompagnò, dormii in Cisano, borgo vicino ad Albenga due miglia, ed altre due a Zuccarello. A’ 10. Lasciato Cisano, e a mano manca Coscente, feudo papale goduto dalli Signori Costa, sempre con l’acqua sulla testa giunsi a Zuccarello, borgo di 200 fochi, con castello assai forte per lo sito, ma rovinato da’ nemici, che si rimira con altro di Castelvecchio - 247 — posto su altro monte, lontano un miglio e mezzo. Pagai la Compagnia del Governatore Pasquale Ornano, li soldati di Clainanz, che riformai, e quelli dell’Aycorn (?) che con gran fatica e stratagemma si ridusse ad ubidire alla riforma; e poi m’incamminai verso Albenga, a dispetto del diluvio che mai non cessò, onde non era strada che non paresse un fiume. A’ 12 giunsero li Tedeschi, conforme al mio ordine, in Albenga. Disposi li Corsi alla partenza per Oneglia; rassegnai la buona Compagnia del Borghetto, e quando le cose erano disposte alla partenza, il mare perverso intorbidò l’imbarco. Pazienza! A’ 13, cioè nella mezzanotte del giorno passato, per non perder momento al viaggio, imbarcati i Tedeschi, 14 di Aicor, e 16 di Clainaz, a servizio del Palazzo, mi feci portare in Oneglia, ove giunsi nel far del giorno, fatte da Albenga 15 miglia. Qui pagai la Compagnia di Bacigalupo; assai fiacca; quella di Antonio (1) Ornano, assai malcontenta del suo capitano ; quella del capitano Fantini, che riformata ripartii in altre cinque compagnie, cioè di Rusticone Tox, di Pasquale Ornano, di Alfonso Gentile, di Magiocco e di (il nome è lasciato in bianco'). Sentii molte differenze tra paesani e soldati. Levai 20 Tedeschi dal Porto, che poi inviai in Albenga con li altri che dovranno passare a Genova. 14. Rassegnai li scelti del Cervo. Mala gente. 15. Mandai Rusticone al Marro (Borgo Marof) e l’Ornano a Prelà, dopo molti contrasti con quei sindaci, e andai a Diano, ove processai il Gio: Francesco Giordano, ( 1) Leggo Antonio nella abbreviazione. Potrebb’anco essere Andrea, Ardoino, ecc. - 248 — e vidi li scelti sì del Castello, assai buoni, come della Marina, de’ quali il maggior numero era a corallare. A’ 16, ritornai ad Oneglia; e quivi costituii li rei per la causa suddetta del Giordano. A’ 17, pochi negozi in Oneglia, aspettandovi la galea. A’ 18, giunse la galea con li danari commessi per 1 O O pagar la Compagnia del sig. di Campo Dattilo, come eci. A’ 19 partii da Oneglia in feluca; venni ad Alassi, e per la strada rividi li scelti della Leigueglia e di Andora, sotto lo stipendiato Ferraccioli, che potrebbero essere più esercitati. Qui li anziani trassero fuora molti pretentorii circa li scelti, che rimisi ad altro tribunale; e procurai da allog giare e da vivere a 203 soldati, che usciti di quarantena da Ormea dovevano imbarcarsi con la galea, ritornata che sia da portar li sindici in Ventimiglia. A’ 20, riveduti li scelti e riformati, passai tutto il giorno in casa del signor Antonio Grimaldo, aspettando la galea, che per servire alli sindici diede dilazione al nostro viaggio. A’ 21, nel dopo pranzo, partii da Alassi, rividi li scelti della Pietra e di Toirano. E giunsi in Savona verso le 3 ore di notte, in casa del Governatore Grimaldo. 22. Riformai in Savona la Compagnia di Belisario Spiriti, in loco della quale sostituii quella di Marco Antonio (1). Lasciai molti altri ordini, e venni anco quel giorno in Genova; di che sia lode a Dio e a Nostra Signora Santissima, mia sempre avvocata. (1) Manca il casato; ma penso che sia il Petriccioli, che occorre appunto in principio della relazione, e. che col nome di Marc’Antonio è ricordato nel \ iaggio di Corsica. * X. VIAGGIO DA GENOVA A BOLOGNA NEL 1635 L’ ULTIMO DI GIUGNO (1) Dalla nostra casa di Sampierdarena ci partimmo in sabbato mattina, un’ ora avanti giorno : facendosi il mio signor Padre, e per la maturità degli anni, e per la poca sanità che aveva, portarsi in seggetta, per insino che ritrovassimo carrozze. Per nostra sicurezza dimandò sei Corsi al capitano di Polcevera, e ricevette il seguito di otto uomini di Promontorio. Io, con gli altri di casa, montai a cavallo; e tutti insieme arrivammo ad Ottaggio (Voltaggio) a ore 14; ove in ringraziamento del buon principiato viaggio sentimmo la Santa Messa alla chiesa di San Francesco, alla cappella di nostra avvocata Maria; pregandola che siccome sotto la sua ombra ed in giorno a lei devoto avevamo avuto prospero il primo giorno, così dovesse proseguire insino al fine. Ritiratici all’osteria (1) Sedici pagine, in formato alquanto più ristretto degli altri quaderni ond’è formato il codice. Bella e chiara mano di scritto, e, come si scorge dalle prime righe, relazione dovuta ad un figlio di Gio: Vincenzo. Dev’essere il Gio: Battista. È il viaggio fatto per il bando inflitto all’ Imperiale in quello stesso mese. — 250 — della Corona, godemmo quelle comodità, che si accomo dano in detti luoghi. Fummo però più di latticinii pasciuti, che di pesce regalati. Mio padre, vedendo esser imbiso-onoso il seguito de’ Corsi, li licenziò e con larga mancia li accompagnò. Nel giorno, essendo ora in questi tempi non troppo favorevole a’ passeggeri, per passare insieme col tempo il desiderio che avevo di riveder il luogo, mi inviai con alquanti miei conoscenti alla ferrerà. Nel qual luogo si vede artificiosa focina, non già da mantici ani mata, ma, per far più maraviglioso l’ordigno, da una grandissima quantità d’acqua a meraviglia invigorita. Ma quel che pare incredibile all’ udito, maraviglioso con palesar il fatto si rende. Viene impetuosa una gran massa d’ acqua, la quale ristretta insieme, cade per un canale precipitosa, il quale è di lunghezza di dieci palmi. Poi trovando intoppo alla sua corsa, adirata del temerario incontro, vuol che il vento come suo spirito più dilicato e nobile venghi a vendicare, o almeno a risentirsi, s O . come non altrimente si svegliano in un corpo organiz zato, ma offeso, i spiriti più dilicati e riguardevoli. Non comporta però l’Arte che dalla Natura le venghin fatte soperchierie di tanto pregiudizio: essa si vuol assumer l’impegno di punir 1’orgoglio, come di pessima suddita alla sua potenza. Vien accordata questa rissa, con alternar in una perpetua pena colei che fu la prima a risvegliar la vendetta. Che quei spiriti, i quali son stati dell acqua ministri d’ira, siin fomiti alle fiamme, tanto dall acqua abborrite: essa pensa che mortificati i spiriti intrinsechi, debbano restar avvilite le parti estrinseche. Serve dunque per anima al fuoco quel vento che serviva dianzi all acqua per elemento. - 2 51 — Ma, per proseguire il nostro viaggio, ch’era lontano da dove ci partimmo 20 miglia, ci riposammo in detta osteria per insino alle 7 ore di notte, per dar principio alla seconda giornata, che fu in Serravalle. Qui sentimmo la Santa Messa alla chiesa de’ Padri Agostiniani ; poi piese tre carrozze, e data licenza e mancia a quelli uomini di Promontorio, proseguissimo a Tortona. In detto luogo disinammo all osteria del Cervo, che resta dentro detta Terra, ove fummo regalati per alquante pernici e piccioni che avevamo con noi : altrimente, per la soldateria eh’ ivi soggiorna, ci sarebbe bisognato dar nella secca dentara (1), eh ivi è inestricabile. Verso la sera, poi, dopo molto contrasto de’ vetturini per le carrozze, che come canaglia non sapevan prender risoluzione al partirsi, finimmo la nostra giornata ad Ughera (Voghera) ad un’ ora di notte. La qual terra è lontana da Ottaggio 22 miglia. Qui mangiammo non so quante pernici, che ci avanzavano della mattina, e godemmo altri regaietti, eh’ ivi il nostro cuoco ci apparecchiò. Dormimmo assai bene la notte. Ma perchè 1’ usanza nostra d’ alzarci tre 0 quattr’ ore avanti giorno ci fu impedita dalla tardanza de’ carrozzieri, e dal non contentarsi mai del dovere dei tenerissimi osti, quinci ne venne che, facendo giorno ad Ughera, principiammo la terza giornata in detta Terra, per arrivare a Broni in su le 14 ore. Fatto apparecchiare un buon desinare, pranzammo allegramente. E mentre si ragionava del nostro viaggio, s’ intese che fra i Stati circonvicini a Piacenza v’ abita- (i) Modo proverbiale antico genovese, corrispondente al moderno italiano del rimanere a denti asciutti. — 2J2 — vano masnadieri, che non contenti di furar a viandanti la robba, a lor piacere toglievanli la vita. Noi di ciò alterati, non già per paura mossi, ma per sicurezza risvegliati, mandammo uomini a posta, per la posta, a Piacenza, acciò dai nostri amici Morandi, in detto luogo molto possenti, ne venissero mandati otto o dieci uomini armati a cavallo, onde potessimo, se non resistere, almeno impedire 1 orgogliosa tirannide di cotesti furbacciotti. Il giorno si passò tutto in detta osteria, e per riposarci e per aspettar risposta sicura, per assicurare il nostro cammino. La sera ce la passammo al solito, finiendo la terza giornata in quella osteria tanto malinconica, quanto da ogni banda pestilente, la quale è distante da Ughera miglia 12. Il giorno seguente postici in carrozza incominciammo la quarta giornata, sostenuti e difesi dall ala di cinque uomini a cavallo che i signori Morandi mandaronci 1’istessa sera: e camminato avanti 10 spazio di due o tre miglia, ricevemmo 1’ incontro del o 7 signor Ottavio Morando e d’ altri suoi di casa, che per loro cortesia ne vennero a favorire. Mio Padre, ringraziato il signor Ottavio del favore che gli aveva fatto, ed insieme condolutosi del fastidio che s’ avea preso col \enire in persona, tutti insieme c’ inviammo a Piacenza, la quale è distante da Broni 20 miglia. Ivi fummo rice-vuti da detti Signori, non già com’ospiti, ma come padroni Io, fra il mentre si tratteneva mio Padre con il signor Bernardo Morando, fratello del signor Ottavio, licenziai le carrozze, essendo finito il tempo ed arrivato 11 luogo ove confrontavasi il nostro accordo. Fra quel mentre si fece portar in tavola, e gustando un desinar buono, lo sentenziammo eccellente. Sul giorno ricevemmo — 253 — quella quiete che è propria de’ poltroni : fu però lontana da noi questa attribuzione, mentre la stanchezza del viaggio ci difendea. Fatto poi porre all’ordine la carrozza, andammo per diporto alla chiesa di Santo Antonino, la vigilia della cui festa si celebra in detta terra 1’ istesso giorno. Godemmo quel poco tempo la solennità, poiché il Santo, avvistosi che passeggiavano discoli fra’ contorni del suo tempio (i), volse dar un segno, col ricorrer nel Zodiaco all’Acquario, acciò ognuno camminasse o avvertito o ritirato. Ritornati a casa, essendo cessata la pioggia, piacque alli signori Morandi che proseguisse il vino ; ed andati a cena carichi più presto di sonno che mossi dal buon appetito che giornalmente mostrano in detti paesi, cenammo più per compagnia che per propria volontà. Andati a letto riposammo benissimo, e per la stanchezza del viaggio, e per la buona comodità, ch’era eccellente ministra della nostra quiete. Alla mattina ci levammo assai tardo, e sentimmo la Santa Messa alla chiesa di Nostra Donna. Ritornati a casa, di dove ci eravamo partiti, in carrozza, si apparecchiò il desinare, e tutti egualmente facemmo onore al paese, col mostrarci in poco spazio di tempo più Lombardi atto-descati, che Genovesi delicati. Al dopo pranzo, con occasione che veniva Sua Altezza di Parma in Piacenza, venne a visitar mio Padre il conte Fabio Scotti, genti- 1 o luomo di gran stima appresso Sua Altezza, non per altro che per mantenere l’amicizia che sino allora s’ era conservata. Così abboccatisi insieme per lungo spazio di (i) Allusione ironica all’imputazione di discolo, per cui il signor Gio: Vincenzo era stato dianzi bandito da Genova. — 2)4 — tempo, e vedendo che il gusto di mio Padre era solo di dichiararsi parziale servitore a quella Altezza, li promise 1 udienza con ogni affabilità e prontezza. Intrammo poi in carrozza, e ci inviammo per diporto alla chiesa di Sant Antonino, ove, per esser festa, non tanto si scorgevano i belli addobbi quanto si rimiravano le belle dame. Andando poi a spasso, ci trasferimmo alla chiesa di Sant Agostino, la quale è disposta in cinque navi, con bellissimi corridori e spaziosi dormitoi. È adornata di diverse pitture eccellenti, ed è abbellita d’ una rara cantina, piena di grandissima quantità di vasselli, che la rendono inespugnabile. II giorno seguente, poi, mandò per grazia sua 1 Altezza di Parma (i) il suo Mastro di camera ad invitar mio Padre in corte. Lui, fìngendo d’essere indisposto, fuggì la graziosa ofierta: ma non gli giovò per il secondo assalto, perchè diede ordine a’ suoi gentiluomini che in tutti i modi procurassero di condurlo in Corte, o che non si curassero di ritornarci loro. Così, mio Padre vedendo che non poteva fuggire di andarci, entrati con gli stessi gentiluomini in carrozza c’ inviammo a Palazzo. Ivi fatte apparecchiare cinque stanze tutte adornate di pitture, e (i) Odoardo Farnese, nato nel 1606, morto nel 1646. Principe irrequieto, desideroso di acquistar fama di soldato, condusse una pazza impresa di guerra contro eli Spagnuoli, che fece dire al Granduca di Toscana suo cognato: « il re ^ Parma ha dichiarata la guerra al duca di Spagna ». Con questa guerra il duca Odoardo altro non fece che estenuare i suoi Stati di sangue e di denaro. Tolte grosse somme ad imprestito dal papa Urbano Vili, col dargli in pegno i suoi ducati di Castro e Ronciglione, era tardo a pagar gl’interessi, e n’ebbe richiami di cui si sdegnò. La guerra che ne segui nel 1641 fu chetata tre anni dopo per intromissione del granduca di Toscana, del duca di Modena e della Repubblica Veneta. Avea sposata nel 1628 Margherita de Medici, figlia del già defunto Cosimo II granduca di Toscana. ~ 255 — guernite eli tappezzerie, le elessero per nostro albergo. La cortesia che ci fecero e la riverenza che ebbero, senza cn io il dica, ognuno lo saprà per sè stesso, se considererà la generosità di quella Altezza. Dopo d’ esserci trattenuti con quei Signori buona pezza, chiese mio Padre al Mastro di camera che volesse vedere di fargli dar 1 udienza quell’ istessa sera, poiché la stanchezza del cominciato viaggio lo spronava a doversi partir quella notte, per poterlo finir quanto prima. Andò il Cavaliere; ma ritornò con dire che aveva riferita 1 ambasciata a Sua Altezza ; ma che, per esser 1 ora tarda, non poteva dargli udienza per insino al giorno seguente. Onde vedendo mio Padre ritardata la sua partenza, replicò che conosceva i favori che li venivano fatti, ma che però lo pregava a non voler impedir la sua andata, poiché sapeva quanto a Sua Altezza poco importasse ed a lui quanto giovasse. E ridicendoli detto Cavaliere che di grazia non gli volesse comandar questo, perchè Sua Altezza era risoluta di ragionar seco il giorno seguente, si acquetò mio Padre, e si levò questa discordia con far portare in tavola un più presto lauto banchetto che sobria cena. La godemmo, e facendo molti Brindis alla sanità di Sua Altezza, la passammo allegrissima. Andati a letto riposammo assai bene. E subito che alla mattina fummo levati, fu da noi quel Cavaliere con l’udienza di Sua Altezza Serenissima. E andò subbito mio Padre a riverir quella persona dalla quale ne aveva ricevuto tanta riverenza. Discorsero buona pezza insieme, ed usandoli ogni cortesia se li mostrò liberalissimo nelle profferte. Lo posso con ogni ragione affermare; mentre voltatosi a me, replicò quello che aveva detto a mio Padre, — 256 — che si sarebbe sbracciato sempre in ogni cosa per 1 agiuto di tutta la nostra casa, e che avrebbe avuto per favor grande che in ogni tempo ricorressimo da lui, come da uno che desiderava assai il servirci. Questa profferta credo che basti per far conoscere 1’ animo del Prencipe, e per dar ad intendere ad altri quanto sii stimata qualche per sona nell’ altrui paese, mentre nel natio era di continuo invidiata. Venuta poi l’era del desinare, andammo a godere un pranzo d’ ogni galanteria regalato. E mentre ci trattenevamo a tavola, più per passare i cibi mangiati che per cibar il corpo, venne il conte Otta\ io Scotti, generale dell’ artiglieria, a far riverenza a mio Padre. La cortesia del quale tanto gli fu cara, quanto inaspettata, stimandosi abbastanza favorito dalle grazie che aveva ricevute da Sua Altezza, senza che lo volessero obbligar maggiormente. Finito questo compimento, si andò Prencipe Francesco Maria, col quale mio Padre discors ^ buona pezza, e dimostrandosene obbligatissimo delli favor che aveva ricevuti, chiese licenza, la quale gli ven concessa con un amplissimo passaporto. ODOARDO FARNESE DUCA DI PARMA E PIACENZA ET GONFALONIERO PERPETUO DI SANTA CHIESA. « Passando per questi nostri Stati il Signor Gio. » cenzo Imperiale, Cavaliere Genovese, comandiamo » virtù della presente a tutti gli ministri nostri, tant > di guerra, come di giustizia, che non solo lo la » andare liberamente con tutti quelli che saranno con lui, » et con le loro armi et robbe, ma bisognando gli pre - 2J7 — » stino ogni agiuto et assistenza; di che non manchino, > per quanto stimano la gratia Nostra ». Ringraziati di novo quei Signori di tanta amorevolezza, montammo in carrozza, ed arrivammo ad un’ora di notte a Fiienzuola, la quale è distante da Piacenza miglia 12. Ivi cenammo ; ma sì come ogni albero produce frutti della sua specie, così Firenzuola, quasi figlia di Firenze, non degenerò dall’infamità (!) ; ci agiutò assai l’averci cosi ben regalati Sua Altezza mentre eravamo in Corte, per farci schifare l’oscenità di questo paese. Ma io m’inganno. Avevo preso fallo da Foroni (i) a Firenzuola; perchè in questo luogo fummo regalati di quelle più esquisite vivande che ivi fussero ; cibi certo non imaginabili, non già per esquisitezza, ma ben sì per sceleratezza. Certi sucidi ranocchi sembravanci fetenti cadaveri, i quali, piegati in diverse doppie, rappresentavano smorfie mara-vigliose. Onde venne curiosità ad uno della nostra camerata di veder che cosa era tal novità, pensando che fossero o momie novelle, o spiriti condannati a tal pena. Così, staccandoli una coscia, sentì un fetore che sarebbe stato atto con ogni ragione a corromper 1’ aria di quel paese, non che la bocca indegnamente de’ poveri viandanti. Parmi certo un caso simile a quel di Polidoro, mentre disse ad Enea: Heu fuge crudeles terras, fuge litus avarum. Quelle smorfie in quella guisa, quell’aria così pestifera, quell’ odor così intolerabile, quella gente così indiscreta. (i) Cosi è scritto; ma il luogo non è sulle carte. Si potrebbe intender Fornio, presso San Domenico, per dove allora forse passava la strada. Atti Soc. Lio. St. Pàtri*. Voi. XXIX. 17 - 258 — quell’oste così infame, non voleva dir altro che la metà di quel verso : Heu fuge crudeles terras. Ci awidimo però del caso, mentre in esso già eravamo inciampati. Non si poteva esser più in tempo, mentre 1’ occasione era fuggita. Così alla meglio ritiratici a riposare, ripartimmo alla mattina a buonissima ora, ed arrivammo a Parma su le 14 ore, avendo fatto miglia 23. Qui alloggiammo tutto il giorno, trattenendocela in vedere le chiese più principali, fra l'altre il Duomo e la chiesa di San Giovanni, ove si conobbero bellissime pitture, ed un grandissimo e proporzionato monastero eh’ ivi è. Ci fecero molte accoglienze quei Padri ; e licenziati da loro ci trasferimmo al giardino di Sua Altezza, la bellezza del quale meritando gran spesa, più liberale che necessaria, non poteva esser meglio appoggiata di quel che è. Vidimo in quello il leone grossissimo, il quale ci diede chiaro segno, quanto fosse grande la potenza di Sua Altezza, mentre lui, animai così possente, e quasi indomito, nel sentire che calpestava la terra di chi la governava con la sua pietà, deponendo 1’ orgoglio di sanguigna ferocità rassomigliava ad una mansueta timidità. La rimanente parte del giorno si passò in veder mill’altre cose, le quali son di consolazione a chi le possiede, e di gran gusto a chi le vede. La mattina a buon’ora ci partimmo, ed arrivammo a Reggio. E perchè l’osteria di detta terra era più famosa di fame che di robba da mangiare, si fece un poco di colazione, e rinfrescati li cavalli montammo in carrozza, arrivando a Ruberà su le 24 ore. Ivi cenammo assai — 259 — comodamente, ma ci accomodammo meglio ad andar a godere una buona comodità di letto eh’ ivi era eccellente. La stanchezza della tediosa giornata ci fece credere (per non farci perdere col mancamento delle forze la generosità dell’ animo) che dopo questa travagliosa giornata , sarebbe risultata una giornata felice. Molto ben sappiamo che l’allegrezza succede al disgusto, quasi che questa sii stata data dalla madre natura per premio alli addolorati. Ci fu vera presaga quella giornata rincresciosa del-1’ onore che quanto inaspettato tanto da noi ammirato ci arrivò. Essendoci dunque a buon’ora partiti da Ruberà, arrivammo a Modena a 13 ore. Smontati all’ osteria della Posta, cercavamo recapito per il nostro vitto ; quando ecco che giunge un gentiluomo con la carrozza del Duca a rallegrarsi con mio Padre dell’ arrivo, ed insieme a pregarlo che volesse, per quel tempo che dimorava ivi, trattenersi in Palazzo, avendo così gusto Sua Altezza, e desiderio tutta la Corte. Ringraziò infinitamente mio Padre quel gentiluomo e rese duplicato affetto di debito alle cortesi profferte di Sua Altezza; non potè però fare, la scusa e sommissione di mio Padre, che la loro gentilezza non lo richiedesse a pranzo. Così montato in carrozza, alla via di Corte si andò a gustare i favori che ci fecero ; i quali bastarono per obbligarci e confonderci. Ragionò lo spazio d’ un’ ora con il Duca (1); poi in segno di rive- fi) Francesco I d’Este, nato nel 1610, fu duca di Modena e Reggio nel 1629, per abdicazione di Alfonso 111, suo padre. Fu accorto politico e valoroso soldato, ma d’umor bizzarro e stravagante; nè troppo ebbero a lodarsene i poeti e gli ebrei. Infatti, per essergli dispiaciuto, Fulvio Testi, che già n’era stato fatto conte, finì la sua vita in prigione, e, a quanto si dice, per ordine di lui segretamente — 260 — renza avendo fatto metter per ordinanza la guardia, andò detto mio Padre a visitar Madama (i), e ringraziando il Prencipe fratello di Sua Altezza (2) di tante grazie ricevute, seg-uitammo il nostro viaggio, ed arrivammo alla Samozza O òò ’ (Samoggia) a due ore di notte. Non si può dire il patimento che avessimo quella notte, essendo (capitati ad) una osteria affatto priva di bene. Cercammo però nel far del giorno a svellerci da quel luogo, dubitando che una (?naggior) dimora avrebbe causato in noi troppo mancamento ; mentre, oltre lo star male, si era scoperto un chiaro accordo, fra l’oste ed altri animaletti, di succiarne il sang-ue. Montati in carrozza, demmo principio al fin del nostro viaggio; il quale dopo 12 miglia si ultimò in Bologna. Ma ecco che mentre pensiamo d’esser fuori dell osterie, bisogna valersene per necessità. Il signor Lodovico de Maestri, uomo di gran credito in questa citta, fallì di promessa nel banco della richiesta. Esso ci promette d’apparecchiarne casa, acciò il nostro arrivo venghi refi-ciato da qualche comodità, ed egli per mancanza di calidità naturale si era raffreddato in questa pratica. Infelici noi, se lo zelo di Monsignor Fiesco non ci avesse soccorsi. Egli ci condusse a sua casa, ove trattenendoci alquanti giorni con molta cortesia, trattenne in noi, (per) al quanti soli, verso la persona di sua Signoria, obblighi infiniti. strozzato, nel 1646. Volle inoltre separati nella sua capitale gli ebrei dai cristiani, e perciò nel 1638 lece il ghetto di Modena. Mori a Santià, nel Piemonte, 1 anno 1658, mentre col grado di generalissimo dei Francesi faceva guerra alla Spagna. (1) La Duchessa, prima moglie di Francesco I. Era Maria Farnese, figlia di Rannuccio I, duca di Parma; sposata nel 1631, morta nel 1646. (2\ Rinaldo d’Este, nato nel 1618, fatto cardinale nel 1641. XI. VIAGGIO DA BOLOGNA A VENEZIA GIORNATE E RITORNO (i) 11 desiderio, il qual da noi vien adulato con esser suoi aderenti, c’ invita a Venezia. Proviamo dall’ invito un grande affetto, mentre servendo 1’ illustrissimo Francesco Paleotto non ci resta che desiderare. Si partì dunque da Bologna il dì 19 ottobre in carrozza, alla volta di Corticella. Fatte queste tre miglia per terra, acciò variando si desse luogo al diletto, ci posimo in barca : seguitossi il cammino interrotto per insino al Bentivoglio. Ivi, non stracchi delle 7 miglia fatte, ma bensì ardenti per intraprendere maggior viaggio, smontò l’illustrissimo Paleotto a favorir mio Padre con un invito, ed io sbarcai, acciò ossequiando servissi chi dovevo. Saliti tutti in barca, ci promettessimo assai presto arrivo in Malal-bergo : abbreviocci il tempo la rimembranza della terra lasciata, com’ anco la presenza d’ una colazione all’ improvviso risorta. Si finirono intanto le dieci miglia infrapposte e si giunse in detto luogo alle 23 ore, alloggiando (i) Quaderno di 20 pagine; mano di scritto del precedente, cioè d’uno de’ figliuoli di Gio: Vincenzo. Si narra un viaggio fatto per diporto a Venezia, dallo scorcio dell’ottobre a mezzo il novembre del 1635, l’anno dell’esilio a Bologna. — 2Ó2 — in casa dell’Illustrissimi Paleotti; i quali, sì come hanno unito l’animo per favorire, così ancora hanno distribuite le grazie per obligare. La levata del giorno seguente fu sollecita, acciò l’arrivo in Ferrara, da noi destinato, non fusse negligente. Tre sandali furono tano capaci delle nostre persone quanto delle nostre robbe ; onde arrivando a Ferrara si finirono le venti ore del criorno con le venti o miglia del viaggio. Si passò dal sandalo in carrozza del Signor Giulio Yaccà, il quale per sua cortesia ci rice\è in sua casa. La mattina si andò a far riverenza all’Eminentissimo Durazzo, e finito il compimento s’incominciò con due carrozze la giornata verso Rovigo. Fu penoso il passaggio di cinque miglia da Ferrara a Francolino, essendo la strada altrettanto rotta quanto fangosa. Si passò ivi il Po in carrozza, con ruote però appropriate alla strada che si battea. Non potè però la carrozza passar con sì poco strepito, che non fosse sentito il nostro arrivo da certi assassini per soprannome chiamati Passatori, i quali con ogni crudeltà, sotto maschera di ragione, pretesero il pagamento del passo. Usciti dalle mani di costoro, tirammo avanti alli confini de Ferraresi con Veneziani, giungendo al luogo che divide il Dominio, chiamato dal vulgo Scanali. Entrati sullo stato di Venezia, si conobbe chiaramente la differenza dello stato e la diversità del sangue, quella nel governo e questa nella civiltà. Giunti ad un fiume il qual dagli altri vien distinto per Adige, ad una riva si fe’ comune il fresco del fiume al rinfresco d una colazione. Ma eccoci sorpresi da ladroni, che bisognosi dell altrui borsa quanto noi del loro aiuto ci aspettavano al passo. Se è però vero che il mal previsto — 263 — cade con minor danno, l’averlo provato nel passare il Po, ci alleggerirà un’ impressione di rovina. Entrammo all’ istesso modo in carrozza sul ponte trasgressore ; ma nel passare vien ombreggiata la mia mente da un verisimile assai funesto. Un uomo d’ età cadente, spaventoso per il crine incolto e orribile, per una faccia altrettanto squallida quanto cupa, raffiguravami quel Caronte trasgressore dell’ anime, datoci a conoscer da’ poeti. Ma collo scorgere al margine del fiume non so s’ io dichi Ninfe, o belle Dee, mi si cancella quest’ imagine dal-l’idea, abitando quel Caronte tra anime condannate a penare, e questo fra corpi ritrovatori (ristoratori?) di pene. Scesi all’altra riva, seguitossi il viaggio, ed arrivossi a Rovigo a 23 ore. Ma perchè la parola de’ frati va accompagnata a cattiva conseguenza, mentre inviati alla chiesa di San Bartolomeo si pensava d’ aver alloggio nel convento, si avea risposta che le camere erano prese. La risposta spiacque a tutti noi, non avendo avuto riguardo, nel procacciar 1’ alloggio, alla rustica creanza di costoro, fasciata di cortesia. Non importa ; il successo serviracci d’esempio. Non fu però bastante la repulsa de’ frati a discreditarne con il Signor Mauro delle Carte, gentiluomo di Rovigo, il quale sormontò all’ estremo della inciviltà di costoro, con una cortesia in eccesso. Ci ricevè in sua casa con ogni onore, e godessimo i suoi favori per quattro giorni. Ma perchè in detto luogo in quell’istesso tempo si faceva una fiera di cavalli, a tal effetto si fé’ condurre da Bologna un paro de’ nostri, acciò, vedendo di far permuta, si venisse ad aggiustar una muta. Restò fallace il pensiero; onde, rimandando i — 264 — due cavalli, ci posimo in carrozza, dopo aver sentita la Santa Messa, verso Padova. Fatte 7 miglia si arrivò al-l’Anguillara, per dove passa un ramo d’Adige. Fu ivi necessario il traghetto. Ci servì una barca grande e coperta, la qual spinta dalla corrente dell’acqua e regolata da alcune barchette in radunanza artificiosa, ci condusse all’ altra riva. Scesi di barca, seguitossi in carrozza 9 o il viaggio. Ci lasciammo addietro il ponte della Cagnola, per dove passa la Brenta, ed arrivossi in Padova a 23 ore. I viandanti implorano la loro stella tutelare per la sicurezza del viaggio; e noi giunti in porto dimandiamo aiuto per la sicurezza della stanza. Ci esaudì la nostra stella. Monsignor Paleotto ci trova alloggio in casa d un suo conoscente bolognese; il quale, esercitando offici non tanto dovuti all’ amicizia quanto obligati alla persona, fe . noi ancora partecipi d’una comodità agiata. L’agitazione della carrozza avuta da Rovigo in questa città causò in mio Padre, la notte, agitazione di stomaco con intemperie di testa; onde, fermandosi la màttina a letto, stimò per buono antidoto il riposo. Noi, mossi dal desiderio delle grandezze delle città, ci trasferimmo a render tributo di devozione all’ arca ov’ è depositato il corpo di Santo Antonio, e d’ivi al Duomo, ove è il corpo di San Daniele, più venerabile che venerato. Si andò verso la piazza, la quale, per la prospettiva del Palazzo, per le case tutte in ordinanza magnifiche, per gli luoghi adattati alle giostre, sembrommi un teatro artificioso, e non la piazza del Prencipe. Si vide il salone del Podestà, il quale è notabile per una gran vastezza. È lungo 118 passi andanti e largo 71. Similmente fu partecipe la vista della chiesa di Santa Giustina, sontuosa e per l’edificio e per — 265 — le pitture. Ritornati a casa, scorgendosi in mio Padre buoni effetti del riposo, si desinò, e tutti insieme andammo al dopo pranzo a venerare il santuario della chiesa di Sant Antonio, ove vi sono reliquie le quali dalla grandezza de loro miracoli suscitano in chi le riverisce spiriti commossi dalla pietà ad adorarle. 11 giorno seguente, che era la festa di San Simone e Giuda, sentita la Santa Messa, si principiò la giornata per finirla in Venezia, venendo in nostra compagnia il signor Giovanni Imperiale (1) e suo fratello. Lasciata Padova d alquante miglia, incominciò ad esser appagata la nominata dall’occhio, ed incominciossi a confondere la mente dalla vista. Un’ infinità di palagi superava col numero la fama, ed una struttura maravigliosa inseriva confusione a meraviglia. Se ad ognuno non fussero noti i lussi Veneziani, ci apparirebbero veri quegli edifizi d Alcina, figuratici per ritegno de’ sentimenti. Pur troppo restammo attoniti. Ma nel trascorso della Brenta, e nel trapasso delle sponde del fiume, tempestate di gioie, trascorse il giorno. Eccoci in Venezia. Or che siam o-iunti ò alla meta, apparecchiamoci al trionfo. Giornata prima. Giunti in Venezia li 29 ottobre, a minor soggetto ci fu preparato alloggio nel monastero di San Domenico. (i) Questo Giovanni Imperiale è il medico e letterato vicentino di cui nelle note al viaggio VI è stato detto abbastanza. In questo incontro l’autore del Musaeum Historicum ha certamente raccolte dalla bocca istessa di Gio : Vincenzo le notizie intorno al bando di lui, che nell’opera suddetta ha pubblicate, l’anno 1640, coi tipi dei Giunti. — 266 - Ma la povertà de’ frati permetteva un convento povero di comodità. Era uno sminuire in gran parte la fortuna, che stavamo attendendo prospera, Tesser privi di stanza opportuna. Il Signor Ottavio Bertotti, cittadino di Genova, e mercadante in Venezia, ci seppe sì bene adescare con la sua gentilezza, che ci fece suoi. Andammo volentieri in sua casa, non tanto per la comodità della stanza , quanto per l’opportunità del sito. Le stanze, superbe guernimenti, e la casa nel centro di Venezia, ci disposero O • * a non rifiutar l’invito. Ma perchè il Signor Ottavio ci aveva allettati con la sua cortesia per farci vivere in un soggetto cortese (i), si patteggiò che si accettava stanza, ma che si rifiutavano le spese. S’ andò al dopo pranzo verso la piazza, la clua^ discoprì la diversità delle sue grandezze. La facciata della chiesa di San Marco, meravigliosa per una antichità maestosa, c’ invitò a vedere il corpo della Chiesa, il (lua è tutto contesto di musaico figurato. Usciti di chiesa, voltando 1’ occhio alla connessione del Palagio regio con detto Tempio, si vide quanto 1 arte si fusse diletta d’arricchir le mura di quel Palagio, il quale è arricch’ d’ ingegni così risplendenti. Da un altra parte vi son due fabriche suntuose, le quali sono abbracciate dalla maggior parte della piazza, una chiamata Procurati vecchia, l’altra Procuratia nuova. In queste due fabriche si vede gareggiante il fasto antico con il lusso moderno. In prospettiva di detta piazza evvi eretta una Torre, nella cima della quale sono due gran colossi di bronzo, (i) Qui, come tredici righe più sopra, soggetto sta per soggezione, senso di peritanza, naturalissimo in chi sa di dover stare sulle cerimonie. — 267 — i quali, con mazze percotendo a vicenda una campana, artificiosamente danno ad intendere l’artificio dell’orologio. Nel veder queste grandezze, ritrovammo accampata la notte. L illustrissimo Contarmi, ambizioso di scorger i fora-stieri attoniti a cose non vulgari, vuol che conosciamo gl influssi di quel cielo, il quale, non contento di riempiere il giorno di meraviglie, arricchisce la notte di stra-ordinarii contenti. Ci condusse a sentir una comedia ; la qual azione dà una Compagnia buona (1). Così si passò la sera, e si finì la giornata. Giornata seconda. L’ inquietudine del viaggio cagionocci la notte un riposo, che per essersi dilungato nel giorno, prendeva il nome della poltroneria. Levati che fummo, parte della nostra camerata andò trascorrendo la città per suoi affari, ed il rimanente andò a servir mio Padre, il quale si fé’ condurre in gondola all’ Istriana, per compire con alquanti Signori Genovesi che ivi erano alloggiati. Indi si andò da un certo Fiammingo, il quale sì artificiosamente pareggia il vetro al diamante, eh’ al paragone ci perde la verità. Al dopo pranzo andammo per curiosità a veder la chiesa di San Giorgio, posta di rimpetto la piazza di San Marco, officiata da’ monaci di San Benedetto. È un edificio maraviglioso d’ architettura e riguardevole di pitture. Dall’ istessa parte, chiamata dal vulgo Zuecca, (1) Ah, se invece di architettare le sue frasi a contrapposti, il narratore ci avesse detto qualche cosa della commedia e dei comici ! — 268 - 11 si vide una casa de’ Signori Vendramini, che tiene spalle un ameno giardino. Evvi nel fine un’ uccelliera, ove sono chiusi alquanti animali riguardevoli per stravaganza. Si vide similmente un bel monastero fabricato dalla Repubblica per un voto nel tempo del contagio. E chiamata la Chiesa del Redentore. Nel celebrare la festa annuale di detta Chiesa, si fa, a maggior comodità del popolo concorrente, un ponte di tavole; il quale trapassando il mare arriva dalla piazza di San Marco a detto tempio. Ma la notte, invidiosa che ’l giorno rappresentasse col suo teatro spettacoli di tant’applauso, discaccia il giorno con abbatterlo, e mortifica noi altri col privarci di luce. Giornata terza. • « i • • • L’ Illustrissimo Contarini, esercitando offici d amicizia con Monsignor Paleotto, rendeva ancora noi capaci d o-blighi alla sua cortesia. Ci venne a ritrovare, e tutti insieme ci condusse al Palazzo Regio, introducendoci nell’Armeria secreta, ove in un batter d’occhio si suole armare 8oo uomini con una ordinanza d’arme maravigliosa. Vi è un tabernacolo grande di cristallo di montagna, tutto lavorato d’argento. Vi è l’armatura d’Enrico III; l’onore di Francesco Carrara, rinchiuso in tre lastre d’acciaio radenti; labarde che sparano dodici archibugiate ; la spada di Scanderbec ; una artiglieria che spara in una volta dodici colpi; stocchi uniti con pistole, ed altre bizzarrie militari, le quali son più confacenti ad abbellire un sì fatto luogo, che ad esser poste in esecuzione per salvezza della Città. Si passò dall’Armeria al Tesoro di — 269 — San Marco, il quale porta più ammirazione nella nominata, che riputazione nella vista. Vi sono due vasi d agata, incavati, d’un pezzo; una turchina in forma d una scudella; due gran corna d’alicorno; un diamante in tavola, donato da Enrico III alla Repubblica, di valsuta di dodicimila scudi ; ed una infinità di gioie di Murano, che arricchiscono maravigliosamente quel luogo. Da un altra parte si vide un Tesoro spirituale, il quale avanzava per la ricchezza delle gioie di gran lunga il temporale. Si vide un chiodo di N. S. ; un gran pezzo del Sacrosanto Legno ; alcuni capelli con una ampollina di latte della Vergine Santissima; ed altre reliquie, tutte venerande e miracolose. In sì fatte viste fu quasi la mattina congiunta a notte. Onde, ritornati a casa, fu compensata la scarsità del giorno dall’ abbondante vista della mattina. Giornata quarta. Il giorno de’ Santi siede il Duce in San Marco, a capella. Ci appagarono quei riti, e dilettocci l’armonia della musica. Si andò poi alla chiesa de’ Miracoli, non tanto per la devozione dovuta, quanto per il desiderio di veder quegli idoli, che vengono idolatrati da’ riverenti. Un numero di Dame, che eccedevano di grandezza il naturale, stampava nell’occhio del riguardante un miracolo. Erano però inverisimili le loro arti, avendo per fondamento l’improprietà. Il pretendere la denominazione del tempio dalla loro altezza era un effetto della loro alterigia. Cerchino pure d’approssimarsi al cielo, non ingrandiranno già mai il numero alle Deità. Cedano il campo a chi li — 270 — dona la vita; le pretensioni degl’ Idoli irritano i fulmini dei Numi. Usciti di chiesa, tornammo a casa. Dopo il desinare si andò in casa del Signor Vincenzo del Portico, nostro conoscente, a veder la pugna che si fa con pugni, nel guadagno d’un ponte cavalcante un canale. Le fazioni • • • son due, distinte in Nicolotti e Castellani. I partigiani sono assai, essendovi compreso tutto il popolo di Venezia. La sera s’andò in casa del Signor Giulio Strozzi, uomo di gran lettere, ove si sentì una sua figliuola adottiva cantar di musica con tant’ arte, che fu stimata una delle Muse di Parnaso, che vien concessa da Apollo per premio a’ virtuosi. Giornata quinta. L’amicizia de’ grandi è la chiave de’ contenti. Ci giovo assai in Venezia il passar amicizia con l’Illustrissimo Contarini, per arrivar al porto della felicità. Il giorno de’ Morti detto Signore si compiacque di scoprirci il gusto che si coglieva dalla pesca. Saliti dunque in una peotta c’ inviammo insieme con una cantatrice e con due » • altri musici verso la valle di Malamocco. Il mattino ci prometteva giorno felice, essendo placido il mare, tranquillo il cielo. Ci parevano in qualche parte presaghi d’ una continuata serenità i canti, deducendosi parimenti dal canto de’ volatili un bel sereno. Ma nulla valsero gli argomenti. L’esporsi alle onde era un abbracciar l’instabilità; dall’instabilità non si cava sicurezza. Appena furono divorate dal viaggio quattro miglia, che ruppe la fede il cielo, ed increspossi il mare. Il ritornar addietro non poteva succedere che con viltà. Fu eletta allora per ardimento la riputazione, e la forza de’ remiganti ci fu — 271 — scudo alle difficoltà. Arrivati alle Valli, e criunti all’abi- 1 o tazione preparata da’ servitori del Contarini per il desinare, si ristaurarono le membra al caldo del fuoco, e si reficiarono gli spiriti al fuoco del cibo. Era già trascorsa gran parte del giorno nell’ adirarsi il mare, quando, non so se mosso Eolo a compassione per li sacrificii de’ preziosi vini, si acquietarono i venti; abbonacciossi il mare, essendo placato Nettuno da una quantità di pesce ben condito, come olocausto proprio alla sua potenza. Si lasciarono intanto le tavole, e si apparecchiarono delle fuste, per goder nella tranquillità del mare il diletto della pescagione. Appena fu gettata la rete da’ pescatori, che fu restituita dal fondo carica d’ostriche grossissime; onde, nel rimandarla nell’ acque alcune volte, fu ripieno lo scafo di simil galanteria preziosa. Si andò poi ne’ vivagni de’ pesci, ove piacque all’ Illustrissimo Contarini da una rete farci vedere quel popolo prigioniero. Altri spassatempi si ricevè ; ma la scarsezza del giorno ci richiamava in Venezia. Risaliti in fretta si dispose il ritorno; ma la fortuna poco affetta, che incontrammo nel partirci, ci si mostrò altrettanto sdegnosa nel ritorno. Mentre allegri del gusto della pescagione davamo segni della nostra gioia all’ aria col canto, nacque in un subito un turbine dalli fondi bassi delle Lagune, che facendo ingrossare il mare e zufolare i venti, ci pose in forse la vita. I marinai sbigottiti dall’accidente, ed astratti dal vino bevuto, intimorivano i nostri petti. Ci fu bisogno legarci ad un palo, non come rei di morte, ma come meritevoli di vita. Ci condusse pure la sorte verso le tre ore di notte, dopo d’aver dato in seccagne più volte, per miracolo del cielo, in Venezia. Giornata sesta. L’accidente della precorsa giornata causò questo giorno un gran riposo. Sicché levatici assai tardi, fu consumata la mattina nel visitar alquante chiese, non per adempimento de’ voti che vengano fabricati dall’ occorrenze, ma per venerare chi si adora, e per ammirare il luogo della venerazione. Al dopo pranzo poche operazioni scacciarono il giorno. La sera si andò a sentir i primi vespri alli Frari, chiesa di San Carlo. Fummo partecipi d una musica in ogni squisitezza perfetta, essendo guidata da Monteverde (i), uomo di gran spirito. Ritornati a casa, si finì la sera col discorrere; ed io finisco la gioì nata col tacere. Giornata settima. L’illustrissimo Contarini stimava un giorno un grand in tervallo alle sue grazie. Chi desidera donar molto, gh par sempre di donar poco. Venne a ritrovarci la mattina e ci condusse a veder l’Arsenale, grandezza tanto ap prezzata in detta Città. Si videro molti Saloni, ne quali per ordine sono distribuiti 1’ ordigni marinareschi ; sono pagati da due mila uomini per lo smaltimento delle cose atte alla navigazione. Si vide similmente una infinita (i) Claudio Monteverde, celebre musicista, nato a Cremona verso il 157°» *"u maestro di cappella del duca di Mantova, poi di San Marco in \ enezia. Mori in questa città, nel 1649, e fu sepolto nella fossa comune di quella medesima chiesa de’ Frari, dove i nostri viaggiatori del 1635 ebbero la fortuna di ammirare nella sua musica sacra l’insigne trasformatore del dramma lirico. — 273 — di artiglieria ed una quantità grande di galee, alcune galeazze, e il Bucentoro, sopra del quale il Duce, con tutto il Collegio, il giorno dell’Ascensa, sposa il mare. Vedute queste grandezze, ritornammo a casa, e il dopo desinare ci trasferimmo ad un luogo lontano da Venezia un miglio e mezzo; il quale viene chiamato Murano. Si fe ivi provvigione di bicchieri, non essendo questo luogo che una fornace da bicchieri. Nel ritorno alla Città incontrossi la notte. Giornata ottava. La cortesia semina oblighi in chi la riceve. Era tenuto mio Padre di sodisfar a due visite; una al Signor Francesco Loredano, l’altra al Signor Francesco Bollani, tutti due gentilissimi e virtuosissimi cavalieri. Si andò dunque per adempire un debito, il quale era guidato da un buon terme (termine?). Ci trasferimmo poi a San Marco, ad udir la Santa Messa ; ed indi, non tanto per veder la fabrica, quanto per passar la mattina, si andò alla Madonna della Salute, la qual è una chiesa che si fabrica a spese pubbliche, per un voto, nella liberazione del contagio. Andossi nelle Merzarie, a provederci d’alcune cose necessarie per il nostro ritorno in Bologna ; ed il resto del giorno si passò in casa, essendoci stata vietata 1’ uscita dalla pioggia. Giornata nona. La pioggia d’ieri, ancorché ritardasse, non iscacciò però da noi la volontà obligata. Nell’ uscir di casa ci Atti Soc. I.io. St. Patri*. Voi. XXIX. 18 — 274 — trasferimmo al signor Marchese Riario, il qual più volte T At aveva onorata la nostra stanza con la sua persona, n si andò alla chiesa di San Giovanni e Paolo, ove si vide messa e si scorsero alquante pitture di maravigliose maniere. Nella piazza di detta Chiesa vi è alzata una statua a cavallo, di bronzo, rappresentante Bartolomeo Coleone, il quale con celebri azioni si guadagnò tal grado d’ immortalità. Arrivossi a Rio alto (Rialto) ove trovan dosi la nostra camerata unita, unitamente si andò a de sinare. Al dopo pranzo venne da noi un certo Tedesco intagliatore d’avorio : si comprò da lui alquante galanterie capricciose da portar a Bologna, sapendo noi benissimo che a’ rivedenti più aggradano i donativi che le proprie * O o • , persone. La sera si andò alla Comedia, e fu scaccia o dal riposo il giorno. Giornata decima. Sarebbe stato mancamento di non poca importanza Tesser in Venezia e non procurar d’uguagliare la fama alla verità. Restò in questa veduta la nominata superiora al vero. Si andò in tal giornata nel Gran Consiglio per vedere nelle loro politiche una massima di governo Ma il gran bisbiglio eh’ io vidi, causò in me tal confu sione, che lo giudicai una Sinagoga. Indi si andò in casa del Signor Vincenzo del Portico a veder il guadagno del Ponte, combattuto da Nicolotti e Castellani. In questa pugna chi non è partigiano non ha gusto: per cavar diletto da simil zuffa era data dal mio genio la palma a’ Castellani, sentendo nel loro nome un’ etimologia di forte. Ma vennero debellati, con Tesser traditi. L arme — 275 - pattuite erano i pugni; le soperchierie de’ Nicolotti erano i cesti, datigli a maggior loro vantaggio dal remo (1). Verso il tardi si andò in casa del Signor Giulio Strozzi a sentir un misto di soavità. Non so qual fusse maggiore, o il gusto che si ricevè dalla musica, o quello che si sentì da’ discorsi: ambedue queste cose riempirono la mia mente di contentezza. Giornata undecima. L’ esser vicini alla partenza ci rendea ansiosi di provvigione. Si passò dunque questo giorno nel procacciar cose non tanto bisognose alle nostre persone, quanto necessarie all’ altrui grazia. Giornata duodecima. Questo giorno, il quale era destinato alla partenza, fu dilungato dal tempo cattivo. Ma all’annuale di San Martino è accettoria una gran pioggia, quasi che appunto il Cielo voglia impedir con l’acqua i disordini che si commettono in tal giorno. Sarebbe certo appropriato 1’ antidoto ; non puoi però operare, perchè non ritrova il male. Cessata per un poco la pioggia, si andò a sentir la Santa Messa, e ritornossi a casa, essendo timorosi di sortite di tempo. Si passò il giorno nelle cose atte al viaggio, e si consumò la sera nel ringraziare il Signor Ottavio dell’alloggio. (i) Vuol forse alludere alle mani fatte callose dall’uso continuo del remo. — 2-6 — Ritorno a Bologna. Passato il giorno precedente, parve men adirato il Cielo; non si potè però scorger nel suo volto benignità tale, che invigorisse il bisogno a farsi ardito. Verso il tardi ebbero per bene i marinari dall’ apprendere alcuni contrassegni di tranquillità d’ appigliarsi all’ ancora della speranza. Si lasciò dunque Venezia nell’arrivo della notte, essendo noi su naviglio comodo a trascorrerla. Giunti ad un luogo il qual vien chiamato Le Focine, si lasciarono le cinque miglia di Laguna, ed entrossi nel Canal maestro a due ore di notte. A questo arrivo preparata un po’ di cena, secondo che ammetteva la comodità della barca, si proseguì il viaggio, servendoci l’istesse tavole della cena di letti, per il riposo della notte. Nel ritrovar il giorno seguente fu da noi scoperta Chioza, la quale ci additò le 25 miglia trascorse la notte. Entrammo assai presto nel Canal delle Valli, ed indi entrando in l’Adige, si andò a Loreo, che è distante da Chioza miglia 15. Lasciato Loreo due miglia, si entrò in Po, e con Panzana si proseguiva il cammino alle Papozze. Ma 1’ aver avuto cavalli tiratori pigri, causò che questa sera alloggiassimo alla chiesa della Butriga, lontana dalle Papozze miglia quattro, non potendosi navigare il Po di notte tempo senz’ incorso di molta pena. La mattina seguente sentimmo messa all’istessa chiesa, e tirammo avanti, dando imbarco per Ferrara a quel Padre che ci aveva dato ricetto in detto luogo. Si confermarono le bollette della Sanità ad un luogo poco lon- - 277 - tano dalle Papozze, chiamato Corbola, ove è il confine de Veneziani con Ferraresi. Giunti ad una osteria chiamata V arda, si presero due cavalli gagliardi per andare a Francolino di giorno ; ma l’aver dato più volte nelle seccagne fu causa che ci arrivammo ad un’ora di notte. Non vi passammo troppo bene la notte, essendo al nostro arrivo l’osteria piena di passeggieri. La mattina seguente il Padre, al quale si dava imbarco, ci disse messa, e si proseguì sopra del nostro bucentoro verso il Ponte di Lago Scuro, ove ritrovammo il Signor Giulio Vaccà, eh’ erano due giorni che ci attendea in quel luogo. Ci ricevè con molta cortesia, e mandò i colli delle nostre robbe sopra delli carri ; e noi altri entrando nel Canale arrivammo nel fosso di Ferrara a 19 ore. Non permise il Signor Giulio che alloggiassimo in altro luogo che in sua casa; vi ci trattenne la notte, avendo mandato nell’istesso tempo le nostre robbe avanti in Malalbergo. Così il giorno seguente, licenziatici dal Sio-nor Giulio, con un sandalo s’indirizzò il viaggio a Malalbergo, per un canale più corto della strada maestra. Ma ad un passo seguì una metamorfosi, che non mi raccordo mai averla letta ne’ libri. Il sandalo che portava noi altri. bisognò, per trapassare alcuni pali che impedivano l’andata, sostenerlo per un poco sopra delle spalle, e traghettarlo all' altra riva. Arrivati in Malalbergo ritrovammo che il canale che conduce a Bologna era rotto; onde era impossibile il viaggiare. Si ricorse ad un espediente, che per esser solo si chiamò unico. Si tolsero alcuni cavalli tiratori di barche, che, per esser la strada asciutta, erano sfaccendati; e passata quella notte in Malalbergo si cavalcò la mattina - 27S - verso Bologna, accompagnati da un tempo carico di pioggia. Si giunse nella Città a 23 ore, con un’ ottima condizione di viaggiare, avendo viaggiato ancor per acqua, non avendo pagato che le cavalcature. INDICE Prefazione....................pag '• — Piaggio fatto nel 1609 verso Loreto, Roma e Napoli . . » 33 II. — Viaggio fatto nell’anno 1612 per via del Po, verso Ferrara, Venetia, Padoa, ed altre città di Lombardia ...» 97 IH- — Viaggio fatto in Spagna nel 1619........... 135 IV. — Viaggio a Messina............... 165 V. — Relazione del terzo viaggio fatto dall’ Ill.n,° Signor Gio : Vincenzo Imperiale nell’isola di Corsica e di Sardegna in su ’l fine del suo Generalato, nell’anno 1620, 19 d’aprile................. „ 183 VI. — Viaggio fatto nell’anno 1622 per Lombardia, navigando il Po, verso Ferrara, Venezia, Padoa; e per lo Polesine a Francolino e a Bologna; indi per le Alpi a Firenzuola e Scarperia, sino a Firenze, e finalmente per Pisa a Genova............... „ 207 VII. — Viaggio fatto a Milano nel 1623 a’ 30 di marzo .... » 227 Vili. — Viaggio fatto a Napoli verso il primo del 1628 .... » 235 (X — Ragguaglio del commissariato per la Serenissima Repubblica tenuto in Riviera l’anno 1631.......... » 241 X — Viaggio da Genova a Bologna nel 1635 l’ultimo di giugno. » 249 XI. — Viaggio da Bologna a Venezia, giornate e ritorno ... » 261 INDICE Prefazione................. !. — Viaggio fatto nel 1609 verso Loreto, Roma e Napoli . II. — Viaggio fatto nell’anno 1612 per via del Po, verso Fer rara, Venetia, Padoa. ed altre città di Lombardia . - III. — Viaggio fatto in Spagna nel 1619........ IV. — Viaggio a Messina............ V. — Relazione del terzo viaggio fatto dall’ IU.Di° Signor Gio Vincenzo Imperiale nell’ isola di Corsica e di Sardegna in su ’l fine del suo Generalato, nell’anno 1620, 19 d’aprile.............. VI. — Viaggio fatto nell’anno 1622 per Lombardia, navigando il Po, verso Ferrara, Venezia, Padoa; e per Io Polesine a Francolino e a Bologna; indi per le Alpi a Firenzuola e Scarperia, sino a Firenze, e finalmente per Pisa a Genova............... VII. — Viaggio fatto a Milano nel 1623 a’ 30 di marzo . . - -Vili. Viaggio fatto a Napoli verso il primo del 1628 . . . -IX - Ragguaglio del commissariato per la Serenissima Repubblica tenuto in Riviera l’anno 1631....... • • X — Viaggio da Genova a Bologna nel 1635 l’ultimo di giugno. XI. — Viaggio da Bologna a Venezia, giornate e ritorno . . . Pag. 97 >55 165 183 207 227 25) 241 249 261 ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME XX I X FASCICOLO li. GENOVA PRESSO LA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA PALAZZO BIANCO TIPOGRAFIA R. ISTITUTO SORDO-MUTI MDCCCXCVIII — * 4fc « i* j Dl rcgg4 ■A-'' # ^tr6U0T,0SI oi mpòjjì [ip Litografia Sordo -ni uti.&finovs. ? DE’ GIORNALI DI GIO. VINCENZO IMPERIALE DALLA PARTENZA DALLA PATRIA Anno Primo Al Sig.» AGABITO CENTURIONE NULLA DIF.S SIN E LI NI: A ( Con Prefazione e Note di ANTON GIULIO BARRILI ) Soc. Lic St. Patri*. Voi. XXIX, f.nc. II. 19 Genova, Tip. Sordo-muti — 1898. PREFAZIONE ffrendo agli egregi colleghi la stampa di questi Giornali del nostro genovese Gian Vincenzo Imperiale, sciolgo un voto già espresso, or fanno parecchi mesi, nel-1’ atto di pubblicare i Viaggi del medesimo autore. Sull’indole dell’opera, rimasta sino ai dì nostri ignorata in un privato archivio, non avrei forse altro a dire, poiché ella viene oggi sotto gli occhi di tutti. Ben mi corre obbligo di significare da bel principio la ragione dei tagli che ho dovuto farci per entro, riducendone la mole ai due terzi del manoscritto (i). Questi Giornali (i) Codice legato in pergamena, di 620 pagine, in carta di filo, alta 35 centimetti e larga 24; tutto scritto di inano del signor Gian Vin- ♦ - 284 - vanno, senza un giorno d’ interruzione , dall 8 maggio del 1632 al suo corrispondente del 1633, formando un anno intiero di vita vissuta, donde io non ho tolto nessuna cosa utile, o che mi paresse tale, riconoscendo anzi nei particolari più minuti, e a prima vista meno importanti, una fedele ed animata esposizione di ciò che 1 autore aveva veduto ed operato, sentito e pensato. Questo era per me 1’ essenziale, e certamente sarà pei lettori benevoli; laddove le frequenti digressioni, morali, religiose e politiche, come le disquisizioni erudite e le esercitazioni accademiche, onde per uffizio di personali ricoidi era pieno il volume, riuscirebbero oggi ad aggravare il racconto, e a ritardare la curiosità, naturalmente rivolta ai fatti, così eloquenti nella loro schiettezza, così interessanti nella loro novità , segnatamente dove si tratti di persone e di cose, di usi e di costumi, che ci dànno, per così dire, il vivo aspetto d un secolo. Ciò eh è reciso dall’ opera non sarà altrimenti perduto, perchè troverà luogo più adatto in qualche altra pubblicazione, che giovi ad illustrare la vita in- cenzo Imperiale, che anco vi ha fatto a guisa di antiporta un suo tocco penna, coll’ arme di sua gente nel mezzo, e negli angoli le quattro impres assunte da lui nelle quattro Accademie a cui era ascritto. Ne offro la ridu zione litografica, non potendo il facsimile. Questo volume di Giornali reca nel frontispizio la scritta: « Anno primo »; ma è rimasto poi unico pe volontà dell’Autore, come è facile intendere dal commiato dell opera. — 285 — tellettuale del Secento nella nostra città , non povera mai, e molto meno a quel tempo, di gentiluomini letterati, che alle gravi cure del governo associavano il culto delle nobili discipline. Così, senz’ altri frastornamenti, è posto innanzi al lettore, in narrazione più serrata e veloce, tutto ciò che un uomo in alta condizione di nascita, di fortuna, d’ingegno e di uffici ha potuto osservare ed esprimere, non solo per trattenimento di congiunti e d’ amici, ma ancora per documento dell’ animo suo a più largo ceto di persone; il che, come apparisce manifesto in due o tre luoghi di questi Giornali, s’intende in complesso dalla cura che lo scrittore vi ha posta, fiorendo il racconto di molte eleganze, impresse qua e là del gusto d’allora. Ma qui non accade di fermarci a sentenziare sul Secento, che in letteratura come in arte è quello che è, nè possiamo cangiarlo noi, nè vogliamo scusarlo; soltanto ci richiameremo alle cose già dette, nella prefazione ai Viaggi, di quei cartocci e di quei contrapposti, che se volgevano a stravaganza nelle elevate scritture, riuscivano talvolta ad arguta bizzarria nelle prose familiari , offrendoci parecchi elementi del moderno umorismo. Così ancora, per togliere ogni impaccio alla lettura, pur lasciando nel testo alcune forme grammaticali oggi respinte dall’ uso, ho abolite in questi Giornali, — 286 — come già nei Viaggi, talune singolarità di grafia, che del resto non essendo neanche costanti nel manoscritto dell’ Imperiale, davano indizio d u-sanze già presso a sparire, o di poca importanza ad esse attribuita dall’ autore. Intendo parlare dei co V, dei ne 7, e di altri consimili lacchezzi cinquecentistici ; degli h tanto prodigati in nomi e verbi, e dalla moderna ortografia quasi sempre sbanditi ; degli u in ufficio di consonante, e in iscambio di v\ dei t latinamente appiccicati alla • • * congiunzione innanzi a parola incominciante in vocale; cose da edizioni critiche, ad uso d una classe ristretta d’ eruditi, non da stampe correnti, a comodo e intelligenza di tutti (i). A tutti, ne ho fede, torneranno graditi questi Giornali, così ricchi di notizie minute del tempo, così caratteristici per la istessa individualità di che li ha impressi l’autore. Non oserò dire che il genere dei diarii privati, toccanti d’ ogni cosa della vita circostante in relazione col narratore, sia stato inventato dall’ Imperiale: ben posso notare eh’ egli ne ha lasciato qui un magnifico esempio, reso originale dalla triplice importanza, (i) A comodo di tutti ho ardito far novità in questa pubblicazione, premettendo ad ogni mese, quasi fosse capitolo distinto, un sommario delle cose in esso discorse; così rinunziando ad un lungo indice, scritto dall’Autore e diviso in a particelle del contenuto », e nell’ordine seguente: « Accademiche, Amorose, Devote, Famigliari, Morali, Piacevoli, Politiche, Varie descritte ». letteraria, politica e sociale del personaggio, che osserva e giudica, e narra e descrive. Nè parrà meno singolare che tanta varietà di cose piacevoli ed istruttive si colleghi e s’ intrecci di giorno in giorno ad una questione di proprietà territoriale e ad un viluppo di liti che ne seguì; per cui ci si offre a spettacolo quotidiano, e colta sul fatto, 1’ amministrazione della giustizia in Napoli, sotto il dominio della monarchia spagnuola , e 1’ ingerenza perturbatrice dei suoi viceré. Che se il compratore di Sant’ Angelo de’ Lombardi e d’ altre terre contermini fu mal servito da un procuratore infedele o leggero ( inclinerei a crederlo leggero), tanto che gli convenne pagar talora due volte un medesimo tratto di paese, non è men vero che a lui troppo lungamente fu negata giustizia, e arruffata per modo la matassa forense, da guastargli il sangue e da fargli a certe ore scappar la pazienza. Ed egli si lagna a ragione, anche quando vede le cose più nere che in effetto non siano, o teme e sospetta di tali, in cui da principio aveva riposta, e a cui più tardi restituirà la sua fede, mutando facilmente opinione sugli uomini, come può accadere ad ognuno di noi, e come noi stessi potremmo dimostrare ai venturi, se usassimo scrivere di giorno in giorno i nostri ricordi, fidando le nostre malinconie ad una sequela di pagine intime. — 288 — Ed anche dolendosi di questi o di quelli, Gian Vincenzo resta signorilmente misurato nelle forme, conservando amabilmente le sue relazioni sociali con quei medesimi che nelle aule dei tribunali o nei consigli della Camera regia gli si levano contrarii, tormentandolo di sempre nuove pretensioni, accumulando a’ suoi danni gli arti-tifizi ond’ è ricca la procedura giudiziaria. Infatti, nella accademia degli Oziosi, che raccoglieva il fiore dei gentiluomini napoletani, e dov’era spesso invitato a parlare, nei ricevimenti del viceré, nei ritrovi più eleganti, dov’era accolto a festa, egli incontrava sempre i buoni amici che vantavano crediti sul territorio feudale da lui acquistato, e che ad ogni tratto gli muovevano lite, aiutati dalla parzialità dei pezzi grossi; ed egli a combattere infaticato contro tutti, pur facendo bocca dolce ad ognuno, da uomo avveduto notando le in- o 7 sidie legali, da gentil cavaliere onorando la cortesia delle persone. Il contrasto è gustoso , é lo ravviva una grande felicità di tocchi, da cui balzano fuori centinaia di figure, che ci pare di aver sempre conosciute ; tra le quali primeggia (e non fu veramente di un avversario in tribunale) quella del marchese di Villa, in cui gli studiosi della patria letteratura riconosceranno con piacere il famoso Giovan Battista Manso, amico in sua giovinezza e biografo amoroso del lasso; un fior — 289 — di gentiluomo, da illustrare tutta una società, e giustamente chiamato dall’imperiale, con parole del Petrarca, « il cavalier che tutta Italia onora ». I Giornali finiscono, come ho detto, coll’8 maggio 1633; ma non finiscono altrimenti le liti, durate ancora tre anni (1) , e fuori dalla assi- (1) Abbiamo in atti del notaro genovese G. B. Gianelli Castiglione, sotto la data del 15 marzo 1678, la carta di dimissione del possesso di Sant'Angelo, fatta dagli eredi del signor G. B. Imperiale a favore dei congiunti Francesco Maria seniore e Francesco Maria giuniore, per amichevole transazione e concessioni reciproche, dopo lunghe e dispendiose liti sostenute in Napoli. In questa carta si compendiano tutte le circostanze relative alla compera del principato di Sant’Angelo, fatta da Gian Vincenzo il 14 aprile del 1631, al prezzo di ducati cento novantottomila cinquecento settanta, da D. Francesco Maria Caraffa, duca di Nocera dei Pagani. Di questo documento riferisco due passi, che gioveranno a farcene intendere parecchi nei presenti Giornali : « . . . . ambae partes asseruerunt et asserunt quemadmodum annis peractis Ill.'nu' D. Franciscus Maria Caraffa dux Nuceriae, uti baylius et legitimus administrator Jll.mi D. Francisci Caraffae Comitis Bria ni (sic) mediante 111.'"0 D. Hectore Ravascerio ex Comitibus Lavaniae Duce (? forse da correggersi in vice) CardJ“ et Principis Satriani ejusque Vicario et Procuratore generali, praevio Decreto III”" et Èxcell.mi D. Ducis Alcalà olim Regni Neapolis pro Regis, ac Regii Collatcralis Consilii ejusdem Regni, vendidisse libere absque ullo pactu reemendi qm- doctori Josepho Battimello civitatis Neapolis, civitates Sancti Angeli Lombardorum et Nusci, ac terras Leonum, Carbonariae et Andrettac, de Provincia Principatus Ultra, cum earum et cuiuslibet ipsarum castris, sive fortilitiis, domibus, seu palatiis, vassalis, feudis, sub (sic) feudis bonis, membris, introitibus, juribus, jurisdictionibus, actionibus et per tine ntiis quibuscumque, et integro statu, aliisque bonis et juribus, pro praetio Ducatorum Centum nonaginta octo mille quingentorum septuaginta, et sub pactis conditionibus obligationibus ct clausolis, latius et distinctius expressis et specificatis in cautelis rogatis manu qm- Notarii Jo. Vincendi De Januario dictae civitatis Neapolis die 14 mensis Aprilis 16 ji quibus relactio habeatur et cap.,a per dictum Josephum mediante eius Procuratore possessione (sic) omnium dictarum Civitatum ct Terrarum fuisse per — 290 — stenza di lui. Quando lasciasse Napoli, ignoro; da un suo cenno di nostalgìa indurrei che il ritorno fosse sollecito. Certo, era in patria sul finir di quell’anno, quando un cittadino di Sant Angelo gli mandava augurii pel Natale fin dal 2 di decembre; cortesia epistolare che poteva indugiarsi di una ventina di giorni , se 1’ Imperiale fosse eundem q*- Ill.mmm D. Jo. Vincentium Imperialem solutas quamplures pecuniarum summas ad computimi, et infra solutionem dicti praetii ; et hcet Per dictum qm- Josephum facta fuerit revocatio emptionis (i) predictarum Civitatum et Terrarum virtute instrumenti rogati per matius Notarti Dominici Medae dictae civitatis Neapolis, nihilominus per dictum qm IU. D. Jo. Vincentium solutae fuerunt aliae pecuniarum summae et quantitates ad computum predicti praetii, ut constat ex aliis cautelis et documentis quibus similiter sit habenda relactio. Et die 24 Junii i6j6, pr edic tus q IU"'" D. Comes Suriani (sic) Franciscus Maria Caraffa, haeres m feu-dalibus IU.”" D. Catherinae Carraciolae Ducissae Montis Leonis ejus aviae maternae, cum expresso consensu dicti III."’1 Ducis Noceriae tius patris, ac etiam cum praesentia et auctoritate Ill.m\ D. Jo. Angeli Barrili Ducis Caivani Regii Secretarii in dicto Regno Neapolis, ad infrascripta specialiter deputati per tunc Excellentissum D. Proregem dicti Regni i\eapolis , pro predictis pecuniis per dictum qn- Ill.mum Jo. Vincentium Imperialem solutis, aliisque pecuniarum quantitatibus per dictum D. Comitem ad beneficium dicti qm III."1 D. Jo. Vincentii ex computandis, nec non pro alus per eundem q" Ill.mjm Jo. Vincentium solvendis, constituentibus totum et in tegrum dictum praetium, et pro earumdem pecuniarum solutione et satisfac tione de voluntate III”' D. Cornelii(2) Spinula procuratoris ad infrascripta predicti q-• Ill.mi Jo. Vincentii insolutum dedit et vendidit libere et absque Pactu reemendi quondam utriusque juris Docton D. Landulfo de Aquino predictas Civitates Sancti Angeli et Nusci, ac predictas Terras Leonum, Andre ttae et Carbonariae, sitas in pr edicta Provincia Principatus Ultra, (1) Dovrebb’essere la rinunzia di compera accennata nei Giornali a pagine 677, 688. (2) Ne; Giornali, a pagine 422, 425, questo Spinola, procuratore di Gian Vincenzo alla compera di Sant’ Angelo, é indicato col nome di Orazio. — 291 — stato presente a Napoli, lontano appena due giornate di procaccio dal suo principato. Comunque sia, a finir le sue liti vegliava un famoso avvocato di quel tempo, Don Landolfo d’Aquino, il cui figlio fu poi principe di non so quale fra i quattro o cinque Castiglioni del reame di Napoli. La gran questione tra 1’ Imperiale e i cre- cum earum ct cuiuslibet ipsarum bonis membris corporibus introitibus juribus integro statu, cum onere solvendi, a die prima mensis Aprilis 16ji in antea, ducatos 2140, et pro eis annuos ducatos 20J Regiae Curiae ex causa devolutionis bonorum Feudalium q'" D. Cesaris Caracioli et Fratrum, iuxta formam cautelarum et scripturarum inde apparentium rogatarum manu dicti, regio assensu allatarum mediante privilegio expedito per Exc. D. predicti Regni Aeapolis proregem, die.....registrato iti Privilegiorum .... fol.. .. Qui quidem D. Landulfus antecedenter die 18 dicti mensis Junii eiusdem anni i6j6 declaravit insolutum dationem et venditionem dictarum Civitatum et Terrarum, aliorumquc bonorum ct jurium praedictorum, faciendam esse ad instantiam et contemplationem praedicti q'"- Jo. Vincentii, de cuius pecuniis fuerunt solutae quamplurcs summae ct quantitates, ut fuit superius enunciatum, et erit solvendum creditoribus praedictorum Dominorum Ducum D. Ferdinandi et D. Fraticisci Mariae residuum totius et integri praetii...............». « .... et die 5 mensis septembris dicti anni 16j6, cum praedictus IUJo. Vincentius in humanis ageret, in quadam ejus epistola sive ordine directo q. D. Lamdulfo declaraverit praedictum Statum Sancti Angeli cum ejus civitatibus et terris ... emisse de ejus propria pecunia ad finem de eis faciendi amplam donationem dicto quondam III:"0 D. Jo. Baptistae Imperiali ejus filio .... Statini sequuta morte ejusdem quondam III:"' Jo. Vincentii, praedictus quondam D. Lamdulphus declaravit dictum quondam IU. 1 Joannem Baptistam in primum acquirentem dicti Status , ita ut Posse/ de eodem Statu disponere in totum et per totum, sequuta forma dispositionis dicti quondam III."'' Jo. Vincentii contenta in eius ultimo testamento ; ordinavitque quod dicta epistola sive ordine facto per dictum quondam 111.""' " Jo. Vincentio sub datum Bononiae dicta die / septembris 16j6.....» ctc. ctc. ditori del Nocera finì nel 1636, restando a Gian Vincenzo, forse la mercè di qualche altro sacrifizio pecuniario, tutto ciò che fin dal 1631 aveva comprato, cioè le città di Sant’Angelo e di Nusco, e le terre di Leoni, Andretta e Carbonara. Lui morto nel 1648, nacque altra lite tra i figli, per cagione del testamento che investiva del principato napoletano il secondogenito Giovan Battista : e durò la bellezza di trent’ anni; composta finalmente nel 1678 tra i figli dei figli. E basti di ciò. Ritornando ai Giornali, la loro importanza è notevole per tutto ciò che vi si riflette dei costumi della società napoletana, come delle sue relazioni con la società genovese d allora. Gli amici di Gian Vincenzo vi hanno le pagine migliori ; il Manso, ad esempio, coi suoi discorsi consolatorii, e il cardinale Savelli con la sua Sofonisba romana, valentissima cantatrice e vaghissima donna, che ispira al nostro Imperiale poco meno d’una diecina di madrigali guarineschi. Non son meno interessanti le descrizioni dei balli e delle rappresentazioni teatrali del viceré Monterey, o i cenni intorno alle dame dell aristocrazia, tra le quali emergevano allora le sei arcibellissime, sempre unite ai passeggi, e chiamate con arguzia castigliana las Matadoras, come a dire sterminatrici di cuori. Le processioni e le luminarie napoletane per tutte le solennità dell anno, le funzioni di — 293 — chiesa, i sermoni e i panegirici si alternano ivi con le passeggiate di Chiaia e di Posilipo, con le pesche di Nisida e di Baia, con le vendemmie di Capodichino e con le scampagnate di Pozzuoli. Chiudono la serie dei lieti trattenimenti le cacce del principato di Sant’ Angelo, dove le festose accoglienze dei sudditi offrono un saggio , che credo unico, di costumanze feudali, nel tempo che incominciavano a rifiorirsi di più moderne eleganze. Siamo a Napoli ; ma Genova è di continuo presente. Vediamo qui le relazioni tra la monarchia di Spagna e la nostra Repubblica , in quel suo periodo di decadenza fatale che a Gian Vincenzo non isfugge. È importantissima per la storia nostra la lettera in cui egli descrive al cardinale Giannettino Doria le recenti fortificazioni di Genova, come per l’arte quell’altra in cui descrive 1’ arco di trionfo improvvisato in un certo punto dell’odierna via Balbi per l’arrivo della regina d’Ungheria; e 1’una e l’altra ci dicono in che condizioni di continuo sospetto si ritrovasse la povera Serenissima tra le ambizioni dei contermini duchi di Savoia e gli aiuti interessati della Spagna, che non ci risparmiava neanche le umiliazioni, come ad esempio ci avvenne due volte, nel 1619 e nel 1632, in quel porto di Messina, dove le galee di Genova dovevano — 294 — cedere il posto d’ onore a quelle di Malta ; umiliazioni onde 1’ Imperiale si accora , ricordando nel caso toccato al Pallavicino quello che a lui medesimo era toccato tredici anni innanzi , ma non senza la consolazione di una sdegnosa protesta. L’ uomo era fiero; sentiva alto della patria e di sè, forse per ciò dispiacendo ai colleghi, cui pareva fior di senno politico mostrarsi remissivi con tutti. Certo, non potendo a’ suoi dì prevedere un così pronto scadimento della potenza spagnuola di contro alla francese, la scelta sua nel cercar le alleanze non doveva esser dubbia: ma nella devozione alla Spagna egli avrebbe voluto maggior cura della patria dignità, confortata da più provvide difese ai confini. Di questa sua cura è luminosa testimonianza la nuova cinta murale di Genova, da lui consigliata e promossa con tanto sussidio d’ argomentazioni strategiche e tattiche ; ad onta delle quali non avrebbe vinto il partito, e il mal animo e la stoltezza sarebbero riusciti a lasciar la città col danno e lui con le beffe, se non fosse giunto opportuno il consiglio d un suo parente e grand uomo di guerra, Ambrogio Spinola, l’espugnatore di Ostenda e di Breda. Altra testimonianza delle sue sapienti sollecitudini furono i commissariati alle difese della Riviera di ponente; d’uno dei quali, che fu del 1631, ho pubblicate le note tra i Viaggi, e di un altro, del 1632, che pure accenna a gite antecedenti per il medesimo fine, riferisco la relazione tra i documenti di questo secondo fascicolo. Quali effetti sortissero tante diligenze del virtuoso cittadino , m’ è ignoto ; se forse non è da credere che unico fosse il crescere delle invidie contro di lui, donde a breve andare una sciocca accusa e l’esilio; del quale nuovamente si lagna in un frammento di difesa, che pubblico tra i documenti medesimi, avendolo ritrovato fra le carte di lui. Quanto al suo pronto richiamo in patria, sono dolente di non aver raccapezzato ancor nulla che avvalori la mia congettura, fondata sopra una lettera di Gabriello Chiabrera del settembre 1636. Due minute di lettere sue, che ho pur rinvenute, e che riferisco del pari, lo mostrano in Genova, e quieto e onorato, intorno al 1640. Non dispero tuttavia di ritrovare dell’ altro, rispetto a questo argomento, maravigliando che già tanto me ne sia venuto, nel giro di pochi mesi, alle mani. E mi piacerà per 1’ uomo , che fu così ragguardevole nella storia politica e letteraria della patria sua; e mi piacerà pel tempo, che non è senza importanza nella storia italiana, e che dalle carte genovesi attende gran luce. Anton Giulio Barrili. Al Signor Agabito Centurione o Figlio e Signor mio il ragguaglio di quel che ho fatto da quel tempo che vi ho veduto: se avrete Voi tanta sofferenza per leggerlo, quanta ho avuta io diligenza per iscriverlo, dall’epilogo di quelle faccende che ho praticate, confesserete che, se vissi inutile, non vissi ozioso. Forse in questa leggenda non ha cosa che debba piacervi al sentire, perchè non è cosa che mi sia piaciuta al fare: pur tutti i fatti miei vi racconto. Sono essi non men varii che numerosi : onde voglio darmi ad intendere che quel tedio che verrebbe per la prolissità della mia diceria, possa emendarsi per la varietà della mia storia. La varietà, perch’ è madre della novità, è nodrice della scienza, eh’è figlia della curiosità. Allattata dalla varietà, Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIX, H, ao — 298 — allettata è la fatica dalla gloria: per opra della varietà, più che per merito dell'opra, sovente un quadro a paesani figurato, non men di qualunque altra pittura vien gradito. Di somigliante miscuglio mi credo a punto aver pen-nelleggiato uno schizzo: queste carte ne contengono 1 abbozzo, ove non secondo le regole della perspettiva drizzai le linee al centro, ma conforme gl’ ordini de i casi formai ritratti al vero. Più verace che vaga è questa mia pittura ; ma per difetto dell’ originale, non per vizio della copia. Per non tralasciare del propostomi ogetto parte alcuna, benché menoma, ho menomato me stesso nella narrazione di avenimenti eziandio minuti. Anco i picoli nei, appariscenti nelle facce, convien che appariscano nelle tele. Non volli, per adulare i ritratti, che fossero traditori i miei pennelli: nè mi piacque, per apportar altrui piacere, il travisar con maschera di giovialità gli aspetti della mia tristezza. Chi ha lungamente patito, non può patire di non essere un giorno compatito. Mi è bisognato vestire le imagini con tanti colori, e tanto fra di loro differenti, quanto i miei casi furono tra di loro disuguali. Un panno composto e vergato talor anco è piaciuto: non so dir altro. Egli non ha unità, pei clic dal caos de’ miei nego/.ii prende la natura: non ha grazia, perchè, ove alloggiano le Cure, non si trovano le Grazie: ma forse nella rconfacenza si confà con la sostanza: facciasi conto che sia tessuto per elezione del-l’Arte quel che fu ordito per necessità della Fortuna. Ah Fortuna, Fortuna, così mi fossi tu stata favorevole • } * * ne’ miei maneggi, e mi fossi poi stata contraria ne miei — 299 — scritti, li giuro che non m’importerebbe si potesse dir male della mia penna, mentr’ io potessi dir bene della tua rota. Signor Agabito mio, vedrete da questi miei scarabocchi che ho fatto quel che ho potuto, e che la fortuna ha fatto quel che ha voluto. Per non finir la vita prima che finir la fabrica, ho sospeso in Napoli quel lavoro per il quale io venni in Napoli. Già nell’ occupazione de’ miei pensieri, e nello spargimento de’ miei sudori, s’impastava col disturbo de’ miei sonni la ruina de’ miei giorni. Avrei lasciato similmente alla polve il mio Giornale, se il travagliare in questa mia scrittura non mi togliesse da maggior travaglio. È mio divertimento ne’ gli affanni questo mio trattenimento nei ragguagli: ne’ quali pongo poco studio, perchè sono incapace di gran stento. Se con l’azione io non impedisco la mia voglia, almen con la fatica misuro la mia forza; raccordevole in ciò del precetto Oraziano: Sumite materiam vestris qui scribitis aequatu Viribus, et versate diu quid ferre recusent Quid valeant humeri..... Sì come in questa mia età, guerreggiata dagli anni, assediata dalle malattie, oppressa da i disgusti, forse ho fatto male ad esporre me stesso a risico, per torre‘altri da incommodo; così certamente malissimo avrei fatto, se per acquistar pregio da questo mio scritto avessi involato l’ore al principal mio fatto. Ben so che non meritiam lode per le nostre opre, ancor che buone, se per badare alle buone, tralasciamo le migliori. — 300 — Il mio fare è stato l’argomento del mio scrivere. E se il continuo mio scrivere, aò-£Ìunto aJ sollecito mio fare, 7 o o non mi lascia un momento star all’ozio, vengane incolpato quell’ impulso, per la cui spinta, secondo i Peripa-tetici, hanno l’anime nostre il movimento. Noi non ci facciam da noi: Tesser che si vede in noi, vien da non veduta essenza, dalla quale non siam formati a nostra posta, nè siam movuti a nostra voglia. Per quanto desiderassi mai sempre l’ozio, già mai non seppi star ozioso : chi può distaccarsi dal Genio che col nostro natale nacque in noi? chi può con la ricetta dell’Arte sanar le infermità della Natura? La Natura in altri seminò spiriti neghittosi, in altri faticosi. Naturae sequitur semina quisque suae. (Properzio). Almen chi coltiva non altro che le spine, in tutto non fusse povero delle rose; eh’ove dal mio travaglio non ho premio, almen non avrei danno. Almen avessi il danno, e non avessi il biasimo; che quel che si sopporta nella persona è sofferibile, quel che si sofferisce nella reputazione è intollerabile. Se questo mio componimento già mai fosse veduto, ben vedo quanto ben sarei tacciato: chi m’incolperebbe di leggierezza per esser troppo facile a far cadere in carta tutto quello che mi viene in bocca ; chi mi accuserebbe d’ignoranza per essermi appigliato a tal materia, che, povera di confacenza, è ignuda di uguaglianza ; chi mi riprenderebbe per questa olla podrida, imbrogliata di racontamenti domestici, di ragionamenti morali, di parlamenti amorosi, di discorsi politici, di lezioni acca- - 30i — demiche, di favellamenti devoti ; e mi raffaccerebbe il verso : Denique sit quoti vis simplex dumtaxat et unum. (Orazio) Nè so, se posta la mia causa alle difese, fosse per me valevole il provare come non di rado molti semplici uniti nel composito acquistino il perfetto; come dalla disuguaglianza delle voci si riduca il concento all’ armonia. Ma per confessar il vero senza corda, e per domandar perdono senza scusa, io mi dichiarerei che tutti questi difetti di questa mia scrittura fanno quelli effetti eh’ io desidero. Mostrano essi la ocasione avuta co’l far mostra dell’opera affrettata: vengono per tanto qua inseriti, non per ostentazione dell’ intelletto, ma per formalità del comentario: possono dunque per giustizia meritar la grazia, di esser compatiti nell’esser censurati. Che abbia frapposte le cose gravi alle famigliari, le piacevoli alle maninconiche, le devote alle profane, si discolpa da me con questa verità, che più da gli accidenti che da i proponimenti s’originarono i discorsi. A questo solo ebbi avvertenza; perchè il mescolar le divine con le umane pratiche, per quanto si cammini col piè dell’ossequio, non fu mai senza pericolo. A fin di non urtar nell’indecoro, sì come nel ragionar delle profane mi son nauseato al solo odore delle drogherie di Cipro, così nel divisar delle sagre non mi sono profumato con gl’ incensi della Chiesa. Nè per tanto mi avviso di aver io fatto oltraggio alla materia, se per prova di concetti ecclesiastici mi sono di profani testimoni approfittato, avegna che a gli ecle-siastici il servirsi di profani somigliantemente è conce- — 3°2 — duto. Quelle ragioni più si affanno alle spirituali, che più sono spiritose: gl’israeliti tolsero i vasi d’oro agli Egizii per adornarne il Tempio. Così fa chi ruba le robe migliori dallo scrigno de’ mondani, per sagrificarle all’ altare de i celesti. Intorno alla maniera del dire, non so che mi dire. Dirò che quanto nell’oprare mi accomodo all’altrui gusto, tanto nel parlare mi acompagno al mio capriccio. Dove si tratta di capriccio non si tratti di ragione. Se la ragione avessi a dimostrare, mi sarebbe agevole il farla comparire onesta, per gli esempi de’ migliori Greci e Latini, da’ quali non debbono arrossirsi nel prender regola i Toscani : mi sarebbe facile il farla conoscer dilettevole, per la prova di quell’ armonia che porta seco il numero concertato dall’orecchio: mi sarebbe leggiero il farla veder utile, per lo profittevole temperamento che dalla oscurità del brieve, e dalla sazietà del prolisso ella ha cavato. A me sempre è paruto che questa maniera di parlare, sia quella che allontanandosi da i confini asiatici, e separatasi da i termini laconici, possa camminare quel sentiero ove giostrano i concetti sentenziosi con le sentenze concettose. E per dirvela, piace a me, perchè mi avvedo ch’ella piace a voi: ma voi 1’ onorate col servirvene, io me ne onoro co ’l dilettarmene. Qual professione poss’ io far di stile in questo mio Diario? se al paro de’ giorni fugaci fuggitivo, non ha cosa che prima non sia stata involta dalla carta, che partorita dalla mente ? So che mi sentirete ripreso, perchè a fin di compiacere al contrapposto, da cui spesso il concetto è gene- — 303 — rato, io mi sia troppo spesso della repetizione compiaciuto : ma pregate gli amorevoli censori a raccordarsi come dagli equivochi, da i paralleli, dall’etimologie, dalle allusioni e simili, non di rado le sentenze non pur sono abbellite, ma sono concepute. O che il detto è bello ; ed in tal caso non può essere soverchio, per quanto sia replicato: o ch’egli è brutto; ed in tal caso non può essere udito, per quanto a pena sia accennato. Platone ebbe a dire che quelle cose che sono belle a sentire, più e più volte s’ hanno a ripetere. Quae pillerà sunt bis et ter repetenda sunt. Era indizio del poco piacere recato nell’Arena da que’ gladiatori, a’ quali il teatro nell’applauso non recava il rcpete. La figura della repetizione è illustrissima, non solamente per la dichiarazione del detto, non solamente per l’energia del concetto, ma per 1’ espressione dell’ affetto : onde San-t’Agostino (e qui, fuor del mio costume, di Dottor eclesiastico mi avvaglio): In affectum repetitur verbum, ut ipsa repetitio faciat confirmationem ; repetitur enim ad intelligendum affectum dicentis. So che mi udirete biasmato, perchè tanto in descrizioni di tempi quanto in narrazioni di casi abbia camminato quelle strade, che più sono da cavalcarsi da i poeti, che da passeggiarsi da i prosatori. Ed è verissimo : scusatemi alla meglio, e consigliando il prudente osservatore a mirarmi più con quell’ occhio che compatisce che con quello che giudica, inducetelo a rammembrarsi come la botte lascia difficilmente il primo odore. Quo semel est imbuta recens servabit odorem Testa diu .... (Orazio). — 3°4 — Poeta io non fui mai; fui sempre innamorato della Poesia. Non è miracolo: anco il muto delfino, che mai non fu musico, sempre fu amante della Musica : e se pur l’amata mia Musa si diede una volta al sonar di lira, fu per saperne tanto che le bastasse a non esser ludibrio ne’ ritrovi, come fu Temistocle ne’ conviti, per non sa_ pervi sonare di viuola. Ella imparò poco : ma per poco profitto ebbe sì gran diletto, che obliato ogni altro diporto, tutti per questo • • • • trattenimento avrebbe spesi volentieri gli anni suoi gio-venili. Ora è fatta grinza; sì come non è più capace di piacere, così non è più sofferente di fatica, perchè a fatica ella si move; ma i movimenti dell’animo mio pizzica importuna; onde in grazia di lei m’ingegno di maritar la piacevolezza delle rime alla gravità delle prose; quel eh’ altra volta avrei fatto per amore or faccio per usanza; non l’opra ma l’usanza sia dunque in me ripresa. Figlio, aiutatemi; altrimenti per colpa che non è mia rimango in colpa. Ma che intoppi cerco io d’appianare? È questa una lettera che mando a Voi, o pur un’apologia che mando ad altri? Chi ha da riprendere quel che, fuor di Voi, nessuno avrà da leggere? Questo libraccio, che indirizzo a Voi, contien ragionamento da me a Voi, nè divario alcuno è fra Voi e me; Dio mi guardi che si avesse a pubblicare quel che a Voi, non che a me, non darebbe 1 animo di sostenere. Quell’ opre che hanno a comparire a luce, ben so che non si fabricano allo scuro. 0 che il fabricatore non ha ingegno, o che i parti dell’ ingegno espone prima al sole dell' altrui giudizio, che al sole di questo mondo. - 305 Consulit ardentes radios, et luce magistra Natorum vires, ingeniumque probat; dice dell’aquila Claudiano: ed io dico, anzi protesto, che non mi darebbe il core il far di luce empiere le pupille a’ miei poveri aquilotti ; perchè dubiterei, quando ben essi sopportassero la luce, che la luce non soffrirebbe loro. Intendami chi può: basterebbe che fossero per miei parti dalla Invidia conosciuti, per venir tosto di aquilotti in pipistrelli travisati. I corvi crocitarono sempre contro l’aquile. Se guari questi miei componimenti divolgaste, so ben io che in certiduni voi vi abbattereste, i quali, mai non oprando e mal dell’ opra d’altri discorrendo, con la maledicenza loro provocherebbero i ciottoli dalla vostra mano, come da quella d’Ulisse provocò già i pugni il sussurron Tersite. II mio proponimento sarà adempiuto, se da voi solo questo mio lavoro sarà gradito: sarà da me approvato, se fatto senza studio non mi riuscirà senza diporto: lo desidero, perchè sarà testimonio del nostro affetto: lo spero, perchè sarà effetto del nostro individuo: lo merito, perchè trattando voi le cose mie, trattate pur le cose vostre ; onde posso dirvi con Orazio : Quod spiro et placeo, si placeo, tuum est. Conservatemi nella Vostra grazia, che Dio vi conservi nella sua. Dalla città di Sant’Angelo, nc gli 8 di maggio 1633. Vostro Socero e Servitore Gio: Vincenzo imperiale Maggio (1632). — Partenza da San Pier d’Arena. — A Sestri Levante da Nicolò Doria. — Capricci del vento. — Lerici, Livorno, Piombino. — Dal Falcone al Baratto. — Gentil compagnia ricusata. — Il P. Semino. — Scortesie granducali. — Da Talamone a Civitavecchia. — Corsari in vicinanza. — La capanna di Fiumicino. — Nettuno, Astura e Gaeta. — A Napoli. — Dai frati a Piedigrotta. — Visite e complimenti. — Udienza viceregale. — Comando militare rifiutato. — Visite ancora su visite. — La fortuna sorride; non c'è da fidarsi. — Parentele ed amicizie. — La rondine e lo storno. — Via Toledo. — La festa dello Spirito Santo. — 11 Viceré in processione. % Quod felix faustumque sit. Questo improvviso, ma necessario, mio viaggio alla volta di Napoli, dopo molte considerazioni risoluto, nel primo di questo mese cominciato, e nel medesimo istante da contrari venti impedito, ha finalmente il suo principio nel giorno d’ oggi. 8. Maggio conta gli otto del suo corso: la settimana è pervenuta del suo corso al fine : io dal Sabbato ricevo i buoni augurii, perchè nel Sabbato soglio incontrare i buoni avvenimenti. Non parrà novo il mio novo concetto a chi è informato del mio vecchio ossequio. Ossequio, direi devoto, dirò dovuto per mia particolarissima reve-renva alla mia reina in cielo e protettrice in terra Vergine Maria. E quali non deve attendere la mia viva fede favorevoli successi dalla padrinanza di tal padrona ? — joS — Già da quelle mie finestre, ch’alia spiaggia di San Pier d’Arena formano teatro, veggio dorato dal sole il circolo del mare; e miro il mare, non so ben se sazio o stanco, quanto si mostrò dianzi procelloso, palesarsi or mansueto. Già là dove allagavano spumeggianti 1 onde, scemo stampate l’orme asciutte delle piante marinare: già sentesi dalla opportunità del tempo stimolar la necessità del cammino : e già 1’ anima mia, per recidiva angoscia di replicata partenza, ha tale affanno, che per soverchio sentimento a pena il sente. In questo mio stato verifico per prova ciò che nel mio Stato Rustico accenno per teorica: Se chi disse morir disse partire, Quei che dice partir dice morire. E che di peggio può aver la morte di quel separarsi dalla patria? di quell’allontanarsi dalla moglie? di quel celarsi da i figliuoli? di quel dire: a Dio, cose più care, a Dio? Forse perchè nella morte si perde la vita? Ohimè che la vita allor perdiamo, quando siam condannati alla perdita di quei beni, per li quali e ne’ quali noi viviamo. Vera vita è quella che godono coloro, della felicità de quali parlò già Clonico: O felici color che Amor congiunseli In vita e in morte..... (Sannazaro). Vera morte allo incontro è quella vita, che dopo la contentezza ci avanza alla miseria; misera condizione, che per essere peggiore della morte, chiunque la prova more perchè non more. / — 309 — Che si può fare? Quel che si ha da fare, non potendosi impedire, non si ha da rattenere. Mi raccomando a Dio, e nel medesimo tempo a’ miei mi raccomando. E perche non mi dimentico che, si come già insegnò Silvio, Chi ben comincia ha la metà de 1' opra. Nè si comincia ben se non dal Cielo. (Guarino) quasi egli sapesse di latino, e portasse in toscano la sentenza Dimidium facti qui bene coepit habet, io nella chiesa che df Cella ha il nome, al sagrosanto sagrifizio dell’ altare vo a postrarmi, e me stesso in vittima al sacrificato Agnello ad offerirmi; indi, su tremanti passi, passo ad imbarcarmi. Prendo io da’ miei gli ultimi abbracci, mentr’ io rendo loro gli ultimi sospiri. Già dal promontorio di Faro mi si nascondono a poco a poco i lor sembianti : più non mi resta altro conforto che la confidanza de’ lor prieghi. Ricordatevi, o carissimi, io dico loro con 1’animo, de’ bisogni di quest’anima; ella meco non viene integra; ma nella divisione di lei, la miglior parte riman con voi. Quel che farete per me farete per voi : se lo farete per Dio, Dio lo farà per voi. Assicuratevi che dovunque sarò, o non sarò vivo, o vivrò col pensier vostro. Ah, che non si lascia affetto per lasciar paese. Possiam partire da quel che si vede, ma non posaiam partire da quel che si ama. Il medesimo core si porta in ogni parte. Coelum, non animum, mutant qui trans mare currunt cantò, al suo solito sentenziando, Orazio. — 3io - La più gran giornata che fa chi fa viaggio, si può stimare quel solo passo che move dalla sua soglia. Le partenze poco gradite sogliono essere poco affrettate. Onde, appena ho la proda verso levante, che il sole ha • » * * * * la faccia verso ponente. Ma perchè stansi a miei ser\ igi un liuto e due feluche, tutti egualmente ben spalmati, e d’ ogni corredo ben guerniti ; benché non abbian o o 1 * * vento in vela, superata la pigra bonaccia da 1 remieri non pigri, prima che la notte arrivi in terra è il nostro arrivo in Sestri, ove il palazzotto del signor Nicolò Doria fu il nostro albergo. 9. Domenica de’ 9, udita la messa, e nelle undici 01 e da Sestri fatta partenza ; favorito da tramontana, di assai prima che il giorno pervenisse a sera pigliai porto in Porto Venere; e quivi l’abitazione del Signor Gio. Battista Centurione, fratello di mio genero, che per la sanità comune vi risiedeva Commissario, tu la mia salute. Ma non guari tarda la Fortuna a mostrarmisi più contraria, quando me la desidero più amica. La rota 1 lei sempre si aggira, e nella instabilità del suo movi mento, solamente nello aggirarmi si mostra stabilita. Non è maraviglia s’io non fo più viaggi con la franchezza di prima, non avendovi più la sorte di prima. Io non sono più giovane ; la Fortuna è donna, e pertanto ne mica di chi è vecchio. In questo giorno, che per (uggir Livorno e Piombino, infetti dalla contagione, era mia determinazione, e quasi mia necessità, per cento e venti miglia d’ingolfare i nostri legni, la Fortuna mi rompe i miei disegni : il mare, che fu sì quieto, di repente si conturba, ed in questo ridotto improvvisamente mi as- — 3ii - sedia. Dove non vai la forza giova la pazienza. Saevienti fortunae submittendus animus. (Tacito). io. ii. i2. Ne i venuti lunedì, martedì e mercordì , non mi fu permesso altro fare, che lo spingere alla Spezia, il visitare il forte di Santa Maria, il veder Lerice, e '1 volteggiare per quel golfo; le cui naturali bellezze, che in altri tempi mi piacque ricercare per lo diporto, in questo mi giova rinvenire per lo divertimento. Ma nulla in ogni modo rasserena la mia mente funesta, che dell’ aere caliginoso emula oscura, da procellose nuvole è offuscata. Quelli aspetti di piacere che agli oziosi sono oggetti di conforto, a gli affannati sono materia di tormento. 13. Alla comparsa del giovedì, ci promette il mare molto bene, perchè (?) molto male mantenendoci la promessa, vegniamo a sperimentare quanto maggiormente rimangano offesi i nostri cori, traditi da fallaci speranze, che da minaccevoli timori; e quanto sia men male l’aver sempre male che ’l provar quel bene, che provato è perduto. Pazzo chi presta fede al mare, la cui natura è 1’ infedeltà ; stolido chi fabrica i suoi pensieri sopra quel-1’ elemento, il cui fondamento consiste nell’ instabilità. Tanto adunque di calma ci viene tutt’ oggi e in tutta la notte conceduto, quanto ci è d’uopo, valicato il seno di Livorno, per condurci nell’albore del venerdì 14 a veder spuntare il carro del Sole dal promontorio di Piombino, ove chi già non si curò di esser onorato come padrone (1) si onorerebbe oggi di essere ricevuto come peregrino. ( 1 ; Accenna, come si vede, ad offerte che gli erano state latte, e forse a negoziati già corsi, per l’acquisto del principato di Piombino. Questo, allora, insieme Ma dal sirocco ributtati, e dalla pestilenza intimoriti, rifiutando noi quel porto ci riduciamo a far nostra giornata in quella angusta cala che addimandasi del Falcone. E ben tosto un falcone parve qui un tal gabelliere, che avidissimo della preda per quei non meno ingiusti che rigorosi dazii, da quei dirupi a nostri vascelli rapidissimo volò, nè senza empiersi le griffe si partì. Sia detto per burla, benché con poca voglia di burlare, e 1’ etimologia del luogo che ho detto scusi la comparazione che ho fatto. Confesso aver alterati i termini alla proporzione della metafora, trasportato dalla allusione del vocabolo. So che fu contro le regole della figura e contro il dovere del figurato, l’abbassar il merito del falcone, che tra gli uccelli è sì generoso, con l’infamia di un daziere, che tra gli uomini è sì vile. Intanto udiam novella che un naviglio di corsali dalla rocca di Piombino a suon di bombarde poco dianzi al nostro arrivo fu scacciato da questa spiaggia. Oh misera condizione de gl’ infelici viandanti in questi temporali correnti! Il mare procelloso c’ impedisce il corso, il paese infetto ci toglie il ricovero ; il nemico vicino ci conturba l’animo. Che sarà? che si farà? Dio ci aiuterà. Di notte tempo, passato Piombino, ci passiamo ad altra cala, nominata del Baratto ; e da questo baratto argomentiamo il nostro scampo. coll’isola d’Elba, era posseduto da Nicolò Ludovisi, indi a pochi anni, nel 1640, senatore di Bologna, poi, nel 1660, viceré d’Aragona, e morto nel 1663 viceré di Sardegna. Spenta nel 1699 la progenia maschile dei Ludovisi, e caduto il principato in Ippolita Ludovisi, ne fu correggente con lei nel 1701 il marito Gregorio Boncompagni, duca di Sora e di Arce Lui morto nel i7°7> ve^ov‘ lasciò il principato alla famiglia dei Boncompagni, che ancora ne possiede il titolo gentilizio. - 3i3 - '5- Qu> senza toccar le arene, facciam stanza su l’onde, e qui, la mattina già venuta, scorgiam barca approdata. Questa subitamente da noi riconosciuta, si conobbe esser quella che, con arnesi miei da Genova inviata, pur da sirocchi a dietro spinta, fu a qui salvarsi astretta. Su questa mi dimoro questo giorno, perchè, meno incom-modamente, io più pazientemente mi trattengo. La pazienza a tutti i mali è gran rimedio: se gli speziali ne’ loro recipe avesser questo elettuario, certo che a peso d’ oro il venderebbero. Chi per contraria sorte ha mal di cuore, avrebbe per bene impiegato, per ogni dramma di pazienza, ogni tesoro dell’india. Il valore di questa ricetta conobbe Francesco Petrarca, ricercando rimedii per l’una e per altra fortuna; e ciò che altrove lasciò scritto in latino, in un sol verso volgare epilogò, dicendo ■ Che sofferenza è nel dolor conforto. Consumai tutto il giorno e tutta la notte del sabbato entro la camera di poppa in quella barca agiatamente rassediato, ma crudelmente assediato da un esercito di cimici, che nell’ozio mi tenne in esercizio. 16. E mentre l’alba della domenica, quasi vedova del maritai splendore, apparve dal capo al piè vestita a bruno, onde aspettiamo ch’ella sparga in terra, per rugiade pianti e per pianti pioggie; e mentre la brigata marinaresca sospirando il desiderato sereno, a tutt’altro intenta eh’ alla partenza, della partenza allontana da’ nostri cori ogni speranza; il Cielo c’ insegna come in un tratto si rivoltino tutti quelli accidenti che dai giri celesti il moto acquistano. Ecco, quanto meno aspettato, tanto Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIX, Fase. 11, 21 - 3'4 — più caro, un venticello che da maestro soffia grazioso a nostre vele. Nelle sedici ore, dunque, ripigliamo i legni e i remi con quella prestezza che il desiderio, precursore all occasione, stimolava. Già ci spicchiamo da quell’algoso lido, i fedeli vapori del quale, ammorbando quei dintorni, impestano quegli abitanti. Può maggiormente in me 1 avidità del partire, che l’ambizione del servire a nobilissima dama, la quale, pur inviata a Napoli, benignamente si olierì di accompagnare il suo col mio viaggio. In tanta angustia di vascello, e in tanta celerità di partenza, non che in tanta difficoltà di cammino, il goder di tanta ventura nè men per lo pensiero, non che per lo desiderio , mi passò. Passato è il tempo, iterum antiquo ine includere ludo ; Non eadem est ae/as, non mens. (Orazio). « Altri tempi altre cure >. (Guarino) Altra compagnia più non mi piace che quella del mio Padre Fr: Gio: Andrea Semino, in Genova guardiano della Pace, e qui mia guardia contro ogni guerra. Si cammina con prospero vento quella parte che avanza al giorno; nè si tralascia il cammino, se ben finisce dalle nostre parti il suo cammino il sole. Nel corcarsi lui, tentiam di riposarci noi: a tale intento andiamo a Castiglione. Questi è picciol borgo: ha le mura nell arena, e le stesse mura per lido: ha la foce del fiume per porta, e la medesima porta per porto. Cerchiamo d in-trodurvici : ma perchè il Gran Duca di Firenze, che n è il padrone, ha pubblicato rigorosi divieti all’ ingresso — ns — de Genovesi nel suo dominio, nel sentir quei guardiani il nostro nome vegniamo da loro impetuosamente discacciati con quei segni di croce, coi quali sovente gli esorcisti discacciano i diavoli. Così piace a quell’Altezza nelle basse imprese d’innalzarsi ; così le giova insuperbirsi, trattando innocenti peregrini, come se fossero atroci micidiali ; così gongola di vantarsi per le ingiurie fatte a’ vicini, quasi fossero vendette fatte di nemici. L’esser molto vicino e Tesser poco amico ha il più delle volte illazione: in materia di Stato è cosa assai ordinaria che la vicinanza generi la pretendenza, e che la pretendenza partorisca la gelosia : non è poi gran fatto che ove è nta la gelosia moia T amore, e eh' ella, maritata con lo sdegno, prolifichi le risse. Certo è che Genova non ha già mai offeso alcuno, eccetto se forse se no stima offeso chi aborrisce la sua difesa. A chi è riuscito occupar la libertà de’ suoi, non sarebbe miracolo quando non avesse scrupolo in odiar la libertà de gli altri. Quelli appetiti sono più tirannici che politici, i quali inducono troppo facilmente a desiderare quel eh’è troppo difficile ottenere. Tengasi per ora di buono chi procede così bene: questa non men strana che aspra dimostrazione dell’ animo altrui, la quale non meritò già mai T animo nostro, nell’ animo nostro abbarbicata dovrà dare alcun frutto a sua stagione. Spesso da radice amara spunta dolcissime germoglio. Saepc majori fortume locum fecit injuria (Seneca); chi sa? chi sa? Stanno intanto per mancamento d’ aura scioperate le vele, e per dispendio di forza languidi i remieri; sì che - 316 — non fu poco lo strascinarci verso la mezza notte in Talamone. Riposano qui lino all’alba i vogatori; su • •' • l’ancora i legni; sui legni i nostri corpi: non già ne 1 corpi riposano gli spiriti: de i nostri desti pensieri chi è impaziente dell’ indugio, chi è timoroso di alcun sinistro : il sospetto degli affanni vicini sgombra 1 affanno degl’incommodi presenti: l’ansietà semina la vigilia, nè si sentono i disagi, quando si scoprono i pericoli. 17. Nella mattina del lunedì c’indirizziamo a Civitavecchia, e nella sera vi arriviamo. Quivi si sbarcò, per l’opportunità de’ passaporti; si dimorò per la tardità dell’ ora, e si albergò col cap. Terenzio Colemodio, per la necessità di spogliarci. Era già trascorso alcun spazio di tempo da quell’ ora che la nostra camicia s invoglio su la nostra pelle; e già su la nostra pelle sentivansi di quelle punture dalle quali sogliono essere offesi coloro, che per mare viaggiano vestiti. 18. Ma nel martedì, lasciato eh a pena ebbe 1 Aurora il letto di Titone, lasciam noi le oziose piume del nostro ospite. In un girar d’occhi si osservò di quella teria giro: si mirò T accresciuto porto: si considerò le ingrandite fortificazioni; poi si ripigliò il nostro viaggio. Navi^ ghiamo su ’l principio con vento in poppa, indi assai presto col vento in prora: ci è forza costeggiar Per conforto del non aver potuto dispiegar la vela in alto, abbiam prossimo avviso di quel naviglio de’ corsali, che sin da Piombino è fatto a noi compagno; così fosse amico: sentiamo che le Torri per ogni contorno di que riviera con T artellaria lo salutano: miriamo nel medesimo istante conturbarsi il mare, infoschisi l’aere, e ricamarsi le negre nuvole di tortuose fiamme, impallidiar al rosseggiar de’ celeri baleni : sbigottiamo allo strepitar delle tonanti saette: ingelidiamo al precipitar delle diluviose pioggie: stupiamo al biancheggiar della campagna repentinamente incanutita per le folte grandini cadenti ; e ci ritiriamo all’ orrendo spumeggiar de’ sollevati flutti, ondosi fabricatori d’ inevitabili voragini. La nostra ritirata è sotto Palo, che di già si era lasciato per alquante miglia alle nostre spalle. Qui un vecchio Torrione a quattro case fa la sentinella. Nè quei della terra consentono lo sbarco; nè men tentiamo noi di sbarcare in terra. Sappiamo i divieti, conosciamo i pericoli, temiamo più i nostri danni che gli altrui castighi : e in ogni modo, in quella spiaggia, contro una delle nostre feluche, per poco discorso, per molto spazio allontanata, da quelle indiscrete guardie alcune archibu-giate, ben che a vuoto, furono indirizzate. Questa razza di gentaglia, ove non trova modo per far guadagno, arrabbiata inventa modo per isfogar capriccio. Cessata la procella, in ver’ la sera ci conduciamo a trovarne un’altra, ed assai peggior della prima: imperciocché entrati a fatica nelle bocche di Fiumicino, io non posso ben raccontare qual strano temporale sotto la misera tenda della picciola nostra poppa bisognò soffrire. Possono a pena i nostri crucci esser creduti, non che in parte alcuna esser descritti; mentre nella metà del Maggio quei procellosi avvenimenti abbiam patiti, che nel centro dell’Inverno quasi mai non vengono provati. 19. Mercordì, per ricovero della nostra stanchezza il nemico libeccio ne fa riposar in barca. Qui ce ne stiamo nostro malgrado legati (ma legati senza grado) a quella - 3i8 — riva : anzi relegati, sì per ischérno di contraria fortuna, come per ischerno di sopravvenuta burrasca, entro gli angusti confini di una di quelle capannuccie che lungo 1 argine del Tevere, ad uso dei poveri pescatori, costruite di paglia si ritrovano. Tondo e non ricco è l’edificio; e nel più chiuso grembo di lui, eh’ è deserto centro al miserabile suo giro, noi sovra quell’ alga medesima che acconciò la tavola alla nostra cena, componiamo il letto al nostro riposo. .Vox erat, et placidum curpebant fessa soporem Corpora per terras ..... (Vergilio) Xon è giudicio errato il giudicare che la stanchezza mi consegnasse in braccio al sonno, benché malamente disteso su ’l lenzuolo della terra, poscia che dal dolore, cred’ io, destato, nella palpebra mi sentii ferito (per non dir venenato) da morso tossicoso. Mi rimase sopra l’occhio destro il danno del passato sinistro; per alcun giorno visse in me della ricevuta puntura, con enfiatura rilevante, la reliquia appariscente: dell’offesa mi trovai testimonio oculato: deir offensore non si trovò l’indizio: fu ignoto il malfattore: restò su '1 mio volto il maleficio: il fine del processo fu che per altrui colpa io sopportai la pena. 20. Giovedì, mattina delli 20, per quanto i marinai con la certezza del viaggio stimolassero la prestezza del-1’ imbarco, mi condussi a piedi per insino alla chiesa del Vescovo Portuense, che per un buon miglio sta separata dal lido. Quivi alla solennità di questo giorno alla Assunzione del Redentore dedicato, si prestarono i — 3>9 — cristiani offici della divota compunzione e dell’ affettuosa festività. Quindi nelle undeci ore stesa la vela, e nelle venti sovra Nettuno ammainato, nelle ventidue sovra Stura (i) si gettò il ferro: ma perchè in un medesmo tratto non si gettò 1’ argento, non mancarono rampogne con quei miseri soldati, famelici custodi in quella solitaria cala. Minacciarono costoro di mandarne in esilio, per timore che fussimo appestati ; ma tosto si assicurorno del male malamente sospettato, quando nel suggello dell' oro coniato maneggiarono la patente della nostra sanità. Sol ruit interea, et montes umbrantur opaci; Sternimur optatae gremio telluris ad undam. (Vergilio) 2i. Tanto in questa infelice notte si supplicò 1’Aurora del venerdì, che finalmente ella comparve nell’Oriente ; e nel medesmo istante il vento ponente ne inviò al levante. Adunque la navigazione prima delle otto ore si cominciò; la stessa dopo le vent’ una si finì. 11 fine della nostra giornata fu un ridotto di spiaggia che addi mandano la Scaura. Già per otto miglia trapassata la bella città di Gaeta, che per niun patto ammesse la nostra pratica; ma in ogni modo nel di fuori si vagheggiò la forma di lei; maestosa, perchè siede sopra scogli, e stende le braccia sopra colline (queste tanto amene, quanto quelli inespugnabili), con la maestà ella accompagna la vaghezza e la fortezza; quella in teatro di mare da case e da giardini pomposamente circondata; questa in circuito di mura, e di baluardo e di castello provveduta. (I) Astura. — 32° — È poco a’ meriti di questa meritevol terra il chiamarla maestosa, vaga e forte : aggiungasi miracolosa ; già che il monte di lei conserva nella spalancata apertura del suo gran sasso uno de’ miracoli che nella passione di Cristo Signor nostro si videro nel mondo. Ma non più di questo (i). Il mio pensiere non è di figurar imagini di quei paesi eh’ io trascorro, ma di formar ragguagli di quelli avvenimenti eh’ io passo. Onde, per non rubar l’officio del cosmografo, ed esercitar quello dell’ istorico, basti il non tacere il Capo di Circe, salutato senza temer le canzoni da Ulisse già temute, ma dubitando più tosto di alcuni ladroni, che in quei giorni in quelle grotte appiattati non senza grande avvertenza ne indussero, in vece di turarci le orecchie con la cera, a guernirci le mani con l’arcobugio. Si passò francamente il monte ; passato il quale si videro i luoghi di San Felice di Ter-racina, e di Sprolungo; e finalmente, 22. Sabbato, de’ 22, contentatosi N. S. Dio che ad intercessione della beatissima Sua Madre, in questo privilegiato giorno, con l’ottenere il mio viaggio il suo desiderato fine, si sciogliessero i voti del mio devoto proponimento, mi condusse dirimpetto a Procita, nella cala di San Martino a desinare, per condurmi quella sera in Napoli a dormire. Pervenuto adunque a Posilipo, ed ivi da molti incontrato, e specialmente dal Duca di Caivano favorito, superai con l’autorità di lui per lo mio sbarco la difficoltà che, per la necessaria difesa dal contagio, adopera in questi tempi l’ottima giustizia. (1) Ne ha scritto altra volta; si veda nella prima parte di questo volume (Viaggi di Gian Vincenzo Imperiale) la relazione Vili. — 321 - Ed eccomi alloggiato in certe stanze de’ Padri Canonici Regolari, nel monastero che a Santa Maria di Piedegrotta, quasi termine a Chiaia, è consagrato. Qui eleggo il trattenermi, sin che possa veder la mia casa, prima d’ esser veduto dalla città. In questo niente men delizioso che devoto territorio prendo ospizio; e nell’ospizio prendo tal riposo, che per tutte l’ore della notte mi occupa un sonno solo; nè da questo altro mi desta che il solo Sole (del 23); il quale, entrato per le fessure de’ balconi, venne qual cameriere d’onore ad aprirmi le fessure delle palpebre. Mentre da lui mi sento invitato a vestirmi, da un soavissimo odore mi sento invitato ad affacciarmi, ove un sottoposto giardino, di fioriti aranci dovizioso, spargea prodigamente i tesori della fragranza. Ma se in questo giardino la Natura si è fatta profumiera all’odorato; anche da questo verone, ch’ai giardino è superiore, l’architettura si è fatta ancella al guardo; imperciocché mirabilmente ella empie 1’occhio di tutte quelle vedute che in mare e in terra maggiormente amar si possano. 23. In tutta questa Domenica da tutti questi Signori Genovesi vengo favorito; da molti cavalieri Napoletani vengo visitato; da infiniti miei conoscenti vengo trattenuto; dal Duca di Caivano, da '1 Curtis, e da monasteri superbamente con varii presenti vengo regalato. 24. Lunedì, per sino a notte, in ricever visite, non meno occupato che soverchiamente favorito. 25. Martedì, consumo la mattina tutta nello scrivere a Genova, per buon principio d’ una scrittura della quale è incerto il fine. Ma dopo il pranzo, licenziatomi da’ miei ospiti, m’ introduco in Napoli, perchè già mi am- — 322 — maestra la prova, eh’ è inutile quella diligenza che non si esercita con la presenza. Non mi riesce nella pratica ciò che aveva modellato nella fantasia. La spedizione della mia stanza, lo indirizzo delle mie cause, il rendimento delle mie grazie, inducono la necessità della mia vicinanza. Accompagnato dal Signor Cornelio Spinola, guidato da buoni bracchi per tal caccia, a fin di pigliare una buona casa io sono in busca; ma perchè qui ne’ i quattro di questo mese tutti gli affitti si compiscono, pochi che vagliano in questi giorni si ritrovano. Procuro sì, che alcuni de’ contorni di Pizzofalcone si disloggino, bramoso di goder l’aere e la quiete di quell’eminente e ritirato posto, da me con molto gusto altra volta praticato. Intanto il griorno si oone in viso la nera maschera della O x notte, ed io mi ritiro nel vasto monastero de Padri Olivetani; 1' alloggiamento de quali , già preparato , mi attendeva. 26. Mercordì, per maggiormente obligarmi, fanno ritorno innumerabili Signori a visitarmi. A pena ho tempo per veder una messa, che veggo di casa : quel-l'avanzo di giorno, che mi fu conceduto, nel render visite fu da me dispensato. Cominciarono i miei complimenti alle case de’ miei padroni più compiti: fra questi il Duca di Caivano, l’avvocato fiscale Cacace, il presidente Salinas, D. Francesco Barrile (1) sono rii prima (t) Dovrebb’essere consanguineo, forse l’istesso figlio del Duca di Caivano. dianzi noniimto, che più sotto vedremo aver titolo di Segretario del Regno, e chiamarsi Gio. Angelo Birrile. A Don Francesco, duca di Caivano, secretano del Regno di Napoli, capitano di Gente d’ arme, barone di S. Arcangelo ecc. dedica Francesco Origlia, addi 15 aprile 1643, un discorso dell Origine dell antica Fa- - 323 — fila, perche sono di coloro ai quali il pagar debiti è un dar la cortesia ad usura. Par liberalità, ed è avarizia, la cortesia ; perchè con poca spesa guadagna assai chi è prodigo di quella affabilità, che Lucrum sìne labore partum Euripide stimò. L’ossequio del debitor cortese è il pagamento del creditor generoso. Si obbligano gli animi altrui co 1 sodisfacimento de’ nostri oblighi. 27. Giovedì mattina, impetrata dal Conte di Monterey, qui viceré, l’ora per l’udienza più opportuna, mi presento umilmente a S. E. che ne’ suoi graziosi camerini graziosamente m’accolse; m’ invitò a’ suoi diporti di Posi-lipo, e mi offerì il suo patrocinio ne’ miei negozii di questa Corte. Così, dopo alcuni brevi ragionamenti, non men consolato che favorito, mi licenziò : anzi, mi licenziai. Mi venne poi discoperto, per bocca di gran Ministro, 1 animo di questo Signore, che rivolto ad onorarmi più secondo il suo gènio che conforme il mio talento, aveva nel suo proponimento determinato di servirsi della mia persona per lo comando di genti a cavallo : carica non men per lo numero delle compagnie molto considerabile, che per l’eminenza del maneggio assaissimo riguardevole. La grandezza della offerta dignità fece a me stesso conoscere la piccolezza della mia possanza: onde subitamente presi partito di aggradire, non di godere il partito; ma co ’l dichiararmi come, da’ miei molti anni impedito e da’ molti miei negozii soffocato, m’era impossibile accettare quell’ onore che ad altri non sarebbe facile miglia di Colimenta, opera di Camillo Pellegrino (Muratori, Kn Ital Sscript. T. V.). Donde apparirebbe, se il nostro G. V. Imperiale non ha fatto confusione di nomi battesimali, che 1’ ufficio di Segretario del Regno passasse in quegli anni dal padre al figliuolo, quasi ereditario nella casata. — 5-4 — ottenere, io non volli sottopormi a quel carico tanto pesante, che con la sua gravezza mi raccordò quella sentenza: Opprimitnt onera quae ferenti maiora sunt. (Seneca). Se Dio volesse che in nulla più la mia vita valesse, o che per lo avvenire, sì come fui per lo passato, fossi più atto a soffrir travagli, vorrei travagliare per la mia Patria, o per la mia Casa; perchè tanto dall una quanto dall’altra spero che almen verrebbe aggradito quel poco che operassi, in testimonio di quel molto che desiderai sempre per loro di operare. Travaglia per sè chi travaglia pe’ suoi. Dopo di questo, e già dopo il desinare, visito il Reggente Tappia; alcuni avvocati; le mogli di Stefano Marini e di Orazio Spinola; e nel ritorno a casa son visitato da Monsignor Caracciolo e da molti altri. Mi vengono presentate molte frutta in zuccaro ; ma, per la memoria del perduto dolce, riesce amara ogni dolcezza. 28. Venerdì, baciai le mani a Monsignor Herrera, Nunzio apostolico in questa città residente; riverii Ro vito ed Henriquez, Reggenti nel Collaterale Consiglio, corteggiai l’Eminentissimo Cardinale di Santa Cecilia, venuto oggi dal vescovato di Matera, che con quel di Sar-zana ha permutato ; visitai Gio : Battista Mari, ebbi visite dal Marchese di Villa e dal Principe di Cielo a Mare. Il giorno lungo mi diede ancor ora per dare a miei negozii qualche ora. Procuro dal Vicere che D. Flaminio Costanzo, già eh’è mio persecutore, non sia mio giudice. Procuro dilazione per la informazione mia contro i creditori di Rocca, causa diroccata. Quel che procuro ottengo, la Fortuna che a lungo andare mi è d impedimento, in - 325 - questo primo ingresso mi è d’ aiuto ; la menzognera, quando più vuol tradire, più sa co’ i favori gl’ inganni mascherare. Ben a mie spese ho comprato la conoscenza de suoi tratti : così potess’ io ripararli, come so conoscerli ; che se potessi provvedere a quel che so prevedere, ella forse non avrebbe tanto da ridere, nè io avrei tanto da piangere. Infine, alle provvigioni sopradette ottengo oggi fortunatamente il fine: ma, nè del primo ottenuto desiderio, nè del secondo conseguito intento, io godo a pieno, perchè non mi fido a bastanza. Non mi fido, perchè infedele è il mare nella maggior bonaccia repentinamente procelloso. Non godo, perchè col godimento alloggia anco il sospetto. Il sospetto, che m’induce ad esser cauto, col raccordarmi gli andati inganni, mi dimostra pericolosi i presentanei godimenti. Cautus enim metuit foveam lupus, accipiterque Suspectos laqueos, et opertum inilvius hamum. (Orazio) 29. Sabato, per visite vo alla casa di questo Arcivescovo, eminentissimo cardinale Boncompagno, del Reggente Lopez, del Consiglier Soffia, e del Signor Ambrogio Di Negro, in quel punto ritornato da Palermo. Volentieri mi saria sbrigato d' alcuni altri complimenti, per poi levar d’ intrigo i miei negozii; ma per quanto l’ora non sia tarda, la calda stagione mi fa tardo. Così, mentre nell’ animo non mi avvilisco, ma nella irresoluzione m’ impigrisco, posso cantar con l’Ariosto il verso: « l’animo è pronto, ma il volere è zoppo > ; e non mi parto da quella buona conversazione, che avrei potuto desiderare, ma non avere in altra parte. — 326 — 30. Nella domenica, molti Signori, così napoletani come genovesi, mi onororno. Tra questi Caivano, Antonio Caracciolo. Vicario Tamburelli, Principe di Sanz, Conte di Chiaromonte, Duca di Santo Marco, Marchese di Chiarella; e con sua camerata fu a desinar meco Ambrogio Di Negro. Questo giovine ed aggarbato cavaliere, per sè medesimo amabile, è da me amato, così per essere lui stato marito di una figlia di mia moglie, come per essersi mai sempre dimostrato non meno amico mio che mio parente. Egli è buona cosa aver parenti. Talora con tutto ciò non è buona, e spesse volte è mala: imperciocché dove è maggior famigliarità è maggior disprezzo; 0 almeno dove è maggior uguaglianza è maggior emulazione. Di rado è ch’emulazione sia senza invidia; nè invidia fu giammai senza odio. Quanto è facile il farsi degli amici che parenti non siano, tanto è difficile il # • conservarsi amici i parenti; e maggiormente quei parenti che non sono ereditati, ma acquistati; onde Orazio: Al si cognatos, nullo natura labore Quos sibi dat, retinere velis servareque amicos. Infelix operant perdas..... Ognun sa che al mantenimento delle amicizie è necessario il comportamento degli umori. Non si aggiustano 1 voleri, ove non si aggiustano i costumi. Quindi, siccome « Maximam vim habet ad conciliandas amicitias morum atque studiorum similitudo » scrisse già Tullio ; così per 1’ opposito « Dissimilitudo morum et ingenia co7itraria solvunt amicitias > scrisse già Seneca. La rondine, già incapricciata dello storno, voleva di amante farselo marito; - 327 ~ e si rovinava, se la madre non le diceva: < figlia mia, tu sei pazzarella ; avvertisci bene, con lui non ti vedrai mai bene; eh’ egli è amico del verno, e tu della state >.....( i ) 31. Lunedì, seconda festa di Pentecoste, videsi il concorso assai solenne, che per la solennità della Chiesa, dedicata allo Spirito Santo, si raduna. Strada 1 oledo già dal Viceré D. Pietro di Toledo ebbe 1 origine; perciò ne tiene il nome, pe quella istessa ragione per la quale eziandio la strada aperta da mio padre conserva il nome d' Imperiale. Non per adulazione popolare, ma per disposizione legale in tutti i tempi è ciò avvenuto........ Strada Toledo, adunque, del suo fondatore siccome conserva il nome, così testifica il pregio. Ella fra le più belle strade di Napoli è la più bella ; imperciocché da quella porta della città, che contigua al monistero dello Spirito Santo, ove ha la vicinanza, prende il titolo, essa prende il suo cominciamento ; e tanto oltre s’ innoltra, che il confine del Palazzo Regio è la sua meta. Dall’ uno all’altro di questi termini, senza camminare lo spazio di un miglio non si arriva. Di questa strada la positura è in piano molto arioso ; il corso molto diritto; lo spazio molto largo; l’ornamento degli edifici molto ordinato. Da questi edifizi in questo giorno cadono mille pompe di ricchi apparati ; questi apparati vengono arricchiti da mille imagini animate; conciossiachè non ha qui finestra che oggi non abbia 1’ onore di quei volti, ne’ quali si onora la bellezza stessa di affacciarsi. (ij Ho già avvertito nella prefazione che i puntini corrispondono a digressioni, dovute sacrificare per brevità — 528 — Sembra flusso e riflusso di mare l’onda del popolo, entro a questi grandi argini vaneggiando vagante. Simbo-leggiano folta armata di maritimi vascelli innumerevoli schiere di carrozze, 1’ una all’ altra approdate, ed in corso non correnti. Fingono i lidi, non di arenosa, ma di fiorita piaggia, quei disoccupati siti che della strada sono margine ai lati : e perchè niente lor manchi per parer floridi, si mostrano di tanti varii fiori coloriti, quante mostrano in loro le infinite livree, da varii colori divisate. In queste rive amorose imitano squadre combattenti quei cavalieri da Amor combattuti, che, domatori di superbissimi destrieri, da un bel guardo si confessano atterrati. Non o è occhio che non miri per ammirare nel più vago oggetto della sua vista ; non è core che non giubili per la partecipazione di così allegra solennità; non è intelletto che non stupisca, per la pompa di cerimonia tanto trionfale. Nell’ ampiezza di tanti splendori finiva con tutto ciò senza compita luce il giorno, quando, essendo già per tramontare il sole del cielo, spuntò dal suo palagio il sole di questa reggia. Si sentono le trombette, si vedono gli araldi; già da una parte e dall' altra della gran strada separati si dividono i cocchi; d’una fila si fanno due file ; già tra ’l mezzo a loro è formato spazioso sentiero al vasto calle; già l’entrata di S. E. è, quanto desiderata, tanto riverita. Compaiono i palatini alabardieri, tutti uniformemente da casacche di velluto carmosile, con passamani turchini lavorati, e da bragoni di ormesino da’ medesimi colori ripartiti, assai vagamente adornati. Camminano questi senza camminare, a due a due processionalmente incamminati, con berretta di velluto alla mano, e con tal misura - 329 - al passo, oncle si vede che, se hanno il vestito alla tedesca, hanno la creanza alla spagnola. Seguita il capitano della Guardia, seguita da un popolo di lacay {lacc/iè}. Entrano quasi ballando sei pomposi destrieri, superbi al certo del dorato carro che trascinano. Eccovi il Viceré con la moglie; questa tutta giuliva, tutto benigno quegli. L umanita del suo sembiante non scemò la maestà del suo carico; nè la severità del suo dominio impedì la piacevolezza del suo diporto. Giova al Prencipe in certe occasioni di popolarità il mostrarsi pieghevole al comun genio ; perchè questo è il mezzo d’ impossessarsi degli altrui cori, a fine di condurli a proprii cenni. È massima di lui politica, tanto compiacere agli occhi e dilettare gli animi, quanto provvedere ai bisogni, e giovare ai negozii de’ suoi cittadini......'. Atti Soc. Lio. St. Patria, Voi. XXIX, Fase. Il, 23 — 330 - II. Giugno. — Tra gli uomini della legge. — Festa religiosa. — Ragazze da marito. — La Madonna degli afflitti. — Allegrie cittadine. — I vassalli di Nusco. Il Segretario del Regno e i Reggenti del Collaterale. — Nella chiesa della Trinità. — Numero Deus impare gaudet. — I vassalli di Sant Angelo. Troppe visite. — La processione del Corpus domini. — Belle dame in mostra. Il casino di Pizzot’alcone. — Parata militare. — L’archibugiata al cappellano di corte. — L’ottava del Corpus domini — In casa Caivano. — Scosse di terremoto. — La vigilia di San Giovanni. — Viceré e Viceregina. La montagnola di Porto. — Adriana e Leonora Basile. — Arpa e liuto. Epigramma latino. — Lo sfratto al pedagogo. i. Giugno. Martedì, ultimo giorno di Pentecoste, e primo giorno di Giugno; perciò nella mattina molti complimenti mi tennero occupato, e nel dopopranzo molti negozii mi tennero impedito; la sopravvenuta notte mi ritrovò a casa dell’avvocato Cacace, ove tento di stabilire quella sicurezza alla mia compra, eh’ egli mi poteva e doveva fin da principio assicurare. Dio perdoni a lui; anzi perdoni a me. Tanto ho confidato in lui, che ho dimenticato quel che conveniva a me. Adesso ho tanto bisogno di lui, che non posso più disporre di me. Dipendo umiliato da chi mi vedo tradito. Sto mendicando il sollievo da chi mi spinge al precipizio. Strano caso! Egli è tanto padrone della mia faccenda, ed io sono così poco padrone di me stesso, che, mentre mi è forza ricercare quel che dovrei fuggire, dico come disse Fedra in Seneca : « Fugienda petimus: sed vici non sum potens *. — 33i - In questa terza festa non fu dunque per me festa: gli universali solazzi non pervennero alla mia vista ; penetrarono bensì alla mia notizia, e forse per aumentare la mia tristezza. Furono creduti, come furono riferiti; gli accetto nella mia credenza, perchè, essendo riportati secondo 1’ usanza, ne mantengo 1’ esemplare anco in memoria. Indi, ciò che in questo giorno, in questa città si suol vedere, mi piace in questo luogo di accennare. Dentro a spazioso Monastero, che a Nostra Signora appellata di Costantinopoli è costrutto, un grandissimo numero di zitelle è custodito. Questo da primati è governato , e dal patrimonio dell’ opra è mantenuto. Di questa una parte fa sponsalizio col Re del cielo; un’ altra si sposa con gli uomini del mondo. A questo effetto , in questo giorno, queste verginelle, in sagra processione candidamente vestite, da’ loro governatori, da molto clero e da molte guardie accompagnate, palesano al popolo, col grazioso movimento de’ regolatissimi lor passi, la modesta bellezza de’ purissimi lor volti. Concorrono a sì venusta e dilettevole veduta d’ ogni ordine le turbe. Quei che voglioso di maritarsi, fida al suo sguardo la sentenza del suo core, quella tra le vagheggiate favorisce di un sol fiore; questo donato fiore è il pegno del desiderato frutto. Pertanto viene scritto il nome di quel tale, a cui vien poscia data in matrimonio colei che fu scelta da lui. Costui riceve in dote i buoni allievi (i) della figliola, e buoni cento ducati di questo Santo Erario. In questa guisa se ne maritano in pochi anni le centinaia. il) S’intende il peculio, formato col guadagno dei proprii lavori. — 332 — È tanto curiosa in sè medesima questa azione, ch’ella invita tutte le dame e tutti i cavalieri, per tutte quelle contrade ove la processione s’incontra, a ritrovarsi. Il Viceré onora questa cerimonia, assistendovi sotto gran baldacchino sovra eminente palco a S. E. preparato, in luogo alla sovra detta chiesa confinante. Egli dai protettori dell’ Opera riceve regalatissimo presente di frutta inzuccherate; e le istesse, nel ricevere, dispensa. 2. Mercordì, essendo egli troppo vero che in Napoli quasi ogni giorno è festa, si celebrò conforme all’uso del paese la solennità di Nostra Signora degli Afflitti ; proprissimo titolo per Nostra Donna, eh’è la signora di tutti gli uomini. Ha questa chiesa il suburbio di San Gennaro. Per visitare questa chiesa, o per sodisfare all u-sanza, o per compiacere alla curiosità, esce dunque dalla città quasi tutta la città: chi si diporta dalle finestre, chi si solazza dalle carrozze, chi si pavoneggia a cavallo, chi si trastulla a piede; chi si raggira in quei lunghissimi stradoni ; chi si trattiene per quei frequentissimi apparati, chi si avvicina, chi si allontana da quei fochi, i quali in varie fogge di variate imagini da polvere artificiosa nel centro dell'aere hanno il moto: e tutti infine, per celebrar la festa degli Afflitti, si mostrano molto allegri. Se non che, nell’allegrezza de’ più graziosi incendii, come di state suol avvenire, cadde sì copiosa come repentina pioggia dalle improvise nubi, che apportando la morte ai fochi, tolse la vita agli spettacoli, e ’l piacere agli spettatori. 3. Giovedì, fatta una lunga spasseggiata, per mantenimento della mia sanità: fatte due buone visite, 1’ una a Franchis, l’altra a Caravita, Consiglieri: ricevuto — 333 — 1 onore del complimento fattomi da Borgia, generale di queste galee. E dati molti ordini a’ miei negozii, diedi co ’l letto alcun riposo a’ miei travagli. 4» Venerdì, la citta di Nusco mi visitò con suoi officiali, ed accompagnò gli offici con suoi doni. Aggradii quelli, accettai questi. Deve il padrone trattare i suoi vassalli, come il padre tratta i suoi figlioli. Sono i sudditi stati dati con le medesima condizione che godono i figlioli; non sono differenti questi da quelli, eccetto che in questo: sono gli uni figlioli per nascita; sono gli altri figlioli per adozione. Egualmente padre di eguali figlioli, conviene al Prencipe il nome di padrone e di padre. Indi Orazio ad Augusto: « Hic atnes dici pater atque princeps »........ 5. Il mio Sabbato fu tripartito. La prima parte diedi all esercizio fatto a piede, godendo l’opaca frescura di quelle anguste strade, le quali, abitate dagli artigiani, per ogni arte spalancano le botteghe, non men distinte per lavorerio che curiose per lavoro. La seconda consumai nel Regio Palazzo co ’l Segretario del Regno, e coi Reggenti del Collaterale; ove mi stancò l’esercizio fatto nel sedere, quel che non mi stancò 1’ altro, fatto nel camminare. La terza spesi in visita della principessa di Sanz, da lei chiamato. Invito caro; perciò non voglio, come potrei, chiamarlo caro: nemrnen voglio dire che cosa ella mi abbia voluto dire. Con questi tre atti ebbe fine la mia comedia: ma il fine di questa si attaccò col principio di altra, da comici spagnoli nel pubblico teatro appresentata, ed a’ pratici di quel linguaggio assai piaciuta. 6. Domenica, perchè si solennizza la festa della gio- — 334 — riosa Trinità, salgo alla chiesa che alla gloria di Lei fu fabricata. Questa fabrica su la cima del colle, anzi del picciol colle, si solleva ; il suo lavoro da mille colori d'intarsiati marmi si ricama: la sua pianta in forma triangolare senza disunione si distingue: sono tre gli spazii : tre le cappelle : ogni cappella ha tre cappelle : quivi 1’ architettura terrena seppe ingegnosamente accomodarsi alla celeste, mentre volle in un sol corpo adunare la trinità delle sue membra. Il trino è 1’ unità del buono : la natura scopre nel numero del trino 1 eccellenza del perfetto. Se poniam mira ai principii naturali, sono tre: materia, forma e privazione. Se meditiamo i fini soprannaturali, sono tre: inferno, purgatorio e paradiso. Se filosofiamo sugli enti animali, sono tre: negativo, sensitivo, intellettivo. Ed infine il trino è 1 unico compiacimento di Dio. Quindi Vergilio: « Numero Deus impare gaudet » (i). Per ciò in questo sagrosanto tempio alla Trinità costrutto numerose schiere di Vergini matrone, religiosamente rinserrate, sono al Signor Dio spose ed ancelle. Vi fu gran concorso di popolo, armonioso concerto di musica, venusto apparato di argenteria, maestosa perspettiva di lumi, soave profumeria di odori ; onde calato nel calar dell’ ora, vistai l’eminentissimo Spinola; e servendo a lui nel solito spasseggio, alquanto badai nel solito diporto. 7. Lunedì non uscii dalla monastica mia cella, assediatovi da un esercito di lettere, che prima di partirsi li» Gian Vincenzo Imperiale scrive sempre « Vergilio », precorrendo i moderni eruditi. È anche vero che in ciò segue l’esempio dato primamente d.il Poliziano. - 335 - con l’ordinario procaccio, vollero aggiustarsi co ’l guerreggiato mio cervello. 8. Martedì, la mia città di Sant’Angelo mi manda i suoi sindici con donativi a visitare. Procuro loro, con loro sodisfazione, di spedire.; per poscia il rimanente del giorno in negozii ed in complimenti consumare. 9. Mercordì, ricettate ancora molte visite, che per essere incessabili cominciano ad essere insoffribili. Mi aggiro ne’ tribunali, dal Reggente Tappia, dal Presidente del Consiglio, dal Luogo tenente della Camera, dal Segretario del Regno; e non prima mi accomodo al desinare, che gli altri già non pensino alla cena. Io non so ben se mangiassi; so bene che, o per 1’ esercizio del-1’ intelletto in quelle cure, o per l’agitazione del corpo in questi caldi, mi sento per mal sentimento molto stanco; onde, quanto svogliato di cibo tanto avido di riposo, su quella istessa tavola che fu preparata alla mia mensa impigrisce ogni mio senso ; mi addormo ; e solamente quando è l’ora dell’andar a dormire, mi sento risvegliare. E in ogni modo, per quanto si aprano gli occhi, non si destano gli spiriti; rimango dal sonno goduto più tosto oppresso che ristorato. Sonno importuno fu sempre mai nocivo: egli è il più delle volte o cagione di male o effetto di male; anzi direi eh’è indizio di morbo, se non forse simulacro di morte. Non è egli vero che in tutto quel tempo nel quale noi dormiamo noi moriamo? 11 sonno non solamente è il fratello della morte, come dice Omero, ma sarebbe la stessa morte, come dice Ennio, se questa differenza non fosse tra di loro; eh'ove 1’una è perpetua, l’altra è terminata. 10. Rinfrancato alquanto, nel Giovedì vo a solenniz- — 33é — zare la corrente festa del Santissimo Corpo del Signore. Assisto alle messe nel sontuoso tempio del Giesù ; spas-seggio indi quelle strade che per archi trionfali e per superbi apparati si rendono pompose alla processione del Re dei Regi. A questa, processione dovutamente il Cardinale arcivescovo e tutti i religiosi assistono, e il Viceré, e ufficiali, e tutti i titolati e nobili concorrono: ella parte dall’Arcivescovato e termina a Santa Chiara, ove, per antico privilegio a quelle monache conceduto, per tutta 1 ottava il santissimo Sacramento dell altare è riverito. Ella fu molto numerosa, e però molto disordinata. La regola non ha luogo ove prende possesso la confusione; senza confusione mai non è moltitudine. Ad ogni finestra stavano le dame ; non so se per adorare, o per essere adorate. Molte di loro, nella piazza della Sellaria, dalla Vicereina sopra il suo palco favorite; fingendo appetito di vedere, satollarono il desiderio d essere vedute. Questo desiderio non intendo io già per fin di male, malo sarei ben io, quando male pensassi, non che dicessi. Son vecchio, ma sono cavaliero; e per dichiararmi, affermo che quel desiderio ch’io dissi, se pur ha per madre la vanità, ha per padre 1’ onore. O sia condizione di natura, o sia proprietà di usanza, non è donna che non si stimi bella, e che bella non si desideri essere stimata. Invaghita di sè stessa, procura far altri invaghire, quindi è che lusinga, per far eh’ altri vaneggi: se mostra affetto, lo mostra per vanità. Dico per vanità, più tosto che dire per superbia; sebbene, alcuna non dovrebbe riputarsi offesa, quando, per non offendere la verità, io le dessi il titolo di superba: la superbia, che fu sempre • — 337 — nemica della bassezza, fu sempre mai la guardia della pudicizia. Ho letto, ho udito, ed ho praticato ne’ miei giorni cose assai. Per me, credo che ad ognuna di quelle dame che fanno delle innamorate, quei versi potrebbero adattarsi che ad Armida assegna il Tasso: Già così pari al fasto ebbe lo sdegno, Ch’amo d’essere amata, odiò gli amanti, Se gradì solo, e fuor di se, in altrui Sol qualche effetto de’ begli occhi sui. Ma non voglio, nè posso, con queste vanità questo devoto giorno terminare. Riducomi al mio monastero, ove lunga pezza co’ miei Padri Cainaldoli, col Marchese di Villa e col Duca della Chiarenza mi riesci trattenermi; ed alla fine co’ miei agenti per miei travagli mi è forza apparecchiarmi. Tutte le azioni umane non si possono pretendere ugualmente liete...... Mi sovviene che disse Euripide: Seiungier non possunt a bonis mala ; Sed est eorum, ut res se habeant satis bene, Commixtio quaedam. . . . li. Venerdì, continuamente da litigi sono oppressato : dirò di più, e dico il vero, anzi da’ miei signori dottori Caracciolo e Cacace vengo oppresso. Ben è palese la cagione ; mal per me che ne provo 1’ effetto. Prego a loro anima, ed a me animo: finalmente, dopo molti inutili contrasti, si pigliano alcuni poco sostanzievoli appuntamenti. E passo a passar la notte dentro al novo albergo, elettomi ir. Pizzofalcone. Pizzofalcone (quasi pizzo, o sia punta di falcone) è nominato questo sito, avvegna che sollievato in grazioso — 33§ - colle, in fra il mezzo giorno e il ponente l'ali sue stabili librando, con gli eminenti suoi guardi per un de lati mira il letto del mare, e signoreggia tutto quel seno di Chiaia, eh'è abbracciato da Posilipo; per 1 altro risguarda la fronte alla bella Partenope, alla cui stanza egli serve di muro, mentre maestoso la porta di lei vedesi al piede; anzi quasi dita del suo piede vede quelle strade, che, come a meta del corso, alla regia piazza del Palazzo s’ incamminano. In questo posto questa mia nuova abitazione è posta. Questa dal signor D. Sancio di Strata, marchese di Crispano, più con le regole dell architettura che con le misure della parsimonia edificata, non men della liberalità della sua mano che della ricchezza della sua mente fatta esempio, alla delizia di lui non men che alla comodità di qualunque Signore è fatta invito. Perchè, oltre • . • • • le camere che innumerabili contiene, oltre 1 portici, i cortili e i veroni che possiede, quasi per suo centro uno spazioso giardino ella racchiude, ove tra carceri di alti aranci, e tra laberinti di bassi mirti, i più bei fiori e i migliori frutti stanno imprigionati. Non conveniva che questo verdeggiante corpo, che agli spiriti reca 1 anima, se ne stesse senz’anima: e però non a caso fu animato da un casino, che dalla casa maggiore per mezzo dell’interposto giardino industremente separato, aperto 1 uscio alla libertà, apre l’occhio al diletto. Non è comodità per l’abitare, che in lui si faccia desiderare, non è veduta che si possa immaginare, che in lui non si lasci vedere. Egli, fisandosi continuamente negli aspetti del mare e della terra, gode in un medesmo istante del teatro che vicendevolmente la terra e il mare gli formano — 339 — d’intorno; e gode quest’aura salutare, che, per entrare in questo amoroso alloggio, introduce in lui, fatti suoi messaggeri, dei placidi zeffiretti i purissimi sospiri. Dormo questa notte in questo appartamento, allettato dalla sua grazia ; poi me ne pento, soverchiamente favorito dalla sua freddezza. Non è iperbole : o fosse per l’assuefazione del contrario, o fosse per l’intemperie del sentimento, non sentii giammai tanta frescura ne’ dodeci di Decembre, che maggiore mi sia parsa questa de’ dodeci di Giugno. Cerchi pur questo luogo chi per umori o per amori internamente acceso, o da Vicentini ricetti più ventosi, o da grotte Olandesi più agghiacciate procura alle intollerabili sue fiamme alcuna emenda: e chi nel meriggio estivo, per non sentire i latrati di Sirio, nelle sotterranee cave si nasconde, non si seppellisca più vivo ; viva, e permuti le cavernose buche in queste ariose celle; e viva lieto, che dal caldo vivrà sicuro. 12. In questo Sabbato, in questo alloggiamento mi trattengo. Non mancano trattenimenti, se per trattenimenti suppliscono i negozii. Ai consueti s’ aggiungono oggi quei domestici, che per l’assesto della nuova casa paiono opportuni. 13. Domenica, alla Croce di Palazzo per veder la messa, e per veder li squadroni che in quella gran piazza formarono i pretoriani Spagnoli. L’apparenza, ch’ai principio fu dilettevole, al fin fu tragica; perchè, sì come in somiglianti faccende spesso avviene, una moschettata da quelle file uscita fece uscir di vita un cappellano del Viceré, coltolo nel petto, mentre questi, di S. E. stando al fianco, alla finestra più contigua sfavasi affacciato. — 540 — Ouesto caso, o diremo questo occaso, molto più per quel che poteva succedere, che per quel eh’ era succe- • » duto, non mancò di apporta/ discorsi, e di generar sospetti. Si bisbigliò, si mormorò; ma l’animo dell’intrepido Monterey non per tanto si turbò, ch'egli mancasse di onorare lo spasseggio, e di favorire la commedia....... 14. 15. 16. Lunedì mattina fui a Piedigrotta per esercizio del corpo: nel meriggio fui a Santa Chiara per devozione dello spirito : nel rimanente, poi, siccome nel Martedì, sempre mai molestato da pensamenti noiosi e da impedimenti negoziosi; dei quali, sì come lunga (per mio credere) dovrà essere la pena, così forse troppo anticipata, e certo inutile, è la doglianza. Differisco adunque, e taccio, mentre il raccontar le mie malenconie non sarebbe altro che malenconizzare il mio racconta-mento, e rendermi importuno col narrato affanno, quanto il sofferto affanno mi rende ormai tedioso. Ma che dico io sofferto? Sofferenza suppone pazienza. Se ho a confessare il vero, tanto più patisco, quanto meno so accomodarmi al patire........ 17. Giovedì, perchè è il giorno della Ottava del Corpus Domini, si festeggiò con processioni, con apparati, e con cerimonie, che proporzionate alla occasione e confacevoli alla usanza, rendono questa città non men per lo culto che per la pompa fra tutte 1 altre d Europa incomparabile. Esci la processione composta del cleio di quella chiesa dalla quale esce. Di S. Jacopo è la chiesa; questa, collocata nella sommità di quella gran piazza che apre il largo del Castello, e parrocchia della Nazione Spagnola: pertanto, come padrona de’ padroni, è doviziosa di molte argenterie, guernita di ricchissimi — 341 — ornamenti, servita da innumerabili cappellani, officiata da maestosi canonici, frequentata da congregazioni, favorita da cavalieri. lutti questi, oggi, con l’assistenza del Viceré, assistono processionalmente con torchie in mano all' accompagnamento del Re dei Re; l’ostia sua sagratissima compiacendosi Sua Divina Maesta veder sotto splendido cielo di gemmato baldacchino adorata, per quelle contrade che partono da S. Jacopo e arrivano per insino alla metà di Toledo. E perchè di queste sono due le strade più principali, a cadauna di loro negli estremi confini si ergono, per maravigliose perspettive, eccelse macchine, che in vario modello fabricate, non men dalla varietà delle invenzioni che dalla maestria de’ lavori prendono 1’ eccellenza. Ognuna di queste ha per centro un altare : sono linee a questo centro le schiere delle lampadi, le file de’ candelieri, le squadre delle torchie. Tra i folti splendori di questi lumi non solamente fiummeggiano mille variati vasi d'oro e d’ argento, ma superbamente lampeggiano milioni di perle e di diamanti. Si odono da tutte le parti non veduti musici, imitatori con li angelici loro concenti dell’ angelica invisibile armonia. In questi luoghi a ragione oggi il tutto simboleggia il paradiso, mentre l’autor del paradiso visita questi luoghi. Non prima della venuta notte la processione in S. Iacopo ritorna. Nel suo ritorno passa per la gran piazza : nel suo passare sentesi, coni’è giusto, salutare. Salutano le soldatesche in più squadroni a tal intento radunate; salutano le'artellarie che nei castelli sono mantenute: le fiamme delle moschettate si vedono: i rumori, per maggior rumore delle bombarde, non si sentono : sen- — 34 2 — tonsi gli strepiti strani degli affettuosi applausi che in lode della veduta festa vanno fra di loro raccontando le turbe, mentre tutte liete se ne riedono alle case loro, rimaste per curiosità devota tutt'oggi vuote. 18. Venerdì, mi riesce in casa di Caivano aver coloro in adunanza, che già si adunarono contro di me nella mia assenza. Xon mi riesce già il disciormi da quella compra di Stato, nella quale mi fanno stare allacciato coloro che nel comprare mi hanno venduto. La compra è latta perchè costoro me l’hanno fatta. Da’ loro tatti mi trovo pregiudicato, perchè da’ loro scritti sono tradito. Chi doveva mai dubitare, non solamente della verità delle lettere private, ma della validità delle scritture pubbliche? Mi sono fidato; ma chi può a meno di fidarsi, ove da sè stesso non può servirsi? Mi sono fidato col pegno in mano d’amicizia antica e d’obbligazione moderna: mi sono fidato coi patti; mi sono fidato su giuramenti: chi ha mai sentito dire che i contratti eziandio si ardisca violare ? Or conosco ben io che il mondo instabile Tanto peggiora più quanto più invetera. (Sannazaro). Or conosco ben io, ma troppo tardo, come dall’opportunità della mia difesa macchinarono alla mia offesa quelli stessi che con armi d’argento avvalorai: si sono armati per 1 utile proprio quelli stessi che finsero di combattere per mio beneficio. E perchè vedono che se avesse mai fine la mia perdita, avrebbe fine la loro vittoria, m impediscono ai passi, mi trattengono i convogli, mi spaventano agli assalti, e le mine da loro fatte per avidità, da - 343 - loro coperte per astuzia, in altro non si affaticano che in dar indugio all’ostinata mia fatica. In altro non studiano, che in adattare aste di frodi e macchine d’inganni. Ed è il bello che se pur si avvedono che io vedo, in ogni modo ancor dà loro il core di farmi intravvedere, nè dagli orditi inganni sanno traviare; o avvengasi ciò perchè quelli che una sol volta hanno perduta la vergogna stimano poi sempre lecita la infamia, o perchè si facciano targa di quella necessità la qual pare dalla frode suggerita, se al coprire altre frodi stimolata, conforme alla sentenza di Seneca: Sedere velandum est scelus. 19. 20. Tutto il Sabbato fu inviluppato ne’ medesmi intrichi ; e per li medesmi tutta la Domenica fu occupata da negozii. 21. 22. Lunedì e Martedì me la passo pur in faccende trattenuto, indi nella spedizione dell’ordinario straordinariamente travagliato; e finalmente dalla scossa di due sopravvenuti terremoti sbigottito. Mi convien dunque provare un poco di quel molto che avevo sentito dire: ma dall’ udire al vedere ha gran divario. Sì come gli oggetti del piacere dalla presenza s’impiccioliscono, così le imagini del terrore dall'aspetto si ingrandiscono. S’ingrandiscono eziandio le specie secondo la mistura delle considerazioni applicate loro, più 0 meno veementi. Se quando nascono le cagioni mancano gli effetti, confesso che mi arreca noia, in tempo che l’apertura del Vesuvio ha tolto l’impeto alle fiamme, l’osservare come cessata la concussione dell’aria, non sia cessata la commozione della terra. 23. Mercordì, riverita vigilia, precursora alla festa del Precursore di Cristo: onde, per maggior negozio, mi — 344 — licenzio da’ negozii ; e in ver’ la sera sbrigatomi dai noiosi crucci della casa, acconsento ai solazzevoli inviti della città. La quale in questo giorno solenne, perchè è previo alla solennità di quel di domani, festeggia sì pomposa, eh’alle pompe di lei tutte le altre qui sovra annoverate convien che cedano. Questa testa vien per tutti ; la ceremonia non vien da tutti ; ella è particolar festa del popolo, perchè l’apparato di lei viene dal popolo. Del popolo artigiano, o mercadore, io parlo. Questi abita quella parte che Napoli il vecchio si addimanda. In o^ni parte adunque, ove gli alberghi di questa distinta prò vincia si raggirano, in ogni anno quelli apparati si apparecchiano, che in questa carta distintamente si rac contano. Un grand’arco trionfale, che ver la fine del largo Castello e ver’ lo principio della piazza del Molo sopra intagliate colonne viene eretto, serve oggi per maesto porta alla strada dell’ Olmo, e per festoso portiere 1’ ingresso del concorso. Il quale, introdotto in que contrade, avvegna che in molti luoghi più tosto lun& che larghe vi si trovino, in quelle aggirandosi per tutto quello spazio di sito che dall Olmo alla Sellaria contenuto, s’abbatte in tanti e tanto fra di loro co calli, e tutti in tante spoglie talmente da lor stessi tr ^ visati, che mentr’ egli vaga vagheggiando, sentesi qua in necessità di quel soccorso eh apportò, all ingress del laberinto di Dedalo, Arianna. Che laberinto più bello di quel che si ritrova in questo intricatissimo quartiere? Nel cui corso il sollecito ca minare nemmen per lo corso di tre ore arrivasi a fini Dopo sì lungo ma dolcissimo girare, alla fine il fine 1 — 34S — lui ritorna al suo principio. E se per occasione sì eminente la comparazione del laberinto riesce bassa, giacché favelliamo di solennità celesti, valiamoci della metafora del cielo ; assomigliamo il giro di questi contorni al giro delle sfere, ove quella catena d’oro, da Omero già descritta, dall’alto cominciando, e per tutti i cieli rivolgendo, cola onde prese il suo cominciamento restituì il suo fine. In queste belle strade è bello oggi il vedere come dalla diversità degli artigiani che le alloggiano vien distinto 1 apparato onde si adornano. Cadauna delle arti, con troppo a dir vero ingegnosa architettura, compone per adornamento delle loro contrade le macchine con que’ stromenti e con quell’opre che sono al proprio loro esercizio famigliari. Se coloro che tengono i fondachi pieni di panni di seta, con festoni di ormesino, con cieli di broccato, con tappezzerie di velluto, in variati colori, si onorano de’ proprii lavori; coloro che martellano su l’incudine di ferro piastre d’oro, non che d’argento, con vasi, con candelieri, con statue, arricchiscono altari, sollevano piramidi, adornano nicchie. Se i martellieri di sucidi metalli da lor botteghe rendono rilucenti i muri con le nuove apparenze de’ loro fabricati rami ; all’ incontro gli umili benché abbondanti delle commestibili grassure sovra i muri ergono milT archi in volta, che nell’aere da pendenti casei sono dipendenti. In fine, ognuna secondo la sua professione procura a sè medesma il premio dell’emulazione. Ove non entra 1 emulazione per la disparità dell’oprare, si gareggia per l’avidità dell’ emulare. Così mentre gli uni si rendono vittoriosi per la nobiltà dell’arte e per la gloria della materia, gli altri, superando la povertà dell’esercizio con l'industria Atti Soc. Lio. St. P»tri». Voi. XXIX, F.isc. II. — 346 — dell’ingegno, cercano di nobilitar con la maraviglia dell’artificio l’ignobilità dell’artefice. Tralascio il dire 1’ infinità de’ lumi, che nell arrivo della notte richiamano il partito giorno ; così lampeggiano innumerabili per ogni \acuo di quei numerosissimi balconi. Tralascio il raccontar la venusta e insieme leggiadra comparsa delle dame e de’ cavalieri, che adunati per goder di questa vista, della più bella vista fanno altri godere. Tralascio il descrivere la quantità immensa e la qualità pomposa di que’ fochi, che d’ogni intorno a questi contorni, or in macchine fisse, or in volanti, si \ edono artificiosamente anzi maravigliosamente collocati. Dico solo che mentre nel repentino e vivace incendio loro s abbagliano gli occhi, nel medesmo istante, dello strepito che da tutti li castelli mandano le bombarde, si empiono gli orecchi. Fu chi avrebbe dubitato se il monte di Somma, non pago del proprio abbruciamento, estendesse le sue braccia di bracia in questo seno, se non avesse avverato che, ove le fiamme di quella fornace con la mina recarono il terrore, i fochi di questa solennità con la magnificenza portavano il diletto. Questi, e forse maggiori, sono i trionfi di questo vittorioso giorno. Io ne godo oggi, più avventurato che accorto. Accadde che il mio troppo indugiato arrivo del ripieno teatro mi vietò l’ingresso.-Già sto per partirmene, quando mi sovviene un partito. Quel comodo suggerisce la necessità, che non avrebbe somministrato la comodità. L’ entrata del Viceré spalanca l’adito alla mia ; perchè, apertosi nella moltitudine il sentiero alle regie quadrighe, la mia s’attacca a quelle ; onde tra quelle intrecciato vedo quel che non avrei veduto. E così provo che molte — 347 - volte molte cose riescono meglio a caso che a studio, imperciocché sovente supplisce la fortuna ove non previde l’ingegno, o non provvide l’opra. Multa quae provideri non possunt, fortuito recidunt, affermò Cornelio Tacito. L’entrata di S. Ecc. fu in questa guisa. Una compagnia di arcobugieri a cavallo, con giubbe carmosili ben all’ordine, fece l’antiguardia. Una processione di nobili cavalcanti, che per essere continuati nel servizio si chiamano i Continui, seguitò. Una schiera di tutti mastri di campo, capitani ed ufficiali di guerra, venne appresso. Un esercito di titolati e di cavalieri appresso a questi comparì. La comparenza, nell onore della pompa indifferente, fu con questa differenza che ove i destinati alla guerra, tutti per abiti colorati e per pennacchi ventilanti apparvero bizzarri, gli oziosi nella pace senz’altri colori che quelli delle loro livree, e senz’altre gale che quelle dei loro destrieri, entrarono sussiegati. 11 capo della cavalcata cavalcò (secondo la regola) al piè di quella ; onde, passato già il capitano delle guardie, passati gli alabardieri, tracorsi gli staffieri, si lasciò vedere il Conte, fatto, qual Alessandro, di nuovo Bucefalo domatore, e fatto in uno stesso tempo, di marito, araldo della Vicereina, che in tardo moto del suo dorato cocchio seguitandolo, seminava onori per mietere diporti. Si compiacque la generosa Signora di molte invenzioni che molte macchine apprestarono. Ma particolarmente di una si allegrò, la quale a Seggio di Porto le si offrì. Certa imboschita montagnola sì graziosa in questa piazza s’innalzò, che la natura ne restò delusa dall’ arte. Se fuori della città foss’ ella collocata, per naturale ciascheduno avrebbela creduta. Questa, allo spuntar del regio Sole, si — 348 — aperse sino al suolo; e nell’aprirsi, dalle floride sue bocche tanta copia di volanti augelli vomitò, che non solamente l’aere se ne riempiè, ma se n’empierono i mantelli a’ stupefatti circostanti. Uccelli tutti belli; ma soli avventurati quelli, che nell’uscir da quel limbo di legno ov erano imprigionati, andarono a carcerarsi nel paradiso di quelle mani, ove le dame più gaie li tennero favoriti. 24. Giovedì, sto in tutto il mattino co i Padri de gli Angioli ; e nel rimanente con gli Angioli della Terra. Perchè avendomi onorato nel desinare il P* Ambrogio di Negro e suoi compagni, per isfogamento dell eccessivo caldo che oggi ne accompagna, ce ne passiamo alla frescura di Chiaia, ove in casa della signora Adreana Basile, il soavissimo concento dell arpa e della voce di lei, accordato alla maestrevole armonia del liuto e del canto della signora Leonora sua figlia, per insino a notte in gioia quanto in musica ci tenne. Ma chi non è tenuto in gioia, se è tenuto in musica? .......................... ____Se leggo Boezio nel Proemio, ritrovo nella musica l’assoluta potestà non pur di altrui piacere, ma di tutti gli altrui piaceri in sè rapire. Se leggo Aristotile ne Problemi, ritrovo nella musica la materia non sol di attrarre ogni forma, ma di addolcire ogni affetto, il doglioso per diminuirlo, il lieto per aumentarlo. Onde, se al suono e se al canto si concede cotanto, non è stupore, mentre alla melodia delle due Basili è conceduto quel che nella musica maggiormente è celebrato, s elle non meno rapiscono 1 anime con la virtù di quel che l’innamorano con la grazia. Pertanto, sì come io mi pregio che la mia casa abbia per alcun tempo la signora - 349 — Adreana in Genova ospitata, così mi glorio che la mia Musa l’abbia in alcun tempo con versi toscani (i) ed or con latini riverita. Si cantii coelum vincis, si lumine solem, Te coelum et solem dicere utrumque parum. Te dulces modulante sonos, reserante serena Lumina, mox coelum constitit, obstupuit. Ut potuit dixitque meos tot claudere cantus 'Coelum unum ? soles nam rotat illa duos. 25. 26. Venerdì e Sabbato, uscii per quei negozii, da’ quali non spero di uscir mai. Egli sarebbe troppo importuno ad altri, non che troppo faticoso a me, il raccontare minutamente quella fatica, la quale mi occupa continuamente. 27. 28. Domenica e Lunedì, vedo la messa; poi non vedo altro che lusinghieri avvocati, avidi notari, rapaci ministri, ingordi ufficiali; e tutti disleali. « Ohimè, quest’è dolor eh’ogn’altro avanza » (Guarino). 29. Martedì, la faccenda ordinaria dello scrivere con l’ordinario, non mi consente ch’io faccia festa, benché questa sia oggi per la commemorazione dell’Apostolo, capo degli Apostoli. 30. Mercordì, fra 1’ onde procellose delle continue mie cure, nauseato da importuno vento che soffiò dal reverendo e forse troppo riverito Bianco. Però scacciai quel vento, ed egli rimase in bianco. Questi, buon teologo ed ottimo umanista, avrebbesi fatto un grande onore, (1) Nel tempo che la signora Adriana Basile fu in Genova, e si fece udire nel palazzo di Gian Vincenzo. Ma questi versi italiani non pare siano stati licenziati alle stampe. — 35° — se alla scienza delle lettere avesse accomiatata (i) 1 intelligenza delle cortesie. Egli di mastro di scola pervenne ad esser mastro di casa: dico poco, anzi pervenne a rappresentare il padrone della casa. Non gli bastò il rappresentarlo, che pretese divenirlo; almeno il suo procedere fece crederlo. Può esser lodevole che Dionisio, di tiranno, si faccia mastro di scola; non che di mastro di scola si faccia altrui tiranno. Dell’esercizio di ministro poteva contentarsi, quando a lui piacque dell’officio di padrone insuperbirsi. Ma chi è superbo s’ingegni d essei • • umile, imperciocché solo per mezzo del servire si arriva al fin del comandare. Pervenuto al comando, se studia mantenersi nel dominio, col moderatamente esercitarlo non faccia molta mostra di conoscerlo. Di questa maniera schiva il sospetto de’ superiori e l’odio de’ soggetti- Ma il mal del mondo si è che le ricette dell’arte raramente medicano le infermità della natura. Chi per felicità della sorte improvvisamente si è ingrandito, avvien di rado che nella felicità della sua sorte sappia dar moderazione al suo capriccio. Fclicitatis ct moderationis dividuum contubernium. (Tacito). (i) Per accompagnata. Questo prete Bianco era certamente stato preso da Gian Vincenzo per maestro al suo figliuolo Giambattista, che vedremo più sotto essere a Napoli in compagnia del padre. — 351 — III. Luglio. — Creditori e coccodrilli. — Le buone parole del grande ufficiale. — Anagramma contro i medici. — Negozi impacciati. — La barchettata. — Delizie di Posilipo. — Tamerice misterioso. — Il buon marchese di Villa. — Visita sfortunata al Viceré. — Funerale notturno. — Le umane follie. — Il libro di Filippo Fenella. — Altra visita sfortunata. -- Il Viceré a San Giacomo degli Spa-gnuoli. — Cerimoniale puntiglioso. — 11 Cardinale Savelli e Sofonisba Romana. — Arte e bellezza. — L’ angelo del Mondo. — Digiuno non comandato. — Lo sfratto del cuoco. — Musica piacevofe e musica ingrata. 1.° Luglio. Giovedì ne porta in casa il primo di Luglio; nè di lui posso altro contare che i regali in casa del Di Negro mio signore, a tavola goduti, dopo aver molti dottori in Montoliveto per un importante suo litigio radunati , e forse più lungamente che profittevolmente in chiacchiere sentiti. 2. Venerdì non produsse altro di novo che le novità ogn’ora pullulate da’ pretensori nel pagamento della mia compra; per lo stabilimento della quale, a pena vien da me chiusa una bocca, che a questo mostro se ne spalancano molte altre. Parmi di essere al Nilo, ove la quantità delle fere che assetate concorrono a quel fiume, genera da ogni stagione così strani ed inaspettati i mostri, che ne sentenziò l’antico adagio: Semper aliquid, novi affert Africa (Erasmo). Di grazia, non ne parliamo; le mie disavventure, cagionate dall’altrui molestie, arrivano - 352' — a tal segno, che sì come non è poca impresa il sofferirle, così è troppo affanno il raccontarle. 3. Sabbato, se ben agitato da poco buon sentimento, sento a lungo un amico. Questi è un grand'officiale, da cui mi furono promessi grandi offici. E perchè molte volte dove non si ha speranza è necessario mostrar di averla, per dare a lui da intendere che nella sua fede io non conosco risico, arrisico il dispendio per assicurar l'intento. Ma che prò’, se da seminata grazia accolgo mèsse d’ingiustizia? Mala mens, malus afiìmiis. (Terenzio). Il mio buon servigio miete il raccolto d’un mal animo; imperciocché a peso d’oro, in vece della sostanza, mi è venduta l’apparenza; e della vuota spica sol mi rimane in mano la pungente arista. 5. 6. Lunedì e Martedì, non so se per cagione de’ patimenti che nel viaggio ho passati, o per effetto de travagli che nel presente io passo, per mancamento di sanità manco a’ negozii. La mia medicina è la mia sofferenza; il mio riposo è il mio medico ; ogni altro medico, sì come a questo caso io stimo inutile, così in molti altri io giudico dannoso. Beato chi sapendo curar sè stesso non si fida all’altrui cura. E chi non saprà, se vorrà? Troppo disa-vantaggio avrebbero gli uomini ragionevoli dagli irragionevoli bruti, se co’ soli precetti della natura, sì come questi sanno guarirsi, essi non valessero a risanarsi. E come fecero i Romani, che per vivere lunghi anni vissero senza medici per lunghi secoli? Mi perdoni chi è medico, se affermo eh’ egli è tutt’ uno il dire È medico e ’l dire ociDE me. « Ocideme » fu detto al medico ; poscia, a fin che da questo nome il medico non si offendesse, o il malato non si sbigottisse, fu necessario comporre il — 353 — medesimo nome delle medesime lettere (i) scritte alla rovescia, come alla rovescia bene spesso scrivono essi le ricette ; onde accelerano la morte a chi promettono la vita. 7* Mercordì, esco di letto per uscir di casa; ed esco di casa per desiderio di saldare con D. Ettore della Marra, a conto della compra, un preso aggiustamento. Perchè mi fu profittevole il terminarlo, troppo pernicioso mi sarebbe stato il differirlo. Non è la prima volta che questo istesso trattato per poco intervallo si ristrinse e si disciolse. Chi non è fortunato non sia negligente ; ma si raccordi quel proverbio: Inter os et off am multa contingere possunt (Aulo Gellio), volgarizzato dall’Ariosto: A Teme di qualche impedimento spesso Che tra il frutto e la man non le sia messo. 8. Questo Giovedì in tutti quei negozii che tratto mi è contrario. Dica il contrario chi vuole : non è mica superstiziosa, ma sperimentata osservazione, quella che facciamo, de’ giorni buoni e de’ mali.... Chi ha fortuna, ha tra i giorni buoni i migliori; chi non ha sorte, ha tra i mali i pessimi.................... Che debbo io farmi? Io nè con la forza posso difendermi, nè con la fuga posso salvarmi. Quando mi trovo libero dalle mani de’ notari, mi trovo schiavo a’ piedi de’ giudici. 9. io. Venerdì e Sabbato, Dio sa come più afflitto nell’ animo che grandemente travagliato nel corpo ho passato questi due giorni. Manco male se con questi fossero passati i preveduti mali. Chi semina dolori non miete contentezze..................... (i) Il manoscritto ha: vocali, ma per evidente trascorso di penna. — 354 — ii. Domenica, più per compiacere al conte di Chia-romonte, che per sodisfare al mio piacere, barcheggiai lungo la costa di Posilipo; costa che dal corpo universo di questo mondo credo fosse scelta dalla natura, intenta a comporre la più bella torma eh abbia la mondana bellezza, come già dalla costa dell’uomo volle il Padre della natura fabbricar la bella madre dell umana generazione; costa che nel placido suo curvo contiene un maestosissimo teatro, nel cui spazioso giro molti teatri sono contenuti, in quella guisa che da un solo emispero molte sfere sono abbracciate. E che teatri ! Teatri ove tra sode e tra verdi perspettive, tanto in edifici regali quanto in macchine boscareccje, pomposamente repartite le scene alla maraviglia, si espongono in varie guise singolari spettacoli al diletto; mentre quivi comiche diventano natura ed arte, ognuna di esse vicendevolmente a gara dispiega all’occhio spettatore la gloria più famosa de’ suoi più rari componimenti.............. Posilipo si mira in quella parte di Napoli che mira il ponente. La sua pieghevole collina dolcemente sollevata da placidissimo seno di mare, sembra una siepe di sme raldi spuntata in campo di zaffiri. La sua dilettevole campagna ha per sue giardiniere Flora e Pomona. I suoi fecondi giardini hanno i Zefiri per cortigiani e i Sileni per ministri. La sua spiaggia direi eh ha le gioie per arene, le grazie per onde. Ma basti il dire che quest’ onde son quelle stesse nelle quali si generò colei che generò l’Amore. Oh spiaggia! oh riviera! Il capo di Posilipo le serve per piede ; Piè di Grotta le giova per capo ; Mergellina le riesce per seno. La prima parte, per essere il termine di questa delizia, la seconda, per - 555 — essere strada quanto è ben lungo un miglio in vivo sasso incavata, la terza, per esser quasi penisola già stanza di Jacopo Sannazaro e nelle glorie di lui sempre famosa, è riguardevole. Questo sito non è tanto lontano dalla città, che si faccia desiderar troppo ; nè tanto alla città vicino, che si faccia stimar poco. Sì come ha il merito della più bella cosa di questa bellissima Partenope, così ne rapporterebbe il titolo di suburbio, se dal borgo di Chiaia per brieve gita frammezzato, da Napoli non si dividesse. Adunque, la vicinanza del luogo accompagna ove l’abbondanza delle delizie invita. S’apre comodissima la strada a chi per terra lungo la spiaggia vuol solazzarsi. Nè mancano d ogni genere vascelli a chi si compiace in quell’acque di condursi. In questi giorni fuggono tutti da i caldi della città: ricorrono molti ai freschi della riva. Altri del popolo minuto con sua domestica brigata sovra que’ bassi scogli tra povere musiche e tra parche merende si dimora: altri in cui la facoltà non dissente dalla voglia, sopra dorate feluche, con superbe vivande e con armoniosi concenti si solazza: altri per apportar diletto alle dame, e grido al proprio fasto, le varie divise della colorita sua livrea fa pompeggiare in dosso alle voganti ciurme: altri per vedere va lento : altri è veloce per parer valente. Ma non più di questo: 1’oggetto mio non è questo. 12. Lunedì, ritorno alla messe de’ miei triboli. E mentre sudo nel campo di questa Corte, m’imbatto in certa pianta che da Plinio è chiamata il Tamarigio (i). Io la miro per (i) Plinio , Hist. nat. XIII, cap. 21 : « Myricen ... quam alii tamaricen vocant ». E il Domenichi traduce tamariu nel testo, ma scrive tamarigio nell’addizione — 356 — soverchia aridità già impallidita. Parmi che il suo pallore domandi il mio soccorso. Lascio di bere per abbeverarla. Mostra essa dalla mia mano ricevere la sua vita. Quand io ritorno a vederla, ove aspettava smeraldi ritrovo ceneri. Portentosa maraviglia! grido allora. Maravigliosa ignoranza , mi risponde altri ; chi conosce quest erba non 1’ adacqua ; ella quando non ha pioggia par che muoia di sete; muor da vero quando si disseta. Non è questo un bel caso? Oh, quanto più bello parrebbe al sentire, quando la metafora ne potessi dichiarare ! Sono certi uomini al mondo, che sitibondi dell’ avere altrui non si dissetano se non si affogano. Se non si reca alimento alla loro avidità, non se ne 1 1 9 • • • acquista la grazia; ma se si reca, se ne perde 1 amicizia. Per non rendersi grati del beneficio, si dileguano dal benefattore. Or se di questi tali fosse un Gran Ministro in Napoli? Dio volesse che si potesse dir uno: io non posso dir altro. So che non meno importa il saper tacere, che ’l saper parlare........,......• Non è questo il giorno ove ho imparato a conoscere che chi non sa tacere non sa vivere. Il silenzio a sè stesso è pregio e premio. « Est et fideli tuta silentio — Merces____ » (Orazio). 13. 14. Martedì e Mercordì non mi allontano dalla • polve de’ tribunali, per quanto mi dia nella gola. Per sbrigarmi più presto che si può, fo quanto posso. Da un fianco mi è stimolo il mio bisogno, dall’altro mi è marginale. V. l’edizione del 1603 Venezia, appresso Pietro Ricciardi, p. 306. Ciò pel vocabolo, che può parere insolito. Che mistero poi si nasconda in questa parabola dell’Imperiale, s’intenderà, se bene non intieramente, più sotto. - 357 — sprone lo stimolo del tempo. Non è più in tempo domani quel che non si opera oggi. Di già, per fuggire dai caldi, tutti fuggono dai negozii. Già si gonfia la tromba destinata a pubblicare il bando, come questa Corte, per quanto durerà la state, quasi tempio di Giano in tempo di pace, terrà chiuse le porte della guerra. 15. Giovedì cerco ristoro dal riposo. Il mio riposo è nel mio Casino, di ove scacciati oggi i negozii, vi ammetto solamente i domestici. Non mi lascia solo il signor D. Ferrante (1). Non so se siccome mi è compare mi sia amico. Egli fa il cavaliere: io credo che lo sia: se tale sarà, la prova il mostrerà. 16.17. Venerdì e Sabbato, or nel mio camerino su papeli (2), or in casa d’avvocati su negozii, or in cor-teggio d’officiali su discorsi, sempre mai nel meditare, nello scrivere e nel soffrire fui sollecito. 18. Domenica, nella mattina coi Padri degli Angioli, nel pranzo col marchese di Villa; nella sera col medesimo ad un brieve e solitario spasseggio; ma verso il tramonto del giorno, prima che ridurmi al riposo, ritorno all’ esercizio ; imperciocché in una concertata radunanza col Caivano e col Caracciolo mi affatico insino a notte.... 19. Lunedì, consumo l’ore della mattina in casa del Cacace ; sacrifico quelle del dopo desinare alla reggia del Conte. Mi conduco dunque al palagio che ora S. E. tiene in Posilipo. L’abitazione di lui è quella di Traietto. (1) Questo nome apparisce la prima volta; nè mi pare che più ricomparisca in questi giornali. (2) Papeli, dal generoso papi, fors’anco dallo spagnolopapeles; qui e parecchie altre volte facetamente usato per carte, specie legali. — 3)8 — Nel mio primo entrare, lo vedo uscire. Queste sono opre della mia solita ventura.................. 20. Martedì ha di mestieri di tutta la sua lunghezza per aggiustare un cumulo di lettere con egual misura. Se ben non perdo tempo, appena ho tempo per leggere, non che per rispondere. Partesi il giorno, partesi il procaccio; che non mi resta altro che fare, che l’andarmene a dormire. Dunque mi spoglio. Ma nel corcarmi a letto, mi sento da querula nenia invitare a’ miei balconi. Per non chiudere il caldo, erano aperti; senza indugio mi riuscì l’affacciarmi. Ed ecco, non veggo più notte; veggo la contrada per folti lumi tanto risplendente quanto di giorno l’abbia mai veduta. La veduta fu malenconica, e mi fu grata; fu malenconica perchè in splendido mortorio rappresentò nell’ ombra di questa notte 1’ imagine di quella eh è inevitabile al giorno di ciaschedun mortalemi fu grata per due cagioni; l’una si è perchè non d’altro che di oggetti malenconici si conforta il malenconico ; l’altra si è perchè in ogni genere di cose, ogni novità che dispiega la magnificenza, mentre stuzzica la curiosità, diletta la fantasia. Ornamento di esequie sì pomposo forse non ho veduto in altro funerale; imperciocché in questa strada che dal Monte di Dio per insino alla piazza degli Angioli ha per lungo spazio dirittissimo il suo corso, più di quattro-cento preti, di bianche tuniche coverti, di lor medesmi due lunghe e non interrotte file avevano formate, che l’una dall’altra con ordine divise, e l’una ad una parte delle case e l’altra all’altra con studio avvicinate, recarono decoro a quell’azione e luce a quella contrada oltre - 359 — ogni credere, in quel mentre eh’ essi, sostegnitori di ardenti doppieri lentamente camminando, proferitori di rauco suono devotamente salmeggiando, un cadavere di deiunto alla stanza di lui per infino al giorno dell’universal giudizio destinatagli, accompagnavano. Sovra gran bara di velluto nero appariva grand’ arca di broccato d’oro. In questa giaceva il morto ; su ’l morto facea grand’ arco 1’ arco di quella croce onde 1 arciero della vita saettò l’eterna morte. Aggiungevansi all’ onor di questa, eh’ad ogni cristiano è universale, quelle insegne della corona d’oro e della spada dorata, che a soli titolati sono concedute. La coda dell’ apparato cataletto era non pur sostenuta, ma seguita da una lunga coda, che in sei schiere formavano ventiquattro. Questi, da loro spalle pendenti larghissime gramaglie strascinando , movevano dal suolo quelle nuvole di polve che nel ricader a terra piovevano per gli occhi loro acque di pianto. Vaglia dir il vero; oggidì nel mondo pare che l’ambizione sia ridotta a natura. Se l’ambizione è peccato, tutto quel che facciamo per lei è castigo di Dio per cagion di lei. Che l’ambizione sia convertita in natura, lo dimostrano gli abiti del fasto, sì tenacemente in noi radicati, che non sodisfatti d’insuperbire in vita, pavoneggiamo in morte.............. Don N. N. più arricchito dalla fortuna per quantità di danari, che illustrato dalla condizione per qualità di meriti, non ben contento di vedersi padrone di molte fabriche in Napoli e di molte baronie in Regno, con nuovi guadagni intento a nuovi acquisti, pervenne a comprarsi un grand’ officio ; e perchè quest’ officio in lui con la — 3 6° — sua vita si finiva, e mentre viveva grandissimi utili ne rapportava, non perdette il tempo sin che fu in tempo. Egli era ancor giovine; e per quanto non fosse prodigo de’ suoi dispendi, non fu avaro ne’ suoi piaceri ; giammai non divietò al suo appetito quel che gli fu dettato dal suo senso. Da molte si faceva desiderar per marito, da molte si faceva riverir per signore ; a niuna si faceva conoscer per amante. Dalla felicità della sua vita poteva pronosticar la vicinanza della sua morte, avvegna che « extremum luctum extrema gaudia parant »...... 21. Mercordi, alia solita occupazione dell ordinarie lettere si aggiunse la necessaria benché dilettevole occa-sione di scrivere a Cassano al Signor Giovan Paolo Serra, ed a Genova al Duca di Tursi, rendendo loro i cortesi offici passati meco, per lo matrimonio tra queste due case novamente stabilito. 22. Non esco, Giovedì, dal mio casino. In lui godo la mia solitudine, nella solitudine la quiete. Da balconi di lui sento lo strepito e miro de’ sottoposti contorni lo bisbiglio. Per la festa della Maddalena quivi si frequentarono gli spasseggi, si fecero gli apparati, e si accesero le macchine. Una stessa cosa più volte veduta, per quanto sia bella, perchè troppo è veduta non par più bella. 23. Venerdì, per addolcimento di assenzii ingoiati ne’ tribunali, assaggio in casa un inzuccherato componimento del signor Filippo Fenella (1). Egli mi dona un libro che ha stampato. In questo, coi caratteri della sua mente ha (1) Non m’è riuscito trovar notizie di questo scrittore, nè del suo libro, che, a quanto ne accenna Gian Vincenzo, a cui fu dedicato, dovrebbe essere curioso, e fare il paio colla Fisonomia murale di Gio. Ingegneri, vescovo di Capodistna; opera stampata in Napoli nel 1606, e l’anno appresso in Milano. — 3*>i — dichiarato tutti i caratteri delle faccie umane. Parla de’ nei, ma i nei degli altrui volti, illuminati da lui, riescono lumi di lui. Perchè i nèi ad un bel sembiante non scemano la vaghezza, e molte volte aggiungono la grazia, egli con questi nèi si è fatto bello. E che altro sono le stelle, che appunto tanti nèi sparsi ad arte su ’l viso bellissimo del cielo? Una imperfezione sola io ritrovo in quel suo libro. Per disegnarvi dentro alla Fama un edi- 11 ciò, ha errato il frontespicio. Veggo intagliatovi il mio nome. Spiacemi non essere più in tempo ad avvertirlo. Quanto io mi onoro, tanto lo compatisco, che per innalzar il mio titolo abbia abbassato il suo. 24. Sabbato vo al Caivano per la solita faccenda; a (iio: Battista Mari per visita; a Posilipo per riverenza dovuta e destinata a quelle Eccellenze. Navigo con fortuna, sbarco senza sorte. 11 Conte già è trattenuto nel suo solito spasseggio; My Senora sta enfodada. Chi disse per alcun accidente novo, di malattia non più nova (Così sentii che ne discorre Giovanni della Casa: « Cura che di timor ti nutri e cresci — E più crescendo maggior forza acquisti »); chi disse per alterigia, non tanto dal sussiego natio, non tanto dal grado eminente, quanto dall’ umor donnesco generale. E perchè i poeti stanno sempre alle porte dei grandi, ne parli il Petrarca: « Ed ha sì eguale alla fortuna orgoglio, — Che di piacere altrui par che le spiaccia ». 25. Domenica, per la solennità di S. Jacopo, la festa solenne se ne celebra nella parrocchia de’ Spagnoli. A questa è convitato il Viceré. S. E. accetta l’invito : ma se va di buona voglia, di mala voglia se ne ritorna. Accadde che in certa segretissima assemblea tra que’ ca- Atti Soc. Lio. St. Patria Voi. XXVX, Fase. Il, 24 — 362 — valieri dell’abito, che in quel tempio, in quel tempo, • *1 * ' formano quasi un tribunale, decretossi che non pili, com’ altra fiata per negligenza fu permesso, il sedersi alle spalle del seduto Viceré si tollerasse. Entra S. E. in chiesa : s’ alzano i cavalieri da quei banchi che fasciati di velluto carmosile fanno maggiormente spiccare il bianco panno di quegli abiti ond essi vengono fasciati. E mentre il Viceré nel mezzo al di loro teatro si ferma in grmocchione, si fermano essi in o piedi. Ma gli fanno intanto intendere, che s’egli vuole assistere alla solennità loro come padrone loro, già nella parte separata da loro e più sollevata dal Coro, stava preparata sotto il suo baldacchino la sua sedia ; ma che, compiacendosi, per onorar la sua religione, di comparire fra il di loro numero, non potevano a meno di supplicarlo ad accettare eziandio fra loro quel semplice scanno, che non alla dignità dell’ officio ma alla misura delle anzianità (1) veniva conceduto. Questa proposta inaspettata riportò, per bocca del mastro delle cerimonie, risposta poco favorevole. E questa pare che dèsse occasione a replica altro tanto risoluta. Perchè, dispostisi i cavalieri ad uscir dalla contesa coll’ uscir dalla ceremonia, dissero che il supplicarlo fu un avvertirlo, e che di novo lo pregavano a considerare che la regola delle bene accostumate Religioni non ha inferiore condizione alle costumate leggi delle libere Repubbliche ; ma che così in queste come in quelle, per conservar l’unione che è 1’ anima dello Stato, si conserva 1’ uguaglianza eh’ è il mantenimento dell’ unione ; e che per mantenimento del- (11 Nell’ordine di Sant’Iago, s’intende. — 363 — 1 uguaglianza bisognando sopra tutto fra tutti levar la differenza, si arriva a’ gradi più per discussione di legge che per distinzione di grado. Cede finalmente, e per benignità e per prudenza, il Conte. Egli s’incammina alla volta di Posilipo per mare, seguito da innumerabili feluche: io lo seguo per terra, accompagnato da innumerabili schiere di pensamenti, che festeggiano nella solitudine della mia fantasia. 26. 27. 28. Lunedì, Martedì e Mercordì si spesero tra la espedizione delle solite lettere e tra l’occupazione delle solite cure; e queste e quelle più del solito importune. 29. Nel venuto Giovedì, venutomi avviso che sette Galee di questa squadra, cariche di soldatesca, dànno la vela inverso ai nostri scogli, ripiglio la penna ; e lo scritto l’altro ieri oggi rescrivo, acciò sappiano i miei che ancor son vivo, e che la memoria di loro è fatta anima della mia vita. Visito poscia il Cardinale Savelli, e con 1’ opportuna occasione vedo la Sofonisba Romana, che del medesimo eminentissimo Signore è musica eminente (1). Comparve a’ cenni del superiore questa giovinetta, in (lì Di questo Cardinale che spesso ricomparirà, genialissima figura di gentiluomo porporato, nelle pagine di questi Giornali, diciamo tutto il necessario fin d’ora. Giulio Savelli, del celebre casato romano ora estinto, era nato nel 1574. Referendario delle due Segnature nel 1614, fu creato cardinale un anno dopo, col titolo presbiterale di Santa Sabina. Fu assunto nel 1616 al vescovato di Ancona: tentò # riamicare a Carlo Emanuele I di Savoia la Spagna, e fu da quel Duca rimunerato dei buoni uffici con 1’ abbazia di Ripalta, quasi sempre destinata a principi di casa Savoia. Ne) 1619 era legato in Bologna; arcivescovo di Salerno nel 1630, viveva molto in Napoli; rinunziò l’arcivescovato nel 1642 ad un nipote del re di Spagna. Già nel 1639 era stato promosso al vescovato di Tuscolo. Morì il 9 luglio del 1644, durante il conclave tenuto per la elezione di Innocenzo X. — 364 — quell’ arnese lugubre leggiadramente involta, che al suo volto non disdice, e eh’ al suo stato vedovile si appartiene. Perchè, in quella guisa che tra le oscurità della notte maggiormente risplendono le fiamme su la terra, tra i carboni di quell’ abito scintillavano maggiormente i raggi di quel viso. Quella gonnella da lutto che maestosamente la vestiva, quel manto funesto che per disornato ornamento strascinava, quell’aranciato velo che non pur 1’ oro al distrecciato crine, ma l’avorio al morbido petto sottilmente e perciò trasparentemente le copriva, rendevano la bellezza di lei tanto più bella quanto più incolta. Quella gravità di passo, quella mestizia di fronte, quella modestia d’ occhi, quella ritrosità di sguardi, quel contegno di parole, quell’ostentazione del proprio dispregio, quel pregio le avrebbero apportato, del quale cantò il Poeta: « Acerbetta bellezza, ahi, 1’alme fura E fere più quando ferir men cura (Tansillo) », se però foss’ella stata assoluta dal sospetto, del quale parlò il Tasso : « Le negligenze sue sono artifìci ». Tale fu la comparsa di questa donna. La quale, tosto che in una seggia quivi a lei destinata si ebbe gentilmente seduta, venne da gl’imperi altrui non men che dai preghi miei stimolata ad addolcirne col soavissimo suo canto la ferita fattaci col vaghissimo suo volto. Ed ella forse per riverenza amorosa, e certamente con pompa graziosa, più d’una fiata invermigliando d’inaspettate rose i puri gelsomini della%sua guancia, si dispose a dar il moto tra le vive perle de’ suoi denti a’ vitali rubini della sua bocca; tutta gaia e in un venusta, con fuggitivi sorrisi protestandosi com’ ella volentieri poneva a risico 1’ opinione da noi conceputa del suo merito, men- - 365 - tr’ ella si dichiarava intenta, non a quell’onore che le sarebbe impedito dalla sua poca sufficienza nel cantare, ma solamente a quel titolo che le sarebbe impetrato dalla sua molta prontezza nell’ ubbidire. Cominciò placidamente a destare quelle gemine corde, che in più ordini distinte, quasi languide riposavano sovra il piano letto di concavo liuto ; prima con lento girare degli argentati perni sovra il dorato manico estendendole, poi con più rigoroso esamine sovra i regolati tasti alla sentenza del suo chinato orecchio riducendole. Nè guari indugiò, che, dalle dita vivacissime di lei ravvivati, quei morti nervi si palesarono maestri di quel suono, che uguale forse non ebbe mai 1’ arpa di Apollo. Amore a’ furti amorosi assai sovente apprestò scale di corda ; ma di corde così gentili per mano così industre e per fine così degno non fabricò giammai scale così maravigliose ; scale, non ad altri furti applicate che al colpir per le finestre dell’orecchio i sentimenti al core; corde che da viscere di corpo armonioso son fatte vene d’anima giubilante. Di queste corde ogni toccata di costei tesseva un grado in questa scala, onde sagliendo vivace l’armonia su’ musici piedi, e di artifiziose fughe e di curiose ricercate, impadronivasi di quella stanza ove il piacer della mente si conserva, e ladra fortunata delle grazie furava estatici i pensieri. Quando avvenne poi ch’alia voce del canoro instromento ella maritò la propria voce, si potè da umano desiderio bramar più desiderabile contento? Sì, sì, contento volle dire chi disse concento. Ma, o Dio ! e qual contento, e qual concento !.......... Se 1’ armonia consiste nella composizione di più parti in — 366 — fra di loro artificiosamente contrarie, anzi maestrevolmente distinte, poi regolatamente in una congregate, chi può a meno di trasecolare, scorgendo in questa Signorella con la finezza della voce, la prontezza delle tirate, la disposizione delle gorghe, la furia dei passaggi, 1 abbondanza dei trilli, la giustezza dei contrapposti, la saldezza dei tuoni, e finalmente come in musicale registro epilogate in lei ognuna di quelle eccellenze, che ad una ad una possono rendere eccellenti quelli Orfei, quei Daviddi, e quegli altri che secondo il testimonio delle profane carte e delle sagre, perfino le ribellanti Furie dell inferno all’ impero delle lor canzoni poterono ridurre in vassallaggio ? Più per opera divina che per fattura umana, s infasto-sivano (i) di campeggiar in costei, doviziosamente radunate, le musiche prerogative. E questa non meno illustre per l’eccellenza dell’arte, che grandemente pomposa pei i privilegi della bellezza, poteva senza peccato insuperbirsi di esser l’Angiolo del Mondo; anzi poteva senza vanagloria vantarsi di aver trasformato il Mondo in Cielo, O mentre nel musico cerchio de’ regolatissimi suoi gin stampava il ritratto della sonorità e della vaghezza dei giranti cieli. La virtù per sè stessa è sempre bella; ma se ha la bellezza per ministra, dalla bellezza adornata, viene ad essere più aggradita. La preziosa gioia è sempre gioia; ma se in oro finissimo è legata, come più abbellita, viene ad essere più stimata. Disse adunque il vero quel poeta (i) Il verbo dovretb'essere stato coniato da Gian Vincenzo per questa occasione, in cui profonde tutte le perle dello stile ingioiellato del suo tempo. — 3^7 — che disse: « Gratior est pulero veniens e corpore virtus (Marziale) ». Alla qual veridica sentenza io già mi sottomisi allor che più in concreto encomizzando, per somigliante soggetto ebbi a cantare : Ben si avvenìa Ad angiol di beltà ciel d’armonia. 30. Questo Venerdì a noi per avventura non sarebbe paruto di Venerdì, se non l’avessimo digiunato. Si osservò per noi dunque il digiuno, tanto più rigoroso quanto meno aspettato ; digiuno non comandato dalla Chiesa, ma ordinato dalla necessità. Questo è un bel caso. Mancò di cucina la fabrica delle vivande, perchè 1’ architetto di essa vi mancò. Costui dallo studio di discepolo si era di poco avanzato all’officio di maestro. Egli avea sparsa di color citrigno la faccia, e questa, a dispetto degli anni, senza peli. Teneva il guardo piegato allo ingiù: pronunciava con voce assai sottile, e poco sollevata. Da ognuno di simili segnali, quei che sono fisonomi prendono argomenti di picciola fede e di gran malignità. S’egli è vero, com’ è verissimo, che la natura nel distinguere il vizio dalla virtù non fa differenza dal nobile al plebeo, non temo con la bassezza di questo vii scelerato di troppo vituperar la sceleraggine degli uomini non vili ; onde ricordo qui a’ lettori delle storie come in Nerone e in Valentino tutti que’ medesimi contrassegni si osservarono, che di costui da me si contano. Contro questo furbacchiotto già molte querele si erano publicate per domestici ladronecci, e molte doglianze si erano chiarite per impertinentissime insolenze. La mia — 368 — dissimulazione fu la sua rovina, perchè egli pervenne a termine, che aggiungendo alla colpa delle ingiurie il delitto delle percosse, cimentatosi con uno de’ famigli per bestialità, provocò 1’ opportuna provvigione per giustizia. Con quegli stessi tizzoni co’ quali egli faceva caldo alle pentole, sento dire che si sentisse far caldo alle spalle. « Stipitibus duris agitur, rudibusquepraeustis (Vergilio) ». Onde licenziato dal mio salario, si partì dalla mia casa. 31. In questo Sabbato fo mille cangiamenti di me stesso. Parto di casa per andar a casa di avvocati. Mi sovviene eh’ è il giorno di santo Ignazio ; vo al Gesù. Appena sento quivi un poco di musica, che mi sento invitare a casa dal Cacace, per altra musica assai da quella differente. La stanza calda mi fa tanto maggiormente pentire della pratica importuna; l’ora tarda mi fa tanto maggiormente affrettare per altri negozii. Molti a me medesimo propongo ; nessuno io ne delibero. Se spingo verso una parte, subitamente un altro partito mi porta ad altra. In poco momento fo molto viaggio, e tutto inutile, perchè molto più ne fo co’ i pensieri che co’ passi. « Dum in dubio est animus; paulo momento hue illue ivipellitur (Terenzio) ». — 369 — IV. Agosto. — 1 ra due fornaci. — Lo zuccherino da Madrid. — Unde hoc inibi? — I titoli e i meriti. — Arti di governo. — Gli Accademici Oliosi. — Panegirico in cinque lingue. — La caccia del Viceré. — Un sonetto di Gian Vincenzo. La Madonna della Neve. — Regata a Chiaia. — Arrivo di galee genovesi — Alessandro Pallavicino e Giovambattista Mari. — I soliti litigi. — Carbonara abbrucia. — Due celebri poeti. — Le inframmettenze della Viceregina. — Mariti e mogli. — Esecuzioni capitali. — Una cerimonia diplomatica. — Amici genovesi. — 11 sangue di San Giovanni Battista — Desiderio represso. 1. Agosto. Domenica, spese in chiesa le prime ore, tutte 1’ altre impiego per lo traffico del fresco entro il casino. Il caldo è grande : siamo qui nel mezzo a due grandissime fornaci, Solfatara e Somma, che forse lo rendono maggiore. Se il continuo sudore delle mani, onde fa versi sdruccioli la penna, mi permette oggi ch’io scriva, io non voglio già tacere ciò che il giornale mi obbliga a contare. Ma per non far torto al vero, mi bisogna far tanto del modesto, che temo di far del vano. Mi vanto di rifiutata preminenza. E qui già mi pare di sentir ridere di me, come Tullio di quei filosofi si ride, che scrissero del dispregio dell’ambizione, ove i lor nomi, stampati co’ loro scritti, si mostrarono ambiziosi. Non so che farmivi. Se il mio raccontamento non ammette il mio silenzio, se non posso fuggire che il mio discorso non inviti 1’ altrui riso, meglio è che mi dichiari, che, non per acquistarmi il nome di modesto, ma per man- — 370 — tenermi il titolo di ambizioso, ho ricusato un titolo di Duca. Così mi ha dichiarato S. M. Cattolica: almeno così oggi intendo da lettere del signor Ottavio Villani, Reggente nel Consiglio d’Italia in Madrid, il quale m accenna inoltre altre mercedi, che, aggiunte al privilegio sovra detto, erano per mostrare la dignità maggiormente riguardevole e la mia persona incomparabilmente stimabile. Al grande avviso, ingrandito sopra me stesso, io ebbi a dire : « unde hoc mihi? » Ma, fatta considerazione al fatto, deliberai di aggradire il favore, non d accettar T onore. Parrò uno di que’ scimuniti, che contro il proprio comodo si prendono discomodo, se per mia reputazione io non manifesto l’impulso dell’aborrita reputazione. Perchè la reputazione, secondo i saggi, non è nel reputato ma nel reputante, appresi nella mia mente che quella reputazione non avesse a reputarsi, la quale, non conforme ai modelli antichi, ma conforme ai disegni moderni oggi si fabrica. Che fabrica? Non fabrica; edificio che di carte dipinte formano i fanciulli, mi rassembra quella tale inorpellata dignità che ad un soffio si dilegua ; globo apparenzioso che per gioco de’ ragazzi con lieve spuma generato e da vuota cannuccia partorito, nell aria nato appena è sepolto. Certo, non è altro che un ampolla, chi per vanità di titoli è ampolloso. Non ha il mondo cosa che tanto liquida in menomo vapore si risolva, quanto la maestà priva di essenza. « Nihil tam fluxum quam fama non sua vi nixa » disse Livio. Quella opinione eh’è soverchiata dalla condizione, se inaspettata si solleva, praticata si precipita. L’essere della sostanziale dignità si acquista non dal parere, ma dall’essere. Quanto - 37i — di lode otteniamo nel far poca stima de’ nostri meriti, tanto di biasimo riportiamo nel far gran caso di quei meriti che non abbiamo. lo non ho qualità veruna per essere titolato. Avvegna che, se i titoli si dànno in pagamento di fatta servitù, io non ho già mai servito: se per stimolo a servire, io non ho talento, e non più età per saperlo o per poterlo fare: se per eccitamento ad esporre la mia roba in vece della mia persona, io non voglio mandar la roba in fumo, onde accecato gli occhi dell’ intelletto abbia poi Seneca a rinfacciarmi: Aeger animus falsa pro veris videt ». Imperciocché, se adesso io mal non vedo, quell'onore che non è meritato non è vero onore. Il vero è, che è falso onore, perchè egli è onore imprestato. Anzi, non dico il vero, mento; è onor dipinto, non imprestato, ma additato. Chi se ne onora, sappia che s’insuperbisce d’ una fiamma accenerita, che non luce, d’ una luce annebbiata, che non rischiara, d’ una chiarezza ecclissata, che non alluma; o, se pur alluma, quel lume altrui meglio discopre le tenebre della cecità di colui che tanto per le false quanto per le altre gioie si reputa arricchito. Colui si compiace di maschere, che ha bisogno di andar mascherato. Il galantuomo che ama con la sua fronte scoperta esser veduto, sì come non si avvilisce per non meritata ingiuria, così non si vanagloria per non meritato onore; ma dice con Orazio: Falsus honor juvat, et mendax infamia tenet Quem ? nisi mendosum et mendacem. Tanto dunque mi paiono da stimarsi i titoli, quanto son essi stimabili dai meriti. Vogliono i Peripatetici, — 372 — perchè la dignità è premio della virtù, che al virtuoso sia lecita l’ambizione dell’onoranza. Ma l’onoranza non onora quella dignità, la quale più dalla prodigalità del-1’ altrui favore è conceduta, che dal dispendio del proprio sudore è ricomprata. Pur pure foss’ ella conceduta ; ma è venduta. Almeno foss’ella venduta, purché non fosse venduta a tanti. L’ abbondanza del mercato avvilisce la mercanzia. La bella e desiderata figlia di Erisittone, per satollar la fame del proprio padre, divenuta venale, divenne abietta. La sfortunata dignità, nel far copia di se qual degna meretrice, par che tenga postribolo all ostiere, sopra la porta di cui sporge in fuori una cartella, ove ad ogni vista è conceduto di leggere scritto in note maiuscole questo verso : Dummodo sit dives, barbarus ille placet (Ovidio). È stimabile quella dignità che, non volgare in sè stessa, gli uni sollieva sovra gli altri. Ma quella dignità non sollieva, che non distingue. Non è distinto per titolo chi è accomunato per grado. L’onore accomunato non rende alcun segnalato...... Già, per laureare il capo, si arrisicò la vita : ora, per guadagnar corone, non si esercita più il ferro, ma si adopra l’oro. Nè d’oro, ma d’orpello, sono quelle leggierissime corone, che più per vanità che per gloria sono alla moderna foggia fabricate; e quindi avviene che con molta proporzione, con poca briga, sono ottenute. Ho sentito dire che alcuno ha provato quelle difficoltà, nel farsi rassegnare in Genova nel catalogo de’ Nobili, che non ha trovate in Spagna nel farsi arrolare nell Indice — 373 - del losone. Con altro che con le navi d’Argo si prendono oggi i velli di Giasone......... Li Spagnoli, dopo d’essersi di Napoli impadroniti, sapendo che la gloria consiste più nel mantenere che nell acquistare, per la conservazione della lor monarchia, secondo il tempo e conforme il luogo aggiustarono il loro governo. Conobbero che quivi, per ben ridurre 1 alterigia in ubidienza e l’instabilità in fermezza, due massime di stato principalmente convenivansi : il bandire da più eminenti il seguito, e ’l torre dagli altri indifferentemente il danaro. A questo intento, se con più modi non hanno ritrovato il modo, che vi tornino. Non sono mo’ quei secoli ove a’ Napolitani furono rifiutati quei vasi d’oro, che per soccorso contro i Cartaginesi mandarono a’ Romani. Roma allor disse che se ben povero aveva l’erario, molto ricco aveva il core; ch’ella, sì come non imprendeva affari oltre le forze, così non dubitava delle forze, ove si assicurava delle volontà. Ma Spagna dice che se bene ha 1’ Indie, e se ben fa patire più di quel che patisca le guerre, pur pure, per non consumar le proprie facoltà, si degna di avvalersi delle altrui, e che allora fa prova degli altrui voleri quando si serve degli altrui contanti. Quanto all’ altro fine, essi non potevano già per miglior via spogliar gli eminenti dei seguaci, e i seguaci impoverir d’ogni vigore, che col sollevar i molti opprimere i pochi. Quindi, dato ad intendere a tutti esser data la parità fra tutti, oggidì, sostenuto dalle ali d’ un aereo titolo, il pigmeo si crede esser gigante. E concios-siachè l’angustia non è capace di grandezza, egli, tra le — 374 — pitture della sua mente, di quel quadro fatto da rimante si conforta, nel quale ad esempio di lui vede l’immensità del Ciclope in poca tela accomodata. E sì come quello speculativo ingegno più sagace mostra 1’ artificio, che in picciol contenente sa accorciar gran contenuto, così quella possanza fa di sè pompa maggiore che le infime cose uguaglia alle maggiori. Ma tralasciando quel che convenga ad altri, e ripigliando quel che convenne a me, conchiusi col mio pensiero che al mio dosso non si affacesse l’altrui titolo; imperciocché, di questa dignità o potevo onorarmi nella mia patria, o in questa città, o in quel mio Stato. Se nella patria : sciocco mi sarei dichiarato, se tal proponimento avessi avuto. Chi ama la patria odia la disuguaglianza, perchè l’uguaglianza de’ cittadini è 1 a-nima della città. Io giudico reo di castigo, non che di biasimo, colui che il compasso della repubblica pur d una minima linea preterisse. Nelle repubbliche, se pur altrove onorano, i titoli vergognano. Quivi i titolati, o vogliono menar vita da grandi, o da privati. Il far del prencipe, non essendolo, non è tanta pazzia, che non sia maggiore, essendo prencipe, non trattar da prencipe. La prima sarebbe mancamento di senno, la seconda sarebbe bassezza d’animo. In ogni caso, o faccia o non faccia del grande, il pretendere di poterlo fare non è concetto d’ altri, che di chi ha il capo vuoto di cervello, o il cervello pieno di vento. Se in questa città: oltre le considerazioni che qui sopra ho esaminate, quelle da me non furono preterite le quali assai chiaramente si disegnarono, come invece di acquistar privilegio di superiorità, prendevo obligo di - 375 — servitù. Nell’atto di trovar il titolo della padronanza, perdevo il carattere della libertà. Chi ha provato che cosa è libertà, non vuol provare che cosa è dipendenza. Chi dipende da altri, per suggezione vive in timore. Chi vive in timore non vive in libertà. Qui metuens vivit, liber mihi non erit unquam (Orazio). Non si dee chiamar vivo se non quegli che vive libero. Vivus qui liber, scrisse già Marco Tullio nelle sue Epistole ; il che mi raccordo di aver rescritto nella mia villa, sì come scritto portai sempre nella mia mente. Se in quel mio Stato (se però sarà mio) : da poco sarei ben io, se mi desiderassi un titolo per conseguirne ossequio. Non ha mestieri d’altra dignità chi tiene l’autorità. L’autorità è madre della dignità; nè 1’una vive, se 1’ altra more. Aristotele dice che per disposizione di natura, se gli uguali si amano, i superiori si temono. I superiori che sono temuti, di facile sono riveriti. Nè perciò mancano di essere amati. Chi non ha talento per moderare se stesso, quel solo non avrà modo per governare i popoli. Abbandoni il timone, e si condanni al remo, quel pilota a cui senza il vento in vela della vanità di un titolo, non dà il core di condurre la barca del suo governo in porto. 2. Lunedì, mi fu bisogno faticare su’ miei papeli e su’ miei papeli informare i miei dottori. 3. Martedì, mi convenne leggere molte lettere venute col procaccio, e a tutte quante col medesimo procaccio dar risposta. 4. Mercordì, mi si appresentò l’occasione di ordinare — 376 — un’infinità di cose al mio territorio appartenenti, e g'1 istessi • \ • ordini di espedire. Questo giorno in questa citta si celebra solenne per la festa di santo Asprenio, perchè 1 a-nima di lui fu la primizia delle frutta di questo regno, presentate sovra la mensa del Re divino. Questo felicissimo uomo, felicitato del sagro battesimo dalla mano dell’apostolo san Pietro, in quella parte di questa terra che San Pietro d’Ara è nominata, fu il primo cristiano, il primo vescovo e il primo santo di Napoli. 5. Giovedì, essendosi nelle loro stanze in San Domenico adunati gli Accademici Oziosi, quasi anser inter olores, io fui tra quelli. Tempo è che per altrui favore, non per mio merito, io mi trovo arrolato in quella compagnia; compagnia che qui, sì come per nascita è la più scelta, così per scienza è la più riguardevole (1). Oggi io vi sono (1) L’Accademia degli Oziosi, fondata dal marchese di Villa, sotto gli auspicii del Cardinale Brancaccio, prese a fiorire sotto il governo del Conte di Lemos', viceré di Napoli dal 1599 al 1616, buon letterato, che non disdegnava di andai \ì a leggere le sue composizioni, e che una volta vi fece rappresentare una sua coni media, molto applaudita. L’ Accademia, di cui fu principe il suo fondatore Giani Battista Manso, marchese di Villa, si adunava da principio nel chiostro di Santa Maria alle Grazie, indi ancora in San Domenico Maggiore, nella medesima stanza che conservava la cattedra donde aveva insegnato san I ommaso d’Aquino. erano ascritti i più famosi letterati napoletani del tempo; uno dei quali, Giambattista Marini, sia pure con macchie di cattivo gusto, « uscio della volgare schiera ». E vi partecipavano ancora quanti nobili pizzicassero di lettere; tra i quali D. Luigi Carrafa principe di Stigliano, D. Filippo Caetani di Sermoneta, D Carlo Spinelli principe di Cariati, D. Francesco Maria Carrafa duca di Nocera, D. Gian Tomaso di Capua principe di Rocca Romana , D. Francesco Brancaccio, D. Giambattista Caracciolo, i cui nomi qua e là ricorrono in questi Giornali. Il nostro Imperiale v* era stato ascritto fin da un suo antecedente soggiorno in Napoli, a cui più volte accenna, come anteriore di circa tre anni al 1632. Non si tratterà dunque del Viaggio del gennaio 1628; onde abbiamo, del resto, una troppa smilza relazione, la Vili del precedente fascicolo. — 377 - invitato; e in uno stesso tempo che mi trovo stimolato dall’ invito, mi sento invitato dal mio genio. Fa dolcissima lega il doppio affetto, quando è per uniforme oggetto. Al genio d’imparare si accrebbe il compiacimento di servire. Mi movo dunque volentieri, per servire a quel virtuoso corpo, quasi piede, ove già servii come capo. Corro tanto più volentieri, per imparare dagli altrui dottissimi discorsi, ove le orecchie altrui già tediai con miei fievoli ragionamenti. Quest’Accademia, non oziosa che nel titolo, porta per impresa l’aquila, che nell’ozio negoziosa sovra erto monte riposatamente del sole si fa specchio, e in quel chiaro lo suo studio dichiara, con quel motto : « Non pigra quies ». Questa, ne gli anni andati, e quando a me toccò Tesserne il primo assistente, quasi in ogni settimana faceva quella congregazione una volta, ed oggi è ridotta ad una volta il mese. Certamente questi prudentissimi cavalieri, avendo udito da Cicerone che multi dantur ad studia reditus, così per conservare 1’ appetito al desiderio, come per aumentare il vigore all’ intelletto, questo saggio intervallo decretarono. L’arco, se continovamente è tirato, perde grandemente nella forza; il piacere, se continovamente è goduto, cade tostamente nella sazietà. L’esercizio di questi litterati signori in questo giorno fu fatto camminando per lo spazioso campo di quelle migliori lodi che a’ gran meriti del moderno lor Viceré sono dovute. Intorno queste illustri non che eccellenti eminenze si raggirarono la Lezione, il Problema, i ragionamenti e le poesie, che in idioma toscano, latino, greco, spagnolo e francese doviziosamente spiegate si ammirarono ................. Atti Soc. Lig. St. Patri». Voi. XXIX, Fuse. II. 2) — 378 — 6. In questo Venerdì passai, tra le peggiori, una pessima giornata. Faticai tra le spine di uomini selvaggi, che mi punsero il core in vece delle mani, nel cercar io di svellere dalle siepi dell’inganno una sol rosa di giustizia. Giustizia dovuta ; dovere promesso ; promesse chiarite da scritture ; scritture autenticate da giuramenti ; ma che? poco giova la fatica, ove alla fatica non coopera la sorte................. 7. Sabato, dispensate l’ore della mattina in casa del mio Commissario Gennaro e del mio Dottore Salamanca, impiegai quelle del dopo desinare in casa del Segretario del Regno. Del suo regno intanto agli ultimi gradi si abbassa il giorno, ed io mi abbasso, in compagnia del Segretario, a Chiaia. Quivi improvvisamente c imbattiamo nel Viceré, che seguitato da numerosa truppa de suoi cavalcava in ver’ Posilipo, di ritorno dalla campagna, non men giubilante per la solitudine godutavi, che trionfante per la cacciagione fattavi. « La solitudine è medicina agli animi, quando per troppa occupazione si sentono poca sanita: la caccia, cosi ne’ mezzi eh’ ella adopra, come nel fine eh ella desidera, ha gran somiglianza con la guerra: onde non è maraviglia, se talora in tal guisa si diporta questo guerriero e da sue cure guerreggiato signore ». Così dissi al Caivano. Ed egli a me: « Perchè non fate voi che questa occasione sia l’argomento d’alcuna vostra poesia? Scrivete di grazia, se mi amate; io portatore sarò poi del vostro scritto, che da S. E. non sarà veduto senza effetto » ■ Dal fresco del mio casino, per parlar di questa caccia, mando la mia Musa a caccia : ma, come eh’ ella non stia più troppo bene in gamba, nello spuntar dell’alba parte — 379 — a pena e ritorna, fatta preda solo d’ un languido sonetto, che, a punto perchè egli non salta nè cammina, da lei che non può correre fu arrivato. Chi dà meta all’amore, o freno all’appetito? Senza pigliar tempo o consiglio, prendo carta e penna. Spero che 1’ aver fatto presto sia scusa all’ aver fatto male. Prima dunque scritto che pensato è il mio componimento. L’indirizzo al Viceré con un viglietto ; ma lo mando al Duca con un altro; perch’egli sappia ch’io son risoluto ch’egli, o non compaia, o compaia prima purgato dalla sua intelligenza che presentato dalla sua cortesia. I papeli (i) avevano il contenuto che segue: « Al Duca di Caivano, Segretario del Regno « Signor mio, perchè non ho cervello nè tempo, il componimento eh’ Ella mi ha imposto, e eh’ io le mando, raffigura piuttosto un sogno che un sonetto. Prego V. S. rivederlo, e prima correggerlo che presentarlo. Protesto che s’Ella noi difende per cosa Sua, io non ardisco dichiararlo per cosa mia. Compatisca chi assediato da’ negozii non ha scampo ne’ versi. Mi tolga dalle spine, se mi vuol dare alle Muse. N. S. me La guardi >. « All’ Ecc.m0 Signor, il Signor Conte di Monterey Viceré di Napoli e Capitan Generale di Guerra per S. M. Cattolica in questo Regno (i) Ho già notato come questa voce possa da Gian Vincenzo essere stata facetamente mutuata al genovese pnpC) o allo spagnolo papel. Ma forse, essendo a Napoli e sotto un governo spagnuolo, avrà egli più facilmente attinto dalla Spagna. Ricordo che il conte di Olivarez, padre al famoso Conte Duca, per la grande perizia ed operosità sua nella spedizione degli affari politici, essendo egli ministro di Filippo II, era comunemente chiamato il « gran Papelista ». — 380 — « Ecc.m0 Signore « Nel ritorno che Y. E. fece iersera dalla caccia, la mia Musa inchinò quelle gloriose spoglie, le quali così nelle finte come nelle vere guerre si appendono per le mani della fortuna al trionfo (1) del vostro Valore. Ed in quel mentre, ella notò in quattordici versi ciò che diffusamente publicò la Fama, che trombettiera de vostri meriti precorre in ogni luogo i vostri passi. Degnisi V. E. di sentirli com’ eco di quella tromba. L’eco non profferisce; a pena accenna (2). » Di V. E. Devotissimo servitore Gio: Vincenzo Imperiale ». Tu che d’almo valor aureo sentiero Ricami, o gran Signor, d’orme pompose; E del prode Teban le favolose Glorie emulando altier, le agguagli al vero : Studi talora al tuo gentil pensiero Il peso alleggerir d’opre affannose; Sì per imprese in ricchi boschi ascose Drizzi a liete battaglie il piè guerriero. Là, tu scoccando per saette i guardi, Fera non è ch’abbia in venirti avante, Sol per farsi tua preda i passi tardi. Ma quale ha la città cor di diamante Che non s’apra al ferir de’ tuoi bei dardi? Ah, più che fera è chi non t’ama amante. (1) Cosi scritto; forse trascorso di penna, invece di tempio. 12) Segue nel manoscritto, ma con suvvi un tratto di penna: « quel suono che distinto per l’aere rimbomba ». - 38i — 8. Domenica, fui nel mattino al Monte di Dio, per veder la messa. Fui nella sera al basso di Napoli, per vedere ciò che mi move a scrivere. Ebbe questa settimana il giorno dedicato a S. Maria della Neve : dedicata a questo giorno è la chiesa parrocchiale di questa piaggia, che da volgar vocabolo è nominata Chiaia: di questa i parrocchiani sono marinari, e marinari di feluche. Questi mantengono invecchiato costume di anticipatamente con sfide a maritimi palii l’un l’altro prevenirsi. I palii non dalla mossa delle gambe, ma dalla spinta delle braccia, in liquida carriera si guadagnano : e perchè nel guadagno 1’ ambizione e la pietà giostrino a parte, parte al tempio e parte al vincitore i premii si dispensano. Alla sera di questa festa fu differita quella festa, sì per minor incomodo alla turba pescatrice, come per maggior diporto alla cittadinanza spettatrice. Venuta dunque, su ’l calar dell’ora, l’ora a tal gioco destinata; quando gli sfidati combattenti si avvidero che per veder quella innocente pugna, d’ ogni intorno folta selva di vascelli in mare, e lunata schiera di carrozze in terra già quasi immobili facevano all’aspettato spettacolo dilettevole teatro, essi frettolosamente ma regolatamente staccarono dall’ancora ed allontanarono dalla riva le spalmate lor feluche; le quali di prodi vogatori provvedute, e di provvidi timonieri corredate, non guari tardarono, che per lo spazio di ben quattro miglia, dall’arena si scorsero discosto. Quindi alcune di loro accoppiate a due a due, molte a tre a tre, ed altre a quattro pareggiate, e prima del moversi da lor giudici in giustissima linea ridotte, eccole tutte spiccarsi al corso, con tal saldezza de’ remieri e con tal celerità de’ remi, che le giudichi emulatrici de’ venti, non che schernitrici dell’onde ; mentre più dell’onde esse leo-crierisime scorrendo, e a guisa dei venti 1 onde col O O ° corso inargentando, sottomettono alli scettri de lor remi il reame de’ flutti e l’impero dell’aure. Ciascuno avrebbe imaginato que’ mossi legni non altro fare che volare: ma 1’ occhio che dalla lontananza prendea leggiadro inganno, prese poi dalla vicinanza non ingannevole solazzo; mirando nella frequenza e nella celerità di quelle piccole fuste non piccoli gli oggetti del piacere e dello stupore. Or vedevasi taluna che quasi nuotatore delfino sovra 1’ acque salteggiando alla rivale compagna faceva ischerno: or con meno intenso, ma con più sodo passo galleggiando accelerata, quella che vinta si vide vincere si vedeva. Or si osservò quella un tantino rimasta addietro, così vicina tener 1’acuta proda alla poppa pre-cursora, che vietava al mare il chiuder quel canale che dal vincitor timone si fendeva: orsi lodò quella che mal potendo più gareggiar per la forza, contrastò per 1 astuzia, e disperata di trapassare, avida di uguagliare, per lo traverso opponendosi alla sua vicina e nemica, o reco lo spirito alla propria infingardaggine, o lo tolse all altrui velocità: or si additò quella che non dall inganno invigorita , non dalla pigrizia trattenuta, ma dalla bravura avvalorata, fracassando co’ i remi della prora all altra quei della poppa, e così alle spalle vigorosamente lasciandola, per furarle il pregio, le involo il cammino. Ed eccole tutte in fra lo mezzo a due robusti pali, che, quasi erculee mete, per termine al corso in quella piaggia erano eretti, finalmente ridursi ; ma con si brieve intervallo tra di loro, che la mente incerta del fatto sospese la sentenza del premio. Eguale a tutti fu attribuita la - 383 — lode del merito, perchè in tutte fu eguale il desiderio della gloria. Questa, per questi pover’ uomini è grande azione. Nelle azioni grandi la volontà più che 1’ opera fa l’uomo grande............(1). Nel mentre adunque che col fine del giorno il narrato diporto ebbe il suo fine, diedero altresì fine al viaggio loro quattro Galee che la mia Serenissima Republica a questo Viceré in questi mari, per le turbolenze di questi tempi, manda, così domandata. Onde, fatta da loro con replicate salve di moschetti e di artellarie la solita riverenza al Conte, e la costumata cerimonia alla Città, in quel ridotto eh’ è di fuori al Molo si approdarono. 9. Lunedì, saputosi che Alessandro Pallavicino, di già generale del Papa, era con molti altri cavalieri Genovesi venuto governatore delle nostre Galee, fui sino al Molo a visitarlo, indi sino a Posilipo a servirlo. Godei nel-1’ introdurre a questo Viceré questo Ministro, di affaci-lire (2) quell’ ispedizione eh’ era all’ intento publico opportuna, e di esercitar quell’ azione che all’ obligo d’ogni buon cittadino è necessaria. Nei complimenti publici, a differenza de’ privati, chi manca alla cerimonia manca alla massima. 10. Martedì, per l’occupazione continua dello scrivere, eh’ è la solita in questo giorno, accrebbi al caldo grandissimo, eh’è il solito di questo tempo, il caldo eccessivo, eh’è l’ordinario di questo faticosissimo esercizio. Non mossi per un momento nè 1’ occhio dalla carta, nè dalla carta la penna: si stancò prima la testa che (1) Qui è una lunga digressione erudita sui giuochi degli antichi, Greci e Romani. (2) Usato per « agevolare ». — 3§4 “ la mano, perchè scrissi più col sudore che coll inchiostro. li. 12. Tutto il Mercordì, siccome tutto il Giovedì, per emenda della fatica dianzi passata in casa mia, passo tutte 1’ ore in casa di dottori, del Presidente del Consiglio, e d’altri del Consiglio. Chi ha provato una sol volta in questa Corte il litigare, ben mi assicuro quanto mi debba in questi miei litigi compatire. Non è petto, per quanto sia forte ed affinato nella tempra de’ travagli, che possa resistere al contrasto di quell’ incontri, eh’ ogni momento 1y • JP A ^ animo. L’adorare un officiale, il servire ad un suo servidore, • *1 l’adulare un ministro, il supplicare un suo portiere, n corteggiare un avvocato, il lusingare un suo domestico, 1’ inginocchiarsi per un’ istessa causa cento volte ad un istesso giudice, e dall’istesso mille volte le ingiustizie ricevute sofiferirsi, come, come si può tollerare, e non morire ? 15. Venerdì. Aveva già buona pezza della mattina, nel ricevimento di alcune visite, nella risposta di alquante lettere e nella spedizione di alquanti negozii consumata, quando, per cedere al mio genio, e per ubidire al mio costume, nel mio casino, all’ aspetto di Chiaia mi trasferisco. Per avidità, anzi per necessità di respirare in quel-1’ aria, mi affaccio a quei balconi che per una parte mirano il seno di quella piaggia, per l’altra signoreggiano la fronte di quella collina. Parevano ancora, turchino il cielo, dorato il mondo. E mentr’.io respiro così vedendoli, vedo in un tratto che il re dei venti, inaspettatamente adirato, furiosamente si arma contro l’inocentissima quiete di quel placido mare; e scorgo alle infauste trombe dei — 385 - sibilanti soffi di quel sentito e non veduto guerriero, tutto quel cristallino pelago imbrunirsi, indi minutamente incresparsi. Forse s’imbrunì per la paura, s’ increspò per la fuga. ..............(j). 14. Sabbato, in casa del Cacace ottenni finalmente una mendicata radunanza, per la discussione della già esaminata pratica di Carbonara. Questa Carbonara mi tinge, anzi mi abbrucia, perchè i carboni di lei vengono accesi a’ miei danni da coloro che assai mi promettono e poco mi danno. Mi è promesso l’accordo ; la stessa promessa doveva levarmi di speranza. Oggidì, chi manca alla promessa non stima di commetter mancamento. Una risata dissolve 1’ obligo ; un bel motto, che le parole sono parole, ma che le parole non son fatti, chiarisce il prossimo chiarito. Oh Dio, è pur certo, e pur si sa, come ne’ traffichi tutti, che sono al commercio civile necessarii, dalle parole vengano i fatti. Dove non è osservanza di parola, non può essere stabilità di negozio ; nè senza negozio può stabilirsi il corso umano. Qual fabrica si può ottenere, ove i lavoratori sono più intenti al distruggere che al fabricare ? Qual riuscita si può pretendere, ove chi consiglia è più persuaso del proprio interesse che stimolato dall’ altrui beneficio ? Qual dovere si può avere, ove i congregati, sotto pretesto di esser venuti per conchiudere, sono venuti per contrastare? e quel eh’ è peggio, mostrando essi fra di loro di essere in contrasto, pur troppo contro di me sono d’accordo. In queste mie contrarietà niuno mi faccia nominare i miei contrarii. Il Duca di Caivano e ’l Dottor Giulio (1) Segue una lunga descrizione di burrasca. — 38é — Antonio D’Amico si dichiarano miei partigiani. Quegli ha il vanto, questi ha il nome d’ Amico. Dell amistà forse vedrei gfli effetti, se 1 uno già non avesse la mira a pa- O o garsi prima di me dal Principe di Caserta, e se 1 altro non avesse l’occhio al mio danaro, prima ch’io lo riceva dal Caserta, del quale egli è l’agente. La maggior mia fatica dipende da quella maggior destrezza, che quanto per mercenarii è opportuna, tanto per ingenui è faticosa. Destramente bisogna negoziare, ove con chi vuol ingan- O O nare si vuol tìngere. Non si deve in tal maniera liberamente discorrere, che si venga la malizia apertamente a palesare................ 15. Domenica, a fin di rendere pietoso tributo di. lieta devozione alla Santissima Vergine, della quale si celebra oggi la gloriosa ascesa al regno dell’Empireo, non mi allontano per un momento di tempo dal vicino tempio. 16. Lunedì, visito Gio: Battista Mari, ritornato dalla patria col ritorno delle dieci Galee di questa squadra. Son poi visitato da Antonio Basso (1) e da Francesco Balducci, amendue celebri poeti di questo secolo. Diportato da’ lor facondi ragionamenti, e trattenuto ne loro stampati canzonieri, dimoro con essi loro lung ora, senza avvedermi della dimora. Affascinatrice dei cori, tesoriera delle Grazie, dispen-siera delle Scienze, esemplare della Natura, epilogo del- (1) Non so nulla di questo celebre Antonio Basso. Intorno a Prancesco Balducci, trovo che fu un dotto palermitano; il quale, dopo militato alcun cempo nell eser cito spedito da Clemente Vili in Pannonia sotto Gianfrancesco Aldobrandini, ritornato a Roma, fu ascritto nella Accademia degli Umoristi, e servì come segretario a molti principi e cardinali. Mori verso la metà del secolo XVII, lasciando impresse parecchie opere in prosa e in verso. — 387 — 1 Arte, è la Poesia. Questa fra tutte 1’altre arti, per nascita la più nobile, per esercizio la più dilettosa, sovra tutto in ogni tempo in fasto sì pomposa . . . (1). 17. Martedì, e per esercizio delle gambe, e per curiosità degli occhi, volteggiai per li Armieri. Così quei venditori di panni, fabricati di seta e lavorati d’oro, si addimandano. Mi convien poi dar luogo al ricevimento d’ una lunga visita, fattami dal signor D. Diego di Men-doza e dal fratello. Amendue però in un tempo compiono a due offici; l’uno del complimento, l’altro del negozio. Si palesano ancor essi tra’ creditori del mio Stato. Per la compra del quale, perchè sono innumerabili i pretendenti, sono incessabili i litigi. Fo quanto più posso per arrivarne a quel districo che ne desidero. A tale intento, per tutt’oggi, coni’è mio solito, dipendo da’ soliti officiali , da’ quali dipende la mia giustizia. Io son sicuro di averla : così fossi sicuro di goderla !...... 8. Nel Mercordì, trasferitomi al Viceré con presupposto di riverirlo e di ringraziarlo, inaspettato caso d’instabile fortuna m’ incontrò. Aveva io, per certa mia causa che di già accennai, dimandata la permuta di certo Giudice che già dissi. Aveva S. E. non men per giustizia che per grazia favorito la mia domanda. Già dell’ altrui piacevole consenso io godeva il placido possesso : quando intendo che dai comandamenti della Moglie revocati gli ordini del Marito, rimanevasi annullato insieme co ’l decreto altrui l’intento mio. Non protestai sin dal principio, che di buon principio io non mi fido. Ah ben conosco (1) Segue un lungo panegirico della poesia; fiorito, come si vede dall’esordio, e ricco di citazioni d’antichi. — 388 — il mio contrario fato, contro il quale non è forte il mio sollecito contrasto. Egli mi guerreggia seguitando ; io no ’l posso schivare fuggendo. Lasso, ben veggio ornai sì come è duro Fuggir quel che di noi su nel ciel piace ; Nè puote uom dal suo fato esser mai lungc. (Bembo). Fu superata, non è dubio, da prieghi de’ miei persecutori l’alta mente della pregata Signora ; fu distrutta dall’ inferma volontà la mia ragione mal ferma. Fu la Fortuna mia nemica, e però amica de’ miei nemici. Ella si avvale contro di me di una donna come lei, e al paro di lei fortunata (i). Ricevo l’avviso e lo stupore in un medesmo istante. Nell’ istesso tempo il Marchese di Villa ritrovasi presente. Questo cavaliere, quanto saggio per gli studi tanto prudente per gli anni, rimane stordito di vedermi offeso. egli mi guarda senza parlare, io gli parlo co ’l tacere. Sì come la novità mi provoca la querela, così la riverenza m’impedisce la parola. Con le ciglia inarcate e (i) Era sorella del potente ministro di Spagna, il conte duca Olivarez, il quale a sua volta aveva sposata una sorella di D. Emanuele di Guzman, conte di Mon-tercy; onde il ministro arbitro della Spagna e il viceré di Napoli si ritrovavano due volte cognati. Il Monterey, da ambasciator di Spagna a Roma, fu mandato nel 1631 per viceré a Napoli, cacciandone il virtuoso e benemerito duca di Alcalà. Entrato in carica il 13 maggio di quell’anno, ne usci il 12 novembre del 1637, per far luogo a un altro parente del ministro Olivarez, che fu D. Ramiro Guzman duca di Medina las Torres, la cui seconda moglie, D. Anna Carrafa, ricchiss ma signora di feudi, e duchessa di Sabbioneta per eredità dell’avola Isabella Gonzaga, solo per 1’ ambizione di esser viceregina aveva consentito a quelle nozze con un vedovo, e di titoli troppo recenti. Il Guzman, difatti, era semplice cavaliere, e doveva il ducato di Medina las Torres allo avere sposata la figlia unica del-1’Olivarez, morta indi a poco senza prole. — 389 — con le spalle strette ce ne stiamo ambedue : finalmente egli dalla mia pazienza fatto impaziente, sentesi dal mio silenzio provocare al suo discorso; onde, trattomi corte-semente da parte, così favella: « Signor Gio: Vincenzo mio, questa novità vi parrebbe assai più dura che nova, se quel che Voi trovate solamente or ora, ognora come noi altri praticaste. Voi non sete ancora informato eh’ altri Soli si trovano in questi tempi. Qual novità non si aspetta, ove la clava sia nelle mani di coloro, nelle quali, quando ben anco si ammetta la capacità dell’intelletto, non però capisce la fermezza della volontà ? Io parlo delle comunali, come ne parlò Terenzio : Mulieres sunt ferme, ut pueri, levi sententia. Non solamente non .ha luogo la costanza, ma non ha stanza la giustizia ove ha il trono la superbia. Perchè le cose leggieri vanno all’alto, la leggerezza è madre dell’alterigia: ma l’alterigia ha per nodrice quell’autorità, la quale, sì come troppo avvilì chi la diede, così troppo infastosì chi la gode. Per vostra fe’, divisiamone un poco tra di noi. Così in astratto; anzi in segreto; siamo in Napoli (1). » Quel marito che alla moglie si fa ossequente nel principio, si fa schiavo nel progresso. Egli è pur troppo vero che poco dominio pare assai a quella donna, che, (1) Vuol dire sotto il governo del Conte di Monterey, che è il debole marito della prepotente signora. 11 discorso del Marchese di Villa si è forse amplificato nella prosa del nostro Gian Vincenzo: ma i pensieri son suoi certamente. H non sarà male riferir questo passo nella sua integrità, quantunque appartenga al novero di quelle digressioni, che per ragioni di spazio dobbiamo spesso sacrificare. — 39° — per sua naturai condizione avendo non a comandare ma ad ubidire, non ha superiorità datale da Dio : ma se perviene alla superiorità datale dall’uomo, non così tosto arriva a fruirne un poco, che ogni poco le par niente, se non sì conduce a possederla tutta. Sarà il cortese marito su ’l principio dolcemente lusingato : veri à per alcun tempo estrinsecamente aggradito : ma si troverà su ’l fine o simulatamente ricompensato, o apertamente aborrito. Perchè la donna, quanto si crede astuta ne suoi inganni, tanto si stima gloriosa ne suoi dispetti. Dai dispetti donneschi perchè non sono sicuri gli ossequii maritali, sovra le questioni de mariti così furono in Atene i magistrati istituiti. Ridicola medicina a mal sì flebile! Volontà furibonda di donna sfrenata, non fu già mai da freno alcuno trattenuta. Quid sinat inausum /eminae preces furor ? (Seneca). Il rimedio d’ ogni qualunque male consiste nella prevenzione del rimedio. Se il tardi avveduto marito, per emenda dell’altrui fallo, anzi del proprio errore, tenta imporre alcuna meta ai dilatati confini di quell’ usurpata autorità, prova come assai meglio può riuscire ogni im-possibil prova, che il frenare per un tantino l’alterigia donnesca; massime se niente è bella, o per bella è reputata, avvenga che Dove è bellezza, come a propria parte , Superbia e ingratitudine rifugge. (Tasso). E qual rimedio dopo questi mali può adoprarsi, che più non sia pericoloso al medico che profittevole al malato? 391 — Il rimedio, o sta nella ragione, o sta nella forza. La ragione è bandita da quel cervello ove non altro più signoreggia che la pazzia. E pazzia sarebbe adoprar la forza, in chi non è più capace di ragione. » Quell uom da bene, che di superiore si riduce ad essere soggetto, sappia che per esser buono buono, ha fatto divenir la moglie cattiva; perchè, mentre imaginò formarsi una compagna, alterato il compasso, instituissi una padrona. Si compose un Ìdolo per amarlo: ma 1’ i-dolo non si appaga d’ esser idolatrato; vuol essere ubidito. La donna, se non regna, si sdegna. « Ideo laedi quia non regnaret » dice Tiberio ad Agrippina (Tacito). » La donna (toltene da questo ragionamento alcune, che quanto più singolari nell’eccellenza, tanto più si rendono stimabili nell’ onoranza) o sia per mancamento di sapere, o sia per eccesso di presumere, non è possibile che voglia mai riconoscere alcuna sua qualità dall’ uomo: anzi albagiosamente e sfacciatamente professando, in materia d’onoranza, di darla e non di riceverla, in tanto ella finge di onorare, in quanto ella spera d’ingannare. Se una volta la donna cede all’ uomo, ella pretende di averselo in eterno obligato, sol per avergli una sol volta ceduto ; allora si contenta di trattarlo come amico, quando le riesce dominarlo come servo. E mentre si fa trionfo del suo dominio usurpato, e si fa gabbo dell’ altrui stato avvilito, come che cosa violenta alfin non duri, ella cade nel precipizio prima che si ricordi la sentenza : « A cader va chi troppo in alto sale » (Petrarca). » Finiamola. Quella donna tra le maritate è savia, la qual sapendo aggiustare il suo co ’l volere del marito, * dalla di lui prudente amorevolezza sa imbrigliare la prò- — 392 — pria intemperanza. Quella nella prosperità è felice, che si compiace di conoscer la felicità, non come pagamento del suo merito, ma come dono del suo marito. Quella nell’autorità è durevole, che si appaga di esser grande senza abbassar il marito; che non si sdegna di riamarlo; che si vergogna di avvilirlo, e che, se pur ambisce il comandare, si sodisfa di comandare come compagna, e non s’ incapriccia di padroneggiare come tiranna ». Qui diede il Marchese licenza al suo trattato ; ed io lo presi da lui, ringraziatolo prima de’ suoi morali avvertimenti, da me non avvertiti prima. E forse non prima d’oggi da me avvertiti, perchè la Dio mercè di simili • • documenti non ho mai bisogno avuto, per quanto io mi ritrovi bigamo (i) ammogliato. 19.20.21. Giovedì, Venerdì e Sabbato vanno spesi nel consumo, non men della mia sanità che della mia mente. Essi non contano ora, che sia vacua da miei negozi ; nè i miei negozi lasciano momenti di vacuo a miei riposi. Verun luogo ne’ tribunali del Palagio, nessun ridotto nelle stanze de’ Dottori più non si vede, ove 10 non sia veduto. 22. Domenica, veduta che ho per tempo una messa, mi dò a veder papeli. Tutt’ oggi mi tiene occupato una lunga informazione avuta dal mio Stato. Questa contiene lo stato di quei popoli ; ne’ quali comprendo un infinita di disordini. Mi spiace che vi siano; mi piace che si sappiano. Ebbi avidità di saper il male, per ansietà di operar il bene.............Se non prudente, (1) Allude ai due matrimonii successivamente contratti. E forse usa la voce per celia, 0 riferendosi all’uso antico di chiamar bigamia « lo stato di colui che e passato a seconde nozze ». almen zelante, faccio dunque ancor io del legislatore : spedisco in tutt’ oggi tutti quegli ordini che per quei sudditi io stimo convenevoli. È un tempo eh’ essi vivono a benefizio del tempo: è necessario che sappiano come quella non' è vita che vive senza legge......... 23. Lunedì, con le travagliose lettere del procaccio, e con le dilettose composizioni del Marchese di Villa. 24. Martedì, con gran caldo, e con grandissimo patimento, mi aggiro nell’ ordinario circolo de’ miei straor-dinarii travagli. Onde, perchè non ha ormai questa vastissima città contrada alcuna, che a fin di ritrovarvi 0 notari 0 dottori 0 ufficiali io non trascorra, tra 1’altre cose, lontano da voglia di vedere, io vedo quel che dirò. Pochi giorni andati sono, che quasi statua collocata nel mezzo ad un nicchio di tre legni, videsi sospeso un tal Spagnolo, dal quale, per ordine del Prencipe di Conca, fu archibugiata una tal cortigiana, mentre dal suo balcone se ne stava la infelice mirando 1’ assassino, che tra le file della schierata compagnia cambiavasi di guardia. Oggi, nel mezzo allo squadrone che nel largo del-1’ Arsenale tutte le squadre presidiane formarono, fatto bersaglio della sua vita alle saette della sua morte, videsi archibugiato quell’altro Spagnolo, di cui dianzi si parlò; una moschettata del quale uccise, quasi accanto al Viceré, quel regio cappellano. Non so già se più lo condannasse a morte, 0 la morte succeduta, 0 la colpa sospettata. Egli, sofferito ogni genere di martirio, confessò il peccato, ma giustificò la volontà innocente nel peccare. Rimaneva l’azione scusata dalla trascuraggi ne : la trascuraggine richiamava alla compassione. Sarebbe, Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIX, Fase, 11. 26 cred’ io, stato compatito del delitto, se tosse stato assoluto dal sospetto. Dubiti pro certis solent Timere reges. (Seneca). In quei casi che possono tener dubbia la mente del Prencipe, par regola sicura il torsi da dubbio........ 25. Mercordì, contro il costume romano, ma secondo l’uso paesano, si festeggiò la solennità dell apostolo S. Bartolomeo. Fu da’ soliti spasseggi ella celebrata , mentre io fui da’ soliti negozi trattenuto. Le feste che ad altri sono o di solazzo o di riposo, a me sono o d impedimento o di travaglio. Le mie faccende sono tali, e tale è il mio desiderio di sbrigarmene, che allora maggiormente io mi travaglio, quando mi trovo impedito al travagliare......... 26. Giovedì mattina, per visite e per brighe vo al Palagio. Vi trovo in ogni cantone insolita allegrezza, perchè S. E. che, diportatosi alcun tempo nel maritimo paradiso di Posilipo, aveva de' suoi raggi privato queste abitazioni, oggi con la maestà delle sue luci aveva loro restituito il lume. Già nelle stanze d’ alcuni officiali compiuto ho certi offici, quando alle finestre dei loro ospizi recò, leggiadra pompa ed a me gratissima vista, una assai superba nè men numerosa cavalcata, da cento e • • cinquanta cavalieri composta e da mill’ anime spettatrici favorita. Questa ebbe occasione dall' usanza. Aveva D. Fulvio di Costanzo, prencipe di Cola d’Anchise, terminata quella ambasceria con la quale fu inviato da questo Regno al Re Cattolico. Doveva egli dar conto dell’ ambasciata: non poteva sodisfar ali’ obligo di amba- 395 — sciatore, che prima non pagasse il debito di vassallo : prima di risponder al Regno, si presentò dianzi al superiore di tutto il Regno. Stavansi intanto pronti a sentirlo , nelle solite stanze di S. Lorenzo, que’ sei, gli aspetti de’ quali rappresentano 1 imagine dei tutti. Questi, di cinque cavalieri scelti dai cinque Seggi de’ Nobili, e di un popolare creato dagl ignobili, si chiamano gli Eletti. In questa faccenda, a sei primi, cinque altri si aggiungono, che i Deputati si addomandano. Il fine di questo negozio pon fine al loro officio. Pertanto gli eletti in seggie di velluto, secondo la facoltà dell’usanza, siedono senza distinzione di precedenza: ma perchè precedono ai deputati, questi siedono sotto di quelli in semplici cadreghe di coio. Il tutto ebbi curiosità di vedere. Ed ecco la cavalcata comparire. Fu maestosa perchè regolata. La sperienza fomenta la regola : cavalcano i cavalieri, e di cavalieri diventano scudieri: si fanno con bell’ordine precursori a’ passi dell’ambasciatore che onorano, mentre nella persona publica di onorar le persone proprie si vantano. È sobriamente incontrato e lietamente ricevuto il Costanzo da quel tribunale, ove incontinente arrivato, egli col ragguaglio depone il peso. Quel tanto, però, ch’egli da quella Corte portasse a questa Città, da pochi per molto non si seppe, da molti per poco di buono si penetrò, o s’ interpretò. Alcuni, e forse mal intenzionati, mormorarono che il buon negoziante avesse più la sua privata negoziazione tenuta a core, che la publica istruzione avuta a mente. Altri, e forse mal informati, affermarono aver egli quella occasione perduta per tepidezza , che doveva guadagnarsi — 396 — • • t * v * per importunità. Vi furono di coloro, che più sperimentati del mondo attribuirono la colpa a quel clima, sotto del quale si esaminò la pratica. E non mancarono di quelli, che più guarniti di prudenza assegnarono 1 evento della pratica al difetto dell’ istessa pratica più che al mancamento nel praticarla. Chi tenne il primo sentimento si lasciò intendere come non era più cosa strana, mentre non era più cosa nova, che questa Provincia, per lo dispendio delle sostanze, conseguisca il pagamento delle vanità: imperocché i politici aritmetici, conoscendo che in questi luoghi invece del contante 1’ apparenza o la sonorità del medesmo opra il medesmo , sanno con ragione profittarsi di quell’ usura che loro è conceduta nel pigliar moneta a cambio di parole; onde questi onorati popoli, invaghiti d’inorpellata facoltà , impoveriti dall’ essenziale ricchezza, sono angustiati in vilissime servitù........ 27. 28. Venerdì e Sabbato vanno spesi nello spandere sudori. Coi sudori stempero gl’ inchiostri, mentre oppres-sato dal caldo in ogni momento io scrivo. A ciò mi sforzano, aggiunte all’ordinaria scrittura, infinite lettere pertinenti al novo Stato , che non mi lascia stato di quiete. 29. Nella Domenica, da Tobia Spinola, Paolo Odone, e Gio: Tomaso Invrea, che in questa città passeggieri sono d’ un medesmo ospizio albergatori, ricevo favori. Questo grazioso triangolo d’amistà concorde si accomodò alla quadra figura della domestica mia tavola. Dopo la mensa procuro eh’ abbiano qualche ristoro nel vedere, invece del poco pasto ch’ebbero nel desinare. Si va allo spasseggio. Quel d oggi è assai frequente, perchè la moltitudine onora quella devozione che in — 397 - questa città, in questi giorni, si celebra solenne. Della devozione io parlo, non men dovuta che data alle ampolline conservatrici di quel preziosisimo sangue che dal decollato Precursore scaturì. Queste avventurose conservatrici nella sontuosa chiesa di S. Liguoro si conservano. Entro a questi limpidi cristalli questo tesoro beato e beatore sta rinchiuso. Forse lo permette Iddio, perchè per mezzo di quel trasparente ricettacolo, quasi per opera di cannocchiale, vedano gli occhi della terra i miracoli del cielo : avvenga che non venga già mai questo sagrato giorno, nel quale in un medesmo istante per le mani della infame ballatrice la sanguinosa testa del vergine Battista fu presentata all' incestuoso tiranno, e per le mani degli angioli 1’ anima vittoriosa di lui fu presentata alla divina gloria, che questo benedetto sangue i suoi spiriti estinti non ravvivi, e con spumeggianti bollori sè stesso non commova, ad effetto di commovere in noi, con la memoria del suo martirio, 1’ allegrezza del suo trionfo. Bolle questo adorato sangue in questi chiari vasi. Il suo bollore, sì come è evidente, così è permanente per lo spazio di un’ ottava di giorni. Onde con un’ ottava di versi la decrepita mia musa s’ infiammò a riverir quel Santo, presa l’occasione da quei santi ricettacoli che sono delle gioie di lui fortunati tesorieri. Rosseggiar fa il rubino entro al diamante Tuo liquid’ ostro in bianco vetro accolto : Anzi a vene di vetro alma spumante Dona il liquor che da tue vene è tolto. Qui tra rive di ghiaccio onda fiammante Gode il mio guardo ne’ tuoi specchi involto: E qui, felice idropico, il mio core Sugge in cristal di Fede un rio d’Amore. — i9s — 30. Tutto il Lunedì vien occupato dall impiego di quelle fatiche , le quali aggiungono alle mie cure ordinarie le lettere ordinarie dell’ ordinario. 31. Martedì fo la guardia per la vendita che si fa della Guardia. Questo luogo è confine alle mie terre: ne aborrisco la vendita, perchè ne desidero la compra. n» \ già com' prato. Dalle azioni della prudenza vanno scompagnate quelle dell' avidità......... -- 399 — V. Settembre. — La morte del principe di Conca. — Chi ringrazia Dio, chi loda il Viceré. — Barbareschi a Nisida. — Apparecchi in mare e pronostici in terra. — La paga d’ un mastro di campo — Al passeggio di Santa Lucia — Filosofìa d’amore in carrozza. — La Natività di M. V. a Piedigrotta. — Liti, e cagione delle liti. — Breve istoria dei traffichi genovesi. — La compra per procura. — Il figlio della moresca. — Riviera di Chiaia. — Il palazzo Caivano. — I trionfatori del mare. — Il sangue di San Gennaro. — Confidenza mal posta. — Notizie di casa. — A Pozzuoli. — Galee genovesi a Messina. — Storia che si ripete. — Inno a San Michele — Si torna alle noie. 1.° Settembre. Mercordì. È questo giorno il primo di quel mese, eh’ è il primo dei tre dell’ autunno..... Esercito nella solita faccenda la mia solita fatica. Piaccia alla bontà di nostro Signor Dio, che in questo tempo, eh’ è il più fruttifero delle stagioni, o fruttuose, o almen non sterili, mi riescano le faticose operazioni . , . . . 2. Giovedì, nel cammino alla casa dell’ Avvocato Fiscale, m’imbattei nei funerali che accompagnavano il Prencipe di Conca. Dio voglia eh’ egli morto non sia nell’ altra, come nella presente vita. Certo è che della circonciliazione sua col suo fattore non si ha da religioso alcuno testimonianza certa....... Questo giovinetto, a pena è l’anno, festeggiò per la morte di chi gli die’ la vita. L’ambizione del dominio, che gli fece abborrire il superiore, l’indusse a tal crudeltà, che gli fece odiare il padre : il compiacimento del- — 400 — 1’ occaso di lui tanto più ritenne di sceleraggine, quanto men fu ritenuto da simulazione : onde quel dì il mal ragazzo publica senza vergogna 1’ empietà senza ritegno. Ecco frate Matteo da Marigliano, tra’ riformati franciscani uomo divino, che per parte dello Spirito Santo lo avvertisce, come quel riso ch’egli faceva su la sepoltura del proprio genitore generava già le risa, ch’altri, a capo d un anno, avrebbe fatto sul cadavere di lui...... Fu dunque castigo di quel sempiterno Giudice, che ne’ suoi giudizii mai non erra, il permettere che costui, nella crescente età e nella cresciuta fortuna, illustremente ammogliato, e di titoli e di danari non mediocremente arricchito, d’una vii femminella incapricciato, e da lei non compiaciuto (come già dissi) uccider la- facesse ; e che per occasione di questo enorme delitto, dell altra enormità maggiore egli portasse 1’ intimata pena. Onde nella antiche fondamenta del Castello Novo per decreto di Sua Divina Maestà non men che per ordine di questa Maestà Regia imprigionato, quivi, o da febre tossicosa, o da tossico assalito, il mal nato morì, e con la pia morte ai menatori di trista vita ricordò che « Tandem facinora in supplicium vertuntur » (Tacito). Chi sa coni’egli fu, gode in sentirlo com’egli è; chi ringrazia Dio, chi loda il Viceré; tutti da per tutto palesano quei giubili che furono già pronosticati a lui nel giubilare. La sua prosapia si estingue ; la madre non si duole ; la moglie si rallegra; solamente coloro, ai quali delle ruine di questa casa tocca in sorte il fabricarsi alto edificio, si mostrano addolorati, per non mostrarsi ingordi..... 3. Venerdì, mentre per alcun ristoro, dopo il caldo nell’ andata notte sofferito, apro all’ entrata delle fresche — 4oi — aurette i miei balconi e da questi quei del cielo io sto sospirosamente vagheggiando, miro in quei dell’ Oriente affacciata vivacissima 1’ aurora, che per meglio affrettarsi in apprestare al mondo il matutino avviso del vegnente sole, fatta impaziente nel vestirsi, convogliato in azzurra gonnella il candido suo seno , distrecciava con pettine d’ argento l’oro della sua chioma , della quale mille rose che tra perle erano confuse cadevano sui prati. Ed in un tratto su gli ondosi prati del mare, in ver’ la parte che piega all’occidente, veggio molestata da Barbara luna scorrer galea Napoletana , che per certa quarantena in Nisida approdata, ivi de’ Corsali impaurita, recò prova dell’altrui vigilanza, e della propria sonnolenza. Erano in questi giorni, in questi seni, alcune fuste Turchesche di molti vascelli Cristiani fatte predatrici. Queste, discoperta la galea nostrale dall’ancora tenuta starsi in quel ridotto neghittosa, contro di quella più tacite e più violenti che possono si spingono. Ma Dio la sveglia, Dio la move, Dio la salva. Tagliati i canapi, impugnati i remi, dispiegate le vele, eccola al capo di Posilipo ; eccola confessar la sua libertà dalla sua fuga ; ecco la medesima fuga accusar chi la pose a fuggire ; ecco appresso a lei molte picciole barche, quasi pulcini a chioccia, ricovrate. In ogni lato udivansi le strida della gente, non già il rimbombo delle artellarie, e lo strepito delle archibugiate. Vizio comune, eh’ agli improvvisi assalti prima le voci che l’armi s’ apprestino difensore. Ne guari andò che il romore portò a Napoli il ragguaglio, come i Turchi — 402 — sulla faccia quasi di questa città ponevano in bisbiglio questo popolo. I Turchi, per lunghi anni da noi non molestati in biserta, vengono per rendimento di grazie a visitarne in Italia; e le visite loro si estendono a termini di tal dimestichezza, che, non contenti di spasseggiar le nostre piagge, tentano di abitar le nostre case. Qual maggior testimonio del loro grand’ animo, qual maggior conoscimento del nostro poco ardire? anzi, qual maggior compassione del nostro languido esercizio? Siamo osservati da’ nostri nemici eh’ ad altro non siamo intenti eh a nostri aei: si accomodano essi a’ nostri comodi; ven-gono essi a presentarci la battaglia nelle proprie nostre abitazioni , acciò per la facilità dell impresa non perdiamo l’occasione della vittoria, e quella bravura possiamo provar vicini, che non curiamo esercitar lontani..... Intesa dall’ ecc. signor Conte di Monterey 1 improvvisa e mal creduta novella, si appiglia, non men pronto che saggio, a quel partito che la difesa di tal offesa richiedeva, che il risentimento di tanto orgoglio stimolava, e che alla presta vendetta d’ingiuria cosi grande s avveniva. S. E. è soldato, e di quei soldati di Pallade, che unite le lettere alle armi sanno temprar la penna co 1 pugnale. Di qui è che in ogni azione egli si mostra non men prudente che animoso. Egli, per quanto dimostri complessione impastata di dolcezza, non ha dolcezza tanto piegata al dilicato, che non sia sostenuta dal virile. Per far di fatti, pone la mano a’ ferri : subitamente comanda che nove galee di questa squadra, le quali appunto , spalmate per la sicurezza della fiera di Salerno, erano in punto, in busca delle galeotte partano spedite.. .. — 403 - Avvertisse il provvido signore che i vascelli partano bene armati alla battaglia, perchè siedano meglio armati dalla vittoria, o che almeno impedendo le vittorie a’ nemici riportino quel premio della difesa, che non di raro è più glorioso della offesa.......... Magnanima pertanto ed accurata fu la vigorosa mente del padrone al comandare; ma 1’ ubidienza de’ comandati non fu sì pronta all’ eseguire, che l’esecuzione per insino al tardo di questo giorno, benché lungo, non tardasse. Il presto e il bene oggidì non stanno insieme. Assai fa presto chi fa bene: ma il far presto in Napoli è vietato da quel « mo’ mo’ » che il tutto pone in mora. Sopra le galee, già dal peso della fanteria spagnola fatte gravi, a qual mancò la neve, a qual la musica, tutti armamenti necessarii a queste fazioni, in queste stagioni: a chi mancò 1’ amarena, a chi la chitarriglia, tutti arnesi opportuni a quest’intenti, in questi mari. Non manca il Viceré coi suoi rimbrotti di farli arrossire de’ loro indugi : ma sì come son troppo lenti nel partirsi, così son troppo tardi nel vergognarsi.......... Di questa lentezza, intanto, il volgo osservatore per zelante rabbia morsicavasi le dita: nè sapeva così tra’ denti imprigionar la lingua, che mormorando non dicesse come stava a mal partito la publica infermità, se aveva ella a sanarsi per cura di quei medici, che o per ignoranza nel curare, o per malizia di eternar le cure, davano rimedii più nocevoli assai di tutti i mali. Soggiungeva che questi armati fantaccini erano quei stessi, da’ quali, a’ giorni andati, sopra l’isola di Capri ben tre galeotte d’Algieri rinvenute, al primo saluto d’alcune archibugiate ricevute, furono cortigianamente sberrettate — 4°4 - ed infine licenziate al lor cammino, dopo avere da ogni parte, con l’assedio di otto galee, impedito loro il cammino. Non taceva, che quando ben anco i formidabili assalitori e per numero di legni e per avvantaggio d’ armi assai superiori , avessero mostrato mai tanto ardire per affrontarsi con quella gente Giannizzera che le ferite prende a gioco, forse non avrebbero mostrato mai tanto animo per bagnarsi le mani di quel sangue, contro il quale questi, peraltro valorosi nell’ esercizio del combattere, non furono mai gloriosi per fortuna del vincere........E conchiudeva che mentre la vergogna del ritorno poteva in alcun modo mascherarsi dalla tardità della partenza, il partir con lentezza era specie di sagacità. 4. Sabbato, da visita di Gio: Battista Mari son favorito; da negozio di Cristofaro Massa son trattenuto, e da allegazioni di dottori sono occupato. In questi esercizi passo il giorno, sin che il giorno passa alla sera. Venendo la quale, vengono da’ nostri quartieri due terzi italiani fi), e dànno, rassegnandosi, la mostra; mostra ormai non più grata, perchè giornalmente è qui veduta. L occasione vien dalla vicinanza del Prencipe d’ Ascoli, dal novo carico onorato per mastro di campo generale, così sopra la gente pagata, come sopra la collettizia. Questo (1) Compagnie di soldati, e qui appaiono di milizia italiana, non ispagnola. I dodici mila ducati dello stipendio del principe di Ascoli si pareggiano a lire 48,000 delle nostre. Non so perchè al nostro Gian Vincenzo paiano pochi, per un generale. Forse è da veder qui un tantino d’ironia. E il dubbio sarebbe giusti-ficato dalla digressione che segue, ove s’indugia a dimostrare che « chi sa maggiormente adulare sa maggiormente arricchire » conchiudendo con queste parole: « Ora non più: chi non è informato dtl caso crederà ch’io parli a caso: noi crederebbe chi vedesse quel che ho veduto ». - 40) — prencipe in questo regno è conosciuto ; di questo bel governo poco tempo fa si è impossessato. Non so s’ egli possieda nell’utile a paro di quel che gode nell’onorevole. Al dominio di lui grande, ed al merito di lui grandissimo, il soldo di dodeci mila ducati è poco uguale, se però l'emolumento ordinario, dall’ introito straordinario accresciuto, non ragguaglia il colmo della misura. Sento dire che la misura di Napoli è a guisa di quella di Lesbo, che, di sottilissimo piombo fabricata nel suo contenente, ad ogni contenuto rendevasi pieghevole........ 5. Della Domenica la mattina m’ incammina a’ Scalzi di S. Agostino per devozione, la sera m’ indirizza al posto di Santa Lucia per ricreazione. Quivi per buona pezza dimorò la mia carrozza: la dimora ebbe origine del so-lazzo, e dal solazzo ebbe aumento la dimora. Fu il mio refrigerio non tanto nell’aure di zefiri spiranti, quanto nei fiati di spiriti eloquenti. Alcuni de’ principali della città, e de’ primi dell’Accademia, sono per mia ventura nel mio cocchio oggi seduti ; gl’ intelletti de’ quali mai non siedono, perchè sollevati sopra di loro per vie so-vranaturali ognor passeggiano. 11 Marchese di Villa, il Conte della Cerra, il Duca di S. Giovanni, il Principe della Rocca, stati in questa bellissima sera meco pigliando volta, stanno di sotto alla volta della medesima quadriga meco ricevendo i freschi aneliti di quell’ aria purissima, e contemplando i maestosi oggetti di quella spiaggia felicissima, lungo la quale vedevansi, ricco di legni più che di flutti il mare, e pieno di gente più che di arene il lido. Quando il mormorio di quelle onde co ’l suo susurro lusingato 1’ altrui discorso parve che invitasse il Duca di San Giovanni a tal ragionamento: — 4 o6 — « Beato, e tre e quattro volte beato quegli che non acceso i fianchi da facella amorosa , può temprare in questi freschi ogni altra arsura. Ma sfortunato colui che nei neri carboni del malenconico suo pensiero nodrisce il rogo del vorace suo dolore. Agli accesi suoi carboni divengono mantici queste aure : alle sfavillanti sue bracia aggiungono fiamme queste acque; come per acqua spruzzata via più s’infoca ferro ardente (r). « Misero me, so quel che dico : e poi che pur troppo dico la verità, non debbo tacerla. Sentitela, o signori, sentitela; se per me non è vergogna il confessarla, per voi sarà forse utile 1’ udirla. Io amo, più innamorato fra gli amanti, la più bella fra le più belle. Da questo luogo mentr’ io parlo la miro: poco ha, pur la vedeste, e non ve ne avvedeste. Voglio inferire che non vi avvedeste degli incendii del mio core, palesati nel cenere del mio volto. State attenti, se pur siete curiosi; e se volete sapere qual sia la bella e cruda cagione de’ miei tormenti, osservate qual sia tra le pompe di questa riva la gloria più superba di questo cielo. Chi sa? fors’ella, quasi serena Fortuna, nel raggirare il lucido suo corso feliciterà di nuovo i termini di queste sponde. Ah, cosi terminassero in lei que’ miei sospiri, che sono i caldi effetti de’ (i) Siamo tra accademici e beaux esprits della classe più culta. Non paia soverchio il molto eh’ io pubblico di questa confessione o piuttosto esercitazione accademica del Duca di San Giovanni, che forse là a Santa Lucia, sotto il cielo della carrozza di Gian Vincenzo, non avrà neanche parlato cosi fioritamente come il nostro Autore riferisce, cortesemente abbellendo, secondo l’uso letterario del tempo. Del quale ci offrono un ritratto parlante questi Giornali; usi, costumi, cose, persone e pensieri; conditi, questi ultimi, non pure del marinismo italiano, ma ancora dell’eufuismo inglese e del gongorismo spagnuolo, che avevano facile ripercussione tra noi. Vedasi a tal proposito il già detto nella prefazione. — 4<>7 — suoi gelidi rigori. Ma, o‘sia crudeltà di lei, o sia ingratitudine d amore, o sia fierezza del mio destino, io seguo chi mi (ugge, servo chi mi odia, adoro chi mi sprezza : e mentre dal destino, da amore e dall'amata io sento mortalmente straziarmi, non so ben di qual di loro maggiormente io risolva di dolermi. « Se della mia bella amata accuso la crudeltà, bisogna eh io biasimi la bellezza; la quale, sì come è tiranna della mia volontà, così ha la sede in lei dell’alterigia. Sin dal natale del mondo, non pur in terra, ma nacque in cielo con 1’ estremo della bellezza 1’ eccesso della superbia. Sinonimi sono bellezza e superbia. Per esaltare una cosa bella non diciam noi superba cosa? E qual cosa più superba che donna bella? « Superba res est pulcra mulier » per verità disse Menandro ; e secondo la stessa • \ • • • verita, e più secondo il mio proposito, il Pontano : « Et rigidos mores forma superba facit »....... « 1 roppo, forse, per isfogarmi ragiono : forse ha troppo ragione per difendersi quella che per crudele sente accusarsi. Sarà senza scusa quella superbia che sarà senza bellezza; ma questa, che per bellezza tiene la superiorità sopra i volti, per giustizia esercita la tirannide sopra i cori. Dunque, se là dove signoreggia la bellezza trionfa unitamente la superbia, più tosto a qualità di natura che a condizioni di crudeltà deve assegnarsi ; e se pur si deve ad altra cagione il mancamento attribuire, il mancamento è di amore. 11 quale, come che non ardisca assalir quella bellezza del cui bello egli medesmo s’innamora, da quella per le cui armi sentesi ferire, ve-desi calpestare. Ah, meritevolmente calpestato amore ; perfido amore, perchè dunque mi alletti con la bellezza, — 4°S — se mi scacci con la crudeltà? Traditor amore, perchè dunque mi prometti tanti piaceri, per pagarmi le promesse con tanti affanni ? Crudele amore, non all altrui bellezza, ma solamente alla tua barbarie sì come spetta la colpa, così s’ appartiene 1’ infamia della ferita. Adesso io so quel che tu sei, che so per prova quel che tu fai. Adesso io parlo di te, come ne parlò già il Mantovano: « Nunc scio quid sit Amor.....» Ma ohimè, sono insensato? E perchè parlo così d’amore, mentre amore mi tien legato? Penso forse d’ ingrandirmi contro chi puote atterrarmi? Spero forse la salute dalla tuga, se nel fuggire mi sento subitamente rattenere? Ah che ben provo quel che il nostro signor Gio: Vincenzo Imperiale nel suo Innamorato del nostro Posilipo (i) già disse: , S’io fuggo, egli m’assale; Ch’ io porto le catene, ei porta 1’ ale. Giovimi per minor pena menomare la tua colpa, o amor tiranno: incolpisi più tosto che 1’ ingiuria del tuo rigore la rigorosa disposizione del mio fato. Qual valore più possente può combattere contro il fato ? Se il tato dipende dal cielo, qual forza terrena può contrastar con la celeste ? Quando sentiam noi con Vergilio che « omnia vincit Amor et nos cedamus Amori » sono vanti dati a lui, mentre intendiam favellar di noi, e che ne discorriamo intra di noi. Ma se da questi bassi effetti dell umane operazioni ci solleviamo a qnelle sovrane cagioni ch in noi sono operanti, subito conosciamo come da quei moli) Di questo Innamorato di Posilipo del nostro Imperiale non abbiamo notizia fuorché nella presente, e in altre due citazioni più innanzi. - 409 — vimenti che non si vedono pigliano il moto quei passi che ci guidano, e quei pensieri eh’ ai passi ci conducono, vogliamo o non vogliamo, o buoni o rei ch’egli si siano. Quindi il Petrarca: « Non mio voler, ma mia stella seguendo » ; ed altrove : Che ben eh’ io sia mortai corpo di terra, Il mio fermo destin vien da le stelle. Onde, s’io veggo il mio meglio, ed al mio peggio pur m’ appiglio, non della mia bella crudele, non del mio Signore ingrato, ma del mio destino avverso mi riduco a querelarmi, mentre l’acerbissima mia pena ognor più mi stimola a dolermi. Ahi doglia tanto men capace di consolazione, quanto maggiormente nunzia di morte! 11 mio male è senza rimedio, perchè il mio fato è senza riposo; irreparabile è il mio danno, perchè irrevocabile il mio destino. Supplice, per tanto, non tanto all’amata, non tanto ad Amore, quanto al fato, io già sarei per mio soccorso per inginocchiarmi, se già non udissi la Sibilla di Vergilio dire a me quel che già disse a Palinuro : « Desine fata Deum flecti sperare precando ». « Che farò dunque, infelice, se la mia sorte da me non si può fare? Amerò senza speranza d’ amore? vivrò con certezza di morte. Chi troverà più mai meschinità in amore, che amara a par della mia già mai si trovi ? Avvegna che, sì come non è sorte uguale a quella che gode quel fortunato amante che nella sua fiamma vede arder l’esca dell’ardor suo, così non è miseria maggiore di quella eh’esperimenta quell’ infelicissimo, eh è condannato ad abbruciar nel ghiaccio, e quel ghiaccio che dovrebbe spegnere il suo foco sia quell istesso che lo Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIX, Fase. II. — 410 ~ accenda: strano accidente, il quale, sì come è l’ultimo delle mie sciagure, così voglio che sia ultimo delle mie querele. Quanto più la mia donna mi è crudele, io tanto più l’amo costante: quanto più l’Amore mi è spietato, io tanto più l’idolatro devoto: quanto più la mia Fortuna mi è nemica, io tanto più la seguito fedele: ed infine, quanto più tormentosa è la catena che mi allaccia, tanto più ne’miei lacci mi avviluppo: sono schiavo, e sono a termine che non amo la libertà, ma pregiandomi della servitù, dico insieme col Petrarca: « Per morte, nè per doglia — Non vo’ che da tal nodo Amor mi scioglia ». Le ostinazioni più tosto che le doglianze del Duca porsero materia al Marchese di Villa (i) con piacevole sorriso di riprenderlo, e con amichevole rimprovero di ammonirlo : « Dunque seguirete Voi l’opinione del Trismegisto, e di quelli altri di questa setta, che vanamente al fatale influsso de’ moventi Cieli sottomisero l’assoluta elezione de’ nostri liberi voleri ? Io vi ho per buon filosofo niente (i, Il nobile vecchio, la cui geniale figura è spesso evocata in questi Giornali, vuol essere qui accompagnato d’un cenno biografico. Giambattista Manso, marchese di Villa, era nato a Napoli nel 1570. Fu celebre, non solo per le opere sue, ma altresì per la splendida protezione da lui largita alle lettere, alle scienze, alle arti. Ricchissimo, usò della fortuna con savia economia, per aver modo d’esser utile altrui. Istituì a Napoli l’Accademia degli Oliosi, come in una nota precedente si è detto; fondò poscia il Collegio dei Nobili, uno dei più vasti e dei meglio ordinati d’Europa. Amicissimo in sua giovinezza del Tasso, ne scrisse la Vita, assai pregiata, e fin ai di nostri la più ricca fonte di notizie intorno all’infelice Torquato. Si han pure di lui un volume di Poesie, e due volumi di dialoghi, intitolati: I Paradossi, o Dell’Amore, e YErocallìa, o Dell’Amore e della Be1h{{a. Morì quell’insigne letterato ed amabile gentiluomo nel 1645 , degmmente compianto da ogni classe di cittadini. — 411 — meno che per ottimo cattolico : so che sì come ora ne parlaste come cavaliere amante, così altra volta ne parlerete come uomo prudente. « Fato prudentia maior » disse lo stesso Vergilio allegato da Voi. Ma ricordatevi che prudente non vi manterrete, se amante vi terrete. E gran divario dall’amare all’impazzire......(i). « Ma che crollar di capo è quel che fate alla mia voce? Ben dai movimenti del vostro volto mi accorgo che io non vi movo dal vostro intento. Mi taccio adunque ; che il benefìcio in eh’ il ricusa mal s’ impiega ; quell’ infermo è spedito, da cui il medicamento è rifiutato. Solamente aggiungerei che per gli ostinati è aperto 1’ Orco, se già in questo mondo non poteste vedervi in quell’inferno, ove, simulacro di Tizio, stretto in catene di foco, pascete del vostro core 1’ avvoltoio del vostro amore. Così lo chiamo, perchè così chiamollo anco il Petrarca, allor che n’ ebbe a dire : « Questo tiranno — Che del mio duol si pasce e del mio danno ». Non s’ appose male il ben avveduto vecchio ; avvenga che lo sventurato giovine, più fermo che mai nel suo pensiero, non potea più star fermo nell’ udito. Era lunga . pezza che nel sentire ciò ch’egli non sentiva, si ammantava della pazienza per non spogliarsi della creanza. La medesima, che lo indusse a tacere, lo consigliò a non replicare. Ma il Conte della Cerra, che amico era del Duca, così pigliò a rispondere al Marchese: « Ha un bel dire chi all’ altrui spese fa del medico ; ha un bel fare chi non fa se non di parole. Oh quanti (i) Lunga parlata, con molte citazioni di Seneca, dell’Ariosto, di Virgilio, del Tasso, del Guarino, del Bembo, del Casa. rimedii si propongono nei mali altrui, che non si accetterebbero nei proprii!........(i). Qual maggior vituperio a cavalier amante che il mostrarsi uomo incostante ?.........Io consento che strana pazzia d’amore sarebbe 1’ amore senza speranza di godere. Questo è il line d’ amore: pazzo è colui che opera senza fine.......Amar si deve perchè nell’ atto istesso del nostro amore conseguiamo il fine del nostro amore. Quelli che amano solamente per fine di essere amati, sappiano d’ essere più tosto interessati mercenari. E sappiano le donne che da questi tali o non sono amate con fedeltà o non sono segfuite con saldezza......Ama se stesso e non l’amata, chi ama il proprio genio. . . . Chi ama di core non ha godimento nell’ amore, se non ha patimento nel servire.........Non dubitate, col tempo si vince il tempo. E chi mi assicura che non sia sagacità, quella che severità voi reputate ? . . . . Ella è pur troppo vera, e dalla sperienza autenticata, quella sentenza, « Amore a nullo amato amar perdona » . . . . Qui, a imitazione dell’ innamorato eh’ io difendo, mi sostenga l’Innamorato del signor Gio. Vincenzo, e quella stanza di lui conchiuda il mio concetto, col quale io chiudo il mio discorso : Amor non è già crudo Agli umili suoi servi : Se povero 1’ osservi, Perchè dona quant’ ha, tu ’l vedi ignudo. Lo chiamano tiranno Quei che amati non sono, o amar non sanno. (i) Colgo nel discorso del conte della Cerra alcune sentenze che indicano abbastanza chiaramente il corso della sua argomentazione lunghissima, aneli’ essa fiorita di citazioni. — 413 — Nel finire il Conte della Cerra, fu per ricominciare il Marchese di Villa. E s’ altri non lo impediva, egli , per mio avviso, con nuova replica, di facile attenuava l’ultima risposta. Quando il Prencipe della Rocca, il quale dal raccontamento dell’ altrui stato doloroso aveva sentito stuzzicar nel suo dolore, con alta voce interrompendo al Marchese la favella, verso il Duca, in cui voltò lo sguardo, voltò il ragionamento : « Deh, fosse pur stata cruda, e nella sua crudeltà sempre ostinata la donna mia; che se ben io non avrei goduto, almen io non avrei patito; o se mi fosse bisognato penare, sopportabile sarebbe stata la mia pena; perchè, non ingannato dalla speranza, non mi avrebbe ferito la bellezza. Diogene Laerzio chiama la bellezza senza amore, tirannia senza regno; e fa conoscere eh’ ella sostiene con la man di cera lo scettro di paglia. Ma ohimè, la mia speranza adempiuta mi ha condotto alla mia disperazione inaspettata........Quel tesoro che da amore mi fu conceduto, da gelosia mi fu involato. Ah, non 1’ avess’ io goduto mai, se non 1’ aveva a goder sempre ! Ah, non l’avess’ io posseduto tanto, se co’ suoi lampi doveva abbagliar la vista altrui come la mia ! Per dirla senza metafora, oh quanto, oh quanto meglio per me sarebbe che quella per cui sospiro fosse stata tanto crudele, che a me come ad ogni altri fosse stato impossibile il conseguirla, o tanto sozza eh’ a me per opra di qualunque altri fosse stato difficile il perderla!..... .........Qual maggior furia dell’ infuriata gelosia? .... Oh vipera tossicosa che nel tuo natale a chi ti diede la vita tu dai la morte ! onde a ragione ti nomina il Tansillo « E di tema e d’ amor figlia sì ria », — 4M — ed il nostro Imperiale, del quale ancor io tengo a mente il poemetto : Ouesta d’Amore é figlia, Ma, di figlia, nemica Contro Amor si affatica. ......» . E qui si tacque, o perchè gli mancassero le parole, o perchè gli soprabbondassero i sospiri. Chi nelle conversazioni, ove il ragionamento passò in giro, s invaghì di sentire e non si curò di parlare, si mostra o poco intendente o molto arrogante. Avendo dunque ognun di questi saggi cavalieri adempiuto all’ obligo della sua vicenda, s’ apparteneva a me sodisfare il debito della mia creanza. Onde in tal guisa parmi ch’io dicessi: « Appresi, o miei Signori, e non men nell animo che nell’ orecchio, le affettuose espressioni de’ vostri amorosi sentimenti ; e tutte, per quel poco che arrivo, non men dotte che leggiadre. Ho udito com’ è tra di voi, chi assegna 1’ estremo delle amarezze nell’ amore, all amare odiato ; e chi all' odiare ingelosito. Io, che per lontananza dalla cosa mia più cara provo amando la doglia più penosa, scusatemi se a’ vostri discorsi, se ben contradir non oso, acconsentir non voglio............ Sosterrò nella voce quel che sofferisco nell anima, che sciagura eguale alla mia non abbia amore, mentre amo lontano. Chi ama non riamato, se pur non si disarma di fermezza, non è mai sguarnito di speranza ; e come dalle SS. VV. è stato detto, ov’ è speranza non è angoscia. Non è male di pericolo quel che si sana col rimedio ; non è dolore di spasimo quel che si addolcisce col discorso......................... - 415 — L amante non ammira, se non mira; e se non mira, more. Ma muor davvero, perchè gli è tolto il vedere i raggi di quel sole, che sì come sono la gloria di quel cielo eh’ egli adora, così sono la vita di quella sostanza che lo tiene in vita. E se pur non muore in lui la vita abituale, non vive la mentale ; conciossiachè la vita umana certamente non vive senza azione. Non si chiama opra viva, quella che non opra direttamente al fine. Il fine d’Amore, o miri al godimento de’ beni del corpo, secondo, gli Epicurei; o alla fruizione de’ beni dell’ animo, secondo i Platonici; o al possesso de’ beni e dell’animo e del corpo, secondo gli Stoici ; sia comunque si sia, certo è che per conseguimento del fine è necessario il mezzo. L’ anima nostra, che opera per mezzo della corporale assistenza, giace neghittosa per difetto della corporale distanza. Stimisi dunque morto quell’ amante eh’ è lontano. « Quindi, e nelle delizie di questa piaggia, e nelle pompe di questa città, non vedo le arene del mio San Pietro, nè vedo le colline della mia patria; e non mi par di veder altro che tenebre, o nelle tenebre non mi par di raffigurare altro che sogni; o se mi querelo col Poeta (che forse per essere innamorato è tra di noi così spesso oggi allegato) « Ogni loco m’attrista ov’ io non veggio — Quei begli occhi soavi . . . » (Petrarca) e se per bocca di Gio: della Casa confermo soggiungendo: «.....ed ho sì avvezza — la mente a contemplar sola costei — Ch’altro non vede, e ciò che non è lei — Già per antica usanza odia e disprezza », ciò mi addiviene, o sia per quella cagione che fa sentir dolore in quello delle nostre membra che fuori del suo luogo si ritrovi, o sia per quella ragione che fa veder inquieta — 4i 6 — ogni qualunque cosa che fuori del suo centro si raggiri ............................. « Si spira in quanto si spera. E chi, perduta nel viaggio d’Amore la scorta della sua stella, non si affogherebbe nell’ abisso della sua sciagura, se la mano della speranza noi tenesse a galla, e non gli additasse anco il sentiere per condursi al porto? Ah, smarrito una volta questo lumicino, quanti Leandri la vita con la via smarrita avrebbero !....................... Signori, eccomi vivo: ma credete a me; s’ io guari più vivo per questa assenza in questa meschinità, eccomi morto. Il soccorso della speranza è utile, se non è lungo. Quando per molta lontananza molto si allontana la certezza, dalla speranza si avvicina alla disperazione. Ogni momento di dimora mi fa contar un secolo di tormento. Odit vcnts Amor, nec patitur moras (Seneca). E del tragico sentenzioso imitatore il tragicomico leggiadro (Guarino) non sapete come disse « Che un secolo agli amanti — Par ogn’ ora che tardi, ogni momento , Quell’aspettato ben che fa contento? ». Qui ad un tratto finisce il corso la mia diceria, e finisce il criorno la sua carriera : ma su le nostre pai- O pebre non finisce il pianto. Onde il Marchese, come più attempato, dolendosi che il tempo fosse fuggito, poiché non potè per allora altro soggiungere, non si potè già contenere, che prima chinato in verso noi, poscia alzato in verso il cielo, non esclamasse: « Mens immota manet, lacrymae volvuntur inanes » (Vergilio). Indi voltato al cocchiere, e datogli il segno della partenza, ognun fece ritorno alle proprie case, con proponimento di ritornare altra fiata alle sue repliche. - 417 - 6, 7* Lunedì e Martedì, il mio ricrearmi fu nell’ occuparmi. Ebbi straordinarie faccende, recatemi dall’ordinarie lettere; ed ebbi litigiose cure, apportatemi dai soliti negozi. Per minuti ragguagli affaticarsi, sarebbe un avvilirsi. 8 Mercordì, nel tempio di Piedigrotta sacrificai tutto il mattino alla gran nascita, onde nacque il Padre della umana redenzione. Perchè questo giorno al natale della Vergine Madre è dedicato; e perchè dedicato è questo tempio alla solennità di questo giorno, in questo giorno a questo tempio dall’ universal concorso è recato ossequente tributo di particolarissima reverenza. Non è senza compiacimento dei popoli, o senza aggradimento degli spettatori, questa peregrinazione della plebe, dal centro della città per infino alla sommità di questo cammino; il quale, per due miglia continuato e da triplicata strada ripartito, vedesi per lunghe ore da folta moltitudine occupato ; fin che sopravvenendo la sera, cangiata la quantità delle genti in qualità delle persone, mirasi il medesimo sentiere dalla più illustre frequenza delle più nobili brigate spasseggiato g. Tutto il Giovedì passo in queste faccende curiali, che le mie cure immortali somministrano. io, il. Nel Venerdì, e nel Sabbato, al sicut erat: si trovano come al principio e anco ora (Dio ne tolga il sempre) avviluppati fra nodi gordiani quei miei negozi. De’ quali avendo io più volte espresso gli accidenti, e non mai, o non bene, palesato l’origine, qui racconterò tanto che basti, più tosto per argomento che per notizia, della tragica mia favola, troppo vera. — 4 iS — Genova, quanto abbondante per copia di fortune, e per ricchezza d’ ingegni, tanto penuriosa per angustia di territorio, e per isterilita di paese, fu da’ suoi primi natali astretta a procacciarsi da’ luoghi forastieri quel che non ebbe da’ proprii. Alla necessità si accomiatò l’arbitrio; onde per mezzo di avveduti e continui traffichi, dalle altrui regioni alle sue case ella così grandi riportò gli utili e gli onori, che di fruttifere palme inghirlandò i suoi marittimi Campidogli. Nè questa gloria, per mano della sua fatica nobilmente ottenuta, le uscì di mano, per fino a tanto che in lei sopito, non so come, il zelo del negozio publico, e risvegliato 1’ appetito del comodo privato, potè con Sallustio querelarsi : « Bonum publicum privata gratia devictum est ». Ma non per tanto, cessato il traffico universale, mancò il particolare. Sprona da un lato la necessità del vivere; stimola dall’altro l’avidità del possedere; corrono tanto più vigorosi, quanto men confusi i cittadini, e da’ lor corsi vedono accumularsi quei loro averi, che da lontane parti con lunga navigazione acquistati nel mare, e custoditi nel mare, possono a’ posseditori di questa impresa apportar per insegna quell’impresa, la quale porta per suo corpo 1’Alcione, col motto: * a salo salus ». Non è sotto al girar delle stelle pensiero che non giri. Mutano proposito i nostri mercatanti. O sbigottiti dai passati pericoli, o allettati da guadagni men pericolosi, non chiamano ben assicurate facoltà quelle fortune che fidano alla Fortuna. Distolgono i commerci dal mare, e indirizzano i negozi alla terra. A tale intento introducono quei cavalli che son fatti magri nel valicar gli asciutti Pirenei ; con corta misura di tempi, e con certa designa- — 419 — zione di luoghi, frequentano le fiere della Francia : e possono, in geroglifico delle peregrinazioni loro, aver la Luna col motto : « non errat errando ». Mentre da frequenti viaggi in moltiplicate fiere la Genovese facoltà fece moltiplico, e in un medesimo tempo la forastiera proprietà fece guadagno ; questa dal nostro danaro ottenne il comodo, quella dal comodo accasò il profitto; e fatalmente 1’una con l’altra cambiandosi la moneta, scambievolmente 1’ una con 1’ altra interessò nell’amicizia. Questa corrispondenza, non men riuscita felicemente nella pratica , che sottilmente imaginata nell’ idea, tosto era per arricchire la nostra Patria, s’ ella non veniva combattuta da guerre straniere , e guerreggiata da contese civili. Per le contese le cose non crescono ; per le guerre s’ impiccoliscono le cresciute. Ma quando piacque a Dio che nell’ Italia, ributtatine i Francesi, dominassero Spagnoli; questi, sodisfatti di lasciarne liberi nei nostri scogli, tenendo mira al farne soggetti nei loro regni, mostrarono a noi quell’utile nell’ ampiezza de’ territorii loro, del quale non fu mai capace 1’ angustia de’ nostri. Onde i nostri antichi, dato l’occhio, anzi dato il core all’additato comodo, convogliarono tutto ciò che avanzato avevano, per lunghezza del faticarsi, dalla parsimonia del vivere. Il risparmio è la vera alchimia per far danari. E i loro danari, et praetiosa quaeque, ne’campi Spagnoli seminarono, confidando ogni anno d’ averne a raccogliere la messe in tante masse d’oro. « Ille dies primus leti, pnmusque laborum — Causa fuit...» (Vergilio). La confidanza, che generata da prudenza è madre di fortezza, partorita — 420 — dall’ingordigia è madre di viltà. Il cavallo, che per si-gmoresfSfiar del cervo si fece servo, ci rinfaccia : o o o Sic qui pauperiem veritus, potiore metallis Libertate caret, dominum vehit improbus, atque Strviet aeternum, quia parvo nesciet uti. (Orazio). Dall’ opre dell’ intelletto passarono i nostri alle azioni della servitù : nè guari andò che i liberi, assai peggio trattati che i vassalli, pieni non d’ altro che d’irremediabile pentimento, confessarono quella sola esser vera libertà che non ha obligo di ubidire a chi ha poter di comandare. Ed ai troppo tardi avveduti questo conforto solo si offerì, che come edera senza muro, o vite senza palo, così a lungo andare comunità senza vigore malagevolmente si sostenga senza appoggio. Ma quale ap-poggio per la vicinanza più valevole, per la sincerità più confidente, per la potenza più vigoroso, avvenirci poteva della cattolica e immortale aquila d’Austria? Non è taccia al debole il cedere al potente: ridicolo sarebbe quel pigmeo che si ridesse del gigante. Ogni gran forza per sua natura s’umilia alla maggiore: cittadino di repubblica non perde libertà, per quanto di non libero paese divenga cittadino; anzi ivi maggiormente libero si mostra, mentre nelle occasioni fa vedere che se ha soggetta la roba non ha suddita la volontà, e che tanto gli giova aver ricchezza quanto possa giovarne alla sua patria. Comunque si fosse, o s’ abbia ad essere, tra ’l numero de’ migliori s’ingolfarono i miei maggiori in questo mare, che, se fosse stato conosciuto nella bonaccia, non avrebbe affogati tanti nella procella. Non valse che dai naufragii — 421 — de molti s’ avvertissero i pochi ; egli è costume troppo accomunato che per un solo vascello che da pericolo si salva, ravvigorita, un’infinità se ne sommerga. S’imbarcano i miei per quel cammino, che se le passate disavventure non bastavano a render paventevole, almen gli imminenti pericoli potevano mostrar considerabile. La pena è mia; la colpa non è mia. Anzi, non è de’ miei : essi seguitarono chi andò loro avanti. I primi sempre meritano o ’l biasimo o la lode. Que’ primi neppur son rei di biasimo; chi seguitò loro è meritevole di scusa. I primi s’imbarcarono con mare assai tranquillo: non era ancor procelloso quando seguitarono gli altri. S’ è cangiato vento ; si è cangiato sorte. Eccomi al punto. Traspiantata dalle mie rive in questi regni è buona parte di quei beni, dalle radici de’ quali rampollano i miei mali. Questi beni, o in regie entrate, o in censi baronali repartiti, malamente vengono goduti. Nel privato la virtù non è più viva; nel pubblico la giustizia è morta. Se questi ministri essi primi si approvecciano dei nostri terzi (i), ad imitazione di questi, questi baroni si pascono dei nostri frutti, nè degli alberi vendutici pur ci consentono i germogli. Se i reggitori del governo par che non abbiano a vergogna il violar la fede pubblica, i posseditori dell’ altrui par eh’ abbiano a gloria il mancar la fede propria. Se quelli si fanno scusa de’ bisogni del re, questi si fanno scudo dell’ esempio de’ regii. Per penuria di alimento vidi mezzo etichito (2) il corpo di questa mia pecuniaria fortuna; onde mi proposi di (1) Questi terzi di cui si approvecciano, cioè a dire si approfittano i ministri, dovrebbero essere le parti che spettano al creditore sui redditi del censo. (2) Etichito, da etisia, per intiSichito. — 422 — mutar aria: desiderai che cangiasse luogo quel che in questi luoghi, o non si può levare senza danno, o non si può lasciare senza pericolo. Il permutar mobili in stabili non mi pareva contrario alla regola economica ; legge politica mi pareva, con quegli stessi effetti che mi tengono in servitù, pormi in dominio : e mi pareva ragion di stato tuta et praesentia futuris et periculosis (i) anteponendo , il preferire all’ incertezza dell introito più grande la certezza dell’ assegnamelo più sicuro. Pensai perciò d’impadronirmi d’alcun feudo in questa Provincia, ove altri di mia casa ha fatto acquisti ; limitai la intenzione del comprare con la condizione del non spendere, se tanto viene a dire quella compra che si fa con impiego di roba senza dispendio di danaro. Si ap-presentò opportuno lo Stato di Sant Angelo, che per ordine regio, in pagamento dei debiti dei Duchi di Monteleone e di Nocera, si vendeva. In quel mentre, occupato da pubblici affari, io mi ritrovo in Genova; e mi ritrovo Orazio Spinola accompagnato da mia procura in Napoli ; onde, bisognandomi appoggiare all altrui cura quel che sarebbe appartenuto alla mia, quell’opra che mi viene impedita dalla mia lontananza raccomando alla promessami diligenza. Perciò al sunnominato Spinola mando gli ordini liberi quanto al fine della compra, ma legati quanto al mezzo del comprare. Egli trattò, conchiuse, stabilì; trattò, ma per modo contrario alle mie istruzioni: conchiuse, ma per forma diversa alle sue lettere : stabilì, ma senza stabilire il fon- i) Frase di Tacito. — 423 — (.lamento. O tosse per inganno di cupidigia, o per abbacinamento d intelletto, o fosse per 1’ uno e per l’altro, 1 gli '1 distruggitore dell edificio che si fabricava; perchè non ismaltì quegli averi che io teneva, sborsò que’ contanti eh io risparmiava, non curò quella cautela che con-'eniva, e mi fece comprar liti, sotto specie di levarmi da litigare. Qui dunque mi trovo misero Atlante di questa machina cadente, nella quale tante fessure ogni giorno maggiormente si spalancano, e tante mine dalle aperte lor bocche si palesano, che per me non so più , se più quei danni che vedo, o quei che prevedo, mi sgomentino. Così sospirando recito quel verso : « Il mal mi preme, e mi spaventa il peggio > (Petrarca). Bello è eh’ io son qui per sodisfar a’ creditori della vendita. Ma sodisfatti alcuni del debitore (iì, sfucro-ono V* J il pagamento del debito: altri allettati dal sette per cento che aspettano di frutto, amano il mantenimento della pianta: certi, che per certi lor fini vorrebbero sbrigarsi, o per mancamento o per difetto di scritture si trovano intricati. Fra tanto, nel caldo de’ tribunali, e nella polve delle curie, io paio talor abbruciato e incenerito, mentre mi bisogna mendicar tanti giudicii quanti sono tra gli infiniti pretensori innumerabili i contrasti, e mentre mi bisogna soffrir tante molestie quante sono le trame delle liti e le avidità dei litiganti. Le pratiche per un accordo tra loro e me sempre stanno in piede ; ma, o con pie’ di tartaruga vanno lente, o con passo di granchio non camminano diritte. Ho giusta il) Riesce un po’ oscuro; ma vorrà dire, io penso, «del debitor nuovo » sottentrato all’ antico. — 424 — causa; ma perchè troppe cause essa contiene, tutte abbraccia, poche ristringe. Ho favorevole alcun giudice; ma perchè non ho favorevole il clima, ho poco amico il fato. Oh, se avessi tanta sorte, quanta ho giustizia, so ben io che grià sarei de^no d'invidia, ove or son o o bisognoso di pietà. Questo è certo : quella prova che non posso dare della mia sufficienza, mi convien dare della mia tolleranza. Questa è la mia preghiera: Dio mi dia la pazienza. La pazienza si dedica alla gloria, lo so. E so che, sì come la guerra s’iucammina alla pace, così la fatica si sagrì-fica alla quiete. So che alla fine all’ affannato vien tanto più soave il riposo, quanto ebbe più grave il peso. Il punto sta, che nelle mie vigilie filosofando con le mie sventure, io sappia adattare a me stesso ciò che ho saputo predicar ad altri ; che conviene accomodar la nostra mente alla nostra infelicità, in guisa tale che la vita de’ nostri travagli non tronchi la vita a nostri giorni, che bisogna talor non vivere a’ negozi, per sopravvivere agli affanni. Tutto va bene in sesta di filosofia, ma non va bene in prova di azione. Egli è forza far 1 ultimo, sforzo per uscir dalla fatica, quando, senza passar per quella fatica che si sofferisce, non si può arrivare a quella quiete che si desidera. Il mio mestiere nè di poco studio nè di poco tempo ha di mestiere. Di molte fila esser bisogno parmi A condur la gran tela eh’ io lavoro. (Ariosto). Non sarà poco se quella tela già da me non male ordita, - 425 ~ dall opra altrui sì mal tessuta, verrà al men male dalla mia diligenza ricovrata. ......Quae rite mcoepta paravi Perficere est animus, finemque imponere curis. (Vergilio). Ho veduto alle volte alcuni caratteri esser fine ai lavori. Sul bruno campeggia il bianco. Io penso con le perluccie de’ miei sudori ricamar il nero de’ miei travagli. E perchè il marco faccia conoscer 1’ operaio, abbia lo scritto: « Che convien ch'altri impare alle sue spese > (Petrarca). Se non ho imparato alle mie spese, sia mio prò . Io mi son confidato, e della mia confidanza fo la penitenza. Se negli errori morali come nelle colpe spirituali gran parte della sodisfazione si rapportasse dalla confessione, io potrei, se non sodisfatto, almen consolato rimaner in parte ; mentre confesso il mio gravissimo fallo, per non aver creduto a quel raccordo sì pregiato : Mal si conosce non provato amico, E mal si cura morbo interno antico. (Bembo). Dico mia colpa. Io mi son confidato di chi non avea molto conosciuto. Se lo avessi prima provato bene, avrei scorto incurabile il suo male. Non poteva a meno il Signor Orazio Spinola di essere infedele, se è vero che egli sia figliuolo d’una Moresca, che fu schiava al Gerolamo padre di lui. Quest’origine solo dal trattar con esso lui mi avrebbe trattenuto, perchè opportunamente mi avrebbe rammembrato quel che nella storia de Sacro Foedere già lessi, ove il Foglietta (i) favellando di (l) Oberto Foglietta. Atti Soc. Lio. St. Patri». Voi. XXIX, Fase. II. — 426 — Pagano Doria, il quale nella perdita della Goletta perdè la vita per aver prestato fede a quattro mori senza fede, dice queste parole : « Verum gens cui nulla jurisjurandi religio, ani promissionum fides, unquam sancta fuit, a natura sua degenerare non potuit ». 12. Domenica, me la feci spasseggiando verso Chiaia. Quivi, per non lasciar infruttifero il diporto, l’accompagnai col negozio. Visito per tanto il Duca di Caivano, che nel più bello di quel bellissimo teatro si fabrica un riguardevole edificio. Con ragione questo palazzotto in questa Riviera pare il padrone degli altri, mentre serve a chi ha molti per servi. Ancor non è finito, e pur viene ammirato. Colla sua pianta calca il piè della collina; con la sua faccia mira in faccia al mare; nel di fuori a bassi rilievi d’ intagliate pietre andrà guernito ; nel di dentro d’ ogni lavoro di maggior rilievo andrà fasciato. Già il suo portico abbraccia più portici, che sotto archi di musaico alloggiano statue di marmo. Già non ha stanza, benché molte ne abbia, ove non si vegga tutto quello che di maggior eccellenza può comporre l’architettura, tutto quello che di maggior esquisitezza può effigiar la scoltura, tutto quello che di maggior maestria può colorire la pittura. Non gli mancano acque vive che per vene di piombo passano ad avvivare ad altri il guardo. Manchevole è di giardino, perchè, per maggior preminenza, ha il giardino di 1 eti in vicinanza. 13. 14. Di Lunedì e di Martedì poco ho che dire, se ben non poco ebbi che fare: sono amendue consumati nell’ espedir lettere a Genova, e nel mandar scritture ad avvocati. Se raccontar minutamente ogni minuzia — 427 — di quelle sarebbe un avvilirmi, il rammembrar distintamente ogni negozio di queste sarebbe un affannarmi. Delle brighe ordinarie in ogni giorno s’ annoia il mio giornale. 15. Del Mercordì tanto più serena comparve la mattina, quanto più turbinosa passò la previa notte. Imperciocché 1’ acqua delle nubi, che profittevole ai campi ed opportuna ai corpi si fece lunga stagione desiderar dalla terra, così diluviosa cadde per molte ore, che molti di coloro che prima la pregavano, delle preghiere si pentirono............................ La notturna procella dal mattutino sole fu sbandita ; onde a’ soliti spettacoli de’ miei dolorosi negozi fo ritorno, e nelle tragiche scene de’ tribunali, sollecito spettatore delle solite rappresentazioni io mi dimoro. 16. Giovedì, non esco di casa. Poco non è non uscir di senno. Mi vi trovo assediato da supplichevoli turbe di afflitti miei vassalli, che con armi di miseria feriscono il petto alla pietà. L’ ascoltarli fu secondo il loro volere ; il compiacerli fu secondo il mio potere. Mi desidero potere assai per giovar molto. Nella prestezza dell’opre conobbero la volontà dell’ anima. Molti compiacqui, altri esortai, tutti spedii..................... 1 7. Venerdì, esco dalla mia casa, per di poi non uscir dalla casa di un Ministro; ove mi affatico sin che il tramontar del giorno distoglie il mondo da fatica. Un tantino d’ora mi avanza, per condurmi insino al Molo; dal quale in uno stesso tempo ha refrigerio il core, ed ha compiacimento il guardo, abbattendosi nell’ entrata che in questo porto fece questa Squadra. Queste sono quelle istesse galee, le quali, come già contai, contro i — 428 — Barbari spedite, dal corso all’ ancora ritornano. Del ritorno loro così quei che ubidiscono come quei che comandano ugualmente si rallegrano, e per disugual sentimento la corte e la città solazzano. Il volgo tacitamente gongoleggia, perchè, vedendo negli altrui successi autenticati i suoi pronostici, gli piace, con segreti sorrisi, di accompagnar quelli Spagnoli dalla sorte malmenati. • ....................... Mentre che il pazzo volgo con sciocche ironie si trastulla, il regio tribunale con saggie sentenze si conforta. Chi già indirizzò l’impresa per mezzo della battaglia al fine della gloria, or esalta quella gloria che senza i cimenti della battaglia si è ottenuta. Oh che ventura 1 es sersi rinfoderate le nostre armi senza combattere ! Perche, se bene dal combattimento non poteva attendersi che la vittoria, la vittoria nulla di meno mal poteva conseguirsi senza alcuna perdita ; avvegna che il Turco, in numero ed in forza a noi superiore, quando ben ora avesse perduto, da’ nostri guadagni a nostri danni ve niva provocato................... 18. Sabbato, tutto il mattino in chiesa; tutto il rimanente in casa del Dottor Vitagliani. Spero vita da questa nuova aita. Chi sa? So ch’egli sa. Già del suo sapere mi giova il frutto assaporare; già dalla mente di lui svegliatissima mi vengono offerti quei lumi che per ri cercare in più notti mi tennero svegliato. ...••••• 19. Domenica, in Napoli si festeggiò per la commemorazione di S. Gennaro, di lui solennizzandosi il martirio. da cui si riconosce il patrocinio. Da questa citta devesi ogni ossequio in tributo a questo glorioso protettore ; tra le reliquie del quale nella sua chiesa cattedrale — 429 — maestosamente custodite, il capo sagrosanto e ’l santificato sangue di lui profondamente si adorano, e devotamente si ammirano. Questo sangue che in disparte si conserva, ogni volta che alla testa del Santo si avvicina, emulo del sangue del santo Precursore, non pur s’intenerisce, ma sossopra si rivolve; e in molti tempi, così moderni come antichi, o sia per utilità de’ fedeli, o sia per confusione de’ miscredenti, Iddio ha voluto che questo benedetto sangue coi vermigli suoi bollori, quasi con rossi caratteri, sul bianco foglio delle pure menti abbia scritto alcune istorie dei divini annali, onde questa citta accolse presagio a’ sinistri da venire, rimedio a' venuti, e riparo a’ vegnenti. Vaglia per ultima testimonianza la novella prova. Fu questa città, come a suo luogo narrerò, modernamente dalle voragini apertesi dal Vesuvio, dalle pioggie dilatatesi di arene, dalle saette scoccatesi de’ fulmini, dagl’ inondamenti incavernatisi de’ tremoti, quasi quasi coperta dalle fiamme e sepellita dalle ceneri ; quando in un tratto fu da queste implorate reliquie miracolosamente liberata, sì come fu dalle medesime prima dell’ evento benignamente ammonita. Adempiuti pertanto nella mattina gli offici del tempio, nel rimanente conforme all’ uso si sodisfece agli offici del luogo. Si accrebbero dunque alle cerimonie sagre le solennità profane. Consistono queste nel solito adunamelo. Questo, numeroso più del solito, rese oggi frequentissimo lo spasseggio. Questo spasseggio, distinto in due parti, parte da due porte; l’una che dallo Spirito Santo agli Studi, l’altra che da Costantinopoli alle Pigne apre il cammino. Ad amendune il Borgo di S. Gennaro — 43« — è centro. Al concorso la strada delle Vergini è corso ; la chiesa della Sanità è meta. Di questa lunga contrada il calle obliquo e 1’ uscita angusta rendono più intricato che solazzevole il viaggio. 20. Lunedì, che studio non feci, e che travaglio non soffersi, nel ponere a rollo buona parte di quelle mie scritture che sin oggi al Dottor Nicolò Oreggia confidate, vengono dal medesimo deposte ! Questi, di questi affari miei già fatto agente, non men gioviale in aspetto che saturnino in core, seppe con faccia vermiglia mascherar l’animo nero. E seppe, quantunque isolano e Corso, così ben infingersi per amorevole e per fedele, che non pur de’ miei litigi la faccenda, ma de’ miei luoghi 1 amministrazione gli raccomandai. Pervenne con 1 alta sua fortuna a superar la sua bassa condizione, in guisa tale che poteva augurarne la sua ruina. « Magna repente ruunt; stimma cadunt subito > (Claudiano.) Egli non perdette l’occasione di avvalersi in utilità sua della confidanza mia, perchè da diligenza la malizia, e da bontà l’ingordigia travisata, assai presto con modi più confacenti al suo che al mio pensiero, di bugiarde spe ranze ostentatore, ma di vere menzogne spacciatore, professando di conservar le mie fortune, sollecito a mol tiplicar le sue facoltà, pose mano ad intrecciar laberinti per li suoi vizi, ove lo posi a fabricar stanze per li miei negozi. Il più ghiotto bugiardello di costui non credo eh’ abbia il mondo. Questi in sua prima età fu dato all arte Di vender parolette, anzi menzogne. (Petrarca). - 431 — E peccato eh’ egli non fosse a’ tempi della guerra Greca, all assedio di Troia; perchè al merito di lui ceduto avrebbe il vanto di Sinone; ed avrebb’egli ottenuto per amministrazione di officio quel nome che professa per inclinazione di genio; .....in utrumque paratus, Seu versare dolos, seti certae occumbere morti (Vergilio) Prima egli soffrirebbe di morire, che lasciar d’ingannare: ogni inganno vien da lui bramato sin a tanto che teme nell’ inganno esser chiarito. Ma quando si avvede che la mia presenza e la mia vigilanza si oppongono alla sua malizia, sospettoso del mio sospetto, ruppe i modelli de’ suoi disegni, e lasciata l’opera interrotta de’ suoi misfatti, levò mano dall’ edificar nelle mie distruzioni le sue fabriche, e ponendo mira a salvare l'usurpato fa pensiero di allontanarsi prima d’essere scacciato..... L’ingratissimo Dottore ebbe motivo di far parere elezione la necessità; ond’ebbe a dire che teneva incitamento di allontanarsi con la persona di ove non poteva sollevarsi con la servitù. Cominciò dunque pian piano a scoprir tepido il desiderio, pigro 1’ ossequio, languida la diligenza, imaginando mostrarsi virtuoso col fingersi neghittoso: finalmente, quel che da volpe egli pensò, da lepre egli eseguì. Parte in fretta, non a caso: parte, se al fuggire diam voce di partire. Perchè non può più tradirmi, fa l’ultimo tradimento col lasciarmi. Parte, senza aspettar quei segnali di corrispondenza eh’ erano dovuti alla sua lealtà; parte, senza attender quei pagamenti di ricompensa eh’erano proporzionati alla sua — 452 — servitù ; ma senza dar sodisfazione, facendo conto di averla, improvisamente e segretamente parte dalla sua cura e dalla mia casa. Perchè non ha faccia da comparire, perchè non ha scusa ove ricorrere, perchè non ha luogo ove ricoverarsi, perchè non ha ragione ove difendersi, tinge sdegnato di partirsi ; e dopo di essere partito, con calunnie contro me gli piace alfine di armarsi. 21. Martedì, secondo il solito, è dedicato a lettere della Patria. Le più soavi sono quelle della casa. Queste di questa volta soavi già non sono: il dolce loro mi amareggiano gli avvisi della poca sanità di mia nuora, e della molta afflizione perciò de’ miei. Si tratta di vita, eh’è buona parte dell’altrui vita, perch’ella non pure è moglie a mio figlio, ma figlia a mia moglie (i). So quanto ella è amata dalla madre, e quanto stimata dal marito. So quant’ obligo le deve la prosapia, già di un triumvirato crescente da tre parti di lei fatta abondante. Io, cui di tutti loro 1’ età mia ha dato essere il capo, sono a capo di tutti gli accidenti loro. Che dolga il capo quando le altre membra dolgono, non so già se sia tanto vero, quanto è verissimo che per dolore delle altre membra il capo duole; concios-siachè risiede nel capo quella parte dell’anima intellettiva, che influendo il vigore alla sensitiva, in quella guisa che il basso vapore dall’aere superiore è sollevato, le disperse passioni da tutto il corpo al capo attratte (i) Brigida Spinola, vedova di Giacomo Doria, sposò nel 1621 Gian Vincenzo Imperiale, vedovo di Caterina Grimaldi. Francesco Maria Imperiale, primogenito di Gian Vincenzo, sposò nal 1622 Ginevra Doria, figliuola di Brigida, sua matrigna. Vedasi nel primo fascicolo, la prefazione, a pagine 25, 26. - 433 - unisce, onde tanto maggior sentimento si riduce nel capo, quanto maggiori sono i sentimenti del corpo, che quasi linee al centro, e quasi fiumi al mare, per tributario concorso nel capo si radunano. Sia vera o no questa mia fisica, questo è vero: mentre sento gli altrui patimenti, sento distrarsi il mio patire : compatisco, ma degno di esser compatito: consolo, ma bisognoso di esser consolato. Scrivo, ma con lagrime più che con inchiostro ; ed avvertisco eh’ essendo quella malattia (per quanto mi descrivono) non altro che malenconia , non accrescano con le scamonee maggior afflizione al-1 afflitta; che procurino, col rallegrarla, di sanarla; che provino, con la diversità del clima, a divertir la qualità dell’ umore. Il cangiar paese per aere alla complessione più accomodato, o per vivere al genio più confacente, è ottimo remedio, perch’ è facile e sicuro. Il fondar sopra la medicina e pessimo, perchè il fondamento su l’incerto è malagevole e pericoloso. Il mestiere de’ medici, perchè disegna su la congettura, edifica nella fallacia. Valevole e quell aiuto che conseguiamo dalle opre della natura ; fievole è quel soccorso che mendichiamo dalle industrie dell’ arte. In questo tenore a mia moglie ed a mio figlio io faccio prediche. E per quella salute al cielo io fo preghiere, per la quale io prego loro a far diligenze. Le diligenze umane è ragione che s’incontrino, per quanto le grazie divine anco si aspettino. Parrebbe un impedirle nel desiderarle, se per invocar il favore dalla prima causa si rifiutasse l’uso delle seconde. Iddio vuole che per lo mezzo de’ mezzi pervegniamo al nostro fine ; — 434 — il quale in questo caso io spero conforme a quel che desidero. Nè il mio desiderio è inferiore per affetto a quel di Francesco Maria, che di moglie sì amorosa e per sua buona sorte sì amorevole marito. 22. 23. Mercordì e Giovedì, quelle poche ore, benche interrotte, che potei rubare a’ miei negozi, diedi, com è mio solito, a questi scritti, fatti più tosto per divertimento di cruccio, e per sodisfacimento di capriccio, che per compiacimento di studio. Non ho pur un sol momento per istudiare, nè ho pur un sol libro per leggere. La riuscita dell’opra testifica la fretta del lavoro. Sia qui protestato insino al fine: io non sono per ìscu-sare di errori dello stile, nè sono per sostenere i difetti della reminiscenza. Gli anni mi tolgono la memoria, gli affanni m’involano l’intelletto. 24. Venerdì, fui trattenuto sempre in casa da visite e da brighe. L’assedio delle cure guasta i sentieri al core. Imperciocché l’occupazione del vigor mentale è oppressione della potenza vitale : quindi è che la malattia del-r animo toglie la sanità del corpo. Ed io che dalla continua più che profittevole, anzi non men dannosa che sollecita mia fatica mi sento per consumo di spinti e per cumulo di umori già infermato, propongo a me stesso, per alcuna emenda de' miei crucci, alcune ore di vacanza a miei negozi; ed eleggo per mio diporto il mio riposo. 25. Sabbato, che sin dal suo primo giorno fu destinato in giorno della requie, eleggo per medico al mio travaglio. In tutte infermità dell’animo la più efficace medicina è la dimenticanza. Questa si compra dall’assenza. Per comprarla mi allontano da questa mia casa, - 435 — fatta albergo di guai : esco dalla città, nido di affanni : lascio addietro alle mie spalle e curie e cure: m’imbarco in preparata feluca : tosto costeggio Posilipo, e rubo con gli occhi gli smeraldi di quelle colline, prima che dal sole siano legati in oro. Lo spuntar del sole mi trova nello spuntar il capo della Gaiola. Circondo coi lenti remi quel brieve giro che circonda Nisida, alla verd ombra delle cui falde pareva che tacito il flutto solamente tanto si avvicinasse, quanto gli facea di bisogno per baciar alla vaga isoletta gli arenosi piedi. Sonnacchiosi nelle grotte loro i venti dormivano : solamente quelle vergini aurette si erano destate, che col ventilar delle sottilissime lor ali poterono dar lo spirito al fresco, tór 1’ ardire al caldo. Non parea mare il mare; mi pareva una tela azzurrina tessuta in fila d’argento, che quasi dispiegato lenzuolo fosse adattata per coprire, più tosto che per bagnare al maritimo seno 1’increspato letto. D’ ogni intorno a queste spiaggie vediam le turbe de’ pescatori strascinar a questo asciutto lido, da quell’umido letto, la minuta plebe del popolo guizzante, dentro a lunghe e lunate reti incamerata. Là osserviamo uno che dalla bassa poppa di sua piccola barchetta, scorto in quelle acquose strade viatore il pesce Lupo, emulo di Nettuno impugna acutissimo tridente, onde infilzato lo tragge dagli abissi, e prima di lasciarlo nell’aria respirare gli toglie l’aria dell’alito spirante. Là miriamo un altro, che su la punta di sollevati sassi immobilito, altro non rasseinbra che scoglio sopra scoglio, così fiso sta in quell’acqua stagnante, e così pendente sta da quel sottilissimo filo che pende da incurvata e tremola cannuccia, ond’ egli fa preda della bianca Orata, — 4 3é — che inavveduta dell’amo, famelica dell’esca, mentre spalanca le fauci al cibo lusinghiero, inghiotte col cibo la morte. Da quella parte spinge a forza di due soli emuli intieri remi lo sguernito palischermo il povero Amiclate ( i), che si pare arricchito, perchè dentro alle nasse ch egli vigorosamente rimorchia, per sua fortuna ha rinchiuso la nobil Triglia, che tesoro del mare, se di porpore vestita, d' arene d’oro è tesoriera. Da quell altra, non men accorto che infelice Tifi, or a sè traendo, or da sè allontanando del marinaro battello il debole timone, or a poggia ed or ad orza lo raggira, ove più folti vede galleggiare i neri Cefali, perchè nel giro di lanciato riz-zaglio circondati gl’imprigioni. Da questi alquanto separato stassi un altro, che per lo sgocciolar del volto e per lo sprizzar del mare tutto grondante si affatica dalla proda dello schifo ad invogliar nel paniere il lungo filo, da cui quelle altre fila son tirate, ove appeso già sente il Dentice argentato, e che già scorge coi baleni delle sue squamme a guisa di luna imbiancar 1’ azzurro di quell’ onde. Altri della marinara ciurma nelle seccagne col ghiaccio (2), altri nelle grotte con la vangaiuola, ferma il lubrico passo ai muti peregrini. Chi le sponde a quei promontorii impoverisce, furando a’ lor muscosi erarii l’Ostriche imperlate. Chi frugando in quelle tane con spuntato cortellino distacca (1) D’ Amic'a; e par che intenda d’ un pescatore della marina di Gaeta; poiché Amicla, oggi distrutta, era stata edificata tra Gaeta e Terracina, nel luogo poi detto le Spelonche, famoso nella storia romana per 1’ atto di coraggio che valse a Seiano il favor di Tiberio. (21 Per agghiaccio, specie di rete; cosi poc’anzi ha scritto rizzaglio, oggi rezzuola. - 437 - dalla materna pietra le Conchiglie saporose. Chi con minor profitto e con maggior affanno, quasi smergo del mare, si attuffa, là ’ve da quei liquidi vetri scorge spinoso rotolarsi per l’aliga l’Echino. E chi più faticoso da nerborute braccia fa cader mazza di ferro, onde infranto il duro scoglio, questi in guisa di pigna renda a lui per pignoli i Datteri marini. Questa fu la veduta pescagione in questo sito. Da questo, per vederne altra maggiore, più avanti navighiamo. Stavano poco lunge da questi, quelli ordigni nella turchina pianura apparecchiati, che di grosse funi per reti, e di numerose barchette per argini, alla caccia de’ Tonni sono orditi. I Tonni, in mostruose truppe veloci nuotatori, tosto che sono a quel fraudolente passo pervenuti, quivi per una solo apertura valicati, per alcuni segreti nascondigli di quella fabbrica s’ intricano, ed intricati in angustissimo laghetto si ristringono ; poscia dalle sponde delle reti agli argini delle barche sostenuti, apprestano al ferro altrui macello delle proprie carni, che diffondendo al mare un mar di sangue, empiono i vascelli pescatori di copiosa preda, e colmano gli occhi spettatori d’incomparabile solazzo. Mentre noi in queste leggiadre vedute ci fermiamo, non si ferma però nel suo corso il sole ; ma già passata egli ha la metà della sua meta. Affrettiam perciò il ritorno ove il ristoro al nostro accresciuto appetito stava apparecchiato. Diamo il tergo a Pozzuoli, presso al quale di quell’arido monte le cerulee fiamme, le pallide ceneri e i solfurei vomiti osservammo. Indi all’ albergo della Peschiera (così appellata la casa, già del Duca di Sant’Agata, ed ora dell’Abate Tramontano) ci condussimo. — 438 — Dopo le tavole ripigliamo il nostro acquatico passeggio, non mai sazii, nè men stanchi, nel goder le delizie di quelle rive, in questo tempo al mio senso tanto più fatte piacevoli, quanto maggiormente dal cessato concorso solitarie. Non vi è strepito che impedisca il suono che ci accompagna. Abbiam l’armonia di Musico sì gentile, che in tutt’oggi, credutolo Arione, il seguono i delfini. Fuggono dai delfini i pesci, e nel fuggire in tutt oggi ne vengono a trovare. 26. Domenica, nel mattino a Palazzo per faccende: - • • per le medesime, nel rimanente, in casa. Non tutti 1 giorni possono pretendersi lieti. Non è poco fra molti averne pochi........................ 27. Lunedì, visito il Commissario Pallavicino, che ritornato da Messina ed inviato a Genova in tempo che il ritorno di lui non era anco aspettato, rese credibile che da contrario soffio più che da vento in vela fosse risospinto. Dicono che mentre la nostra Capitana con le altre compagne galee dentro a quel porto, appresso la porta del Palazzo, non mica per negozi della Repubblica Serenissima, bensì per servigi della Cattolica Maestà, su 1’ ancora dimoravano, supraggiunta la squadra di Malta pretese il luogo della nostra. La pretensione di lei, non so da qual superbia cresciuta, da tutte le ragioni aborrita, e da tutti gli esempi esclusa, vien dal Signor Duca di Alcalà, Viceré in quell’isola, approvata; anzi tanto veementemente favorita, che nell’ estimazione dell altrui pos sanza fece conoscere di conoscer poco la nostra giustizia. Se pur la conobbe, non la stimò, e diede a divedere quanto sia meglio il farsi stimare che amare; perchè dalla stima vien 1’ ossequio, ove dalla famigliarità nasce il dispregio. — 439 — Sarebbe sempre agevole in casa propria il tórre il diritto alti ui, onde squarciata ogni legge di ospitalità non sarebbe poi chi si fidasse a forastieri ospizi, se da’ padroni della casa non si avvertisse che l’onore non è dell onorato ma dell’ onorante, e che mentre si dorme affidato dall altrui vigilanza è ingiuria del guardante o o o ogni offesa nel guardato. Ma stolido chi si confida in queste guardie ! Siamo adesso in tempi, ove i prencipi più saggi stimano di far assai facendo niente. Lo stringer gli occhi e lasciar correre chiamano la scorta del lor vivere. E Dio voglia che col girar degl’ anni non siam già ritornati a quei secoli malvagi di Nerone, quibus inertia pro sapientia fuit (Tacito). Si querelano i nostri, in questa occasione, di questa novità: si protestano, in questo luogo, di questo aggravio: mostrano che, sì come poteva a meno il superiore di pagar ciò che è dovuto al nostro merito, così non poteva a meno di mantenerci il già fatto pagamento; che la prima sodisfazione, benché fatta per giustizia, poteva anco chiamarsi azione di cortesia, onde conviene anco aver debito chi paga il debito; ma il ripigliarsi quel che non era più in sua mano di conferire, non poteva esser senza macchia della sua reputazione privata; mentre toglieva la reputazione alla fede pubblica. Qui non si trattava più di darne il posto, ma di levamelo. E per non lasciarselo levar da altri che da quel medesimo che lo diede, i nostri alle parole aggiungon l’opre; si pongono in ordine di battaglia: benché a’ Maltesi inferiori per numero, uguali nulla di meno per animo, si dichiarano di voler prima combattere che cedere. Ma qual forza ha luogo, ove ha luogo maggior forza ? - 44° — Comanda chi comanda. Sì come fu prudenza lasciar il contrasto, così fu necessità lasciar il posto. E scacciato, per dir così, dall’altrui casa, porta il nostro stendardo il retolo (i) dal Casa: « tolsemi antico bene invidia nova ». In questa pratica io vorrei pur dar licenza alla mia penna di scrivere l’ottime ragioni della mia Patria. Ma due rispetti impongono silenzio al mio discorso. Il raccontare cose già note non potrebb’ essere senza il biasimo dell ampollosità ; mentre non potrei rammentare il tatto pubblico con silenzio del fatto proprio. Ognun sa quel che nell’anno 1620 (2), essendo io Generale per la nostra Serenissima Reppublica, per questa somigliante faccenda in questa istessa Corte mi accadde. Ne parlano le cedule del Re, le lettere di tutti i Regii suoi ministri, e, quel eh’ a me rilieva, i crediti de’ Serenissimi Collegii, che conservo: onde, se le approvazioni del passato possono esser guida all’avvenire, non può essere che possa più nessuno errare. . ................ Già sanno i Genovesi le gare de’ Maltesi, e le inclinazioni de’ Spagnoli. Il mandar le nostre galee in questi Fari aveva del considerabile: lo scusarsi dal mandarle, in questi tempi, aveva del lodevole. Imperciocché 1 e-sporsi a contrastar con le armi quel che si possiede con le ragioni, non è buon partito per la Repubblica nostra, (1) Questa voce mi giunge nuova; forse è foggiata dal Nostro, traendola dal r/tuli latino, con significato di riferto, recato in esempio, in proverbio, in sentenza, e simili. (2) La memoria, se ben di poco, ha tradito l’Autore. Il suo Generalato delle galee nel viaggio di Messina è del 1619. Si veda la relazione del dissidio col Gran Priore di Castiglia nel primo fascicolo di questo Volume, a pag. 165. - 441 — alla prudenza della quale si appartiene il conservare, e perciò il non avventurare la dignità. Le armi si sfoderano colà dove per mancamento di ragioni si tentano gli acquisti: i cimenti si fuggono dove l’incertezza del-t evento assicura la perdita della reputazione. Dico che 1 assicura, perchè la reputazione posta in dubbio non può finire con guadagno, mentre non può cominciare senza perdita. La scusa nel vietar le nostre forze all’altrui pompa, mentre sono necessarie alla nostra difesa ; il negarle alla novità degli altrui contorni, mentre importano alla sicurezza de’ nostri lidi, parea veramente tanto più francamente da eleggersi da noi, quanto più ragionevolmente era da aggradirsi da quelli, la difesa de’ quali va tanto congiunta con la nostra. Questo fondamento, tanto vero quanto conosciuto, potea pur darsi alla nostra fabrica. Col risparmio del danaro potea pur farsi guadagno del- 1 incomodo; anzi col guadagno dell’incomodo potea pur farsi usura dell’ onore. Gran parte dell’ onor proprio consiste nella stima altrui. Non ci dogliamo di non essere stimati, quando noi non ci stimiamo. Non ci crediamo che già debba esser tenuto molto conto di quel che noi teniamo in poco grado. Ove non si mostra risoluzione per negare quel che non si può concedere, bisogna tener proponimento per concedere quel che si dovrebbe negare; perchè la cortesia dispensata fuor di tempo vien col tempo a farsi debito, e la prodiga amicizia viene a chiamarsi servitù (i). (i) Acuto pensiero, e felicemente espresso. Gian Vincenzo mostra in questi suoi Giornali di aver ben conosciuta la debolezza politica della sua Repubblica, sebbene qua e là da buon figlio si adoperi in ogni modo a dissimularla. Qui poi Atti Soo. Lio, St. 1’atria, Voi, XXIX, Fase. II. — 442 — Saranno stimabili quelle azioni che faremo per accuratezza; saranno ridicole quelle che faremo per usanza. Non quel che si vuole, ma quel che si deve, si ha da fare. Quel concetto del non innovare, oh quanti fa perire ! i quali, nel maggior uopo, veteribus etiam quae usus evidenter arguit stare malunt (Tacito). La dolcissima libertà delle Repubbliche sempre fu accompagnata dall’ amarissimo fiele dell’ insidia; in quella guisa appuunto che seguitate e perseguitate sempre sono, la ricchezza dalla malevolenza, la virtù dall’invidia, la grazia dalla nemistà. Io, che son qui lontano dalla mia città, nè posso penetrare ai motivi de’ miei cittadini, sì come mi assicuro che tutti son saggi quei concetti che nascono da loro, così vorrei potermi assicurare che tutti i lor motivi siano stati parti de' loro concetti. Chi sa? chi sa che dall’ altrui promesse non siano state tradite le nostre speranze? Non sarebbero queste già le prime lusinghe di quelle Circi che invitano gli Ulissi ad urtar ne' loro scogli. Oh se questo fosse pur vero, quanto si aumenterebbe il mio cordoglio, pensando quanto lor si debban ridere nel veder come ci ha danneggiato più la vergogna di aver ceduto, che non ci avrebbe offeso il danno di aver contrastato ! consiglia giusto, e col desiderio che i consigli vadano a destinazione. Noto che i Giornali, quantunque indirizzati ad Agapito Centurione in guisa di note familiari, appariscono da più d’ un luogo fatti per esser letti da più numerosa classe di ottimati. Furono letti ? O come scrive parlò egli nei Serenissimi Collegi ? Forse 1’ una cosa e 1’ altra avvenne. E non sarebbe da stupire se da questo cosi schietto parlare, e da vero uomo di stato, avessero preso origine le ire che poco meno di due anni dopo divamparono contro di lui, cogliendo il primo pretesto per fargli processo, senza chiamarlo in giudizio, e mandarlo in esilio senza volerlo ascoltare. Con che, m’immagino, si sarà fatto anche piacere a due Corti di quel tempo. — 443 — Orsu, ella è fatta. Chi 1’ ha fatta si ha creduto farla bene. 11 bene è lo scopo dell’ intelletto: se talora il fallisce di mira, è perchè 1’ affetto della opinione, col tener aperto 1 occhio della volontà, stringe lo sguardo della mente. E poi (vaglia a dire il vero) questi tali avvenimenti sono il più delle volte colpi di fortuna; la quale altro non essendo che un caso, o un concorso d’accidenti succeduti a caso, perchè vengono oltre 1’ aspettazione dell’operante, non può esserne incolpata l’opra. Sarebbe egli la prima volta ch’abbiam verificata la sentenza : Et quae tibi putaris prima in experiendo repudias? (Terenzio). Finiamola. Tanto oggidì par lecita 1’ ingiuria, quanto la violenza par divenuta usanza. A noi, per nostro rifacimento, giovi l’altrui rinfacciamento ; e per emenda al danno presente vaglia il fuggirlo per 1’ avvenire. Per amor di Dio, non ci pogniamo in spesa per comprarne indignità; non facciam che i decreti prevagliano alle leggi ; non consentiamo che la nostra giustizia si assoggetti all’altrui sentenza: la quale, per quanto ne’ tempi andati sia stata favorevole per noi, ne’ tempi moderni pur troppo è contraria, mentre è dubbia. « Dubiam salutem qui dat afflictis, negat (Seneca). Ma il non averla favorevole, fa che l’abbiamo in favore. Non dico più : m’ immagino di essere inteso. A chi potrà importare la nostra compagnia dovrà importare la nostra reputazione. Non è nostra reputazione il litigare con argomenti quella differenza eh’ ab-biam vinta coi possessi. Facciansi attori quei contrarii che pretendono il contrario. E mentre S. M. Cattolica forse avrà mire in questo maneggio, che quanto più — 444 — dagli anni è fatto vecchio, tanto più dalla stanchezza è fatto comodo all’accomodo, noi, lasciando a lor senno gli altri nella fatica, dovremo a più potere ricoverarci nella quete, e ricordarci che dalla celebre antichità, quei cittadini i quali assicuravano l’ozio della patria, erano collocati nel catalogo degli Dei. 28. Nel Martedì (senz’ altro dire) il solito scrivere mi tenne nel solito operare. 29. Mercordì, nella chiesa degli Angioli festeggio per la solennità del grande Arcangiolo. Oh se all anima mia fossero imprestate alcune di quelle penne che armano il virgineo tergo al campione alato, come, come vorrebbe ella, di passibile fatta gloriosa, per la pura strada dell’ etereo latte camminando a volo tosto solle varsi col pensiero ove non arriva col guardo !........ 30. Giovedì, me ne sto continuamente racchiuso nel mio casino, coi miei papeli, e molto più racchiuso dentro a me stesso coi miei pensieri. Mi è a tale effetto neces saria la gelosa guardia che tengo alle mie porte, contro orli assalti di coloro che non pur frequentemente, ma sfacciatamente, per loro interessi guerreggiano 1 miei comodi. ~ 445 VI. Ottobre. — Brighe continue. — Una questione cavalleresca. — Dalla guerra alla pace. — Ricordo di Lepanto. — Sonetto a San Francesco. - Il cardinale Giannettino Doria. Milizia e diplomazia. — Le mura di Genova. — Considerazioni strategiche. — La prima pietra. — Opera contrastata — Ambrogio Spinola alla riscossa. — Le liti eterne. — Il cugino ammalato. — Filosofi e poeti. — I soldati del principe d’Ascoli. — Malori e tristezze. — Poggio Reale. — 11 vescovo di Nusco. — Noie in Tribunale. — A Capodichino. — La festa della vendemmia. i. Ottobre questa volta se n’entra in Venerdì, giorno di croci. Ma che dico? Ogni giorno per me sarebbe di Venerdì. E qual è quell’attimo, nel quale, inchiodato dalle mie cure, non mi trovi crocifisso dalle mie sventure? Oggi non mi parto dallo scrivere a quelle parti, ove la compra di quei popoli tiene occupata gran parte de’ miei pensieri. Le brighe continue per l’altrui governo, datesi mano con le faccende moleste per lo mio pagamento, mi opprimono ormai le forze in guisa tale, che già mi par di vederle, sotto il gagliardo peso delle occupazioni accresciute, per languidezza di vigor animale indebolite............ 2 Sabbato fu annuvolato da certa pratica fra ’l Principe di Sanz e me, la quale per poco mancò che dai biliosi vapori nella region dell’ ira condensati non piovesse grandini di risse. Lode a Dio, la grandine fa romore sopra i tetti, ma non li rompe...........Nar- — 446 — rerò il fatto ; giacche in questi miei fogli mi sono obligato a raccontar tutti i miei fatti. Ebbi nel preceduto giovedì per due volte il detto Prencipe a cercarmi. Ebb’io tali faccende, che a nessuno permisero il vedermi. Egli si stimò offeso per non esser da’ miei stato intro dotto, lo mi stimai scusato per non esserne stato avvertito. Mentr' io mi preparo alle giustificazioni, egli S1 arma alle accuse. Gl’ impeti della sua collera immobili-scono gli atti della mia cortesia. Perchè, ritornato ier sera alla porta della mia casa, circondato da apparecchiata comitiva, esagera (però fuori dalla soglia) la pretesa ingiuria, e prorompendo, all’ udita de miei palafrenieri, uno di quelli si elegge in nunzio della formidabile sua stizza .......... Questi, che or mi tratta da nemico, mi si mostrò sempre domestico. Sia pur come si voglia : di quella moneta che imborso io fo lo sborso. Nel ricever 1 ambasciata di lui, poich’ egli era di già partito, mi appiglio a tal partito: scelgo uno de' miei famigli, e per la bocca di costui fo subito penetrare all orecchio del corrucciato signore qual fosse il mio pensiere prima ch io sapessi il suo, cioè di sodisfar con scuse al credito della sua visita e al debito della mia creanza ; ma che, cimentato a passar da’ termini dell’ amore agli offici dello sdegno, gli avrei fatto provare come la mia vecchia età non mi raffredda ancor talmente il sangue, che per debolezza di spiriti sia per tollerar imagini di bravure ; che avesse per massima che sì come mi glorio di servir a coloro che si onorano della mia amistà, così mi vergognerei a non mi risentire contro chi per troppo presumere non mi sapesse molto rispettare; e finalmente - 447 “ che non imaginasse, nel vedermi male in gambe, eh’ io non possa stare in piedi, perchè anzi ad ogni cenno la mia muletta (i) cede il braccio alla mia spada. Questa fu la mia proposta, in risposta della sua. Da questo ardito cavaliere sto attendendo io quella corrispondenza che per puntiglio di cavalleria veniva di conseguenza. Ma il magnanimo Signore, desideroso di mostrarsi possessore non men della temperanza da vecchio che della animosità da giovane, nella maggior sua collera diede segni della sua quiete. Suol fare 1’ istesso ancora il mare, negli orgogli repentini sì possente, e nei suoi flutti ondosi tanto formidabile; perchè quando più gonfio par che nelle sue voragini sia per divorare il lido, dallo stesso lido umiliato e franto in poca spuma si dissolve. A questo Principe bastò 1’ essersi dichiarato che non mi voleva bene, ma che mi amava. Abbia qui luogo questo scherzo, tolto dalla definizione di quei filosofi, che l’amare dal voler bene distinguendo, scrissero che ordinariamente chi vuol bene non fa 1’ amore con gli altrui beni, ma chi ama, principalmente ama per fruire della cosa amata. Prima che questo giorno vada a coricarsi nell’ albergo della notte, egli nell’ albergo mio riportò il sole del suo volto, più sereno che mai. Ond’ io respirando nella inaspettata bonaccia, mentre stava ancora dubbioso per la passata procella, nel miglior modo che seppi caramente accolsi ed umilmente riverii questo moderno compositore d’ inusitate maraviglie, che nella strana lor comparsa mi (i) Muletta, forse usato qui per mula, pantofola, in corrispondenza d’immagine col suo star male in gambe. Ma perchè cede il braccio? l orse voleva scrivere cede il passo, il luogo. — 448 — rammentarono quella tal novità del tempo antico, della quale fu detto : Parturient montes, nascetur ridiculus mus. Quindi incontinente mi spinsi a render a lui, con la visita in casa, la corrispondenza in complimento. Piaccia a Dio che prima 1’ ultima delle tre Parche tagli lo stame alla nostra vita, che nuovo sdegno tronchi il filo alla nostra amicizia; ch’io per me a tale effetto son t t \ risolutissimo di menzionarmi a lui per lo avvenire più tosto servidore che compagno. Non bene coire solet semel recisa concordia. 3. Domenica, di questo mese prima festa tra le domeniche, e prima tra le feste dell’ ordine di S. Domenico, con ciò sia cosa che in questo giorno, che alla riverenza del sagratissimo Rosario è dedicato, la menzione di quel gran giorno venga riverita, nel quale già ne mari En-chinadi (1) 1’ armata cristiana con la turchesca vigorosamente azzuffatasi, per favore del nostro celeste Ammiraglio, dalla Santissima Vergine sua madre supplicato, de’ Barbari nemici, benché in numero superiori, superata sanguinosa battaglia, riportò miracolosa vittoria . . ■ • Non parto di chiesa, in questa mattina; parto bensì di casa, dopo il desinare, non per altro che per visitare. Le mie visite oggi sono al Commissario Pallavicino, a Stefano Marini, a Tobia Spinola ed a Gio: Battista Gentile, che tutti, non senza mia grand’ invidia, s inviano alla Patria. Termino quindi la giornata spasseggiando col Prencipe di Piombino e col Chiaromonte ; tutti noi vagheggiatori di tutte le principali contrade di questa (i) Echinadi, le moderne Curzolari, piccole isole sulle coste dell Albania, all’ingresso del golfo di Patrasso. Nelle lor vicinanze si diede, l’anno 15 71 » famosa batuglia navale, detta anche di Lepanto. — 449 — città; le quali in questa solennità si fanno vedere, con processioni, con apparati, con luminare e con musiche, da pomposa maestà di universal devoziope devotamente infastosite. 4. Lunedì tutto quanto sagrificai nel tempio de’ PP. Franciscani riformati, il quale è consagrato alla regola dell’ angelico loro fondatore. Quivi per tanto impiego la mia festa per la festività corrente di questo mio singolarissimo protettore. Mi eleggo il monastero della Croce da Palazzo, perchè 1’ eminenza del suo poggio suggerisce la meditazione della Croce dal Serafico ottenuta, sì come dell’ Averna (1) ove 1’ ottenne.............. 0 vittorioso Francesco, che così bene hai saputo servir Dio, fa eh’ io sappia servir te, acciò che la mia volontà, se non la mia servitù, m’impetri la tua padrinanza, e la tua intercessione mi ottenga la divina grazia. E per ora consentimi, che come suol vassallo al suo Signore, tributario al tuo gran nome ti appresenti questo rimato memoriale, che dalla penna devota, benché già logora, della decrepita mia Musa, più sul foglio di questo core, che sul core di questo foglio è stata scritta. A FRANCESCO SANTO Imprecazione. Tu che cenere il manto, e foco il core, Spregiataci di spine hai nude piante, E d’ Averno splendor, d’ Averno orrore Per levar me da error sei fatto errante ; (i) Il monte dell’ Alvernia, 0 della Vernia. Ma la forma « Averna »> giova al nostro Gian Vincenzo per un suo giuoco di parole: « Averna terror d’ Averno » nella lunga digressione divota che per le solite ragioni dello spazio son costretto a sopprimere, solo conservandone la chiusa e il sonetto, ove quel contrapposto è ripetuto. V — 450 — Tu scocca nel mio giel l’arco d’ardore (i) Ond’or sei saettato, or saettante; E s’ hai le piaghe del piagato Amore, Me del piagato Amor fa piaga amante. Tu sol mendichi aita, e rechi aito, Tu eh’in dar pan altrui movi a te guerra, Tu me togli da guerra, e dona a vita. Tu me disciolto entro a’ tuoi groppi ah serra; Tu me sviato a’ tuoi sentieri invita; Tu m’ alza in del quant’ or ti abbassi in terra. 5. Martedì fu da me trascorso, per una parte sotto l’invecchiato carico dell’ordinario mio scrivere, e per un’ altra sotto 'il mio novo giogo de’ miei novi avvocati, che scelti in supplemento degli antichi, pur con la necessità dell’informazione coprono la mendicità della fatica. In fine, si mostrano in questo principio esser tanto poveri nell’ opra, quanto furono già quelli penuriosi nella diligenza. Dio me la mandi buona: in quanto a me, vo dubitando, che tutti possano ugualmente darsi mano, e tutti ugualmente possano cantare ad una voce : guardatevi, « Che tutti siam macchiati d’ una pece » (Petrarca). 6. Mercordì, confesso per mia poca abilità, mia grande occupazione. In tutt’ oggi ad altro non dò mano eh alla scrittura che qui viene al piede. Questa è pagamento di un debito, al quale il Sig. Cardinale Doria mi obligò. Seppe Sua Eminenza che le mura di Genova erano a tal segno, eh’ ormai di noi può dirsi col Poeta : O fortunati quorum jam moenia surgunt (Vergilio). E seppe che si come io non fui degli ultimi nel proporre alla fi) 11 gusto del tempo vorrebbe qui a dardo d’ardore »; e forse questa imagine si affacciò per la prima alla mente del poeta; altra ragione persuadendolo poi a mutar il dardo in arco. — 45i — nostra Città il pensiero di fortificarsi, cosi fui tra’ primi a quali il medesimo pensiero fu raccomandato. Mi glorio di esser stato sempre conosciuto tra’ primi per affetto, per quanto possa esser stato conosciuto fra gli ultimi per merito. L essermi stato nel 1625 prima Capitano di Polcevera, poi Governatore di quelle armi in quella valle, che al formidabile aspetto dell’ inaspettato nemico (1), nel mezzo alle confusioni mi fu necessario in ogni momento prendere o cambiare risoluzioni, mi fece imparare come sia stimabile quella fortezza per ragion di sito, che porge comodità a quell’apparecchio, eh’ è necessario per ragion di guerra. L’ avermi indi la mia patria spedito ambasciatore al Governatore di Milano (2), perchè della diligenza mia stimolata 1’ assistenza di lui, sortissero in campagna contro i nemici comuni quelle armi de’ suoi stati, dalle quali i nostri s’ invigorissero, mi fece sperimentare, non che udire, ciò che non avendo mai sentito nè creduto, potè negli altrui discorsi maturare i miei concetti. Il ritrovarmi poscia nel 1626 fra ’l numero de’ Serenissimi Collegi, in vece della spada ornato della toga, (1) Le genti del Duca di Savoia. Di questi uffici in Polcevera non è cenno nelle relazioni di viaggi della prima parte di questo Volume; onde la importanza di questo passo, ad arricchire, se non a completare, lo stato di servizio, il cursus honorum, di Gian Vincenzo Imperiale. (2) Vedasi la relazione VII della parte prima, a pagina 227, dov’ è raccontato il viaggio, senza spiegarne il movente. Per altro, quella relazione è del 1623 ; qui, invece, parrebbe esser stato il viaggio del 1625, dopo il governo delle armi in Polcevera. Non ho modo di conciliare questa differenza di date: mi par tuttavia che il 5 dell’ ultima sia corso per errore di penna, od anche di memoria, come gli avvenne piti su, ricordando la spedizione delle galee gemvesi a Messina. — 452 — i • * * sì come mi apportò comodità di fomentare negli animi di quei Padri la deliberazione della sicurezza de lor figliuoli, così mi somministrò la dignità non meritata, di modellar quei mezzi che si rendevano non men difilati che desiderabili a tale intento. 11 tutto al mio Cardinale era palese. Pertanto, giudicandomi atto a palesare a lui dal principio il ^ne questa eroica nostra impresa, della quale in Palermo, ov egli Arcivescovo risiede, sentiva da tutti (fuor che dagl invidiosi o dai maligni) esegerar le maraviglie» me ne impose il raccontamento, eh’ oggi gl’ invio con questa lettera : « All’ Eminentissimo Signor, il Signor Cardinal Doria » Palermo » Eminentissimo Signore, > Vostra Eminenza, che ha l’onore di veder nata nella sua Casa la libertà della sua Patria, con ragione ha il contento di sentir cresciuta nella sua Patria la sicurezza della istessa libertà. Perchè a paro delle statue dirizzate a’ nostri maggiori, il mantenimento della nostra gloria mantiene i privilegi della nostra fama. Ho scritto quel che 1’ Em. Vostra mi ha imposto: ma questo mio scritto, che avrebbe ambizione di esser letto, se fosse degno del vostro guardo, ha spavento di comparirvi avanti, non sentendosi forte al vostro giudizio. Ricorre perciò più all’abondanza della vostra benignità, eh’ all’ e-minenza del vostro senno ; e vi supplico più tosto a mirar quel molto che ha fatto la Repubblica, che quel - 453 - poco che ne ha ritratto la penna. Così la sodisfazione dell’ opra emenderà la noia della scrittura. » Da Napoli, 6 di Ottobre, 1633. » Devotissimo Servitore e Cugino Gio: Vincenzo Imperiale ». « Per cento e più anni il nostro Giano avea con chiavi di pace tenuto chiuso il tempio della guerra ; onde arrugginite le spade nei foderi, e impolverati gli elmi sulle rastrelliere, tutta la fatica rimasta era a quei ragni, che tra questi e quelle, con le filate viscere, per coperta fabricavano la tela. All’ ombra delle olive godeva ognuno il frutto delle palme : non vegliava pensiero che bellicoso ardisse risvegliar il sonno: tra gli agi della quiete sollazzavano le menti, alle quali, come che 1’ innocenza apporti sicurezza, era troppo difficile il sospettar ch’altri mai ne avesse a offendere. Ma che? girano i cieli e fanno alfin conoscere che di sotto a’ lor giri non è cosa che riposi. Hanno gli accidenti del mondo le vicende, ed hanno gli atti de’ mondani le mutazioni. Sì come dal travaglio si cagiona l’ozio, così dall’ozio si pronostica il travaglio. Egli è ragione passar la vita con speranza di bene : ma non si passa bene se la speranza non vien limitata dalla paura. Perchè alla fine « L’infinita speranza uccide altrui » (Petrarca). » Chi non teme il pericolo v’ incappa. Questa volta il risico si fa conoscere dal danno: ma il danno di questa volta ripara al risico di un’ altra. Il perchè Genova , tanto nell’ angustie avveduta, quanto ne’ travagli invigorita, già scorge come quell istessi monti che la circondano sono quelli che 1’ assediano : già vede quelli — 454 — per 1’ offesa, che già stimava per la difesa, conciossiachè, se la signoreggiano per altezza, l’occupano per vicinanza; onde, se da qualche parte sono accomodati all’ artellaria, in qualche altra son comodi alla fromba. » Questi monti circonvicini mostra Genova a suoi cittadini. E da questi, quei della Bocchetta e di Savi-gnone loro addita, di ove in un salto potevano patir questi l’assalto. Le imagini formidabili stampate nella mente, perchè mal si scancellano nella memoria, in tal guisa vivaci si presentano alla fantasia, che nel rimembrare si avvisa di rivedere. Nel mirar quei monti stima ancor l'occhio di vederli, come dianzi pur vide, così per accampate schiere popolati, che pareva non potessero più sostenere il peso degli armati, allorché in nostra rovina di duo eserciti si fece uno, e non meno valevoli per la forza, che spaventevoli per l’empietà, quando alle insegne del Duca Savoiardo si accompagnarono le bandiere Francesi. Onde fu chi raccordandosi di quel che altrove avea già letto, al paro di quel che quivi avea veduto, quei versi applicò a quei monti : Hic Dolopum manus, hic saevus tendebat Achilles; Classibus hic locus, hic acies certare solebant. (Vergilio). > Egli è tutt’ uno il mostrare all’ occhio quel sito che dai nemici è abbandonato, e l’insegnar all’ intelletto quel sito che non deve dagli amici abbandonarsi. Con la potenza visiva l’intellettiva corre ad unirsi, ed in questa considerazione vengono ad aggiustarsi, che il nostro paese abbia di alcun riparo in queste costiere a provvedersi. La difesa in luogo è necessaria; ogni altra, o — 455 — \ iene dannata, o non par utile. Imperciocché, se bene è vero che 1’ impedire, o almeno il trattenere al nemico la venuta è massima di buon governo, egli è ancor vero che il conseguir ciò quanto bisogna, non è tanto facile a noi quanto si desidera. Si va tenendo discosto il nemico dal core dello Stato, quando ai confini dello Stato si possono tener genti, o mantener fortezza. Ma i nostri paesi con gente alla campagna molto poco si difendono, t con fortezze ai posti molto meno si riparano. » Le fortezze, o sono piccole, o sono grandi. Se sono piccole, come che siano capaci sol di poca gente, non sono stimate da numerosi assalitori; a queste, questi nemici, o danno di spalle, o danno di calcio. Se sono grandi, come che occupino persone assai, snervano per molto le forze a tutto il corpo. Le fortezze, o sono vicine, o sono lontane. Se vicine, poco operano, mentre il nemico non tengono lontano: se lontane, mal contrastano, mentre malagevolmente si soccorrono. Le fortezze, o sono di spesa intollerabile, tenendovi con un grosso presidio un capo di estimazione ; o sono di gelosia grandissima, non tenendovelo. Sono forze contro di noi quelle fortezze che sottoposte all’ insidia possono perdersi per 1’ inganno: tal che quando le fortezze non siano in luoghi tanto aperti e alle frontiere nemiche tanto esposte, che per necessità richiedano d’esser custodite, paiono più confacenti alle monarchie che alle repubbliche ; perchè, sì come dall’ autorità di quelle, con la speranza del premio e il timor del castigo si mantiene in chi serve la fedeltà, così dalla indulgenza di queste, con la speranza della clemenza e con 1’ avidità del guadagno si alletta in chi serve la fellonia. Quella è secondo me fortezza grande, — 456 - eh’ è sicura : e sicura non sarà mai quella fortezza che non è fatta al dosso di chi se ne assicura. I nostri antichi, con lo smantellar le fortezze di Castelletto e di Faro, mostrarono di aver letto in Tacito: « Potentiam cautis quam acrioribus consiliis tutius haberi ». » Le genti in campagna, o sono a piedi, o sono a cavallo. Se a cavallo, utilissime io le vedo ad ogni qualunque proposito militare, e massimamente in questi tempi, ne’ quali, sì come dalla cavalleria si riceve il maggior impeto, così dalla cavalleria si può pretendere il maggior contrasto. Nè mi dà fastidio il concetto che n’ebbe il nostro Tacito, allor che parlandone ebbe a dirne: Equestrium sane virium id proprium cito parare victoriam et cito cedere; perchè anzi, poiché con la cavalleria non si può se non far presto, non si può se non far bene. Onde, nel medesimo luogo allegato, noi vediamo la vittoria contro i Parti da Marc’ Antonio conseguita. Ma il mal del mondo si è che la cavalleria per noi non fa : il nostro territorio, troppo incomodo per lo camminare , e troppo penurioso per lo vivere, non consente che nè la cavalleria, nè il concetto di essa, possiam noi mantenere. Convien dunque lasciarlo andare. » Se della gente a piedi si ragiona, questa, o forestiera, o pur è cittadina. Se cittadina, poco ce ne possiam servire per mancamento d’esperienza : se forestiera, poco ce ne possiam promettere per difetto di confidanza. Oltre che, la gente, o è poca, o molta: s’ ella è poca, non resiste ai molti, e se ha da guardar più passi, tanto più prestamente si dilegua, quanto più diffusamente si divide: s’ella è molta, ove i siti non sono molto spaziosi offende sè stessa, prima di offendere i contrari; ove i - 457 - luoghi sono angusti e da prossime eminenze soverchiati, quel numero che dovrebbe esser di aiuto è di oppressione. Perchè, ove non capisce l’ordine, entra la confusione: onde, rotte le prime file, per penuria di ritirata pongono 1 altre in rotta, come nella perdita di Voltaggio si provò. Da cagion somigliante nacque forse la risoluzione de’ Romani, che fuor dell’ uso ebbero per meglio aspettare Annibaie nel largo del Ticino, che ostargli nello stretto delle Alpi. » Vaglia dunque a noi quest’esempio per conforto; mentre, non dovendo noi nelle fortezze confidarci, nè potendo noi degli eserciti prevalerci, nè riuscendo a noi da lontano contro gl’ inimici nostri invigorirci, possiam ricorrere per legge di prudenza ove ci spinge la norma della necessità, e tanto più volentieri unanimi figlioli dell’ amata nostra Patria dar orecchio per nostro bene a’ suoi raccordi; mentre a noi così ella dice: « O fortes pejoraque passi — Mecum saepc viri (Orazio), non mi abbandonate, se non volete mandar con voi stessi il vostro nome in abbandono. Se vi siete dimostrati forti nel patire, mostratevi magnanimi per godere. Io non posso compitamente rallegrarmi che per lo passato vi siate così virilmente difesi, se non fate in modo che non possiate per 1’ avvenire essere offesi. Avete col vostro valore già riparato alla vostra servitù ; ma non siete intieramente valorosi, fin che non stabilite la vostra libertà. Vi siete liberati dalle passate ingiurie; ma nulla avete fatto, se non vi assicurate dalle vegnenti insidie. Avete vinto dei vincitori; ond’or li motteggiate. Victorem a victo superari saepe videmus; è vero; ma chi vi promette che rincorati i motteggiati, non siano per rinfac- Atti Soc. Lio. St. Ptruu. Voi, XXIX, Fase. 11. — 458 — darvi : Quondam etiam victis redit in praecordia virtus? (Vergilio). Chi vi promette che tanto più non debbano contro di noi 1’ armi nemiche apparecchiarsi, quanto più, rotte dalla sorte, è stato a lor bisogno di partirsi? Chi vi promette che i danni riportati non siano stimoli in loro a maggior moti? Non sono mai tanto grandi gl impeti per avidità di acquisto, che via più grandi sempre mai non siano per rifacimento di perdita. Ma quando ben questo, che tanto è prossimo ad avvenire, non avesse anco a succedere, ricordatevi che non vi avete a stimar padroni della vostra città, fino a tanto che della vostra città sono padroni questi monti. O spianateli, o guerniteli. Questo è tanto agevole, quanto è quello impossibile. Fate, fate a mio modo ; procurate che questi istessi monti, che vi sono offensori per natura, vi siano bastioni per arte; cingeteli di muro, acciò, cingendo essi le vostre case, ingrandiscano in un medesmo tempo con la vostra terra la vostra gloria. Non vi avvedete che le creste delle lor cime già servono di fondamenta alla gran fabrica? Non vi accorgete eh alla oran fabbrica le valli d’ogni intorno servono per fossi ? Non toccate con mano che la natura dà mano all artificio? e che in fine ogni cosa arride a sì bel fine, eccetto se forse il tempo solo fa del contegnoso ? Ma che : ma che? se tra le angustie del tempo non v impaurì la guerra , per le angustie del tempo vi spaventerà la pace? Adesso è il tempo di contrastar col tempo. Non vi sbigottiscano gli erarii pubblici dalla guerra impoveriti ; nè le facoltà particolari da stranieri e strani decreti consumate ; che ove è unione è forza ; ov è risoluzione è opra. Non si tema di miseria, ov è for- — 459 — tezza. « Quetncumque fortem videris miserum neges > (Seneca). « A questi detti (i), ecco avvivarsi gli animi. Già si risolvono i modelli per la fabrica : già si deliberano le tasse per le spese. E già per ordine pubblico risoluto il giorno al gittar la prima pietra, vien imposto a me tutto quel che si appartiene al solenne apparato di tal giorno. Con quel minor dispendio di giorni e di danari eh’è possibile, attendo dunque a far quel che debbo, col far quel più eh’ io posso. « 11 luogo destinato fu quel di Capo di Faro, che per ugual distanza, sì come è di sotto al Monastero di S. Benigno, così è di sopra alla via della Lanterna. Quivi fatto spianare quel declive, che in tutti i modi, per fondarsi l’orecchione del primo baluardo, aveva a profondarsi, lo ridussi in una gran piazza che per due lunghe strade apriva comoda l’entrata: l’una che per la parte dell’oriente introduceva gli spettatori della gran cerimonia al gran teatro per tal occasione ivi costrutto: l’altra che per la parte dell’occidente indirizzava all’a-bissato fosso, che per eterno ricetto della prima pietra ivi era apparecchiato. « Il teatro, benché vasto, tutto quanto di massiccie tavole da doppie colonne intorniato ; da balaustrati portici ingrandito ; da rotonda cupola coverto, prima ch altri alloggiasse, alla magnificenza diede alloggio. A’ mille adornamenti, de’ quali era questa macchina abbellita, per (i) Certo con tali argomenti, se non in tutto nella medesima forma oratoria, Gian Vincenzo Imperiale sostenne il partito innanzi ai Serenissimi Collegi. L’ o-razione è fiorita, secondo lo stile del tempo; ma il ragionamento è sodo, e alcune parti, specie in fine, hanno calore di eloqu ìua vera. — 460 — ornamento questa iscrizione fu accresciuta, che nel piano del fregio tra il cornicione e l’architrave era intagliata. Di questa le parole eh’ ordinai furono queste : « Ut Libertas olim vindicata, nuper defensa, stet perpetuo secura, Respublica Genuensis urbem cingebat moenibus QUACUMQUE CINGITUR MONTIBUS. ANNO SALUTIS MDCXXVI » . < Comodamente, anzi maestosamente, l’ampio giro del tabricato circolo contenne per suo centro il sagro altare ; e per suoi fianchi i baldacchini che al Cardinale Riva-rola e al Doge Lomellino (1) sovra eminenti sedie furono apparati. Quivi passa in processione tutto il clero. arriva giubilante tutto il popolo : di tutta la nobiltà ogni spazio si riempie: da più palchi l’armonia de musici risuona: la santa messa solennissima si canta: data la benedizione dalla messa, si benedice 1 onorata pietra. In augurio di felicità ella è bianca: in pronostico di eternità è di marmo: perchè il tutto simboleggi il perfetto, nel polito seno di questa, eh’ era quadro, fece officio di cuore gran medaglia d’argento, ch’era tonda. Questa, insieme dorata e benedetta, mostrava in una faccia, scolpita in basso rilievo, 1’imagine di Nostra Signora col putto in braccio ; sotto i santi piedi alla quale stavano effigiati i ritratti di quattro santi nostri protettori. Ma ne^' 1 altra sua faccia conteneva l’arma della Serenissima Repubblica nostra, intorno alla quale erano scritti i soliti caratteri: < Dux et Gubernatores Reipublical Genuensis: anno salutis mdcxxvi ». Di sotto, poscia, 1 ) Domenico Rivarola, patrizio genovese, arcicescovo di Nazaret, creato cardinale da Paolo V, il 17 agosto i6ii, al titolo di S. Martino dei Monti. Giacomo Lomellino, eletto Doge il 16 giugno 1625. Gli successe nel giugno del i^27 Gian Luca Chiavari. — 46 r — alla medaglia feci veder queste lettere infrascritte, che tutto il rimanente di quel lapide riempierono: » DE0 . AC . DEI . MATRI D1VISQ.. IOANNI . BAPTISTAE . LAVRENTIO . GEORGIO . ET . BERNAKDO . TVTELARIBVS HINC . VNDEQVAQ.. MOENIA . MONT1BVS . APTANDA SE . SV AQ. • DICABAT VRBS . GENVA RELIGIOSA . VNANIMIS . INCONCVSSA . AN . SAL . MDCXXV1 Nello inverso al medesimo marmo, che aveva da posarsi sopra il suolo del fondamento, era intagliato : dominus . FVNDAMENTVM . MEVM. « Per far sedere la pietra nel suo luogo, si levano da sedere da’ luoghi loro il Doge e i Senatori. Il primo in dignità è il primo in ordine. Non è alcuno dei Serenissimi che con qualche atto manuale non s’impieghi a stabilirla. Tutta la nobiltà si onora di esser partecipe nel murarla. Tutta la plebe s’infastosisce nel vederla. E tutti rammentando quei mali , che furon cagione di questo bene, anzi argomentando da questo bene la sicurezza da quei mali, dalla gioia passano alla tenerezza, e l’allegrezza accompagnano col pianto. Non si sentivano altre voci che quelle delle grida, che ad una voce replicavano: « Viva la libertà, viva la patria, viva, viva >. E sì vivaci e non intermittenti furono i tuoni di queste voci, che prima arrivò all’ aria il rimbombo di questi detti, che lo strepito di quelle artellarie, le quali con replicate salve da tutto il giro delle antiche mura, e da tutta la squadra delle arrivate galee, si scaricarono. « Altro non rimaneva a fare, che eseguire ciò che si era risoluto, che continuare ciò che si era incominciato. — 4^2 — Ma ciò che si era risoluto, e vigorosamente adottato, non so come, e inaspettatamente, ecco impedito. Non voglio qui far caso se l’impedimento nasca dalla ragione o pur dal caso: dirò solamente che, ove il deliberato non si può eseguire senza prima l’opinioni universali confrontare, non è gran fatto che i pareri di quei pochi che dissentono impediscano l’opinione di coloro che concorrono. Nel concorso de’ voleri umani ha gran parte il concorso della sorte. La sorte è scapigliata, e perchè ama la sua libertà ed abborrisce l’altrui dominio, rifiuta il maritarsi col consiglio. E perchè il consiglio è quel che guida 1 ’alte imprese, egli è di rado eh ella, dispettosa, non se gli attraversi. Rade volte addivien eh’ a 1’ alte imprese Fortuna ingiuriosa non contrasti. (Petrarca) Il contrasto di lei tiene in contrasto coloro, i quali, se ben convengono circa il fine, non però accordano circa il mezzo. Ecco le disunioni, ecco dalle disunioni le contese. Camminano tutti al bene, ma non tutti per un medesimo cammino. Di qua e di là separati, forse malagevolmente i voti sareb-bonsi riuniti ; se insieme a conciliarli non fosse venuto, opportuno e insieme autorevole, il consiglio del Signor Marchese Spinola, che per passare a quell impresa da lui prudentemente sconsigliata in Spagna, e dalla Fiandra venendosene in Italia, ebbe nella sua venuta a favorire la sua Patria. Venuta di eroico cittadino ; che sarebbe stata più gloriosa per noi, e più fortunata per lui, se venuta per questa occasione ella non fosse. Piacesse a Dio eh’ ella non fosse venuta in quel tempo e per quell in- — 463 — tento, nel qual venne. Venne ma morì : morì quando venne (1). Ma non morrà di lui quel nome .....quo justior alter Nec pietate fuit, nec bello maior et armis. (Vergilio) « A’ consigli di tant’ uomo, a tanta opra si dispongono i Consigli : e quel che lentamente fu dianzi tralasciato per far bene, tanto più velocemente è ripigliato per iar meglio. Si fanno gli ultimi apparecchi a sì gran mole: questa si raccomanda alla cura di particolar mae-strato; questa si riporta all’officio dell’ universal maestria; in questa niente men per maraviglia di quei che vedono, che per gloria di quei che faticano, sì vigorosamente si lavora, che il lavoro precorre anco il pensiero. « Quei monti eh’ erano la nostra offesa, oggi sono la nostra custodia. Se il sito porge la forma alla fortezza, la forma reca la fortezza al sito. In cinque miglia di circonferenza non vi ha palmo di muro che non passi il cordone dell’altezza. Non è tanto alto che da parte alcuna egli orbo sia. In ogni parte dal moschetto scoronati sono i fianchi (2). La ossatura a sì bel corpo compongono le calci più massicce: ma ogni fronte di baluardo, e fra’ baluardi ogni cortina, da scogli è sostenuta; da terrapieni è spalleggiata ; da comode strade, (1) Ambrogio Spinola, famoso generale ai servigi di Spagna, morì a Castel-nuovo Scrivia, nel 1630, in età di cinquantanove anni. (2) Cosi scritto, e non s’intende. Forse manca qualche parola, e sarà da leggere: a riparo dal moschetto. Ma ancora bisognerebbe dare un altro significato al verbo scortiiiare, che suona « disfar la cortina, batterla con tiri, per levarne le difese ». — 464 — da larghe piazze, da vie coperte, da spalti inacessibili è guernita. Infine, la nostra città, nel farsi grande, è fatta cittadella. « E se diremo che questa nuova edificazione sia fatta per tórre altrui la tentazione (non che a recar altrui la maraviglia), ci apporremo. E qual è quell’esercito che contro di noi mai più s’abbia da muovere, per quanto sia poderoso, mentre non sia pazzo? Per brieve tempo non ci potrebbe danneggiare; per lungo tempo non si potrebbe in questi sassi mantenere. Gl’ inimici difficilmente tentano quel che di facile non sperano, perchè ben sanno che nel tentarlo si disfanno. I Romani guer-reggiano con Perseo. Per quanto a Licinio console giovasse l’acquistare, potendo, la terra di Gonno, onde aperto gli veniva il passo dalla Macedonia alla Tessaglia, ha per buona risoluzione il ritirarsi dall’assalto, perchè trova osso duro alli suoi denti. Cimi et loco et praesidio valido inespugnabilis res esset, abstitit incoepto. (Tito Livio) < A questa perfezione è già pervenuta la nostra fortificazione ; alla quale cred’ io ch’altro non manchi che il presidio, che non è per mancare. Il presidio ben si sa eh’ è l’anima di tal corpo. Ben si sa, perchè non le mura, ma gli uomini combattono, che gli uomini e non le mura dall’altrui forze si difendono. Le mura senz’uomini da’ nemici non si temono. Antioco prende Sardi per quella parte che, per esser la più erta, stimavasi l’inespugnabile, quando, al volarvi sopra degli uccelli, si assicurò che non era guardata da soldati. « Ma per la guardia ordinaria basterà l’ordinario presidio, eh’è ingrossato; e per la difesa straordinaria sup- — 465 — plirà la gente collettizia. Questa ad un suono di tamburro si raccoglie da que’ scelti, che si raccolgono dalle universali milizie. Di questi gran numero nelle nostre Riviere, avvalorato per armi, e addestrato per esercizio, non cede agli stipendiati per valore. « La diceria è di tedio. Se aggiungo parole di scusa, temo che per esser cerimonioso darò nel mal creato. Onde, senz’altro dire, a V. Em. m’inchino ». 7. Giovedì, mi passo alla casa dell’ Avvocato Fiscale, per passar con esso lui quelli uffici di condoglianza per la morte di sua madre, che per termine di amistà, benché presunta, m’erano dovuti. Quindi agli ossequii mesti sovvrapponendo i lieti, vo alla casa di Nicolò Grillo, per esercitar con esso lui quelle maniere di allegrezza per la sua venuta in Napoli, che per legge di usanza mi erano ordinate. La stima eh’ io fo della persona sua, vien ingrandita da quella eh’ io sempre feci di D. Angelo Grillo suo zio; Grillo canoro, fatto Usignuolo d’Elicona; tra’ primi poeti non secondo; tra’ principali miei padroni il primo. Sì come dalla sua dotta penna fu già innalzata la mia fama, così la memoria del suo merito vive eterna nel mio debito. 8. Venerdì, mi fermo in casa; e se pur esco, tanto esco quanto al mio giardino mi conferisco. Quivi mi dimoro. Chi per oppressione di negozi ha mancamento di spiriti, in fra le cittadinesche adunanze non può dare nè sa ricevere solazzi....................' 9. Nel Sabbato corrente, com’ è mio stile, fo render conto della settimana trascorsa a tutti quelli che da me stipendiati, hanno gli stimoli delle mie cure ripartiti ; chi a sostener le mie liti ; chi a sollecitar i miei Dottori ; — 466 — chi ad invenir le mie scritture ; chi a ristringere i miei conti è destinato............Miseria grande è l’aver faccenda grande, per la quale i pochi non bastino, i molti non giovino. I pochi non vagliono; i molti non vogliono. Diversità di cervelli, unità d’intrichi; copia di opinioni, abondanza di confusioni............ 10. Domenica, per accomodarmi all’altrui comodo, pongo in non cale il mio disturbo ; fo viaggio alla massaria (1) del Reggente Carlo Tappia. Quivi sto mendicando quell’ udienza che già per triplicato tentativo andata vana, oggi per replicata mia disavventura mi riesce infruttuosa. L’esser giorno di festa me ne avrebbe anco potuto dar speranza, se la promessa avutane da lui non me ne avesse dato sicurezza. Il desiderio rimane ingannato dalla speranza: la speranza rimane delusa dalla promessa. Infine, questi padroni vogliono vivere per loro; nè si curano che gl’altri moiano per loro. Non so bene se la penna qui abbia scritto bene, mentre a quel « vivere per loro » conveniva 1 apostrofo alla lettera /, che dividendo il vocabolo dichiarasse il senso. Così va molte volte, che per difetto di ortografìa è manchevole la elocuzione. I negozi qua invecchiano, ma non moiono : vengono decrepiti i litiganti, ma si mantengono giovani i litigi. In questa Corte egli è più facile impedire il corso della giustizia a quei che la procurano, che trattenere il corso a quei che la impediscono.....O stato senza stato Dio voglia che stia. Mi spaventano que’ terremoti, che (i) Dovrebbe significare casa di campagna. Ma come poi avrebbe egli a men dicarvi un’ udienza ? - 467 — assai frequenti, eziandio nell’ andata notte, con tremore degli uomini non meno che degli alberghi, abbiamo uditi. Chi sa? chi sa, se per mezzo di queste non articolate voci della terra, ai sonnacchiosi terreni voglia raccordare il cielo quel pronostico di Tacito: « Urbetn venalem cito perituram! »................ 11. Lunedì, son visitato a lungo dal Signor Duca di Caivano. Sotto frontispicio di visita introduce tal negozio che ha perspettiva di amistà, ma esistenza d’interesse. Ne parlerò a suo luogo. Per ora non so che me ne dire ; anzi non posso ; la stupidità mi fa tacere ; quindi a’ miei Dottori nova necessità mi fa ricorrere. Buona pezza sto con Salamanca; lung’ora mi dimoro con Vita-gliani ; il rimanente del giorno consumo con Acquino. Mi sento stanco; e in ogni modo, prima che cercare il mio riposo, procuro l’altrui comodo. Intendo che Angelo Lomellino, figlio della sorella di mio padre, se ne stia malato (e forse più dell’ animo che del corpo) di sotto al misero tetto di uno di quei più sudici abituri che abbiano i più vili ostelli del pubblico quartiere. Prima che andarmene a casa, lo fo contro sua voglia trasportare alle mie stanze.................... Questo buon gentiluomo, 0 dai mali, 0 dai rimedii, o dagli anni, o dai disagi indebolito, si era per sin colà quasi ridotto, ove dalla scafa di Caronte era aspettato. Appena si corca in questo albergo, appena in questa sua casa si vede fra’ suoi, che dimostra in faccia l’allegrezza dell’ animo, e mostra nelle membra la recuperazione del-l’anima. Quel vigore eh’ avea perduto in molti giorni, riacquista in un giorno solo................ 12. Del Martedì spesi tutti gli atomi delle ore nello — 468 — scrivere. .Manco male che oe'^i non scrivo di mali : scrivo o o a’ domestici, rapito veramente tutto, niente meno da loro intenti, che da’ miei pensieri............ • 13. Mercordì, sbrigate molte faccenduole. Venuta 1 ora del desinare, già fumanti le vivande in tavola, già data l’acqua alle mani, sopraggiunto il Marchese di \ illa, pranzò meco. Anzi, io pranzai seco ; perchè cibandomi 1 intelletto di que’ sostanzievoli discorsi, che bene stagionati ne’ pentolini di Platone, conditi ne’ sali d Aristotele, e dagl’intingoli di lui perfezionati, egli recò. Nel copioso nodrimento di così dotta mensa fu conceduto alla famelica mia mente, secondo la foggia antica, quelX inter pocula philosophari, del quale i più intendenti furono in quell’ età più professori. 14. Giovedì, molte e gravi occupazioni per negozi di Genova, di Napoli e di S. Angelo mi tennero imprigionato in una stanza. 15. Venerdì, potè l’acqua piovuta, e da tuoni accompagnata, impedirmi la destinata peregrinazione al sagro tempio de’ Scalzi Carmeliti, che da quest’ abitazione mia per lungo e disastroso cammino è separata. Ma non potè l’ingiuria dell’aere più basso impedire all’umiltà della mia mente il viaggio indirizzato al cielo più sublime, che festeggia per la solennità di quel giorno di cui facciamo oggi la festa (1).................. 16. Sabbato, primieramente faticai nella casa del mio Dottore Acquino; poi dimorai nella casa del mio giardino; (1) Il giorno di Santa Teresa, in cui onore il nostro Gian Vincenzo fa seguire cinque grandi pagine di fervida preghiera. E non dimentichiamo che per la santa di Avila egli ha pubblicato anche un volume di versi. — 469 — giardino in questo giorno fatto lago, per una tal pioggia che cadde altrettano copiosa, quanto venne desiderata. .......) • ' .................. . • • 17- Domenica, per quanto si estese lo spazio di questo lunghissimo mattino, non faccio altro cammino che quel che faccio, e più col cervello che col piede, nel chiostro di San Luigi; ove per occasione di alcune pecuniarie differenze, sono in disputa col Duca di Cancellara, procuratore di quel di Nocera. Quel di Caivano è il giudice : il giudizio di lui non dissente dal mio senso. Non vuol stare al giudicato chi non sente favorevole il giudizio. Si ponno esse vedere, queste azioni, e tollerare ? E pure, a chi non vuol perdersi è necessario accomodarsi. . . . Dopo un grandissimo sborso di danaro, si controverte per poco indugio a poco pagamento, eziandio controverso. Ma scusiamolo....................... Favorì poi la mia piccola villa il Marchese di Villa, Quivi la sua pratica fece obliar la pratica passata; e la dolcezza della sua conversazione inzuccherò nell’ insipida mia mensa 1’ amarezza della torbida mia mente. Molte cose avrei da contare; basti il dire che il nostro fare fu nel dire ab ovo usque ad mala. (Orazio). Questo letteratissimo Signore trinciò all’intelletto vivande sì sostanziose del suo cauto ingegno, che il mio, poco capace di tanto cibo, rimanevasi per soverchia copia digiuno, se noi pregava, come pur il pregai, ad avvertire eh’ era peccato il trangoiare a tutto pasto bocconi di tal pregio. I quali, non ben masticati, non ben vengono digeriti, se ben assaporati. Non è roba da mercato, quella del mio Signor Marchese, no ; quelle frutta ch’escono dalla dispensa di lui non si hanno da inghiottire, ma da ruminare. — 47° — « Et ecce bellaria » (Cicerone;; ecco nell’alzar le tovaglie, per ultimi confetti comparir Balducci e Basso. Sono ambedue gareggiatori in lettere, sì come nelle lettere d’ambedue sono la poesia e la filosofia gareggia-trici. Ecco gareggiar di cortesia con l’amorevole venuta loro la festeggiante accoglienza nostra. Solamente n’ è discara la venuta, perch’ è tarda, e la tardanza di lei ne rende frettolosa la venuta della notte. Non badiamo dunque molto ai complimenti, per darci ai discorsi : usciti dai primi offici della buona creanza, entriamo subitamente nei termini della buona conversazione. Non è scienza sì ben ascosa ne’ Licei che non venga oggi esposta a luce dagl’ intrecciati ragionamenti di questi due visitatori, aggiunti al primo. Potè questo ternario perfezionare oggi una treccia di gloria, per onorarne le tempia della Fama. 18. Lunedì, mi affatico per profittarmi delle altrui fatiche; procuro quel che desidero, non ottengo quel che spero. ... Si erano a’ miei preghi i miei Dottori già obbligati per adunarsi oggi in S. Luigi. E quivi delle essenziali fondamenta per l’edificio della mia compra, anzi del riparo alla macchina di lei mezza sdruscita, si erano apparecchiati a far modello. A questo affare fu l’ora del mezzogiorno deputata. Io credulo, perchè bramoso, fo volare, non che girare, la mia carrozza, acciò dalle case loro al destinato luogo porti gli aspettati promissori ; dei quali, altri sollecito con la persona, altri importuno con l’ambasciata, tutti invito coi danari. Vengono per la maggior parte; ma non vengono tutti. Inutile è la comparsa dei venuti, ove i pochi sono d’impedimento ai molti, ove uno impedisce tutti. Manco male - 471 — se non venisse alcuno; perchè colui che alla prima comparsa si mostrò il primo nella prontezza, un’ altra volta stimerà di poter avvalersi dell’assenza, senza nota della mancanza......... 19. Martedì, come che il fine delle Ferie dia principio oggi alle Corti, le porte de’ Tribunali a comodo de’ giudici per lo dianzi state chiuse, vengono a prò’ de’ negozi spalancate. Con tutto ciò rimangono impedite, perchè dalla moltiplicità delle faccende accumulata la calca de’ negozianti. Mentre si contrasta nel passò, non si penetra all’ ingresso. Si spaventava quella fiata la Volpe, perchè dalla casa del Leone non vedeva alcun vestigio di pianta che tornasse indietro ; onde, al suo solito astuta, gli ebbe a dire: Me vestigia tenent, Omnia te adversum spectantia, nulla retrorsum. (Okazio) Ma per lo contrario io qui mi sbigottisco, perchè dalla casa delle volpi veggio tornare a dietro oggi i leoni, ed osservo che non è pedata impressa all’entrare; ogni orma è stampata nel partire. Che sarà? Nelle cose difficili si ha da far animo grande. Mi convien tanto più coraggiosamente ripigliare su gli stanchi passi le impigrite forze : onde, armato più di sofferenza che di valentia, mi appresento in battaglia contro la guerriera turba de’ turbinosi miei litigi. Eccomi nel mezzo ad avvocati, agli alberghi di Caivano,, di Teodoro, di Gennaro, di Salinas, di Caravita, e di tanti altri, mercè de’ quali non mi è più cara la vita. Ma che? se da uno sono udito, da un altro sono rifiutato. Se uno mi parla con buona bocca, — 472 — un altro mi guarda con mal occhio: da chi rapporto una buona risposta, da chi non impetro una brieve udienza. Non ho la mira che a’ papeli; non ho il core che a’ trattati ; non è cura che non curi ; mi affatico per uscir di fatica..................... 20. Mercordì, non ancor tardi faccio ritorno alla mia dalla casa de’miei Dottori; a’quali, recidivo nell infermità delle mie liti, mendicai ricette per alleggerimento delle mie doglie. Ma ritornato alla mia requie, ritorno un altra volta a partire dal mio riposo, per non patire nell’altrui bisbiglio. Gli apparecchi per 1 ’ altrui guerra, guerreggiano la mia pace. Cerco la mia ritirata nel mio palazzo ; la trovo impedita dai romori di Eolo. Cerco il mio scampo nel mio palazzo ; lo trovo occupato dagli strepiti di Marte. L’abitazione del principe d’Ascoli sta dirimpetto alle mie stanze. Egli (sì come già dissi) Mastro di campo Generale in questo Regno, non men sollecito che valoroso in questo carico, senz’ altro fare che affacciarsi al verone del suo ricettacolo, da ognor ricetto alla regola peregrina dell’ arte militare. Onde, così della bravura armato come delli armati, la sua gente numerosa rende coraggiosa, tenendola quotidianamente risvegliata. . . . Chi vede questa lunghissima contrada, che quasi piazza guerriera introduce a sanguinosa Bellona formidabili steccati, convien che in un medesimo tempo s agghiacci nella propria timidità e s’infiammi nell’altrui bizzarria. Qui mira dar maestosa mostra le schierate file de’ soldati a piede, che dopo misurati spasseggi, in squadroni ordinatissimi accampati, per entro le folte selve degli astati picchieri, fa lampeggiar da mille accesi moschetti di mille fochi un solo foco. - 473 - Di queste, quasi argine a’ fianchi, e quasi trinciera a fronte, osserva de’ prodi a cavallo le numerose truppe, che più con l’ali de’ cimieri che con gli stimoli de’ sproni i saltatori loro leggiermente raggirando, chi con sfoderata spada, chi con rotato schioppo, chi con pungente lancia, si dimostra già pronto, sì come a sprezzar gli agi dell'ostiere o i tributi dell’ospizio, così a sprezzare i danni del digiuno o i pericoli della morte. . . . Tra l'innumerabilità degli armati, pur non si sentono i romoreggiamenti dell' armi. Imperciocché da una parte i tamburri, con le incessabili percosse flagellando i risonanti cuoi, dell’ altra i trombettieri per le concave gole ferendo 1’ aria con strepitosi fiati, per mezzo de’ loro doppiamente continui e intollerabili rimbombi assordano i vicini abitatori, molto più possentemente di quello che gli abitatori suoi vicini assorda il Nilo. E chi vuol dunque in questa vicinanza rattenersi ? Riformi pure quest’ accorto campione le intrepide sue genti ; le renda pure invincibili ; le addestri pure a farsi vittoriose d’ogni qualunque monarchia. E tutto prudenza nel prevedere, tutto maestà nel comandare ; con vigilanza e con fortezza proporzionata a’ tempi ed a’ luoghi, lasci pur dubitare s’egli sia da’ suoi più amato o temuto ; eh’ io lo temo, e lo temerò perfino a tanto che in questo quartiere abiterò. Questo alloggiamento, assai remoto per l’albergo, con gran studio mi elessi a fin di ritirarmi; ed ora alfin bisogna me ne ritiri ; se però non avviene che si ritiri il buon Signore da questa sua boriosa fatica ; la quale dovrebbe ormai languidirsi nel riposo; perchè quella diligenza che vive robusta nell’eccesso, tosto muore nell infermità dell’ estremo.......Sto ad osservare, per risolvere. Atti Soc. Lig. St. Patri». Voi. XXIX, Fase, 11. 31 — 474 — 2i. Di questo Giovedì non mi rimane a contar altro, che questa adunanza degli avvocati, aggiustata in S. Domenico, che già non si aggiustò in S. Luigi. Questa sarà pur quella volta che vedrò fare il fatto mio ? Già nel pieno cerchio de’ miei consultori è finita la lettura degli scritti, ed è già cominciata l'orditura dei discorsi, quando sopravviene un viglietto del \ icerè; onde per ordine di S. E. rimane in disordine la mia pratica. Vengono per la maggior parte questi Dottori (e per negozio pubblico) chiamati improvvisamente e frettolosamente ad altra parte: io me ne rimango in questa per un pezzo, non meno ammutolito dal dolore che confuso dall accidente. 22. Del Venerdì l’una metà occupata nell esercizio della mente, l’altra all’ esercizio del corpo destinai. Piglio volta alla volta di Pedigrotta, per 1 arena di Chiaia spasseggiando. Il giorno allegro non fu nulla di meno valevole ad allegrarmi ; nè il ricevuto diporto fu bastante a compiacermi. S’oscura a me 1 aria, prima che 1 aria s’imbrunisca: ricovero per tanto alla mia stanza, minacciato dalla mia malattia. Un eccessivo dolor nel capo, seguitato da un intenso tremore delle membra, mi accompagna. L’oppressione del core, accresciuta dal mancamento dell’anelito, mi affligge. Per nuvola di vapori i miei guardi si offuscano, e le specie loro, intorno a loro, su rote invisibili si aggirano. Nel salir le mie scale già le mie gambe s’inginocchiano. Già tutti i segnali sinistri molti mali mi pronosticano. Finalmente i miei materassi mi ricettano. Quivi le mie carni, più che i miei spiriti, si adagiano. Tutte l’ore della venuta notte da me si contano; ma in tanto si contano, in quanto si — 475 - sospirano. In questo faticoso riposo non cerco altra medicina che quella della Divina grazia. I miei malori, offerti a Dio per penitenza de’ miei mali, ecco, nel vegnente mattino, che vengono dall’ onnipossente mano del Fisico celeste, se non del tutto disgombrati, almeno in buona parte alleggeriti. 23. Sabbato, non esco dal mio letto, non che dalla mia camera. I balconi della quale, che aperti mi recano allegrezza al core, mi apportano inaspettatamente tal veduta al guardo, onde il core non ben si rallegra. Mi tanno veder la partenza delle nostre Galee, che a capo di molti, e da molti riputati volontarii indugi, finalmente in questa sera, date le poppe al porto e le vele al vento, indirizzando il cammino a Genova, in un baleno si nascondono da Napoli. Così Dio dia loro felicissimo il viaggio, come portano con esse loro, invisibile passeggero, il vedovo mio core................. 24. Domenica, a S. Leonardo per la messa, a Poggio Reale per la ricreazione. Poggio Reale ! Chi sa s’ebbe il titolo dall'origine, o dal merito? Questo si sa, che per l’un conto e per l’altro il nome Reale gli è dovuto.........Questa macchina, ingrandita per la pompa, invecchiata per l’età, ove già fu ricettacolo dei piaceri, or fatta ludibrio degli anni, altro più non mantiene nella decrepita sua forma che le vestigia di quel bello, il quale di sua natura sino all’ ultimo della sua vita non perde mai del tutto la vaghezza........ All’ ombra de’ fronzuti padiglioni placido il suolo si riposa, faticato dal continuo calpestìo di peregrino piede ; onde poscia più comodo si adagia alle cupide voglie di chiunque si affretta a pervenire colà dove ancora da — 47^ — lunge da leggiadra perspettiva del sollevato poggio sen-tesi allettare. Opra maestra di questa, in parte naturale, in parte industriosa perspettiva, è certamente sin dal primo passo del cominciato corso il farsi giudicar vicina, benché per lo spazio di due miglia sia lontana. Al comin-ciamento di questo riguardevole viaggio volle il giudizioso artificio compartire alcune di quelle bellezze che il fine del viaggio rendevano bellissimo.......Per tanto, nell’ampio centro di questo aperto calle, costrutti si vedono tre fonti da ugual distanza tra di loro misurati ; e tra gli spazii di questi, quattro fontane si vedono repartite. Quelli, in forma d’isolette, da bianchissimi marmi stanno accumulati; queste, in guisa di grotte, da minute pietruzze stanno colorite. Quelli, da carceri di piombo sprigionata l’acqua, avventano al cielo razzi di cristallo, che coi raggi del sole salirebbero arditi a contrastare, se il sole, impaziente dell’ audacia loro, lor non forzasse in gelide faville a ricadere ; queste, da vólti di musaico maestrevolmente in giù piegate, con lingue di spumante vetro lambendo a sè medesime le piante, mormorano così soavemente, che sarebbero i musici dell aura, se 1 congregati augelli qui d’ogni intorno di ramo in ramo voleggianti comportassero d’altra armonia coi musici lor concerti gareggiare. Il fine è sempre mai più nobile del mezzo. Eccoci al fine. Ma, ohimè, davvero eccoci al fine; ecco la sospirata delizia finire nel cominciare. Ecco il palagio; ma dove sono le abitazioni? Chi ha furati gli ori a quelle mura, delle quali a pena la sottilissima corteccia si sostiene ? Ohimè, quelle che furono stanze dei prencipi, or son fatte stanze dei venti. Quei portici sublimi, già — 477 — teatri degli spettacoli più allegri, rappresentano or la catastrofe di troppo miserabile tragedia......... 25. Lunedì, me la passai, parte nel descrivere, parte nello scrivere, e sempre nel faticare. 26. Martedì, al Cardinale Savelli, e per rendimento, e per ricevimento di grazie mi condussi; sopra due piedi, cioè dell’ossequio e del negozio, camminai. Quel dell’ossequio, non men dai meriti che dai favori di questo Eminentissimo Signore venne mosso: quel del negozio, non men da certo intrico tra il Vescovo di Nusco e me, che da certa pretensione su quei di Nusco e lui venne stimolato. Questo è di quei casi de’ quali il mio giornale fa racconto, mentre d’alcuni altri, accennati con altri, non tien conto. Questa mia povera città, per lo dianzi stata povera di padrone, è stata quasi impoverita dal prelato, travisatosi di prelato in padrone......Sono passati quei secoli d’ oro della primitiva Chiesa, ove la giovanile età de’ vescovati si mostrò già liberale d’elemosine. La virilità di lei la professò, ma non la dimostrò. Piaccia al cielo che la vecchiaia dell’istessa non si palesi più tenace per avarizia che prodiga per munificenza; piaccia a Dio che in alcun tempo quelle mitre, le quali furono date alle città per nodrimento delle anime, non aprano le bocche per satollarsi del miglior sangue ; e che in certe provincie non si trovino certiduni, che al còmmesso gregge fattisi più tosto lupi che pastori, non paghi di tondere alle mansuete lor pecore la borra, appresso la cimatura della lana pretendono la scorticatura della pelle. Quel che sia non so: quel tanto che ne so, è quel che mi fanno sapere i tormentati miei vassalli. Questi, — 478 — dalla fame già scoloriti, si figurano avanti a me, più coi pianti che coi colori, per miserabili esemplari d’ogni più insopportabile strapazzo. Ma viva Roma, capo del mondo; e viva in Roma chi è capo del mondo. Viva il mondo nelle braccia del Sommo Pontefice. Egli, superiore ad ogni superiorità, fatto è nel tribunale di Dio l’Astrea del cielo. Egli ad imitazione di quel Dio di cui è degnamente Vicario, non rifiuta alle sue piante i singhiozzi degli afflitti. Egli (come è stile di Dio) aborrisce l’empietà, punisce le colpe, e compatisce le miserie. So ch’egli amico di concordia non permette che il governo ecclesiastico cerchi di usurpar 1’ impero laico; anzi so che come politico governatore ben conosce la necessità che scambievolmente amici l’uno con l’altro si dian la mano (i). So ch’egli dell’unione universale particolarmente innamorato, non consente che coloro fomentino le guerre, che debbono esser i primi a sostener le paci; nè vuole che per differenze di questi tali troppo ingordi si perdano in sanguinose risse le disunite comunanze troppo oppresse. Lo so, lo so; e per tanto lo fo sapere a quella povera mia gente, mentre fa penetrar essa a me le sue doglianze. Ma che rilieva che i malati sappiano il rimedio, se avviliti dalla infermità non hanno più tanto vigore per cercarlo?......Si sentono tanto vinti dall oppressione, che non si possono più far vivi dal consiglio, bisogna che vengano rincorati dall aiuto. E ove devono richiederlo, se non dove possono sperarlo ? Ricorrono a me: io mi risolvo, coll’eseguire ciò eh’è debito del ^i) Era papa Urbano Vili, della famiglia Barberini: tenne il pontificato dal 1623 al 1644. - 479 — padrone verso i sudditi ; esercitar ciò eh’è ufficio di padre verso i figliuoli. Io dò loro il modo per la partenza loro. Essi partono, e vanno al Papa con franchezza da liberi, a fine di liberarsi dall’ esser trattati come servi. Io accompagno le suppliche loro con le preghiere mie, acciò vedano ch’io li tratto da fedeli, mentre m’adopro ch’altri non li tratti come barbari. Intanto il Reverendissimo di Nusco, udita di questa espedizione la novella, si trasferisce in Napoli: qui, perchè tenta ogni più vigoroso aiuto a sua difesa, all’ efficace patrocinio del sovraddetto Cardinale s’inginocchia. L’Eminenza Sua procede da quel generoso ch’egli nacque : di ogni cosa mi rende subito avvisato ; e secondo gli avvisi miei promette la mossa dei pensieri suoi. Io dunque, mentre lo ringrazio del passato, e lo informo del presente, lo impegno a favorirmi nell’ avvenire. Non ho molta difficoltà ad imprimere nell’intelletto suo la mia ragione;' ed egli non ha molta briga a stampar nell’ animo mio la voglia sua, eh’ a qualche accomodo è inchinata. Ben supplico l’EminenzaSua a considerar l’indi-gnità di quella dignità, eh’ eletta da Nostro Signore per nettare le sozzure dell’ anime, non si vergogna di macchiarsi nelle lordure delle cupidigie, ed avida delle altrui sostanze vitupera le proprie preminenze. A tal proposito le racconto quel che si legge di quel Ludovico il Moro ; il quale, vantatosi verso gli ambasciatori fiorentini di voler scopare l’Italia, forse di peggior maniera che non scopò quel Verre la Sicilia, meritò che da’ medesimi ambascia-tori, ritorto in lui l’esempio della scopa, gli fosse rinfacciato che lo scopatore troppo assiduo nel nettare altrui, tirasi tutta quanta la polve in dosso a lui. — 4 So — Certo è che i prencipi avari, mentre scopando nelle suddite case si affaticano, non per pulizia di coloro che nettano, ma per ingordigia di quel che avanzano, di vergognoso lezzo il proprio nome imbrattano. Nel rimanente, pur che i miei popoli, e sotto gli occhi miei, non vengano malmenati, incontrerò a braccia aperte ogni occasione di stringermi nelle spalle; e contro la opinione di alcuni, e fuor dell’ esempio di molti, seguitando i silenzi fuggirò i litigi, e massime con ecclesiastici ; perchè onorandoli molto, e conversandoli poco, sempre amico, e mai compagno, studierò nell’esser da loro stimato più che favorito. Pur che siano buoni per altri, tutti saran buoni per me, che so avvalermi della regola: « Bonos voto expetere, qualescìimque tollerare. » (Tacito). 27. Mercordì, mi riesce dare opportuna informazione a due miei Giudici. Il primo fu il Consiglier Gennaro, per occasione di certi danari dovutimi dal Dottor Naca-rella, sì come da me dovuti ad altri, de’ quali sostengo il personaggio. Il secondo fu quello eh’ aveva ad essere il primo, cioè il Consiglier Caravita, supremo soprain-tendente a quei negozi che dalla vendita di S. Angelo dipendono. Subordinati adunque alla sentenza di questi, ci troviamo il Signor Nicolò Oreggia ed io. Egli pretende rifacimento da me ; io dimando pagamento da lui. Questa differenza consistente in fatto renderà facile il giudicio. Così fosse agevole il persuadere al cervello dell’avversario, che per chiedere a lui conto dei miei conti io non macchio la sua reputazione in modo eh’ egli debba offendere la mia. Se bene, a dire il vero, egli non m’offenda a dire il falso.......Vitupera ben sè stesso — 481 — con gli atti della sua conosciuta menzogna, spacciando la sfacciata sua ingratitudine................ 28. Giovedì, perch’è festivo all’Apostolo S. Simone, quanto il precetto della Chiesa m’obligò, alla chiesa più vicina mi conduco. Per lo rimanente in casa mi fermo, fatto infermo. Quelle vertigini, o somiglianti a quelle che nella preceduta notte pur nel debole mio capo si aggirarono, di bel novo mi assaliscono ; e così sconcio da stordimenti, e così mal trattato da dolori io mi ritrovo, che mi sostengo a pena, se ben passata al fin la pena. Somigliante assalimento, che 1’ altr’ ieri mi occupò, e che dopo alcuna battaglia si partì, ove avrebbe ad infiacchirmi l’animo per la recidiva del presente, me lo ingagliardisce per la prova del passato. Già ho provato che non si more, quando si dubita di morire : la mia medica mente mi conforta, perchè a guisa di quella d’ Erminia, « Crede eh’ il mal da la stanchezza vegna » (Tasso). Chi è informato de’ miei continovi travagli, non travaglierà guari ad investigar la cagione della mia malattia. La quale, sì come da niente altro che da penosi guai non mi procede, così da niente altro che dai desiati riposi non mi si dilegua. Ma chi col secondar al mio desiderio favorisce il mio bisogno? Chi per separarmi dal male me ne allontana la cagione? Come poss’ io mai riposare dentro me stesso, se dentro me stesso i miei crucci mai non si riposano? 29. Venerdì, oh meraviglia! Tanto si oprò col senno e con la mano, che introdotto al Reggente Carlo Tappia, ne rapportai la mendicata provvigione. Rimase per quella stabilito che un tesoriere per lo ricevimento delle entrate alla università di S. Lorenzo pertinenti, e dalla medesma — 482 — per molto danaro a me dovuto, fosse in quel luogo a mie spese deputato, ed a mio risico mantenuto. Questa è la grazia, benché non guari graziosa.......... 30. Sabbato, perchè, per alquanto ristorarmi, alquanto mi è bisogno de’ negozi divertirmi, prendo commiato dalle brighe della città, e vo a consegnarmi alle delizie della campagna. E perchè il colle di Capodichino non è da noi molto lontano, alle ville di lui graziose m avvicino. Ormai col fine di Ottobre era venuto il fine della vindemia.....Già recisa l’uva, le delicatissime sue viscere in gravoso torchio angustiate, per gli squarci della tritolata pelle, in tepidi ruscelli di liquido rubino tutto versava il sangue delle tenere sue vene. E già di quel soavissimo liquore chi s’empieva la botte, chi s empieva il ventre ; e chi dissetatone il palato, ne suggeva tanta parte nel cervello. ................. Da questo spirito di vino oggi eccitate veggiamo in questi campi le varie turbe de’ rallegrati contadini. Chi fumante la testa, inchina a curvo secchio il dilungato collo; e dentro a quell’alveo, che di torbido vino è fatto ondoso, la rubiconda faccia e i grondanti capegli insieme attuffa.....Chi de’ mosti più chiari appat- tumando con l’arrostite castagne i maritaggi, a gloria di quelle nozze, in ridicole cantilene su sconcertato zufolo vaneggia. Chi stanco bevitore si lascia baccante cadere in sul terreno ; e perchè della sua caduta altri non rida, urtati i gongolanti suoi vicini, fa tutti sotto lui cader bocconi. Chi, più ardito taverniere, tra più bravi cinci-glioni, (1) in onta dell’ebbrezza audace frappatore, con 1) Cinciglione fu detto in passato, a significare uno smodato bevitore; forse dall’ andare ciondolando, come i cincigli, o pendoni aggiunti alle vesti militari, — 483 — bicchiere che da ogni sponda spande invita i viandanti a brindar seco. Da questi tali, in questi tempi, in questi paesi, per licenza della licenziosa Reina Giovanna si costuma, non pur con parole sconcie, ma con azioni immodeste lo stimolar chi che sia, o al riso o all’ ira. E per licenza conceduta dall’ usanza di queste troppo libere rappresentazioni, le donne eziandio più nobili sono avide spettatrici. Concorrono per tanto quelle alle quali non è impedito il festeggiare di questo spettacolo desiderato. Nell’imbattersi elle in questi vindemiatori, che, per essere usi a sonar certi loro camperecci corni, cornuti si addi-mandano, sempre mai qualche bell’atto, 0 qualche bel detto da loro aspettano. Ma se li trovano o dalla fatica fastiditi, o dalla riverenza rattenuti al dire, esse con destrezza indicibile di novo li destano al motteggiare. Perchè senza chiamarli per nome, appellandoli per lo cognome, delle proprie dita il secondo e l’ultimo disteso, e le due di mezzo raccorciate, quella figura agli occhi loro rappresentano, che forse, e non di rado, alle tempie de’ buoni lor mariti gaiamente aggiungono (1). dalla cintola in giù. Frappatore, che segue nel testo, si disse per raggiratore, ingannatore, imbroglione. (1) « Duravi ancora il costume, tramandato dall’antica gentilità, ne’ tempi delle vendemmie di vivere con molta dissolutezza e libertà: i vendemmiatori non s’arrossivano incontrando donne, ancorché onestissime e nobili, frati ed altri uomini serii, di caricargli di scherno e di parole oscene, con brutta licenza, quanta si vede nel Vendemmiatore, di Luigi Tansillo ». Cosi Pietro Giannone, nella St Civ. del Regno di Napoli, L. XXXII, cap. V. E soggiunge che il Viceré D. Pietro di Toledo estirpò questo, insieme con altri abusi. Ma dal racconto di Gian Vincenzo apparisce tutt’ altro ; e bisognerà dire dei provvedimenti del Toledo a Napoli quel che a Milano delle « gride di Ferrer ». — 4*4 — • • • ' Se queste da questi beffati non vengono poi compiaciute a lor talento, sia lor danno. Queste son poi quelle madonne schifa ’l poco del Boccaccio ; queste son poi quelle modeste del tempo di Seneca, le quali giudicavano che fosse « argumentum deformitatis pudicitia » ; queste son poi quelle vaghe moderne, che ad esempio di quelle antiche si crederebbero d’esser ispregiate come brutte, se non fossero riverite come cortigiane ; queste son poi di quelle che sapendo a mente quella sentenza di Corisca, che in materia di drudi approva « molti averne, un goderne, e cangiar spesso » (Guarino) , approvano il procedere di quell’Indiane, delle quali, perchè in testimonio dell’amata lor bellezza ciascuna di loro porta al collo tanti cordoncini di variati colori quanti sono i varii amanti che quei colori a loro appresenta-rono, quella si reputa più favorita che da più cordoncini si mostra intorniata. E chi, e chi, per goder questa vista, non lascierebbe ogn’ altra festa? Ma non più, no. Già dagli animati rivoli dell’avvinata contentezza abbeverati, non han più sete i prima sitibondi nostri cori. Torniamcene a nostri alberghi; già dell’argentata luna i tremoli splendori sono doppieri precursori a’ nostri passi. 31. Domenica, spasseggiando per insino a mezzo borgo di Chiaia, ascesi alla chiesa dell’Ascensione ; moderna chiesa de’ Scalzi Carmeliti, piccola per fabrica, non piccola per vaghezza. Il monastero di lei non è grande ; nemmeno è angusto. Il suo sito non è piano, ma non è incomodo. La polizia dell’abitazione mostra la nobiltà degli abitanti. La ritiratezza dell’edificio aumenta la devozione del concorso. Quivi mi trattenni tutto il mattino. - 485 — In ver’ la sera, carrozzando ritornai verso le stesse parti, ma nella parte inferiore lungo il lido, avendo io nel mio proponimento modellato di ricettar nell’ozio il negozio, col visitar nel cammino il Duca di Caivano. Ma non mi riesce : egli non si trova in casa ; ed il vento Sirocco, che si trova in campagna, mi rigetta. Questo vento improvvisamente alloggiato nella stanza di quest’aere, coi pestiferi suoi fiati lo avvelena. S’egli sì velenoso non fosse, quell’ onore non si avrebbe conseguito di vedersi dagli antichi pennelli con un rospo nella bocca meritevolmente effigiato. — 486 - VII. Novembre. — Quel di Nusco alle costole. — Gita classica. — Pranzo al verde. — Bacco acquaiolo. — Funerale. — Politica sopraffina. — Il discorso agli Odiosi. — Argomento funebre. — Un sonetto al cardinale Savelli. Il cavaliere di Santo Stefano. — Le croci mal dispensate. — Sabato buono. Visita al Savelli. — Alla Commedia di Palazzo. — Comici spagnuoli Digressione teatrale. — Congressi e consultazioni. — Cure paterne. Giambattista a Roma. — Il vescovo di Sant'Angelo. — La porta male aperta. Strada impedita. — Da capo il Viceré. — Incidit in Scyllam cupiens vitare Charybdim. i. 2. Lode a Dio, siamo a Novembre. I primi giorni di lui sono festivi ; così gli altri insino agli ultimi sian lieti. Del Lunedì e del Martedì, levatone quelle ore che nello scrivere a Genova si spesero, 1’altre nella chiesa degli Angioli si consumarono. Imperciocché, tanto per l’allegra solennità di tutti i Santi, quanto per la funesta commemorazione di tutti i morti, le migliori musiche di Napoli quivi si sentirono, e quivi le più nobili brigate della città si radunarono. 3. Mercordì, che per essere la stagione assai piacevole, a’ villerecci piaceri avevami invogliato, fui per insino a notte in mia casa dal Vescovo di Nusco rattenuto. Impetrò finalmente questo prelato quell’ accoglienza dalla mia bontà, che conveniva alla mia creanza. E dopo l’andata repulsa conseguì finalmente quell’udienza che neppur si nega a nemichevole proposta. Egli manda avanti il complimento come foriere al trattato: io sento - 487 — tutto il discorso, ma nulla bado al sentito: non mi fermo nel negozio, perchè non mi piace il negoziato: poco mi sodisfa il negoziato, perchè niente mi aggrada il negoziante. Narra egli molte cose, e non le credo: chiede egli molte cose, e non le faccio. Ha faccia per far repliche , con 1 offerir nuovi partiti, onde vuol mostrare che i miei popoli ed io, non più ingannati, ma dobbiam rimanerci consolati. A tutti dò mira, a pochi dò mano, a nessuno dò il core. Egli ottien poco, perchè dimanda troppo.......Vo pensando che Monsignor nostro abbia studiato il nostro Tacito, almen volgare ; perchè servendosi di quell’ industria «. quo incaiitnis deciperetur palam laudatur » s’ingegnò nelle mie lodi a farmi dimenticare de’ suoi biasimi. Ma l’arte dall’ arte resta illusa : io rispondo per le medesime consonanze, e corrispondo per le istesse maniere............... 4. Giovedì, continua con la temperie del cielo l’amenità della terra; onde continua in me il desiderio della campagna, perchè persevera in me il bisogno della ricreazione......Mi trovo sorto dal letto prima che dal mare sorga il sole; e mentre dagli aperti miei balconi respiro nei fiati dell’aurora, veggo tutti que’ scogli che circondano la vicinanza del mio albergo apparir quasi teatri alla delizia di questo mare. E veggo il mare stranamente rappresentare ne’ suoi chiari vetri la smeraldina effigie di questi ameni scogli......... Non più dimora; eccomi in barca. Ecco la barca, stimolata dall’ altrui fatica, già col suo cammino valicarmi al mio riposo: eccomi sì prestamente che quasi inavvedutamente in Pozzuolo ; eccomi già spettatore di quelle ruine, che sono le reliquie dei romani spettacoli. — 488 — Ecco Baia, ecco Miseno, ecco le Grotte Cumane, ecco i Bagni Ciceroniani, ecco gli Stagni Averni, ecco i Laghi Agnani, ecco i Campi Elisii, eccola Solfatara. Ma perchè di queste anticaglie impongo io lavoro alla mia penna, se molti ne hanno edificate le macchine alla stampa? Qui mi fermo nel dire, ove, ristorato già 1 a-nimo nel vedere, per lo ristoro del corpo mi convien fermare. Il giardino di D. Pietro di Toledo, sì come è 1’ ornamento di questa Riviera, così è il monarca di questa riva. Ma dissi poco; è la meraviglia delle meraviglie di questo luogo, conciossiachè, allettato già il buon Signore dalla salubrità dell’aure, e lusingato dall’eccellenza delle viva-gne che in questo graziosissimo sito si possedono, questo sito elettosi in ospizio, talmente di tutte quelle prerogative che l’architettura nei palagi, e l'agricoltura nelle ville più industriosamente mai dispensino il fregiò, ch egli accrebbe alle molte memorie della sua prudente magnanimità questa della sua magnanima prudenza indelebile memoria ; memoria che viva regna in questo regno per non morirne mai, finché questo regno viva al mondo (i). La mercè di così nobile fabricatore, io mi siedo nella parte più bella della bellissima sua fabrica , là dove un curvo e spazioso pergolato, per foltissime edere verdeg- (ij D. Pietro di Toledo amava molto il soggiorno di quel castello, da lui edificato, che porta ancora il suo nome; e spesso andava a riposarvisi dalle cure del suo faticoso governo. Bartolomeo Camerario, luogotenente del tribunale della Regia Camera, da lui rimproverato del frequente assentarsi che faceva dall ufficio suo per villeggiare a Somma, ebbe l’audacia di rispondergli esser più grave che un Viceré lasciasse cosi spesso la città per andarsi a sollazzare a Pozzuoli. Cosi cadde in disgrazia, non pure presso il viceré, ma ancora presso il re di Spagna, debitamente informato. - 489 — giante, compone ombroso baldacchino ad un marmoreo Bacco. 11 quale da gran vaso alabastrino che due scherzanti amoretti al fianco gli sollevano, con una delle mani un gelido ruscello dirompendo, e con 1’ altra gli altri graziosamente a beverne invitando, pone in dubbio s’ e-gli qui più dilettoso sia nel diffonder Tacque, di quel eh’ egli già fosse altrove nel versar il vino. Quivi da tavola di fredda pietra si sostien calda la mia mensa : quivi il saporoso vino marito con quell’acqua povera di sapore. E tanto quell’acqua, eh’è senza dolcezza, mi par dolce, che nel licenziarmi da lei più dell’usato amara mi fa parer quella del mare. Ne sento al petto quell’amarore nel vederla, che ne sentirei al palato nel succhiarla. Tutto è perchè mal volentieri io fo ritorno, ove 1’ ora cadente già mi affretta a ritornare ; e so come, sbarcato da questo, mi convien entrare in altro mare , amaro più di questo. 5. Venerdì, al Cardinale Savelli per negozio ; al Conte di Chiaromonte per visita ; al dottor Brandolini per complimento. In questo complimento la visita e il negozio collegavansi. Era destinato, questo gentiluomo, Auditore in Montefusco, dal cui regio tribunale il mio vicino stato ha dipendenza. Giudicai di non far poco, comperandomi per poco 1’ amicizia di lui ; perchè, sebbene risiedendo ivi il Preside della Commarca, con titolo di Viceré della Provincia, l’Auditore non è il superiore di quei luoghi; ha nulla di meno appresso il superiore il primo luogo............................ 6. Sabbato, altro non ho da raccontare che le vedute esequie del Signor D. Francesco Salgado, che nella chiesa degli Angioli, così per pompa di funerali e per Aiti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIX, F.\sc. 11, — 490 — sonorità di musiche, come per copia di lumiere e per maestà di assistenti , furono assai riguardevoli tenute. Questo litterato e garbato personaggio, camminando ostinatamente i sentieri della fatica, era degnamente pervenuto ai termini della gloria. Era spagnolo, e però generoso; ma era officiale, e però interessato. Sì come egli non fu mai contento di aver meritato a bastanza , così non fu mai sodisfatto d’ esser premiato a sufficienza. Egli era consigliere. I Consiglieri in questo Regno sono come quei Senatori di Repubblica, i quali consigliando comandano. Egli era destinato per lo governo proveccioso di Capua, ed era candidato per lo supremo governo di Reggente. Ma che giova ? « Quo plus sunt potae, plus sitiuntur aquae........Ritorno alla buon anima di Salgado. Nel più bello che la sua diligenza 1’ aveva portato sugli orli di quel fosso , ond’ egli pensò pigliar di salto il più eminente rivellino dalla ròcca della sua fortuna, in quel medesimo fosso ritrova la sua fossa : conciossiachè dalla nemica morte improvvisamente angustiato , dalle inevitabili armi di lei trovasi atterrato prima che atterrito. Iddio 1’ abbia ricevuto. Quel di più che potrei di me stesso oggi riferire, non sarebbe altro che quell istesso che ne’ sabbati ho già detto esser mio solito di fare. E per conchiuderla coll abbreviarla , questo solo ne dirò, che non fui solo ; perchè in sentir moltissimi ragguagli dei numerosi miei sollecitanti, per la magior parte poetici più che storici, io consumai l’ora e la quiete. Con queste due parole, quasi che con due braccia, io stringo le infinite lor parole. 7. In questa Domenica, non so s’io dica per capriccio — 491 — o per mistero (sì eh’ io non posso dire per obligo o per affetto) , invitato il Vescovo Nuscano a mangiar meco, dalla sua abitazione alla mia casa in mia carrozza lo condussi. Qui dubito s’egli più rimanesse contento nel vedersi accompagnato in istrada, o più sodisfatto nel trovarsi servito a tavola. Dirò servito, non regalato, perchè dalla mia mensa, che niente ha del regale, il regalo è proibito. A me pare che sua Signoria Rev.m\ nell’ osservare certe inaspettate dimostrazioni di domestica piacevolezza, non meno sconfacenti alla di lui natura che proporzionate alla mia condizione, si arrossisse più volte e s’imbiancasse , mal potendo l’anima sua nella sua faccia (benché addestrata al fingere) il tardo conoscimento della sua colpa e della mia grazia coprire. Io mi avviso che allora, come in verace specchio, le obbrobriose specie delle offese fatte a’ miei vassalli, e delle ingiurie pertanto fatte a me, se gli rappresentassero. E credo che negli eccessi della mia benivolenza gli eccessi della sua perfidia conoscesse : onde maggior dolore dal ricevuto bene egli sentisse, che non avrebbe dal meritato male riportato........ Il buon prelato si accomoda al tempo e al luogo...... S’infinge non men amorevole che allegro ; si mostra non men obligato che favorito ; ma dica egli se più confuso, o più arrabbiato. Già i suoi tratti si conoscono : egli pentirsi non vuole ; dolersi non può ; discolparsi non sa ; addolcirsi non cura ; pacificarsi non osa. Che farà il buon vescovo , che farà ? Un giorno, a Dio piacendo, si saprà. 8. Lunedì, mi desiderai miglior salute e maggior forza; — 492 — 1’ una e 1’ altra , quanto opportune al mio bisogno, tanto necessarie al mio travaglio ; imperciocché in un medesimo giorno ho innumerabilità di lettere da leggere, ed una infinità da rispondere. Molte di queste contengono negozi ; ogni negozio vuole applicazione ; ogni applicazione richiede tempo. Tra questi negozi, alcuni spiacevoli a sentirsi ; altri difficili a trattarsi ; tutti necessarii a risolversi. Ho gli sproni a’ fianchi, i quali mi stimolano ad informar le apparecchiate orecchie dei Dottori : ho 1’ ansietà delle mie cause, che mi sollecita in dare il moto a’ miei sollecitanti : ho 1’ obbligo di prevenire con 1’ intelletto quel discorso che ho da fare nel giorno seguente. Iddio mi aiuti. 9. Eccomi al fatto. In questo Martedì gli Accademici Oziosi non mi vollero ozioso ; perchè, in San Domenico adunati, bramosi che in questo giorno dell ottava di tutti i Morti si parlasse del giorno della nostra morte , imposero alla malenconica 'mia mente il sodisfacimento del funesto lor pensiero. Onde in questa guisa mi elessi il divisarne : « Signori. Dirò come disse Francesco Petrarca : « Quanto più m’avvicino al giorno estremo Che 1’ umana miseria suol far breve », tanto più mi conforto di avvicinarmi a quel fine, per lo quale fu mezzo quel che fu principio. E tanto maggiormente comincio a rin-franchirmi, quanto meno ho in questa viva morte a rat-tenermi.........(0 (1) Per le ragioni già dette nella prefazione, e ripetute in parecchie note, debbo anche qui lasciare una lacuna, e di parecchie pagine, quanto è lunga la diceria ; contentandomi di riferirne, dopo 1’ esordio, la chiusa, a saggio dello stile accademico del tempo — 493 — « La morte, fatta ne' formidabili suoi giri stimolo del mondo, è vita dell’ universo. S’ella con la paura ci raffrena , con la speranza ci rinvigorisce. Se coll’ aspetto ci conturba, con 1’ effetto ci consola. Se ci fa morire nei guai, ci fa soppravvivere agli onori. Infine, ella non ha di male, che quel male che le viene da parte nostra. Ha bensì tutto di bene, se per opera nostra si rende ugualmente in sè stessa immortale, in noi benefica. La morte assicura la vita ; bandisce la fatica ; dilegua la invidia ; risuscita la fama ; ingrandisce l’intelletto ; perpetua il nome ; premia le scienze ; adorna le virtù ; perfeziona l’opre ; discopre la fortezza; autentica l’amicizia ; rivela la magnanimità, e coronando il nostro fine, sul Campidoglio della nostra quiete ne fa trionfare della nostra gioia. Gioite, amorevoli ascoltanti, gioite. Ho detto quel che dirvi ha saputo questo poco saputo e molto faccendato nostro senno, non meno osservatore de’ vostri comandamenti, che ammiratore de’ vostri meriti ». io. Mercordì mi esercitò nella scola delle visite , per la regola degli attivi e degli passivi. Fui visitato , e visitai. Mi visitò il Vescovo Greco, per rendimento (diss’ egli) di grazie da me ricevute. Se il Greco non mi fa fare il latino per li passivi, sia mio prò’. Visitai 1’ eminentissimo Savelli per ringraziamento di mercedi veramente da lui conseguite. Se ho prò’ in attività veruna della mia vita, confesso che 1’ ho in questa. Questo generoso Prencipe, ai molti onori che giornalmente mi dispensa, ieri aggiunse, col portarmi sino alla sua porta , gli eccessi della sua generosità. Egli cercò di vedermi, in tempo che per la trascorsa mia faccenda non potè trovarmi, lo, nulla di meno, in- — 494 — superbito della passata dimostrazione , per dimostrarmi non meno grato che obligato , fui lung’ ora seco. E perchè 1’ avidità del servire non sa mai raffrenarsi nel parlare, non potei tacergli un sonetto, che significò la mia riverenza all’altare della sua gloria. Egli mostra di aggradirlo ; io mi rianimo a mandarlo. Onde , ritornato alle mie stanze, col seguente viglietto a Sua Eminenza lo invio. « All’ Eminent. Sig. il Sig. Cardinale Savelli — Chiaia o o « Mio Signore Eminentissimo « Questo mio sonetto, perchè ha più devozione che leggiadria, nel comparirle avanti avea più desiderio che coraggio. V. E. che ha dato 1’ anima alla mia penna , ha dato 1’ animo alla mia timidità. Eccolo ; figlio della nostra aurora, come figlio dell’ Aurora fu Memnone. La nostra aurora destò le corde alla mia lira, come la lira di quegli già destò l'Aurora. In quella tanto durò il suono, quanto 1’ armonizzò quel sole che la invigorì : in questa tanto durerà lo spirito , quanto mi avviverà il sole di V. E. a cui bacio la falda. Da questa Sua casa, X novembre 1632. Di V. Eminenza dev.m0 servitore Gio : Vincenzo Imperiale » Da 1’ Oriente de’ natali alteri La tua grand’ Alba, 0 gran Savelli, uscita, Lavò la fronte di bei rai crinita Nel profondo Ocèan d’alti pensieri. E nobil nunzia di sereni imperi Tinte ne l’ostro le sagrate dita, Fe’ lampeggiar di porpore arricchita L’ Aurora de’ tuoi lucidi emisferi. - 495 — Quindi è che fatta Sole, il mondo stime Che al coronato Vaticano intorno Salga a indorarne le adorate cime ; E fatto a Notte oltraggio, a Invidia scorno, Con le chiavi di gloria apra sublime 11 palagio del Cielo al tuo gran Giorno. ii. Questo è il giorno di S. Martino. Agli altri è lieto ; a me solo, al solito, è funesto. A chi è malen-conico, per 1’ allegrezza universale si aumenta la parti-colar malenconia. Vedo appena la messa ; indi mi consegno di novo alla mia stanza per non vedermi altro che affanni. Eccomi a’ miei lavori ; per la provvisione de' quali ascolto alcuno, il cui sentire mi è aiuto al provvedere. Già mi sono protestato che non posso nè penso certe cose, o minute, o solite , narrare. Ma per un certo mio divertimento un certo mio fatto voglio dire. Sono otto giorni appena andati, che un tal cavaliere Gio : Francesco Rossi, gonfiato del nome romagnolo , vestito dell’ abito fiorentino, mi venne qui inviato, e qui da me venne alloggiato, mentre desiderai persona che tenendo superior compagnia a Gio : Battista mio figlio, col sottrarlo dai pericoli della nascente adolescenza , lo assicurasse ne’ termini dell’ accostumata civiltà. Costui, non così tosto ebbe il piede in questa casa, mostrò di aver il cervello fuor di casa. E quasi imagi-nasse di avermi assai bastevolmente favorito coll'avermi della sua crociaccia di Santo Stefano illustrato, mostrò eh’ il menomo pensiero di lui era quello per lo quale ebbi l’intento sopra di lui. Io lo esorto , lo prego , lo riprendo ; per opera di amici lo ammonisco ; a nulla — 496 — riesco. E mentre alcuni mancamenti dissimulo , ed altri difetti compatisco, nè di rimedi mi vaglio, si parte egli da noi, senza pur dire a Dio. La cagione della partenza è certa quantità di danari che gli diedi in confidanza. Così mi uccella. Ma s’ invesca il mal tordo nel suo vischio. Non tollero eh’ egli abbia a burlarsi della burla fattami, no, no ; non sostenne mai la beffa quell a-nimo che non è avvezzo ad esser dileggiato. Così 1 i-storico sentenzioso m’ insegnò : « non tulit ludibrium insolens contumeliae animus » (Tacito). Le villanie de’ villani pur pure si sopportano : ma le villane azioni di chi non essendo villano è prosuntuoso non si sofferiscono. Le colpe della natura si hanno a compatire ; le malizie della volontà si hanno a castigare. Questi entrò a’ miei servigi per mostrar creanza ; se ne uscì senza mostrarla ; uscito , ritrovò chi gliela mostrò. Il maestro fu il Bargello , degno pedagogo di tal aio. Perchè , nel fuggir egli dalla città, si trova nella carcere: quivi apprende quella lezione dell’onesto, che professò di leggere altrui. Appresa eh’ egli 1’ abbia, mi contenterò ch’egli parta senza pagar la scola. Quel luogo che ho già dato alla giustizia, non sono per negare alla clemenza : ma non si conoscerebbe la clemenza se prima non fosse conosciuta la giustizia. Tosto eh’ egli si levi dall’ inganno, il fo levar dalla prigione. Così po-tess’ io fargli dal mantello scucire quella croce carmosina, che per vergogna d’ esser portata da costui credo sia rossa. Oh Dio ! ma quante di queste tali croci a par di questa del Rossi potrebbero arrossire di esser portate ! E quanti, per questi paragoni, potrebbero oggi sdegnarsi di portarle ! — 497 — Quell insegna della nostra religione, che dalle religioni fu portata già per riverenza, adesso par che non si porti che per vanità. Quella che, solamente da mani regie a petti regali dispensata, era nella singolarità sì riverita, or da molti Briarei a molti Gnatoni accomunata, quasi tra le comunità non è più conosciuta. Quella che s infastosiva come privilegio di pochi, or si avvilisce come ripezzamento di molti. Quella che si dispiegava in geroglifico della libertà, bisogna or convogliare in nascondiglio della servitù. Quelle croci che non sono adattate al merito , sono veramente croci di chi le porta ; e forse sono indizii di molte altre croci, che per rispetto di queste esteriori porta internamente il portatore. Quelle croci portate da chi non le ha meritate, ove indosso a chi n’ è degno a-vrebbero dignità, e certo avrebbero possanza d’indurre i cori a reverenza, sostenute da chi ha bisogno di sostegno, per mancamento di maestà non altro fanno che muover gli occhi al riso. Quelle croci, onde in iscambio di danari vengono pagati molti che non possiedono ricchezze , riescono tanto poco onorevoli a chi vi è crocifisso, quanto sarebbero molto utili quelle croci che s’improntano sulle monete. Quelle croci che per disavventura loro si trovano imprestate al giubbone di taluno che delle qualità cavalleresche è mal fornito, paiono pur di quelle croci che nella campagna, in segno di qualche cadavere sovra il quale son piantate, si rimirano. Paiono pur di quelle croci che in certe solitarie straduccie, in divieto dell’altrui sporche comodità, quasi consignati custodi si dipingono. Paiono pur di quelle croci, che nelle scorciatoie de — 498 — pubblici sentieri, insegnando il viaggio al peregrino, lo consigliano a passare avanti, e da loro allontanarsi. E che si trovino uomini , i quali si onorino di quel che li vitupera ? E che si arrivi a tal stolidità, che nel- 1 obbrobrio s’ abbia ambizione ? Non si misura 1’ onore di alcuno per la sesta di quell’abito che può far parere i piccoli eguali a’ grandi. La grandezza dell’onore consiste nell’ avvantaggiar col proprio merito 1’ eguaglianza del comun titolo. Ma questo è mondo, il globo del quale non è altro che un viluppo di fallacie. Il mondo fallace non dalla vera essenza piglia il senso, ma dalla apparenza prende il moto. L’ ente di molti è nel non essere e nel parer di essere. Spumose ampolle di piccioli ragazzi sono le ampollosità di molti. Quanti, oh quanti sono di coloro, che posti in perspettiva di cose da niente, sembrano uomini da qualche cosa ! Di questi tali pur il nostro Tacito non tacque, « inanium specie validi > appellandoli. 12. Venerdì, ancor io dalla continua piova in mia casa carcerato, provai de’ miseri prigionieri il primo dispiacere, che per mio avviso è il negamento della propria volontà.............A me salta oggi il pizzicore per la spedizione di molti affari , che quando non mi furono impediti non furono da me sollecitati ; e perchè oggi, impedito dall’acqua non li posso fare, dall’acqua istessa mi sento accendere al desiderio di farli. 13. Sabbato, dopo aver io sentito de’ miei ministri le infruttuose relazioni, è forza eh’ essi sentano le mie strepitose querele.........Per me parlò la collera..........Oggi non provo tanto disloggiato - 499 — dalla giustizia il pubblico Palazzo. Quivi ho pur certi negozi orditi, che per molti giorni a fatica ho disgroppati ; anzi alcuni di loro con mani d’ oro ho pur tessuti. La Dio mercè coi signori Marra (tra i creditori di Sant Angelo in primo numero descritti) i patteggiati pagamenti ho pur finiti. Sarebbonsi prima fatti, se prima si tosse stato ai patti. Così quel che per mesi cominciato, fu per litigiose pretendenze imbrogliato , oggi inaspettatamente con mio guadagno è stabilito. Non sono meraviglie, sono miracoli dei miei riveriti sabbati, i prosperi avvenimenti. 14. Di Domenica, da mal sentimento e da mal tempo in casa trattenuto, non reco alcun trattato. 15. Lunedì, quand’ io per 1’espedizione dell’ordinario faticava, il Cardinale Savelli mi distrasse dalla fatica, e mi soggettò con mio onore alla creanza. Venne l’Eminentissimo per termine di cerimonia ad obligarmi alla sua bontà senza termine : nello illustrar la mia casa si fece schiava la mia persona. Nel passar molti ragionamenti or piacevoli or gravi , si fece sera. Partendo il giorno alla volta dell’ occaso , parte Sua Eminenza alla volta del Palagio, ove secondo 1’ uso in ogni lunedì fa questo Viceré pomposa commedia in pubblico recitare. A quella Sua Eccellenza si contenta di assistere, mentre circondato dal frequente concorso dell’ adunata nobiltà egli gode in un medesimo tempo nel senso del sentire e nel compiacimento del vedere. Mi comandò il Cardinale che io lo seguitassi, a fin di grandemente onorarmi con alquanto divertimi. È senza civiltà, non che senza cortesia, chi a tempo non sa conoscere , e conosciute non sa stimare le offerte grazie. Così potess’io pagarle, \ — 500 — come so conoscerle. Di buona voglia adunque , servendo all’umanissimo Prencipe, sodisfeci all’obligo e al-l’appetito. Si entrò per certa incognita portella che apre l’adito segreto a tortuosa lumaca di scala angusta, i gradi della quale ad alcuni mezzanini, indi nelle regie stanze del piano superiore c’introdussero. Trascorriamo già già molte di queste, che guernite da pitture, in parte fisse, in parte mobili, co’ chiari loro le fisse e le mobili figure dello stellato cielo rappresentano : e perchè lo rappresentino più al vivo, così le mura di quelle come le tele di queste in cerchi d’ oro sfavillanti riccamente colligate, altrui lampeggiano. Ritroviamo al fine di queste quella stanza che è principio a questa. La spaziosa e nobil sala, per serici broccati rilucente, per accesi doppieri luminosa, e molto più per gli adunati lumi delle bellissime dame fiammeggiante, era teatro non meno alle vere battaglie degli spettatori , che alle finte rappresentazioni degli spettacoli. Ha questo teatro, quasi epiloghetto delle sue pompe, in comoda e ritirata parte un sollevato palco, d ogni intorno da gelosie guardato, per gelosia di chi aborrisce 1’ esservi veduto. In questo, come che ad uso del Cardinale sia costrutto, il Cardinale si adagio ed a suo lato mi alloggiò. Si sentono quei musicali stromenti, che quasi comici forieri danno avviso dalla vegnente favola: si calano quelle cortine, che quasi sottilissime nubi non bene ascondevano, ma alquanto velavano il risplendente a-spetto alla gran scena. L opra da valorosi è sostenuta; - 5oi — ma perchè in favella spagnuola è recitata, da me non guari è appresa ; apprendo sì che dagli altri vien goduta. Godo io del modo che osservano gli Spagnoli nel rappresentare con quel decoro, onde trasformati nella proprietà di quelle forme eh’ essi appigliano, molto più con le azioni mi compiacciono, di quel che altri d’ altra nazione con le parole mi dilettino. Infine, quel che più ne intesi, fu quel tanto che dai gesti più che dai detti ne compresi. Mi diportai negli intermedii, perchè, composti di balletti spagnoli e ragionamenti italiani, in un medesimo istante all’orecchio e all’occhio furono di solazzo. Ma verso le quattro ore dalla commedia licenziati, il Cardinale mi licenziò, non senza imporre alla data licenza la gradita pensione d’altre volte quivi ritrovarmi. Mi vi troverò, piacendo a Dio sì come a lui ; perchè a dirla com’ ella è, non posso più stare come sto. In tante mie occupazioni mi è troppo insopportabile non aver occupazione alcuna dilettevole. Ma la commedia pare a me che contenga 1’ argomento d’ ogni più desiderabile piacere........ . La Commedia ; segretaria dell’ anima, destinata ad interpretar le più intricate cifere della ingannatrice Fortuna, maestramente mostra a tutti noi come non abbiamo a filar la nostra vita all’ infedeltà della nostra speranza ; come per lo più gli esiti ai proponimenti riescano contrari.........Nella Commedia imparò 1’ antica giuventù lo studio dell’ eloquenza, la pronunzia della lingua, 1’ esercizio della memoria, la franchezza dell’ animo, la movenza del gesto ; onde prima comica che oratrice, passò dai palchi ai rostri ; ma passando ella dai precetti della rettorica ai termini della filosofia, — )02 — trovò nella composizione della commedia l’etica dei costumi.............. Quanto a me riesce ridicola certa superstiziosa opinione, per non chiamarla ipocrita professione, di alcuni moderni saccentoni, che si riscaldano e sudano nel vietar delle commedie ; quasi elle, o fossero male per natura, o pessime per accidente ! E pure, e pure, eh elle siano ree per natura tanto non è vero , quanto è verissimo che proprietà loro è d’impedir il male e cagionar il bene. S’elle fossero triste per accidente, verrebbe la colpa non da loro, ma da noi, cioè non per difetto di chi recita, ma per malizia di chi ascolta. Tentano questi tali di armarsi della dottrina di Tommaso Santo ; nè si avvedono che in quel luogo di quel testo (i) ov’essi per armeria riccorrono, veramente gl’istrioni e non già i comici si biasmano. Gl istrioni giustamente si bandiscono, perchè furono con gesti abo minevoli di azioni lascive presentanti : i comici ragio nevolmente se ne escludono, perchè con parole modeste di morali azioni incitatori......... La Commedia, non men degna di essere amata che meritevole di esser riverita, è vita delle vite, ritratto di noi stessi, rinomanza de preteriti, esempio de pre senti, forma del futuro, compendio dell’ istorie, istoria della fortuna, Campidoglio dell’ onore, onore del trionfo, imagine del Cielo. E che altro è il Cielo, che una rappresentazione degli atti divini ? alla quale son scene sfere, lumiere le stelle, palco il Mondo, teatro la gloria, (i) Summa Theologica. // Sec. Partis ; Quaestio CLXVIII, Art. II, HI: Utrum in ludis possit esse aliqua virtus ; Utrum in superfluitate ludi possit esse pec catum. - 503 — musici gli angioli, comiche le creature, spettatori i Beati, e argomento Iddio? (i). 16. 17. Martedì e Mercordì non lasciarono punto di vacuo nella mia mente; nè la mia mente lasciò nulla di ozio alla mia fatica. Incessabilmente fu occupata quella e faticata questa per la solita scrittura; scrittura così per la Patria e'per la Spagna, come per lo Regno di Napoli e per lo Stato di Sant’ Angelo indirizzata. 18. Giovedì, si giunse finalmente a quella giunta di avvocati, che, come già contai giorni sono, fu differita ad altro giorno. In questa furono tanto copiosi e tanto strepitosi i parlamenti, che al rimbombo della chiesa di S. Luigi avrebbe alcuno nel di fuori giudicato che ivi quei monaci, 0 disputassero, o predicassero. A me parve che 1’ esequie della principal mia causa questi miei reverendi Avvocati mormorassero, non udendo da’ loro discorsi altro ristretto che, per distaccamento di opinioni, aggroppamento di confusioni. La mia faccenda è posta in pericolo da quei dispareri che fenno perdere Sagunto .......... 19. In tutto questo Venerdì m’ affanno in procurar nuovi consulti. Il mio caso, che non è senza pericolo, non mi lascia senza ansietà. Il mio destino, che non è senza infortunio, non mi lascia senza fretta. E ragione eh’ io cerchi d’arrivare quella sorte, che mi cerca di fuggire.......... 20. Quel che mi accade in questo Sabbato par paradosso, e pur non lo è. Perdo mio figlio, per non perderlo .......... (1) Cosi scrivendo, il nostro Gian Vincenzo aveva alla mente 1’ esemplare di una rappresentazione siffatta; esemplare unico, ma solenne; la Divina Commedia. - )°4 “ Pensai, nel partir dalla Patria, e nel condur meco Gio : Battista mio tìglio, che quanto la stanza di Genova, come troppo libera, non gli confacesse, tanto l’abitazione di Napoli, come troppo oziosa, non gli convenisse. L una e 1’ altra di queste città mi parvero accomodate più tosto alla distruzione che alla fabrica di un giovinetto, che con pietre animate di sodi insegnamenti abbia ad in-orandire il crescente edificio del tenero intelletto. Al pensiero così dall’una come dall altra di rimoverlo, accompagnai proponimento in Roma di alloggiarlo ; ove non da proprio ospizio a’ lussi della Corte trasportato, ma in osservante ricettacolo da sregolate occasioni fosse divertito. Stimai favorevole a questo intento uno di que collegi, ne quali da vigilante custodia sotto severa disciplina le belle lettere sono coltivate, e gli ottimi costumi vengono inseriti. La ragione, che prende il vigore dal discorso, prende il moto dall’ esempio. M’ inanima (noi niego) la felice riuscita ne medesimi luoghi già provata , ove molti si gnorotti, e per anni e per meriti in nulla disuguali al mio soggetto, hanno col crescimento della loro età ere sciuta la loro gloria. Così prima d’ ora foss io stato risoluto, come fui sempre animato. La mia sensualità (i) mi fece trattenere, fin che mi avvidi che la mia dilazione minacciava il suo pericolo. Onde oggi lo distacco dalle mie braccia, e confidatolo ad un suo maestro ed accompagnatolo d’ un mio gentiluomo, con la mia benedizione gli pronostico quella del cielo........ (I) Questo vocabolo è qui e in altre parti del manoscritto, usato per « sensibilità ». — 505 - L età di lui non ancor al terzo lustro pervenuta, lo costituisce sopra l’Ipsilon di Pitagora. In questo periglioso buio fu ventura sua, fu sorte mia, questa mia risoluzione. Quest’ è cammino per lo più sicuro cammino. S egli correrà quella strada eh’ agli studi e alle facoltà spiana la Corte, avrà in un medesmo tempo giovato a sè ed a’ suoi. S’egli, non d’esser prelato, ma s’ invo-glierà d’esser soldato, come pare che il suo genio marziale già lo inviti, per la impresa delle armi non gli avrà nociuto l’esercizio delle scienze; chè Pallade anco si dipinge armata. E s’ egli, voltate le spalle a queste leggerezze della terra, volterà gli occhi all’ eminenze del paradiso, e nella quiete d’ alcun religioso chiostro si ritirerà (i), beato lui ! Chi serve a Dio, vien da Dio col contento della beatitudine pagato : chi serve al Mondo, vien dal Mondo con pagamento di falsa moneta ognor tradito. Questo è certo, che collocato il buon figliolo dove le licenze della natura son frenate dalle regole dell’ubidienza, perchè non potrà quel che vorrà, egli, o farà quel che dovrà, o non farà quel che non è lecito che si faccia. Il separarsi dal far male, è il primo grado per salire al secondo, del far bene. In ogni evento, quel ch’io fo, faccio per bene. Quando altrimente operassi, io ne sarei biasimato: quando altrimente dicessi, io non sarei creduto. Son padre; e padre, sì come già vecchio per gli anni, e stanco per gli affanni, così forse troppo partigiano per la stima che fo di questo figlio, e forse troppo sensuale , per la tenerezza che ho di lui. (i) Giambattista non fu poi nè soldato, nò prelato, nè monaco. Andò sposo nel 1639 a Luigia Negrone. Atti Soc. Lig. St. Pxthia. Voi. XXIX, fase. II. 35 — 5°6 — Questa tenerezza di affetto mi si aumenta dalla rinomanza di quel giorno, che in un medesimo tempo aperse gli occhi a lui, e li chiuse alla madre di lui, eziandio prima eh’ egli potesse fissare i guardi in lei ; della quale, con più ragione che non ebbe chi lo disse, io dico. Nec me meminisse pigebit Elisae Dum memor ipse mei, dum spiritus iios reget artus (Vergilio). • • • • Giorno, che sì come veramente a me fu notte di miseria, così certamente a lei fu giorno di felicità: giorno di vita a quella madre, per cui fu tomba di morte la cuna del figlio. Ma sì come dal natale di questi in terra nacque la vita di quella in cielo, così vo imaginando eh ella fra tutti altri suoi parti particolarmente ami questo, e gli palesi che se 1’ ha perduta madre nel mondo, 1 ha acquistata protettrice nell’ empireo (i). (i) Da questo passo, onde traspare tanta commozione sincera, s illumina molt parte della vita domestica di Gian Vincenzo. E s’intende che questi Giorno siano indirizzati al genero Agabito Centurione, non alla casa propria, dove seconda moglie imperava, non certo tenera ai dolci ricordi della prima. Di ques seconda moglie, Brigida Spinola, già vedova di un Doria, sappiamo che a Fra cesco Maria, primogenito del secondo marito, aveva sposata Ginevra, sua figliuol , avuta dal primo. Dopo la morte di Gian Vincenzo, insorse lite tra i due tìgli lui, Francesco Maria e Giambattista, e la vedova parteggiò naturalmente pel prim come appare dagli atti e documenti della lite medesima, durata oltre il viver dei due contendenti, e composta solamente nel settecento. Non è da credere tutta che 1’ affetto per il suo beniamino Giambattista andasse, nel cuore di Gian \ incen/o, oltre i termini del giusto e del ragionevole. Giambattista avrà meritato quell af fetto per maggior tenerezza e devozione al padre; ma questi, come vediamo dalla pagina che precede, nel 1633 non immaginava per lui altra sorte, tuor quella riserbata ai cadetti : milizia, od ordini sacri. Solo più tardi, nel suo testa mento (e le ragioni s’intenderanno dal seguito di questi Giornali) lo volle privilegiare sul fratello maggiore, costituendogli per sua parte di eredità la Signoria di Sant’ Angelo : onde la lite accennata. — 507 — Sovente adunque all’ intercessione della purificata oratrice insieme meco il raccomando ; e frutto delle raccomandazioni di lei giudico sempre ogni prospero avvenimento in noi. Di qui è che spero di aver ottenuto quel che desidero, mentre il nostro Gio : Battista ha già mosso il piede ov’ io già mossi il desiderio. Se il mio desiderio non avrà indovinato il suo beneficio, sarà ciò avvenuto per abbacinamento della mente, non per colpa della volontà. La mia volontà non sa mai volere altro bene che il bene de' miei figlioli. Ogn’ altro amore può rendersi sospetto d’alcun proprio guadagno ; ma 1’amor de’ padri non ammette questa gelosia, perchè amando i figlioli amano sè stessi. Potrò sentirmi tacciare di poco prudente nel risolvere, non di poco zelante nel considerare. E s’ altri mi biasimerà di troppo tardo nell’eseguire, sarà forse altri che, o mi scuserà, o mi compatirà; e tanto più quegli che prova quanto sia poco valevole la briglia della ragione ove punge lo stimolo dell’ affetto. So che 1’ affetto del senso deve cedere all’ amore del giusto ; lo so, lo so ; e perchè lo so, ho fatto quel che si sa. Ho voluto che alla passion mia prevaglia 1’ utilità di lui: ho voluto da quella privazione ridurmi a questa solitudine ; tutto perchè ho voluto prevenire quei malori che a lui potevano incontrare. Meglio è coi diversivi oprar che il male non venga, che con le scamonee studiar di scacciarlo dopo venuto. E questo basti per consolazione mia, che ne ho di bisogno; non per giustificazione del fatto, che non ne ha di mestieri ; e molto meno per sodisfazione di coloro che non informati, ma curiosi, delle onorate azioni altrui — 5oS — cicalano per dubbio, nè si curano che delle vergognose si parli per certezza. Ma se alcuno, forse più buono che maligno, mi obligasse a dar risposta, il mio rispondergli sarebbe il raccordargli, che Paolo Emilio, col mostrar agl'investigatori del repudio quella scarpa, che se ben liscia, pur nel tallone, da lui tanto sentita quanto dagli altri non veduta, 1’offendeva, ammutoliti i suoi sussurratori senz’altro egli dire, non seppero essi altro che dire. 21. 22. Domenica, sempre in casa, circondato da pertinace assedio di pioggie. Lunedi, come sopra, intor niato da molestissimo diluvio di lettere. 23. 24. Martedì, pur non mi movo; e nulla di meno sto col cervello sempre in moto. Mercordi col Salamanca ad informare il Giudice Teodoro nella causa di Caserta. Indi visitato dal Vescovo di Musco; poscia importunato dai Nuscani ; e finalmente travagliato da molte cure, me la fo nelle solite occupazioni. 25. In questo Giovedì 1 istoria mi forza a dar querela. So che la querela è fabricata su giustizia, perch è fon data su la verità........Sono molti anni che dal Marchese di Spinazuola mi sono dovuti molti danari : e sono alcuni giorni eh’ io sono alla porta del 1 residente Salinas, per mia disavventura commissario della mia causa. La mia causa, per istromenti chiara, e per sentenze chiarificata, ha sol di mestieri che per 1 esecuzione vada nella Regia Camera introdotta. L’introduzione viene impedita, da che l’informazione è rifiutata. Per 1’ udienza di questo Giudice l’accesso è impenetrabile. Se nella casa di lui si cerca, egli, 0 non vi è, o non volendovi essere sta rinchiuso, o partendo si serve del partito: — 509 — € Per posticum falle clientcm » (Orazio), sovra del quale ha scritto un suo retolo (i) spagnolo: « Vir por non oir ». E con questi scherzi di parole intanto schernisce altrui coi fatti ; nè potendosi dar ad intendere eh’ è vergogna aver le cure e non curarle, non sa rimoversi dalla pratica moderna per ritornare a quella regola passata, che sin da quella donnicciuola a quell’imperatore fu avvertita, quando ebbe a rinfacciargli: lasci di regnare chi lascia di sentire. 11 cercarlo in tempo nel quale egli non si trovi a tempo, o aspettarlo in luogo nel quale ad altri affari egli dia luogo, riesce, o vano, o pericoloso; perchè, o non si ritrova, o si ritrova per modo tale che si riman pentito d’ averlo ritrovato.........Dio sia quello che dia fine a questi guai, col dar la diligenza a chi ha data l’autorità.....I giudici avari di udienza tolgono il pagamento alla giustizia, e s’ addossano un debito nell’ anima e nella reputazione.......... 26. 27. Di Venerdì e di Sabbato, non avendo a dir di novo, non darò nova. 28. Domenica, perch’è la prima dell’Avvento, prima eh’ altro fare m’ invita a quell’ affare per la quale è destinato il tempio. Me ne vo dunque alla chiesa di S. Maria la Nova, dove il corpo del Beato Jacopo, contro 1’ ingiuria di molti secoli, ancor della sua carne oggi coverto, sta scoverto per tutt’ oggi che il glorioso giorno del suo felice transito raccorda. Mi passo quivi tutto il mattino in santa pace; « Poi mi rivolgo a la mia usata (1) Retolo, forse dal latino rettili, per detto comune, proverbio. Gian Vincenzo l’ha già usato un’ altra volta. — sio — guerra > (Petrarca). Mi convien guerreggiare, senza però combattere; mi bisogna difendere, e per difesa contrastare......Essendo piaciuto a Mons. Ercole Rangoni, Vescovo del mio Sant’Angelo, di repentinamente spalancare una porta in certa parte eh’ insieme è termine alla sua stanza, e muro alla mia città, per la breccia di lui, da me non aspettata, mi sento assalir nell’ animo da insopportabile ferita. Io non voglio a questo eccesso acconsentire ; io non voglio per me solo • • contro la forza ecclesiastica pugnare; onde oggi mi procuro dal Palazzo del Viceré quei soccorsi, che per favore del pubblico mantenimento possono mantenere la sicurezza del mio luosfo. Il fatto, sì segretamente fatto che da me appena ora è saputo, certamente è commesso a danneggiamento del-1’ altrui custodia, e niente meno in ludibrio della reale giurisdizione. Chi 1’ ha ordinato, non so se abbia avvertito che sagrosante sono le mura della città ; onde senza titolo di sagrilegio non si può contro loro usare offesa. Chi 1’ ha ordinato non so s’ abbia tenuto più la mira alla comodità sua, o s’ abbia fissato più 1’ occhio all’ onta mia.......... Questi è quel Rev.mo che in ogni tempo fu da me tanto riverito, e tanto amato. Questi è quel medesimo che l’altr’ ieri, in assenza d’ altro governatore, ebbe delle mie terre da me il governo. Questi è quell’ istesso che passò già meco tante dimostrazioni d’apparente amore, quanti offici io trattai seco di sincero affetto. Qual nova cagione, per sì poco utile suo, con sì poco rispetto mio, 1’ abbia così improvvisamente indotto a violar gli atti dell’amicizia ed esercitar le maniere dell’ostilità, chi lo - SII — sa? Io per me noi so. Ben è vero che quel che non si può sul certo giudicare, sul dubbio si può credere. Mezzo potente per acquistarmi 1’ odio di questo Vescovo è stato, a parer mio, 1’ acquisto dell’ ossequio di quel- 1 altro. Sono questi due Monsignori di queste due picciole mie città, quanto vicini per abitazione, tanto lontani per intelligenza. La rivalità è fomentata dalla vicinanza ; dalla gelosia son passati alla nemistà; questa fa passaggio alla ruina. Ma la ruina è de’ miei popoli. Si disuniscono dessi tra di loro, per unirsi sotto a queste mitre, che fatte elmi puntuti cozzano coi lor corni infuriati ; e mentre si urtano 1’ una con 1’ altra a più potere, quegli che da una di quelle è ben veduto, dall’ altra come partigiano è mal condotto. Ma se quel di Sant’ Angelo si fosse informato meglio, ben avrebbe egli conosciuto come non fu bene informato. Egli ha pescato un granchio, che se ben noi punse nell’ingoiarlo, l’offenderà nel digerirlo.......... 29. Lunedì, faticai nelle ordinarie mie brighe infino a notte ; arrivando la quale, il desiato arrivo e il caro invito del Savelli alla commedia di Palazzo m’ indirizzarono. 30. Martedì, veduta la santa Messa, fattomi sentire dal Reggente Rovito, trascorsa lung’ ora ccl Dottor Acquino, mi diedi a legger lettere, e nel medesmo tempo a dar loro risposta. Al fine, quel momento che la diligenza involò dalla occupazione, diedi al mio breve e solitario volteggiamento, lungo la riva di Chiaia dispensato. Già l'amena serenità di quel bellissimo giorno si corcava nel placido grembo di graziosa notte; e già tra i silenzi dell’aure, chetati i lor mormorii le immobili onde, pareva che su arenoso letto adagiate si dor- — 512 — missero, e che le stelle del cielo in grembo a queste sonnacchiose i lor pallidi sembianti consegnando, stanche dal moto e provocate al sonno, per coricarsi entro quest’ acque tacitamente si precipitassero. M’ incammino indi alla mia casa per la via del Palazzo : ma nella piazza di lui, da squadrone in armi è l’adito impedito. Mi è forza ritorcere il cammino: ma nel ripigliar la strada di Santa Lucia m imbatto nel Viceré, che dalla sua caccia alla reggia fa ritorno. Il divertire da questa adorazione tu impossibile : 1 appressarmi a riverire mi fu agevole. La mia riverenza da Sua Eccellenza fu accettata; voglio sperare anco aggradita. Ma perchè tutti quelli atti che sono di servitù sono di noia, dal mio libero cervello non tu liberamente giudicato se più del primo impaccio, o più del secondo avvenimento gli fosse rincresciuto. Solamente alla memoria quel verso, in questo caso, gli venne suggerito. « Ih cidit in Scyllam cupiens vitare Charybdim (Orazio). - 513 - Vili. Decembre. — Li porta male aperta. — Iniqua sentenza. — Il Segretario del Regno. — Un’ amicizia turbata. — Pioggia di creditori. — Il concittadino innominato. — Debitori morosi. — Le frutta inzuccherate e i panierini d’ argento. — Festa della Concezione. — La luminaria maravigliosa. — Buone nuove da Roma — La domanda di Mons. Raggio. — Risposta diplomatica. — Tra gli Odiosi il Fermo. — Dichiarazione d’impresa accademica. — Il Vesuvio e l’eruzione del 1631. — L’offerta di Carbonara. — Latet anguis in herba. — La bella Sofonisba — Pioggia di madrigali. — Impresa navale fallita. — 11 santo Natale — Pranzo erudito. — Fin d’anno in rammarichi. i. Mercordì, primo giorno dell’ultimo mese di que-t’ anno, entra per me torbido assai. Piaccia alla misericordia di nostro Signor Dio che non corrispondano ultima primis. Nella Consulta di Giurisdizione (senza però parlarsi di me) si parla oggi per me: vi è aperta la porta all’ informazione della nova Porta. Un cittadino di Sant’ Angelo, per parte di quella Comunità, la porta. Ma che? se appena è letto, di'è rifiutato il memoriale! Rifiutato senza cagione; causa non udita, e però rifiutata; lo investigarne altra cagione che quella sola, eh’essendo solita e manifesta mostrerebbe nell’ investigatore o poca sperienza o molta stolidità, non ha del buono : anzi, quel eh’ è peggio, entrandone a parlare sarebbe impossibile il non sapere come oggidì per la ragione la passione ci govèrni. È passato il tempo ove la giustizia distribuiva il tutto per tutti; or quel eh’è di tutti si — 514 — distribuisce a pochi. Però, per cifera, in questo caso: « furor patct, causa latet, sideribus in lucis ». Lo sa chi sa ogni cosa. O sia stata paura al semplicissimo suono del nome ecclesiastico, in questi temporali fatto formidabile ne’ petti di coloro i quali allora solamente cominciano a stimare quando cominciano a temere ; o sia stata schifezza de' supplicati, venuta dalla mendicità i * * del supplicante, avvegna che sempre incontro a straccioni i cani abbaiano, e di rado ha luogo la compassione ove il compatimento al guadagno non dia luogo; o sia stata prevenzione per 1’ industria, secondo 1 uso moderno, dal Vescovo adoprata, onde nel colore degli appresentati occhiali siansi travisate le diverse specie agli occhi, non so, non so ; « Quidquid id est, timeo Danaos, et dotta ferentes » (Vergilio). Questo è quel che pensai, e quel che dissi. Lo dissi perchè con ragione lo pensai : ma per la medesima ragione io non credei che avesse ad impedirmi, chi dimostrava maggior pensiere di sollevarmi. Se ne chiedessi la ragione a chi mi ha fatto il torto, son sicuro che tanto con la sua taciturnità sarebbe astretto a palesar la sua confusione, quanto con la sua azione ha discoverta la sua volontà. So che invece di rispondere gli converrebbe impallidire. Da chi non ha ragione, che ragione si può dare ? Il Signor Gio: Angelo Barrile è quel Duca di Cai-vano, e quel Segretario di questo Regno, del quale tante volte io fo discorso. Egli, così per condizione del suo carico, come per abilità del suo intelletto, è accomodato all’ espedizione d’ogni causa in questa Corte, se però si contenta di esser tanto liberale nel far piacere, - SIS — quanto è accurato nel ricever servigi. Ho fatto in ogni tempo verso lui quel tanto che ho potuto, perchè egli dispensi in me per titolo di dono quel tanto che mi è dovuto per obligo di pagamento. Ma se il perfidissimo destino mi ha indotto a fabricar gabbia d’ argento, per entro nodrirvi un diafano camaleonte, in cui secondo le nove imagini si cangiano i primi colori, merito io di esser biasimato, o di essere compatito? « Sento una voce mormorar d’ intorno > (Guarino) eh’ egli un simulato rancore covi nel suo petto, per non aver un certo officio per un certo suo dipendente conseguito, che, da un mio stretto parente dipendendo, fu da me strettamente in Genova procurato. Il certo è che come fu da me richiesto, così mi fu promesso ; ma il mancamento della promessa altrui fu impedimento alla promessa mia. Che poss io farvi? Quel che posso io faccio ; chiarisco eh’ io non aveva dato con parole quel che non fosse stato dato a me prima con lettere. Alla eccessiva pena eh’ io sopporto nell’ anima mia per la pessima azione altrui, brontola il Duca di voler aggiungere all’afflitto afflizione. Pazienza! Veggo ben io che questi sono di quei pretesti che sovente sa pigliare quei che dall’ amico vuol partire. Sempre è stato e sempre egli è pur troppo in uso, che « Qui vult recedere ab amico causam quaerit » (Cicerone). Non è il Duca' di Caivano così poco informato della verità, che non sappia come m’ incolpa senza mia colpa ; ma è tanto informato de’ miei gravi interessi, che sa come aggravare i miei negozi. Onde, parendogli di poter convertire la protezione in signoria, gli piace di rintuzzare con le sue finte querele le mie verissime doglianze. — >-i6 — Ora sì eh’ esperimento in me stesso quanto sia lodevole quel concetto, che sì come è buona regola il non esser mai tanto nemico ad uno, che non possa ancor un giorno farsi amico, così è buona usanza il non confidarsi tanto in un amico, che senza nostro danno possa ancor un giorno inimico divenirci. Gli amici da noi si eleggono, ma da noi non si conservano; perchè l’affetto inverso loro dipende dalla nostra volontà, ma il reciproco loro affetto inverso noi deriva dal lor genio. Non è amistà senz’amore; nè l’amore senza la corrispondenza può continuare. Tanto dura la corrispondenza quanto durano in amore i termini del pari; si oppone all uguaglianza la soggezione ; di amico si fa soggetto, chi tutti gli rivela i segreti del suo petto. Pervenuta a questo ec cesso, quella ch’era amicizia è servitù. Ecco perchè spesse fiate quelle amicizie che con facilità si tanno, con difficoltà poi si mantengono. 2. Giovedì, eh’ è il secondo, mi riesce secondo il pronostico fatto già nel primo. Non dissi ieri che il mese era per me entrato turbinoso? Ecco già vicinarsi 1 a spettate procelle. Avvien di rado che tuoni, e che non piova. Ecco la pioggia. Piovono già , dopo le antiche, le nuove pretendenze di creditori sopra la misera mia compra. Ecco lo stesso Caivano, il Consiglier San Felice, il Dottor Caracciolo, ed un Cavaliere Genovese, da quattro varii lati, quasi quattro venti, sibilar contro la mia sdruscita barca quelli impetuosi soffi, che atterrano, o atterriscono. Ma il mio Fiacco fa del timoniere non fiacco. Eccolo sulla poppa della sua poetica filosofia tutto gagliardo rinvigorirmi con quei detti: < Non sempcr imbres montibus hispidos — Manant iti agros, aut tnart. - >17 — Laspium, — Vexant inaequales procellac ». E il medesimo, dopo avermi rincorato con 1’ esempio, m’ istruisce col precetto: « Sperat infestis, metuit secundis — Alteram sortem bene preparatimi — Pectus ...» Allegramente adunque, se le procelle sono augurii delle bo-naccie.......... Mi fastidisce in questa navigazione, e mi nausea bensì, quell innominato mio patriota di vedervi. Certo non posso vederlo senza compatirlo. Egli è ingannato, e tra gl inganni è forza che s’ addestri ad ingannare. Egli è gentiluomo, è mio padrone, ed è mio amico; onde, essendo novamente egli arrivato a queste parti con risoluzione di contender anch’ egli su le parti di Sant’ Angelo, dopo di avermi trovato pronto a terminar le liti senza litigare, si contentò di mostrarsi inclinato all’aggiustamento d’arbitri, amichevole, per meglio avvalersi nel medesimo tempo della sentenza de’ giudici, severa. Ma venendo dalla giustizia della mia causa rigettata I avidità della sua domanda, mi fece grazia di promettermi la pace. Credo che fosse errore di penna, e non di volontà, quando in un suo viglietto mi parlò di non volerne più parlare. Questa quiete vuol forse ella dir guerra? Oppure in questa guerra ella inferisce tregua? II commentatore del testo la dichiari tregua, a fine di guerra, tanto più offensiva, quanto meno aspettata. Eccoci dunque alla guerra: ecco piantata contro di me l’artellaria; ma però con tal destrezza, che del cannone prima si è udito il rimbombo che veduto il lampo. Ecco la palla, ma involta in un papele di giudiziale citazione. Questa s’indirizza da sagace bombardiere al sequestro del mio Stato: ma il mio Stato ancora sta; — 5lS — e non solo non cade, ma non crolla. Se 1 avversario il vince per la breccia, sia suo prò’; non mi dorrò giammai d’esser superato dalla batteria; mi dorrei ben sempie quando mi fossi lasciato ingannare dalla sorpresa. 3. Venerdì, quanto più mi trovo ammaestrato dall e-sempio di coloro che sì solleciti si affaticano in dimandare a me ciò che a lor non devo, tanto più mi sento stimolato a sollecitar coloro da’ quali è lungo tempo che io non posso avere minima parte di quel molto che mi hanno a dare. E pur nel catalogo di questi io leggo i nomi de’ migliori ; i Principi di Stigliano, di Conca, di San Severo e simili. Il punto sta che bisognerebbe lo star sempre in questa Vicaria, ove 1 Vicarii da noi costituiti si sono per lo più da’ nostri abbassamenti sollevati. I debitori, non eccitati a pagare il debito, non lo pagano; e mentre tardano il pagamento, di buoni debi tori si fanno al hn cattivi ; o sia colpa della fortuna che gli altrui danari rotolando fa girar nel basso quel che prima era nel colmo, o sia vizio del debitore, che viene a stimar lecita quella medesima pendenza che profitte vole gli rese la mancanza.......... 4. In questo Sabbato non fo altro che quel che studiando posso fare, senza uscire. 5. Domenica, per alquanto respirare, esco invitato a godere nella amenità d’ un giorno che in nulla a quei della state è disuguale. Mi diporto nel solito volteggiamento lungo le mura di Santa Lucia.....E perche meglio questo giorno con quei dell estate possa gareggiare, dovizioso di frutti lo faccio nel ritorno comparire. Conciossiachè, trovandomene in casa dei conservati in zuccaro, ne dispenso gran copia a questi dispensieri delle — 519 — pubbliche possessioni. Chi sa, dico io, se il dolce delle mie colline rendesse meno amaro 1’ assenzio di queste pianure? Si appresentano dunque le mie inzuccherate raccolte in varie paniere accolte, e in diverse maniere repartite : qual s’ indirizza al Caivano, qual s’ incammina al Caravita, quale al Salinas, quale al Gennaro, quale al lappia, e quale ad altri si conduce. In Napoli è invecchiata costumanza che con quei frutti che si vendono, quei canestrini ove s’ acconciano, e che quadretti si addimandano, al compratore senz’altro pagamento si consentano. Ed io, per farla secondo la foggia del paese, mando in dono quei panieri che dei trutti ch io mando sono i portatori. Giovami all’ intento ch ove quelle ceste dei fruttari con verdi giunchi dai flessuosi vincigli tanto sottilmente s’ intrecciano tessute che si disfanno a mala pena fabricate, queste di massiccio benché pieghevole argento su 1’ incudine ritorte, del proprio peso fatte gravi, ogni altro peso in loro introdotto mostrano leggiero.......... 6. 7. Lunedì, la commedia di Palazzo, e molto più 1 autorità del Cardinale, m’ interruppero il corso dello scrivere. Ma tanto più faticoso emendai nel Martedì l’involontario impedimento. Dal principio dunque della giornata per insino alla metà della notte non mi distolgo o dall ostinato mio lavoro, se non quanto per lo giro di un ora io giro quella parte della città dove ciascuno è invitato a veder pompe giammai non più vedute in allumati ardori sì splendenti. Per opera di questi splendidi artifici, nell’imbrunirsi il cielo, miro ogni intorno rischiararsi il mondo. Oggi è la vigilia di quella festa che si solennizza per la santa Concezione della santis- — 520 — sima Vergine, Madre di Dio e protettrice dell Universo..... Oggi per tanto questa gran città tutta foco per celeste ardore, in un medesmo tempo è tutta foco per ardenti fochi ; perchè da mille parti fa scintillar innumerabili le faci, che d’ogni intorno, così alle sommità delle chiese, come alle finestre delle case non men giudiziosamente che riccamente repartite, apportano a’ riguardanti una veduta maestosamente leggiadra, devotamente superba. Le macchine più nobili ebbero per base le fabriche più eminenti ; onde ne’ castelli reali pompeggiarono regalmente. Il Castello Nuovo non ebbe di vuoto nel vastissimo suo giro ove più capissero i doppieri. Le fiacco e accese, le piramidi allumate, le girandole folgoranti, ogni vacuo all’ aria riempierono; onde a lui fu di bisogno fuor della propria soglia nello spazioso sito delle confi nanti piazze alloggiar i proprii lumi. Quivi lunghe file di vuote botti, e se non vuote, non più d umido umore ma di vivace incendio fatte piene, non più per gli est r cizii di profano Bacco, ma per li sagrificii di religioso Vulcano custodite, in doppie squadre si videro schierate, e queste da schiere militari così maestosamente ne loro ordini divise, che tra i lampi delle fiamme, e tra le fiamme degli armati, altro più non iscorgendosi che fiamma, per troppo chiaro non più 1’ occhio vedeva se in quei contorni fossero più intiere, o pur fossero abbruciate le persone...... L’umiliato e piccolo castello che per l’ovata sua positura chiamasi dell’Ovo, il quale, penisola in questo lito, è quasi porta a questo porto, non perdette 1 opportunità d’innalzar con gli altrui fregi la disornata sua — 521 - bassezza ; ma quasi imitatore della malizia donnesca, quando essa, supplendo col posticcio dell’ arte al mancamento della natura, all’altrui maggior grandezza sa uguagliar la nativa sua bassura, egli, scelti tanto più luminosi quanto più diritti gli artificii, sopra le sue mura fece comparir merli di raggi, e fece serpeggiar cordoni di lumiere. Quindi, accese splendide miniere di condensata polve, fece sopra archi di lampadi lampeggiar rote di foco. Onde non più Castello, ma parve Stromboli in quest onde; le quali, invermigliate da quei baleni i trasparenti loro aspetti, quasi ridenti accennarono il giubilo sentito nello specchiarsi di quelle faci che impressero i loro splendori in loro. Quello spazio di mare, che soleva oscurarsi per l’ombra di questo Castello, or serenato per la fiamma del medesimo, tanto oltre estese l’acquistata luce, che ne indorò la faccia alle vicine rive; alle quali riflettendo le remote sP'agge> parve che unitamente alla prima cagione de’ loro raggi graziose rendessero le grazie de’ loro onori. Chi peregrino viandante si trovò lontano spettatore di queste inaspettate maraviglie, o pensò che questo fabricato scoglio per asciugare il pelago mostruosamente fosse acceso, o giudicò che un qualche incendio di vapori nell’ aere cumulati in questo luogo a galla fosse prodigiosamente disceso...... Finalmente il Castello di Sant’ Elmo, superiore a tutti per lo sito, non volle esser inferiore agli altri per l’adornamento. Onde, oltre l’immenso artificio de’ lumi, e l’indicibil copia de’ fuochi artificiali, de’ quali ogni suo fianco sfavillò, sovra il più erto suo torrione la figura di Nostra Signora Santissima cotanto in alto eresse, che, Soc. Lia. St. Patui». Voi. XXIX. tisc. 11. 54 avvicinata al cielo, così l’Assunzione come la Concezione di lei simboleggiò. Questa gloriosa statua da ingegnoso architetto composta, smisuratamente ingrandita, maravigliosamente nell’aria librata, tutta quanta di lumi era tessuta; perchè da gran corona di stellate lampadi avea cinto il capo; da gran cerchio di ordita luna avea splendente il piede ; aveva il manto da tanti e tanto vai ii raggi tempestato, che per confuso cumulo di lumi ne appariva un lume solo ; anzi ne appariva un sole, fatto a posta per dar luce a quella luna, che a lui sottoposta, da lui si pregiava di essere illustrata...... 8. Mercordì, appena l’aurora ebbe al vegnente sole aperto l’uscio di rubino, eh’a’ miei passi apro il sentiero ver’ Santa Maria la Nova, ove da nova maesta d’ogni più ricco apparato, da sonoro concento d’ogni più soave musica, da numeroso concorso d ogni più devota e insiem d ogni più curiosa persona, si celebro della corrente Festa la solennità. Intorno alla quale basti il dire che la grandezza della Festa punto non s’impicciolì per le grandezze della vigilia......Alle infinite glorie di questa celebrata Concezione questo nostro mondo è angusto sito: perciò nel mondo celeste le immense glorie di lei trovarono l’albergo. E noi che facciamo? In simi-gliante guisa, perchè a sciorre i nostri voti incapace ancor che vasto è questo tempio, oggi nel claustro fac-ciam tempio. Quivi in lunghi corridoi e in larghi spazii, gli altari da pregiate gioie, le pareti da ricchi arazzi, le cornici da folti lumi, le volte da serici festoni oltre ogni credere addobbate, contrastando fra di loro di precedenza, e gareggiando di devozione, invitano a’ loro abbellimenti e gli occhi e i cori, acciocché in questi - 523 — ministeri chi è professor di fede si faccia ministro di pietà. Dunque, di questi due luoghi la comunicanza diede luogo in tutt’oggi alla frequenza; e questa diede forma a quelle processioni che dal clero e dal popolo si ferono. In questo mentre non si sentì altro che preci, nè si disse altro che lodi, con certezza che dalla misericordiosa nostra Imperatrice quelle che saran state ben dette saranno state ben sentite, anzi benedette. Sopraggiunge intanto la notte: dà il suono l’Ave Maria: si risaluta la Madre della nostra salute, non pur coi fiati della bocca, non pur con 1’ artellaria dei Castelli, non pur con la moschetterà dei soldati, ma con 1’ applauso dei cittadini se le appresentano con 1’ omaggio dei cori gli ultimi sospiri. Ma perchè non pare al mondo di compiutamente riverire il cielo, se non accoppia la gioia celeste con 1’ allegrezza terrena, il Palagio regale, con l’assistenza de’ Regii e con l’adunanza de’ Nobili, e in balli e in commedie per grandi ore dimorò. 9. Giovedì, fanno a me ritorno il gentiluomo, il prete, e quei della famiglia che in Roma accompagnarono mio figlio. Mi recano di lui,'così negli scritti di lui, come ne’ detti loro, non men liete che desiate le novelle. Ricevo lettere, su questo a me rilevante affare, così da’ padroni come da’ parenti molto graziose, e per conseguenza molto grate. Sono queste e quelle tanto canfacenti al mio bisogno, quanto proprie della lor benignità. Mercè de’ miei protettori già sento fatto alloggiamento di Gio : Battista quel collegio che addimandasi de’ Maroniti. Quivi dall’ amorevole accortezza di que’ rettori mi affido ch’egli sarà ne’ buoni costumi custodito, e nelle belle lettere — 524 — insegnato. Dio gli dia grazia per riuscire imitator di suo padre; però nella fatica, non già nella riuscita. Vorrei che m’uguagliasse nella volontà, ma che mi superasse o O nella sorte...... 10. Venerdì, 1’ opportunità, per non dire l’impertunità, dello scrivere al mio Stato, tutto il giorno mi fa stare nella mia camera. 11. Nel Sabbato, con 1’espedizione del procaccio mi convien spedir lettere a Roma. Non fo dunque altro che scrivere. Il perchè, dopo aver provveduto a negozi con gli ordini, dopo aver compito agli amici coi complimenti , e dopo aver predicato a mio figlio coi raccordi, mi è bisogno temperar la penna e cercar buon inchiostro a fin di sodisfare a Mons. Raggio (ì) con lunga diceria. E crii con certa occasione di alcuni avvisi intorno le pra- o tiche della guerra Savoiarda nella Corte Romana perve-nuti, mi obbliga più tosto allo scioglimento di un problema, che alla risposta di una lettera. Vidi lo scoglio, nel quale di facile era per urtare; chè radendo il lito delle domestiche faccende poteva tal cosa profferire, che altrui non conveniva palesare. Talora 1 esser troppo libero nuoce all’ essefe della libertà. E sempre nelle cose pubbliche il tener legata la favella è il legame del governo. « Taciturnitas rerum publicarum vinculum » fu il detto di un grande, che fu detto massimo (Valerio Massimo). Il buon cittadino, consigliando alla sua patria, non deve mai tacere; ma parlando della sua patria, non ne deve se non molto cautamente divisare. Troppo deli- ii) Ottaviano Raggio, genovese, auditor generale della Camera; fatto poi cardinale, il 16 Die. 1641. - 525 — cata è la materia di Stato; troppo necessaria è la custodia del segreto; mostrerà di saperne più chi ne ragionerà meno. 11 finger ignoranza a luogo e tempo, è gran prudenza. Sempre si è obligato a non dir la menzogna; ma non sempre si è obbligato a dir la verità. Se de’ fatti d’ altri è male il ragionare, elei fatto pubblico è pessimo il discorrere. Piglio dunque il cammino per mezzo golfo, e distorcendo il timone dalle nostre rive spiego la vela di carta all’ aure di que’ spiriti, de’ quali a me piace far menzione in questo luogo, perchè in ogni altro luogo mi giovi, più per giustificazione del mio scritto, che per ostentazione del mio detto : « Ill.mo Rev.”10 Signore. « Se più tosto una disavvantaggiosa pace o una pericolosa guerra abbiano le Repubbliche da eleggersi, V. S. 111.™ propone al mio parere. Oh Dio! e qual parere posso aver io? Non fui già mai professore di politica: oggi esercito più la pazienza nelle liti, che lo studio nelle lettere: invece di trattenermi nei governi mi è necessario l’adoprarmi nelle servitù. V. S. 111.“ che ha fatta la proposta, faccia la decisione. 11 problema è tale, che sì come è proprorzionato al mio poco intendimento, così è confacente al suo grandissimo intelletto. Ella che mi ha mosso il dubio solamente per favorirmi, mi levi dal dubio certamente per ammaestrarmi. Fin d' ora alla sentenza Sua si sottoscrive 1 opinione mia. « Parmi di scorgere V. S. 111.°“ con mal sentimento della mia ritirata. Vuole eh’ io purghi la contumacia della disubbedienza? Ecco i testimoni dell’ignoranza. Ho sempre — )26 — mai sentito dire che la natura è la maestra della ragione > (i)...... 12. Domenica, la continua piova sul tardi a pena mi levò di pena. È gran penare, il desiderare e il non potere. Non potei dunque uscire sino al tardi, che uscii per spasseggiare. Fu brieve il passeggio, ma dilettevole, perchè fu con 1’Eminentissimo Savelli, nella di cui carrozza volteggiando i più prossimi contorni, si raggirarono i più piacevoli discorsi. 13. 14. Lunedì e Martedì, a fatica della faticosa mia diligenza si superò la solita faccenda dello scrivere, accompagnata dalla solita molestia del negoziare. 15. Mercordì, passo complimento di visita all Abbate Savelli, nepote del Cardinale, che per visitare il zio venne da Roma; e con l’opportunità di rallegrarmi della sua venuta, gli offerisco la mia devozione. Quindi passo all'Accademia, nella quale più per sodisfare all obligo che per compiere al genio, propongo alla censura, se condo le accademiche leggi, l’accademica mia impresa. Fu mia impresa che dall’impresa generale, così negli attributi come nei titoli, la mia particolare avesse dipen (1) E via di questo passo per sette grandi pagine, menando il can per 1 da diplomatico vero. Periscono le piante, 0 per corruzione, o per violenza, n altrimenti i popoli. Il buon cittadino imiti il buon giardiniere, sradichi i vizi, rip la città dai nemici. Mantenga la pace, che è pietra fondamentale dello Stato. La guerra impoverisce di denaro, di traffichi e d’ uomini. Tutte le guerre pericol Ma s’ avrà da ceder sempre ai violenti? Ci si perderà di reputaz one e di territorio. Segue una serie di distinzioni, tra guerre vicine e lontane, tra guerre con alleati o senza, tra guerre contro forze superiori 0 pari, 0 minori; esposizione dottrinale, non accenno a risposta, come pareva desiderarla Mons. Raggio, da cui Gian ^ in cenzo prende commiato con queste parole: « Meam solvi quaestionem, dice Seneca. Ed io dico a V. S. Ili “ che già col fine del mio scrivere finisce il tedio del Suo leggere ». — 527 — denza. Questo intento, più per necessità che per elezione, nu porse all’animo questo concetto: un Sole in solstizio, per corpo; « Firmius ut ocyus », per anima; il Fermo, per nome. Che il Sole di questa mia propria mostri connessione col Sole della comune impresa non mi spiacque, mentre di quella devono essere membra tutte le altre. Che il solstizio, espimente quel maggior ozio che goda il Sole, mi dichiari Ozioso, in tanto non ebbi per importuno, che l’ebbi per necessario. Che il riposo del Sole sia cagione di maggior moto al Sole allor che dalle Antisie del Cancro per ordine retrogrado ripasseggia nel Zodiaco, mi fu caro, perchè mi fu accomodato ad accennare quella utilità che dall’essere Ozioso, o si riceve, o si pretende. Questa utilità nel fine, per non errar nel mezzo (conforme alle buone regole) per lo corpo solo non si conosceva, se dal motto non si dichiarava. Questo motto del tutto non mi aggradiva, se col nome non si confaceva: nè il nome a me piaceva, se col nome degli Oziosi e con 1’ ozio della mia impresa non si collegava. Per tanto, sì come il motto dice: « Jirmius ut ocyus », così il Fermo al nome accademico dà il nome, ed alla impresa reca il significato. Ma chi sa? Se questa mia fattura dopo 1’ altrui censura resterà senza spirito, pur io non resterò senza guadagno; perchè non meno amo di umiliarmi agli altrui biasimi, che d’ innalzarmi a’ proprii studi. Anzi di questi io mai non mi vaneggio: da quelli sempre imparo, e tutti i miei compiacimenti ripongo in quel diletto solo, del quale parlando il Petrarca protestò : « Altro diletto che imparar non trovo ». 16. Giovedì, questa città con generali processioni e con particolari dimostrazioni pagando debiti di cattolica — 528 — pietà, rese al Salvatore orazie di affettuosa riverenza, ò rendendogli in annuario tributo la devota rinomanza della propria salvezza, oggi è l’anno, dalla divina misericordia mirabilmente conseguita, allorché nella notte dei quindici, precursore al giorno dei sedici di questo mese, per 1 orrenda non meno che improvvisa squarciatura del confinante Vesuvio, in un tratto si ridusse a termine, che sospirò la sua ruina senza termine. Ora ella dubitò per le fiamme di quello sboccato incendio di abbruciarsi : ora temè per le diluviose ceneri di quel foco di viva seppellirsi-' ora per le formidabili saette aspettò tutta quanta di distruggersi . ora per li frequenti baleni credette tutta quanta di assorbirsi: ora per li continui terremoti s’impaurì tutta quanta di affondarsi. E sì come per la funesta caligine "venuta ella nel venuto giorno non vide giorno, così fu in forse s ella avesse più a vedere altro giorno di vita successore a questo, già fatto geroglifico di morte. Lo spettacolo fu orrendo. Quell’ orrore è indicibile che a pena è immaginabile. Dirassi orrore senza rimedio, spettacolo senza esempio. Dicano il rimanente quelle istesse bocche le quali si apersero, e che i loro fremiti con gli aerei tuoni mescolarono...... Solamente io dirò che non fu core così duro, che non si attenerisse ; non fu mente così stoica, che non si conturbasse ; non fu anima così perversa, che non si compungesse; non fu casa che non si disloggiasse ; non fu chiesa che non si empiesse ; non fu devozione che si preterisse; non fu scampo che non si cercasse. Se il Monte si mirava, altro non si vedeva che monti di nero fumo sopra monti di vermiglia fiamma, che unitamente, con spaventosa rabbia tra le nubi delle caligini confusi, — >29 — alle nubi dell’ aria minacciavano 1’ incendio. Se dal Monte alle pendici si abbassava il guardo, ivi altro non scorgeva che aggiunti novi monti al monte ; monti che dalle ruine del monte furono ingranditi, perchè da’ pietrosi vomiti dalle aperte gole accumulati, da mosse viscere immobili cresciuti, non pur le suddite riviere, ma le prossime cittadi, con miseranda strage degli alberghi e degli abitatori, sotterrarono. Se l’occhio da sì lagrime-vole oggetto della terra si voltò verso il mare, non vide mare ; imperciocché, o assorbito dalle crepature, o soffocato dalle ceneri, o rattenuto dalle fiamme, per lo spazio di quaranta passi e per lo corso di sette minuti si ritiro da questi lidi. Vide bensì le galee, e 1’altre macchine navali nel porto naufraganti seder nel porto asciutto impantanate; e vide ogni intorno sopra 1’ acque mezzi abbrustoliti galleggiare i pesci ; e vide nella ghiara da sulfurei sabbioni tutte coperte le salate arene sembrar vestite di funebre lutto. A questi tanto veri quanto strani accidenti, chi potè star saldo? Chi, nel mezzo a tanti tremori dell’ aere, del suolo e dell’abisso, non tremò? chi non giudicò questo giorno per 1’ ultimo della età del mondo, e per lo primo del giudicio finale? La gente fuggiva, senza sapere, senza pensare ove fuggiva. Chi, obliate le robe, gridando misericordia , con nudo sasso il petto ignudo si batteva : chi per le strade, senza alcun risparmio, ad alta voce le commesse scelleraggini confessava : chi le braccia incrocicchiate e il capo chino, già stimandosi morto, sotto il proprio mantello sè stesso seppelliva. Colà vedevansi le donne, fatto dono de’ lor monili, far istrazio de’ lor crini: colà vedevansi i teneri figlioli alle distrecciate chiome — 53° — delle scapigliate madri, per poter seguitarle, avviticchiarsi: colà vedevansi curvi i vecchi, dal fiacco bastone sostenuti, per affrettar col gagliardo desiderio il deboi passo, cader bocconi. Ma non solamente cadevano questi : che pareva il del cadesse, non che il mondo precipitasse, mentre coi rimbombi del cielo gli strepiti del mondo, e con gli strepiti del mondo e del cielo formavano orribile concento le grida de’ mortali. Gli omèi degli amici facevano eco agli ohimè dei nemici: le doglianze della no biltà crescevano le doglie della plebe: co’ pianti delle mogli si univano i singhiozzi de’ mariti : con le strida degli uomini, per maggior portento, si confondevano gli urli ancor de’ cani. So che di questa lagrimevole istoria, sì come è divul gato il tragico racconto, così è palese l’inaspettato avveni mento. So che a tutti è manifesto come svaporata dalla pertugiata caverna l’accesa esalazione, a poco a poco man cò quel foco impetuoso, cessò quella pioggia arenosa, tranquillò quel tremoto veemente, e si fermarono insieme co tremori degli edificii i tremori degli spaventi- - ° che a tutti è nota la naturai cagione di questo lasti moso effetto. Imperciocché, altro non essendo questo Monte che una gran massa da materie bituminose fabri cate, qual esca al foco rendesi accendibile. Si accendono, gli uni con gli altri riscaldandosi, quei vapori che nelle sotterranee vene di lei si chiudono concentrati. Questi infocati vapori cercano esalazione, e come che secondo Aristotele ogni elemento procuri alla sua sfera di nu nirsi, con ragione alla regione superiore tentano di acco starsi. Ma dalla interposizione del sole, quanto in l°r0 disseccata l’umidità, tanto impedita la respirazione, - 531 - quanto più violentemente studiano di sprigionarsi, tanto più inestinguibilmente vengono ad accendersi. Accesi, non possono star coperti; e sì come senza i rompimenti del coperchio non possono scoprirsi, così senza i terremoti del paese non possono dischiudersi. So che ognun sa come per la medesima cagione questo istesso accidente, in questo istesso Monte, in tre varii secoli è avvenuto. La prima volta negli anni ottantuno ( i) della nostra salute e nel regno di Tito; la seconda negli anni quattrocento settant’ uno, e nel regno di Severo (2); la terza negli anni Milleseicento trent’ uno, in questi nostri tempi, questa gran montagna, di montagna in fornace si è ridotta. Questa montagna, prima altissima, onde per la sua sommità fu detta Somma, dai triplicati abbruciamenti oggi abbassata, pare che alla pianura del più basso suolo ormai voglia prostrarsi; mentre di continuo dentro di sè medesima avvampando, e nel concavo suo grembo sin dalle piante di zolfo le coste delle pomici in bragia riducendo, già già dalla fumosa gola, che per lo giro di ben cinque miglia è spalancata, fa palese come nella caverna delle sue ruine ha trovato la fossa delle sue ceneri. 17. Venerdì, nell’ora del pranzo ricevo una visita, (1) Veramente nell’anno 79, e il 2\ di agosto. (2) È da rilevar qui un error ma'.criale. La seconda eruzione del Vesuvio fu del 203, sotto Settimio Severo; la terza nel 472, famosa per il fatto che le ceneri del vulcano furono trasportate dal vento infino a Costantinopoli. La eruzione del 16ji ( 16 dicembre) non fu la terza nè la quarta: già nove se ne contavano nel 1500; e poi ne crebbe il numero a parecchie diecine. Certo, quella del 1651 fu delle più terribili: distrusse Bosco, Torre Annunziata, Torre del Greco, Resina e Portici. — 532 — e tanto meno aggradita quanto meno aspettata, dal mio signor Duca di Caivano. Soviemmi il mio già fatto pronostico. Nel veder il suo gioviale aspetto, mi dice il core : « latet anguis in herba » (Vergilio) Certe serpi, mentovate da Plinio, appunto si ritrovano che Anfesi-bene si addimandano. Ognuna di queste ha due teste, e mentre con 1’una vuol una qualche cosa abboccare, con 1’ altra s’ infinge altrove di vedere. L’ immoderata ostentazione del favorire deriva il più delle volte da preparata volontà d’ ingannare. Ecco dal fatto confermato l’indizio. Viene egli, sotto specie di recarmi un’ottima novella, a darmi avviso che ha tolto il mio luogo di Carbonara dall’occupazione del Principe di Caserta, a fine di consegnarlo alla possessione mia, da cui fu tolto. Gnaffe! so ch’egli mi farebbe la grazia, quando io facessi il pagamento. Ma sa ben egli ch’io non sono per riceverla, perchè mi converrebbe pagarla. Non fu mal pagatore chi pagò una volta. E perchè una volta ho sodisfatto al Duca di Nocera, ven ditore di questi territorii, già stava per esser io sodisfatto da quel Commissario che in altri la trasferse : già stava per riscotere la mia terra dal Caserta, che se ne impos sesso, come creditore del Nocera, quando mi si appre senta necessità di rinfrancarla dal Caivano, come creditore del Caserta. Qual ragione possa aver egli per pagarsi, è da vedersi. Intanto, come ad istanza del Caivano, senza pur essere • • • udito io mi ritrovi condannato, sarebbe da stupirsi..... Egli in questo Regno ha il nome di Segretario e il dominio di Padrone...... Chi sa? Forse la volontà del Caivano non fu di operar male contro di me, perche — 533 - noi merito ; ma fu solamente di far bene a sè, perchè ciascuno lo procura....... 18. Sabbato, fo gran dimora alla porta del Reggente Fappia, ma con perdita del tempo, perchè senza guadagno del negozio. Quindi mi affatico nell’ informar nelle lor case gli avvocati delle mie cose. Poscia mi aggiro a molte curie per accappar (?) molti scritti appartenenti alle mie cure. In appresso mi adopro con certi Palatini, appresso de’ quali sta la spedizione di alcuni miei memoriali. Finalmente visito il Conte di Chiaromonte, per occasione di condolermi seco lui della perdite novamente da lui fatta del maggior suo figlio, in cui l’età giovinetta non impedì quelle prerogative, che maggiormente adornano 1’ età perfetta....... 19. Domenica, vo col Cardinale alla commedia. Ora i giorni contano sì poche ore, che poche azioni fatte di giorno si possono contare; e però di quelle della notte fo racconto. 20. Nel Lunedì ritorno al medesimo Cardinale, da Sua Eminenza convitato alla soave musica della sua bella cantatrice; alla quale mi piace in questa occasione offerire certi versi, che voglio accoppiare in questa carta. Essi furono fatti per ubbidire a chi mi deve comandare, e furono fatti più tosto per cantare che per leggere____ Occhi saettatori. Udite occhi leggiadri, occhi guerrieri; Voi non sete occhi, no, ma sete arcieri: Ch’ al saettar non tardi, Archi fate le ciglia e strali i guardi: Pur con sì varia sorte - 534 - Ch’or sete armi di vita, ed or di morte. Ah, mento; che vitali Son sempre i vostri strali; Anzi sol vive poi Chi ferito da voi more per voi. Parole ingannatrici. Troppo amare saette Di dolci parolette Tra bianchi gigli e tra purpuree rose, 0 nemica d’ amor, mantieni ascose. Ed io, se ben mi avvedo Che tutto avvampi di mentito ardore, Pur sì lusinghi il core Che più dò fede a quel che meno io credo. Crudel, se d’impiagarmi, Ahimè, con le finte armi anco hai potere, Che farai con le vere? Lontananza peggior di morte. De la mia vita privo, Ohimè, come son vivo? Ah, non son vivo, no; ma per mia sorte Nel cadavere mio vive la morte. Deh, morte, anima mia, Già che lasciasti me da me partire, Col lasciarmi or morire, Se già fosti crudel, doventa or pia. Ma, lasso, in più martoro Moro, perchè non moro. Bella in maschera. Mascheretta beata, Che copri il paradiso, Perchè, perchè spietata, Del bell’angelo mio mi ascondi il viso? — 53 5 — Forse a fin d’involarmi Il tesoro che godi Celato entro a tue frodi, Procuri d’ingannarmi ? T’inganni, o ingannatrice. Ah, che quel volto Più che mai vivo è in me, se in te sepolto. Noi vede l’occhio, no, ma ’l vede il core; E se mel togli tu, mel dona Amore. Burlesco. Se il vostro guardo, o donna, è sì omicida, E mi convien eh’ un mio nemico uccida, Deh, senza eh’ io li tocchi, Prestatemi i vostri occhi; Ch’ io con la vostra aita, A chi morte mi dà vo’ tór la vita. Millantoso. Se in altra guisa non si può morire Che col perder la vita, E ognor più incrudelita, Donna, sì gran desire De la mia morte avete, Morite voi, che la mia vita sete. Amante non riamato, e sempre amante. S’Amor non ha fermezza, L’ esser fermo in amar è pur sciocchezza. Mira, o folle pensiero, Che quando ingrato è Amor, è Amor men vero. Dunque ancor non sei certo Che la sorte in amar vai più che il merto? Non vedi il tuo tormento, Che tanto è più mortai quanto è più lento? Ma lume non hai teco; Che non è cieco Amor, l’amante è cieco. 9 - 536 - « Fuggitivo Amore. Oh miseria inaudita; Nel cominciar l’amor finii la vita : Che quasi in un istante Fui riamato, e fui schernito amante: Onde nel viver mio sì fuggitivo Non so se vissi mai ; so eh’ or non vivo. Scorsi bambino affetto Pargoleggiar a la mia Donna in petto; Ma nato appena , il sento, Tomba fatta la cuna, esser già spento. Quind’io dico a me stesso: ah che mia sorte Nel nome è vita, e nell’ affetto è morte ! Dunque Amor, eh' è immortale, Trovò la morte ove provò il natale? Sì, sì, che in crudo core Dove more pietà non vive Amore. Ma se quel fosse Amor chi m’assicura ? Non è mai vero Amor quel che non dura. A quei fallaci rai Tanto m’ accesi allor, quanto sperai. Ma in speranza non vera Tanto si more al fin quanto si spera. Che se ben mi fu grato allor mio foco, Meglio è non goder mai, che goder poco. 2i. Martedì, bisognò badare ad altra musica. Ben so che di quella che nel giorno d’ ieri fu goduta, non può godere ogni giornata : lo so, ma in ogni modo, perchè un opposto fa parer l’altro maggiore, il piacer d’ieri mi fa spiacer maggiormente il dolor d’ oggi- Pren derei in patto 1’ udir ciarambellare la sconcertata chitarra d’ un barbie quattro romanzi su e, più tosto che il — 537 - sentir intonare quelle funeste antifone, eh’ entro un fascio di lettere mi pone in tavola il procaccio. 22. Mercordì, non uscii dalla mia casa, se non quanto mi condussi alla casa di Paolo Gerolamo Pallavicini, che per suo diporto e per suo negozio è giunto in Napoli. Il medesimo ufficio di creanza tento alla porta del Generale Don Melchior di Borgia, arrivato dalla Barberia due giorni sono con tutte quelle galee di questa squadra, Cùn (luali da quel mare egli procurò una tal sorpresa in terra. Il proponimento fu valoroso; l’occasione fu opportuna; ma il successo fu infelice. Si pensò di occupare il borgo di Pistacchio, e quivi svaligiare una gran facoltà, che in quel tempo eravi da più parti accumulata per lo traffico di certa fiera; quando, avendo già i nostri legni armate prode nelle arene, e quasi quasi le amate prede alle mani, sono forzati dalla procella non sola- mente a lasciar la vittoria, ma a lasciar molti Spagnoli ajl ' i <_> a sei vitù di quelli innocenti ed illesi terrazzani. . . . 23- Giovedì fu da me consumato in quei negozi che mcessabili mi consumano. Di questi il far la solita querela in questa diceria mi par sciocchezza: il raccontar quel che cavo dai ricercati scrigni delle mie scritture, 0 '1 narrar quel che ripongo tra l’obliate anticaglie delle mie cause, mi par seccaggine; e questa mi par ^a tralasciare, mentre non si può con qualche tal no-Vlta clu^ inverdire, che, o qui rallegri la mia malenconia, 0 nodrisca l’altrui curiosità. 24- Venerdì, solenne per la solenne festa di quel bl0rno> al quale egli è vigilia; vigilia fortunata alla glossa festività di quel Natale, onde nacque la nostra Vua- * • . . Di tutto il corso giornale di lei, una parte S0C Ll°- St- Pathu. Voi. XXIX, fase. II. 35 - 538 - a’ sacri offici, e un’altra a lieti complimenti è destinata. Chi con odorati fuochi desta felici pronostici alla sua casa; chi con dispensate monete rallegra la sua famiglia; chi con deliziose offerte onora i suoi maggiori : chi con trombe, chi con tamburri applaude a’ suoi penati. Per ogni parte s’odono gli strepiti delle campane, confusi coi tuoni dell’ artellaria, per allegrezza ribombare. Per ogni contrada si vedono le turbe, per abbondanza di buoni cibi, e per copia di ottimi vini lascivire. Si abbracciano gli amici, si salutano i nemici, e tutti 1 un 1 altro si augurano felicissime queste sante feste; principio delle quali è il rr ezzo di questa notte. Oh bella notte, che movi invidia al giorno!.................. 25. Il presente Sabbato è da passar nel divino tempio. Dalla chiesa più vicina, dunque, non esco per tutto il giorno. Nell’ avvicinarsi la notte, compisco alla visita del Marchese Serra, eccitata dalla venuta di lui in Napoli. Viene egli dal suo Stato per condursi alla sua Patria, anzi alle sue nozze, che in casa del Duca di Tursi, come a suo luogo si contò, gli vengono preparate. 26. 27. 28. Questi tre giorni, e tutti tre festivi, di Domenica, di Lunedi, e di Martedì, per me sono tanti 1 • giorni di lavoro; perchè si sono spesi in pagamento 1 quei debiti che costituisce la regola degli ordinarii com plimenti; regola imposta da questa nostra età, che e senza regola......che di libera si è fatta schiava, o se assolutamente non si è fatta schiava, poco men del tutto si è fatta serva. Ma quel eh’ è peggio, per fallacia del nostro cieco avvisamento, errato il sentire (forse sentiere?) al nostro corso, mentre 1’ uomo si credeva andare a cammino di signoreggiare, gli è avvenuto di — 539 — servire. L ambizione che nei petti introdusse la moderna adulazione, scacciò dagli esercizi l’antica libertà; onde, più libere non rimanendo °gg‘ genti> SI sono alla pazzia dei goccioloni, e nel discorrere, e nell’ oprare, universalmente e pazzamente assoggettate........ 29. Mercordì, ebbi che fare col governatore e con altri ufficiali de' miei luoghi. Questi con la occasione di queste feste si trasferiscono in questa città per visitarmi, e per presentarmi. Quando i complimenti vengono accompagnati da donativi, si possono tollerar le visite, benché accompagnate da faccende. 30. Giovedì, dopo di avermela molto lungamente e non men faticosamente passata nel sollecitare i sollecitatori de’ miei negozi, diedi luogo nel mio casino ad una filosofica adunanza, che per favorirmi e per obligarmi tennero nell’ora del desinare, il Villa, (1) l’Arcamone, il Balducci, e il Teofilato. Quando nella declinazione del mangiare e nell’aumento del bere, fu della comitiva un di quei Signori che addimandò il perchè nei conviti costumasse l’antichità di offrire il primo brindes a Giove, l’ultimo a Mercurio; incontinente, o fosse per onorar la mia persona, o fosse per isperimentar la mia prontezza, osservai che tanto quel che parlò, quanto quei che sentirono, a me fissamente si voltarono. Ond’ io così risposi : (1) Il Villa qui nominato è il marchese di Villa, già tante volte lodato in questi giornali come il fiore dei gentiluomini napoletani. Del Balducci si è già detto. Mi è ignoto l’Arcamone, forse discendente di quell’Agnello Arcamone, Signor di Borello, autore di un trattato sulle costituzioni del Regno di Napoli, e dal re Ferdinando I inviato con straordinaria missione al Papa Sisto IV e alla Repubblica Veneta. Del Teofilato non trovo notizie. — 54° “ « Io che poco son pratico nelle cerimonie moderne, poco sono informato delli cerimoniali antichi. Ma non senza mistero adeguato alla occasione quella proposta cerimonia reputo esercitata in quella guisa. Imperciocché, sì come era termine di creanza nel primo luogo quel Giove riverire, dal quale, come da primo fonte d ogni lor bene, ogni lor giovialità credettero derivare; « Ab Jove principium, Musae, Jovis omnia plena » (Vergilio), così nell’ ultimo luogo egli era officio di gratitudine il venerar Mercurio; il quale non prima del fine delle mense, dopo voltati e rivoltati molti volumi di gravidi bicchieri, insegna l’eloquenza. « Fecundi calices quem non fecere disertum? » (Orazio). L’allegrezza che nacque nei volti della brigata, mi fece argomentare la sodisfazione che dalla succinta mia risposta aveva sentita. Indi quel che della eloquenza ac cennai per la piacevolezza ripigliando altri a spiegare per 1 intelligenza, mostrò primieramente come quel detto comune che i poeti nascano e gli oratori si facciano, benché detto da oratore, abbia anzi che no del detto da poeta ; avvenga che per farsi oratore non vai guari che uno studi molto, che non arriverà già mai all a cquisto dell’eloquenza, se all’eloquenza non e nato. Ec celiente per istudio più che per natura, sarà più tosto addottrinato che eloquente. L’arte può emendare i difetti, non acquistar gli effetti della natura. Sì come si trovano molti che poveri di dottrina son ricchi di facondia, per che sono favoriti dalla natura, così conosciamo molti, che ricchi di dottrina sono poveri di facondia, perche, abbandonati dalla natura, sono solamente sostenuti dal l’arte.......................» * * * — 54' — 3i- Venerdì, conveniva, per chiuder l’anello di quest’ anno, che l’un de’ suoi capi con 1’ altro si aggiustasse; e che la saldatura non fosse d’ oro, ove di ferro è il cerchio. Nella fucina del ferro, non in quella dell’ oro, ha fabricato quest’ anno faticoso i miei giorni infelici. Manco male se al finito anello non avrà cominciamento un altro, che con questo avviticchiandosi venga barbaramente ad intrecciare 1’ indissolubile catena della miserabile mia servitù. Oggi intanto ostinatamente attendo a consultar con avvocati, ad informar giudici, a lusingar ministri, ad apprestar memoriali, parte opportuni a’ miei territorii, parte necessari a’ miei litigi, e tutti profittevoli allo indirizzo di quei negozi che per anco non vedo cominciati, quando ormai mi credevo aver finiti. Oh povero me ! e che sarà di me? Dunque starò sempre schiavo ad un giudice appassionato, ad un ministrello burbanzoso, ad un operaio menzognero, in guisa tale che se scampo dagli intrichi dell’uno, subito ritrovandomi avviluppato ne’ lacci di un altro, già mai non possa sperare di rivedermi sciolto da questi insopportabili legami? Confesso il vero, non so talora ove più voltarmi ; fo come quel povero febbricitante, che se nulla si corca sopra un lato, se ne duole; s’egli si raggira alquanto sovra l’altro, se ne pente; e dopo di essersi lagnato co’ suoi compassionevoli circostanti, si querela co’ suoi languidi lamenti, e si riduce a tale, che dentro a sè medesmo tutti raccogliendo i suoi rammarichi, nè più parla, nè più sofferisce eh’ altri parli. Chi può parlare del suo dolore non è ancor giunto all'estremo de’ suoi dolori. Quella angoscia che si può raccontare, si può raccontando — 542 — alleggerire. Ma le pene che aggravano soverchiamente il peso all’anima aggroppano i legami alla favella. « Curae leves loquuntur, ingentes stupent » ha detto il tragico (Seneca), imitato da certi miei versi in questi detti : Lieve pena è loquace; Stupida pena, per gran pena, tace. — 543 - IX. Gennaio (1033) — Giano bifronte. — Dai satrapi del regno. — Dal buon cardinale Savelli. — Accademia improvvisata — È meglio essere invidiato che compatito? — La ruota d’Issione. — L’Epifania. — Commedia e ballo a Palazzo — Versi latini al Papa. — Visita ad un potente. — Augurio sinistro. — Si torna agli Oziosi. — Sopra un distico di Marziale. — Incendio a Palazzo. — I reggenti del Collaterale. — Gran concessione. — Proteste d’affetto. — Tributi di vassalli e regali di amici. — La festa di S. Antonio. — Felicità in anagramma. — Attacchi e parate — In casa De Gennaro. — La bellissima tra le belle. — Il cocchio de las Maladoras. — Amore e brio. — Vox faucibus haesit. — La richiesta imperiosa. i. Col nome di Dio, eccomi all’anno nuovo. Giano, di una istessa corona le due fronti circondate, con le chiavi delle ore al suo mese introdotte le Calende, per una parte appena raffigura nelle fugaci spalle del Mille-seicento trentadue 1’ anno partito, per l’altra già dell’anno Milleseicento trentatrè nella comparsa giovinetta faccia riconosce il grato arrivo. Egli, come è suo costume, cerca di porre l’Anno in viaggio : io, come è mia cura, cerco il cammino alle mie cure. Ma con questa differenza, che ove l’Anno si assicura di arrivare al fine del suo corso, perch’ è guidato dalle rote delle sfere, le mie cure non si promettono di pervenire al fine de’ loro travagli, perchè sono portate dalle rote della fortuna. . In tutto il giro degli andati mesi non ho fatto altro che ricercar il punto de’ miei litigi, e restringere il cir- — 544 — colo de’ miei travagli. Dio faccia che accorciata la misura al tempo con abbreviato cammino io riduca entro al circolo di pochi giorni il vasto giro de moltiplicati miei negozi. E perchè lo faccia, dopo di averlo in tutto questo devoto mattino devotamente supplicato, colà dove nel tempio alla gloria di Sua divina Maestà pomposamente eretto, la Compagnia di Gesù solennizza oggi la festa di questo nome, al quale ogni ginocchio celeste, terreno e infernale si genuflette, ho lungo discorso col Procuratore Flaminio Magnati, nel cui prudente ed amo revole patrocinio spero dal Principe di Caserta il paga mento del suo debito. Questo Prencipe, tra gli altri creditori del venditore di Sant’Angelo (sì come in altro tempo ho fatto cenno) mi occupa una parte di quel tanto che ho comprato quelle parti. Nè mi giova che per contratto antico io debba aver da lui quel che per contratto moderno egli pretende aver da me. Egli è pagato; io non sono udito , chi ha udito già mai un caso più strano? . . • • Intanto egli si tiene in mano un territorio che per dieci voi vale quel tanto ch’egli vuole. E quel che è peggio, quel territorio, del quale non ho il frutto, son condan nato a pagare ad altri i frutti. Io dissimulo, ma conosco; so che la colpa non tanto vien da lui, non tanto Giudice, quanto da chi contro di me pertinacemente consiglia il Giudice, e violentemente aiuta il Principe. So altresì che il movente non da altro che da cupidigia di proprio guadagno vien movuto. Questo è il fine or dinario, anco nella gente non ordinaria, in questa Corte. Pertanto io procuro di offrire a costui quella moneta, che, essendo il compimento del fine che ha lui, dovrà - 545 — esser mezzo al fine che ho io. Da canto nostro dobbiam noi far da noi quel che possiamo, mentre a Dio benedetto ci raccomandiamo. Facciam quel che si può qui far per noi : Abbia chi regge il ciel cura del resto (Ariosto) Quel che mi piace è che il Sabbato è il primo giorno di quest’ anno. Io non vo’ mai distaccarmi da quei felici augurii, che mi ha pronosticati sempre il Sabbato. 2. Domenica, a molti Satrapi rendo l’omaggio, sodisfacendo all’ambizione coi donativi. Tutto quel eh’è proporzionato al loro appetito, è necessario al mio bisogno. Poco sente la spesa, chi troppo sente la fatica. Visito sul tardi il Duca di San Donato, venuto da’ suoi Stati. Così foss’ egli in stato o fosse in disposizione di sodisfare a’ suoi creditori, eh’ io son tra quelli ; non me ne dorrei........................, . 3. Lunedì, vo a rallegrarmi col Cardinale Savelli per 10 suo ritorno da Salerno, ove gli offici al suo vescovato appartenenti con la devota occasione delle passate solennità volle adempire. Dalla visita si passò alla conversazione; per godimento della quale sino alle quattro della notte in sua stanza mi trattenni. In questa, e da medesmo complimento trasportati, senza che l’un sapesse dell’altro, molti Signori e de’ più litterati di questa città si radunarono. Tra questi il Prencipe di Bisignano San Severino, il Reggente di Vicaria D. Giovanni d’ Erasso, 11 Conte della Cerra, ed altri, tutti non men per dottrina che per nascita famosi, ornarono il congresso. Questi, per dilettare col proprio diletto Sua Eminenza, — H6 — dopo aver delle novelle del mondo assai compiutamente chiacchierato, eminentemente delle morali scienze con nobili non men che sode maniere divisarono. Fu una selva di varia lezione il variato lor ragionamento; perchè, per più accomodarsi all’ altrui genio, e per meno occuparsi nel lor discorso, da più fiori colsero ghirlanda, atta ad incoronar la lor corona. Avvenne che a certo proposito fu, per epilogo e per prova di certo lor concetto, introdotta quella sentenza: « meglio è l’esser invidiato che 1’esser compatito ». Onde a me cui toccò per ordine del superiore incontanente il ragionare, risoluto con quella opportunità di farmi a mio potere contro l’invidia ben sentire, cosi dal paradosso qui piacque prendere il principio. « Piano, o miei Signori, piano per vostra cortesia; non corra senza intoppo così lisciamente in giro la sentenza (i).....Nè assioma, nè problema, io reputo la sentenza della quale ora trattiamo. L’assioma non ammette disputa; il problema la ricerca. Ma questo detto, se dal volgo non fosse accettato per sentenza, non verrebbe neanco introdotto per la disputa. Nell’indistinto che distinzione si può fare? nell individuo che differenza si può rinvenire? Se così è, non chciam male quando in una istessa cosa per essenza distinguiamo il meglio e il peggio per sostanza? Dunque non dira bene chi dirà che meglio sia Tesser invidiato che 1 esser compatito. L’esser invidiato e Tesser compatito è egli tutt’ uno? Perchè, se la compassione che meritiamo viene /I) La diceria è lunga, oltre le sei pagine; soltanto come saggio del genere ne riferisco alcuni passi. - 547 - dalla miseria che soffriamo, se alcuno infelice si ha da compatire, è quel fortunato che si fa nella sua sorte invidiare..... « Non giova al pubblico quella virtù che non si espone in pubblico.....« Paullo sepultae distat inertiae — Celata virtus » (Orazio). Così, senza utilità pubblica, nuoce all onoranza privata quella virtù, che per esser forse troppo meritevole di onori, dagli altri non ha onore. .... La nostra vita intanto è vita in quanto per gli altri noi viviamo; ma non viviamo aodi altri, o 1 quando agli altri non piacciamo......Qual meschinità maggiore che il meritare e il non aggradire? Che della più meritevole virtù sia la più crudele offensora sempre mai l’invidia, talmente è sperimentato dalla prova, che non ha di mestieri che il provi il Petrarca esagerando: « 0 invidia, nemica di virtute — Ch’ a’ bei principii volentier contrasti »......Ogni negazione dell’appetito, nella natura umana, fassi di natura inumana. Mentre l’invidiante si trova escluso da quel tal godimento, del quale altri ha possesso, egli a poco a poco di maligni umori abbeverato il sangue, per li canali delle infette vene appesta il core; onde intorbidata la parte della mente, marcisce la volontà. Quindi è che nell’ empie sue voglie non ha poscia misura; anzi per non aver nell’ empietà nessun contegno, si arma alla peggio, si avventa alla cieca, e punge con quel ferro della male-dicenza « incontro a cui non vale elmo nè scudo » (Ariosto). Ond’ è che contro le ferite mal vedute e ben sentite dell’invidia, altra targa non ha il petto che la propria sua ferita. Par concetto stravagante, ed è pur vero ; avvegna che sin che del tutto non venga lacerato — 54^ — il virtuoso dall’invidia, è sempre mai ferito: solamente quando a morte egli è ferito, dalla mortale invidia è tralasciato. E quale infelicità maggiore della invidiata felicità?........................... « Povero invidiato ! quanto più ricco per la virt^ propria, tanto più povero per la invidia altrui, che tenterà egli per ischermirsi? che farà per salvarsi? S egli procura di tenersi amici gli stessi suoi conosciuti nemici, nè la sua dissimulazione gli giova, nè la sua modestia gli serve. L’invidia non vuole amici, se non gl inferiori, ma sì come contro i superiori ella porta odio, così contro gli uguali porta sdegno.....«Or chi dirà d esser felice in terra — Se tanto a la virtù nuoce 1 invidia. (Guarino) Chi negherà d’essere infelice, se pure è invi diato? Adunque, se sia meglio Tesser invidiato che 1 esser compatito, il dica pure chi di me meglio 1 intende. Ne si vaglia per argomento che quella offesa non è offe che resta vendicata: che se vendetta dell offesa virtù il veder castigata nella stessa ingiuria 1 offensora iniquit , deve T invidiato consolarsi, vedendo 1 invidia ne crucci ognora affliggersi; onde il Sannazaro. L’invidia figliol mio, sè stessa macera, E si dilegua come agnel per fascino; anzi, vedendo eh’ ella, nell’ istesso atto del ferire altru , 1e se stessa uccide, quasi tossicosa vespa che paga con morte il delitto nell’aculeo . . . , perchè io risponderò che il male degli altri non è rimedio al mio; nè, per quanto l’offensore sia castigato, fa che l’offeso non debba esser compatito. Parteciperebbe della complessione del-1’ invidioso quell' uom da bene che si rallegrasse per l’altrui male.................».....* ‘ — 549 — « Signori, che per favorirmi vi degnaste di ascoltarmi, se da quel che avete udito parvi che il mio concetto sia avverato, datemi licenza eh’ io vi prieghi a levar dal mondo quell’errata proposizione che mi fece vagare in così lunga diceria. E poiché voi per ornamento delle belle vostre qualità sete ornamento delle belle lettere, e con le scienze dello studio accoppiate le regole del duello, fate pubblicar un manifesto, ove ogni sillaba contenga una mentita contro di coloro che per 1’ avvenire proferissero mai più quelle parole « che meglio è 1’ esser invidiato che compatito ». < Perdonatemi; mi avveggo di aver tante volte errato nel discorso, quante volte, guidato più dal’uso che dalla proprietà del favellare, dissi meglio. E dissi peggio ; volli dire, e dovea dire che peggio è l’esser invidiato che 1 esser compatito. Già mi fo reo della risata che fece Orazio a quel tal sonatore, che mal tasteggiando il suo liuto sopra una corda istessa, 1’ istesso errore frequentò. « Ridetur chorda quae semper aberrat eadevi ». Qui si diedero graziosamente a ridere quei dotti cavalieri. E sì come dell’invidia per loro interesse accettarono la querela, così della proposta per altra sessione sospesero la sentenza. Intanto l’ora tarda altri mandò a cenare, altri a dormire. 4. Martedì, sto nella stanza dell’Udienza, che più promette di quel che dia il Reggente Tappia. Quivi alcuni ordini che per giustizia dovuti e per volontà sospesi ho lungamente mendicati per elemosina, oggi ho conseguiti per opportunità. Nel rimanente sto in casa del Dottor Acquino. Quivi alcune informazioni procuro dare al novo mio Procuratore. Questo è Orazio Scialova, — SSO — per bontà molto stimato, non men che per intelligenza riverito. Dio me la mandi buona. Sarebbe pur oramai tempo che il perpetuo giro de’ miei ministri avesse posa. Per eh’ io non posi mai troppo, mi è necessario il cangiar spesso. Esco da un ladro, dò in un ignorante: esco da un negligente, dò in un mal pratico........... 5. Mercordì, giro e raggiro, infelice Issione, la misera mia rota. Ritorno da capo, quando mi trovo al fine. Le mie fatiche da tutti sono vedute; da molti sono compatite; da pochi sono aiutate................ 6. Giovedì, facendosi pompa di ballo e rappresentazione di commedia nel Palazzo, io dal mio Cardinale comandato ripiglio il diporto per molti giorni tralasciato. La festa d’oggi con doppia festa meritò di essere solennizzata, perch’ella portò seco doppia solennità. Era festa reale per l’Adorazione dei tre Regi; era festa del Viceré per 1 annuario del Conte Duca (1). Questi è doppiamente cognato, e però, se non padre, padrino a Sua Eccellenza. Per ordine di cui, fattisi universali alla nobiltà gl’ inviti, ben è da credere quanto numero di persone e in qual ordine di schiere comparissero gl invitati. I diamanti sovra il capo e sovra il dosso così de cavalieri come delle dame erano folti ; ma nelle dame sole parevano splendenti ; perchè, amando esse nella fierezza e nella durezza di quelle pietre di figurare i puri ed infrangibili diamanti de’ loro affetti, vollero che quelle gioie per gioia altrui ricevendo il lume dai lor volti, (1) Gaspare di Guzman, conte duca di Olivarez, famoso ministro di Filippo H di Spagna, dal 1621 al 1641. Gian Vicenzo usa qui forse annuario per onomastico. ^-a leggenda attribuisce ad uno dei tre Magi il nome di Gaspare. E fbrs anco 1 Olivarez era nato nel giorno stesso deU’Epifania. — 5Si — pei riflesso scintillassero fiammelle di delizia agli occhi amanti. Ma che vaneggio? Faccio io l’amore? No, non posso farlo, non debbo dirlo; ma .... ma .... non v oglio tacerlo : « Agnosco veteris vestigia flammae y> (Vergilio). Qui mj sono obbligato a scriver tutto : non più di questo (i). Il ballo fu bello, perchè fu grave; la commedia fu piacevole, perchè fu brieve. Non tornò alcuno a casa senza diporto; ognuno vi tornò senza sazietà; tutti desiderai ono di tornarvi. Questo solazzo a questi cavalieri tanto più piace quanto più giova. Egli è di mestieri che si abbia in certi tempi alcun tempo di piacere. Altro piacere non ha questa città, fuor di quello che apporta questa Corte. Somigliante trattenimento in altro albergo è proibito, o sia costume invecchiato da rive-rente ossequio dei sudditi, o sia ragion di Stato politicamente introdotta dai padroni, o sia per maggior godimento di chi comanda, o sia per minor inquiete di chi ubbidisce. Certo è che eccettuate queste pubbliche adunanze, tutti i privati ritrovi, quasi che di conventi-cole sospetti, sono dall’ ordine o dal costume divietati. 7- Venerdì', non esco. Tempo cattivo fuori di casa, pei la straordinaria pioggia; tempo cattivo in casa, per 1 ordinaria occupazione. 8. Sabbato, si scrive a Roma. Io scrivo oggi a lungo, pei sodisfare a lunghe obligazioni. Pago un debito grande con grandissimo contento, perchè lo pago con tal guadagno, che il pagamento m’ingrandisce il debito. 11 nostro sommo pontefice Urbano Ottavo, sì come è (0 Allude di certo a ricordi di qualche suo antecedente soggiorno a Napoli — 552 — il Vicario di Dio nel mondo, così è l'Apollo delle Muse nel Lazio. Queste, negli ozi studiosi dell’ età giovinetta, egli amò senza paragone; e queste nei negozi faticosi dell’età perfetta egli favorì senza risparmio; onde affidate dai cenni non men benigni che autorevoli di lui, hanno elle oggidì fatto passaggio dal Parnaso al Vaticano. Quivi sotto a cupola, non più di frasche ma di stelle, non più da finti ma da veraci splendori alluminate, elle hanno il vanto di essere le vergini ancelle a quelle sagre poesie, nelle quali Sua Santità divinamente si diporta, allorché si sente affannato da quella macchina dell universo che sì felicemente ei porta. Passano oramai tre anni che passai per Roma (i), de sideroso non tanto di rivedere le già vedute maraviglie di quella Corte, eh’è il capo dell’Europa, quanto invogliato di riverire in quelle maraviglie premiato il merito di quella virtù eh’ è il capo della Cristianità. Prostrato al piede di tal capo, mi sentii sollevar sovra me stesso ; perchè Sua Beatitudine in un medesmo tempo e con le parole e con le braccia incatenandomi, di devoto vassallo mi fé’ suo volontario schiavo; schiavo che insuperbito dalla servitù non fuggirà mai dalla catena. Per ogni lato della Città Romana risonò com’egli con gli eccessi delle sue grazie sublimò la mia bassezza ; com’egli si degnò di ragionar meco più volte, ed altrettante a varii ragionamenti d’invitarmi : com egli si com piacque di alloggiar i fiati della mia voce nel camerino della sua mente; com’egli con dimostrazioni di domestichezza quasi ridusse all’opra della famigliarità le azioni (i) Di questo viaggio, che apparisce essere stato fatto nel 1629, ci manca la relazione. - 553 ~ della mia riverenza; come dalla bocca di lui mi fu permesso l’assaggiar i frutti del suo Permesso, e come egli si chinò a bere per le mie mani l’acqua del mio torbido Ippocrene. Della quale mi giova sperare che un tal sorso gli aggradisse; come in pochi versi un gran pronostico chiudesse. Questo, tolto di peso dall’arme della sua Casa, nel maggior caldo della guerra augurò la temperie della pace. Di questo non è gran fatto che Sua Santità abbia smarrita la composizione ; egli è ben gran fatto che in tutto questo tempo non ne abbia perduta la memoria. Mi vien scritto eh’ Egli non pur si raccorda, ma che si compiace di quel mio scritto. E col significar desiderio eh’ io lo mandi, non solamente m’impone 1’obligo di mandarlo, ma tanto mi alluma l’intelletto per conoscere eh’ io mando poco, e che ricevo molto. Manda Sua Santità a me nel medesimo istante col nuovo libro delle sue dotte poesie, che a gloria del cielo non che ad utile del mondo oggi è stampato, un’ ode meritevole d’ ogni loda, che per maggior grandezza Egli abbassa alla censura. Le parole di questa rappresentano a Dio le miserie della guerra, e ’l pregano per le delizie della pace. Nella prima parte mostrano affetto, nell’altra portano efficacia, in tutte spirano divinità. I caratteri di questa, non ancora impressi dai torchi, dovranno intagliarsi nei zaffiri, acciò componimento per tutte circostanze tutto celeste abbia per foglio quella gioia che sovra l’altre è del color del cielo. Dunque, per doppio onore, mentre mi sono inviati questi, molti e sublimi, acciocché invii quei pochi ed umili miei versi, ambizioso di goder nell’ altrui benignità della mia sorte, io scrivo al Papa ; e studioso d’illustrare Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIX, fase. II, — 554 — quel che scrivo, io mi fo strada col miglior raggio del Sole di lui; indirizzo all’Eminentissimo Cardinal Padrone (i) quella scrittura con questa: « Eminentissimo Signore » Io non ardirei sollevar l’umiltà della mia lettera all’altezza del vostro sguardo, mentre contemplo 1’ Eminenza vostra occupata nella protezione della Cristiana Repubblica, se la Santità di Nostro Signore, per doppiamente arricchirmi, nell’ inviarmi i tesori del suo Parnaso, non mi avesse indirizzati orli onori del suo cenno ; onde o la mia Musa, richiamata a’ piedi suoi, ricorre alle vostre mani. Ella fa deH'Amazona ; insuperbita d’esser fatta scudiera del vostro scudo. Miri 1’ Eminenza Vostra il motto che porta, in dichiarazione che lo scudo Bar-barino è scudo contro i Barbari. Il motto dell’ impresa è augurio di grand’ impresa. Egli è riferito da me, ma indovinato da que’ primi, privilegio de’ quali è il vaticinio. Perdonimi 1’ Eminenza Vostra se 1’ anima mia si forzò di scrivere di quello che appena 1’ è permesso di adorare. Da Napoli 8 di Gennaio, 1633 » Di Vostra Eminenza » devotissima creatura ed obblig. creato ;» Gio: Vincenzo Imperiale » (1) Tra’suoi congiunti creò cardinali, Urbano Vili ; il 2 ottobre 1623 Francesco Barberino, diacono, Cardinale di Sant’ Onofrio, poi di Sant’Agata ; il 5 ottobre 1624 frate Antonio Barberino, suo fratello, dell’ordine dei Cappuccini, prete cardinale di Sant’Onofrio ; il 7 febbraio 1628 Antonio Barberino, suo nipote, cavaliere Gerosolimitano, referendario dell’ una e dell’ altra segnatura, diacono cardinale di Santa Maria in Aquiro, e camerlengo della Chiesa Romana. A quest’ ultimo è certamente diretta la lettera. — 555 — « Alla Santità di Nostro Signore URBANO OTTAVO Pontefice Massimo » L umanità più celeste che umana della Santità Vostra non ha termini ordinarii. Sono troppo angusti i confini degli uomini a chi calca gli spazii degli Angioli. Parve prodiga al mondo la vostra liberalità, Beatissimo Padre, quando abbassati i vostri occhi a me, abbassato a’vostri piedi, ne miei versi aggradiste i vostri augurii. Cessi 1 antica per meraviglia nova, or che gl’ istessi versi dai vostri imperii a’ medesmi onori richiamati , dovengono testimoni di quella benignità con la quale sollevate gli umili. Ma questo è stile di Dio, di cui sete Vicario ed imitatore. Ecco dunque al vostro Sole il vostro Clizio (i), che mentre da’ vostri ragg-i avviva la tenebra della sua o O vita, aspetta dalla vostra benedizione 1’ immortalità della sua gloria. Da Napoli, 8 di Gennaro, 1633. » Della Santità Vostra minimo figlio e maggior schiavo » Gio: Vincenzo Imperiale» AD VRBANVM OCTAWM PONTIFICEM MAX1MVM EX PATRIO STEGMATE DE BELLO ITALICO VATICINIVM juxta Alciaiì emblema (2) describentis Apes in clipeo vici fabricantes Corpus emblematis animatum dictu EX BELLO PAX (1) Clizio è il nome pastorale assunto in giovinezza dall’Imperiale, come protagonista del suo proprio poema Dello Stato Rustico (2) Accenna all’emblema 178 dell’Alciato (V. Andreae Alciati Emblemata; Patavii, ap. P. P. Tozzium, 1621, pag. 757) ov’è un elmo intorno a cui si aggira uno sciame di api, e il motto Ex bello pax. Cerne cruentatas crudeli Marte phalances, Atque itala externas membra vorare feras. Dulcia mox inter clipeos Vrbana reponit Mella Apis, ex bello pax tibi Roma venit. 9. Domenica, ini sia lecito il dire eh’ io non fo festa ; perchè, dovendosi nel seguente giorno aprir di novo ai negozii quelle porte che in riverenza del benedetto Natale stettero racchiuse, io sto sollecitamente soffiando nei carboni mezzo acceneriti e quasi spenti de scioperati miei Dottori, a fine di destarne, per quanto è in mio potere, quelle scintille di foco c hanno a dar lume al mio desire. Il fiato non fa effetto, se da mantice d oro non è soffiato. Ai prieghi aggiungo i doni. Ma i doni dispensati a coloro che, o per abito di natura , o per esercizio di professione, tutto dall altrui danaro proca ciano il loro comodo, non sempre riescono giovevoli, e spesso riescono pericolosi al donatore ; avvegna (come altra volta si accennò) se i doni, o piuttosto pagamenti, che così dal donatore per maggior cre e dal ricevitore per minor vergogna si addimandano, sono moderati, non vengono aggraditi ; se immode sono piaciuti : ma qui sta il pericolo. Perchè su la piacenza presentanea fabricano i presentati un assai perpetuo ; onde, sotto colore di aiutare il cliente, aiutando il lor disegno, mai non finiscono 1 altrui cause, ed alla fine conosce chi ha donato quan paro dell’ avarizia la liberalità gli abbia nociuto. ^ ^ E perchè tra i miei negozii, alcuni che sono 1 PIU facili per condizione della mia giustizia, sono i più ma lagevoli per impaccio dell altrui potenza, io, eh a spese ho già imparato come giovi il saper umiliarsi o\e — 557 — con possenti ha da combattersi, quanto mi allontano dal concorrere con l’autorità, tanto m’ingegno d’arrivare con 1’ industria ; e più tosto che arrisicare nei cimenti della lite, mi contento di perdere ne’ partiti dell’ accomodo. A tali accomodi così avessi la comodità come ho 1’ intento. Ma chi ha l'occhio a’ miei danari non dà orecchio a’ miei partiti (i). Crederei di avermi oggi accappato (2) un tal mezzo al mio fine anco opportuno. Ma non so ben qual credito a quella speranza io possa darmi, che nata è forse per tradirmi ; « ch’a gran speranza uom misero non crede » (Petrarca). Questo tale appresso questa Corte ha opinione di poter ben fare, sì come ha talento di poter ben dire. Questi è l’anima del Caserta, del Sermoneta, e del Nocera ; ognun de’ quali ormai mi toglie 1’ anima. Questi è 1’ interprete di quelli oracoli, che dalla moderna idolatria son maggiormente sublimati. Chi ha la spinta da questi non ha molta fatica nel tirarsi avanti : chi non 1’ ha, per molta fatica ha poco avanzo. Questi mi fa parlare con un grandissimo officiale. Non diciam più di così: 11 parlamento fu in segreto; non è il dovere eh’ esca in pubblico. Son ricevuto con molte grazie ; io per grazie chiedo le giustizie. Mi obligo a riconoscere per beneficio dell’altrui mano quel eh’ è pagamento della mia ragione. Alle mie ragioni sento profferirsi graziose le risposte, e alle risposte sento accompagnarsi le promesse. Alle promesse altrui succedono (1) Par che alluda al figlio Francesco Maria, lasciato a Genova arbitro d’ ogni cosa sua. (2) Occorre per la seconda volta questo verbo oscuro. Che sia usato in luogo di accaparrare ? le mie : desidero unire i fatti ai detti : ma il timore è freno al desiderio : mi vergogno così, nel primo congresso, di parlar con altro che con parole. Egli, quasi se ne avveda, non so come, con certi atti mi affida all’azione ; « Spc?nque dedit dubiae nienti, solvitque pudorem » (Vergilio). Nel partirmi da lui, cerco di stringere il negoziato dentro un groppo d’oro, che a tale effetto era ammanito. Egli, contro il suo costume, rifiuta il mio regalo ; dal che prendo quel sinistro augurio alla mia pratica, che già prese Germanico alla sua vita, allorché egli, passando al governo della Schiavonia, ove attossicato si morì, trovò repugnanza nel bue Osiri, da lui nell’ Egitto visitato, all’esser dalle mani di lui, benché famelico, pasciuto. Non mi reca tanta noia il pronostico di Tacito, che non mi apporti maggior molestia il concetto del buon Seneca : « Numquam erit felix quem torquebit felicior ». E questo parmi il mio caso, in termini terminanti. 10. Lunedì, tra il leggere e il rispondere a quel che leggo, tutto mi occupo. La brevità dei giorni non ammette lunghezza di operazioni, nè la farragine di questo giornale concede superfluità di dicerie. Sì come non è giorno tanto corto, che non paia molto lungo a chi e in affanno, così non è ragionamento tanto succinto, che non paia assai prolisso a chi n’ è in tedio. Nè mi pare strano che cominci gli altri a fastidire, quel che comincia me a tediare. 11. Martedì, perchè sto in travaglio, dovrebbe parermi lungo più del solito. Ma perchè sto travagliando per uscir di travaglio, mi par più breve dell usato. Sto faticando per certa lezionetta, che, alla foggia di Benedetto — 559 — Varchi, ho promessa per domani alla Accademia. Questa conterrà la sposizione di un distico di Marziale, e questo conterrà quella materia di morte che sempre è di conforto alla mia vita. Oggi la mia stanchezza è fatta, non già nella stanza del mio studio, che non ne ho, ma nello studio della mia mente, che studio ormai non ha. 12. Mercordì, non posso tanto parlare dentro di me stesso di quel tanto eh’ agli altri ho da parlare , che prima di andare a favellar coi dotti, non mi sia d’ uopo andare a discorrere coi dottori , acciò , alleggerito dal peso dei loro scritti, mi si renda men grave il carico dei miei detti ; che furono questi : « Virtuosissimi Oziosi. E che ? pensate forse in così gran frequenza oggi adunati, che la copia degli ascoltanti mi somministri l’abbondanza dei concetti ? Iddio ’l volesse ; perchè, avvalorato dalla ricchezza dei dotti vostri ingegni, non vi paleserebbe il mio la sua mendicità. Ma ohimè, vi fo saper che il mio successo è già contrario al vostro intento e al mio bisogno. Quanto più mi trovo nel mezzo a quelle scienze, dalle quali assetato non posso abbeverarmi, tanto più qual novo Tantalo mi è forza di dolermi..........(i) 13. Giovedì, mentre sono inviato a’ negozi, mi abbasso al luogo della Corte, e quivi mi abbatto in reliquie d’incendi. Molte stanze, che, contigue al Palagio , servono al Segretario di Guerra, per negligenza de’ servidori di lui, furono testé guerreggiate dal foco. (1) Segue una lunga diceria, ad illustrazione dell’epigramma di Marziale « Hostem dum fugeret, se Fannius ipse peremit : — Hic, rogo, non furor est, ne moriare mori ». Potrà essere utilmente pubblicata insieme con le altre lezioni accademiche del Nostro. — 5 6° — Era di notte; anzi in quelle ore della notte, nelle quali il sonno più gagliardo tien maggiormente quelle membra incatenate, eh’erano per la stanchezza maggiormente indebolite, quando omicide le fiamme si erano destate. Già sappiamo come i silenzi amici della notte sian poco amici della vita. Nella taciturnità della notte si commetton quell’ opre, che fanno parlar il giorno ; e non so come ordinariamente pare, che le offese del cielo congiurate con le colpe della terra, a danno de’ mortali si vagliano della notte. Sia comunque si sia, in questa passata notte, mentre tutti dormono, un tal carboncino ancor vegghiante, ecco risveglia un grandissimo rogo. Già le fiamme, serpendo nei vecchi travi, manifestano i segreti di quella segreteria. Già di quella tutte le più importanti scritture nelle proprie ceneri sarebbero consumate, se miracolosamente sopra loro non fossero cadute prima le ceneri che le brage. Di già per le fessure palesa il muro i malvagi furti del vorace ladro ; di già dallo stridore del foco, e dal fetore del fumo, sono avvisati non meno i danneggiati abitatori che i vicini alberghi ; onde i confinanti a gara 1’ un 1’ altro accelerando si rendono pronti alla propria difesa, col rendersi presti all’altrui riparo. Ognun procura, così per interesse come per carità , il frettoloso eccidio al mal nato nemico, ogni passo del quale è ingrandimento di vita a sè medesimo. Ma per troncargli i passi, oh quanto si passa, oh quanto! Chi grida aiuto, chi lo reca, chi sale, chi scende, chi rompe, chi allaga. Si smorza al fine, ma non si perviene di questa forza al fine, senza valicarvi per mezzo di poco lieti mezzi. Tali sono : 1’ alterazione di queste — j6i — Eccellenze, che fu grande; la ruina di quella fabrica, che non fu poca ; la morte di alcuni, che solleciti nel campare altri dal pericolo furono veduti belli vivi levati dai viventi. Un tal successo nell’altra notte pur ebbe in questa mia casa ad avvenire. Imperciocché dal Signor Angelo Lomellino, ospite mio continuo, acceso nel suo ospizio un lumicino, e quello inavvedutamente nell’ adormentarsi dimenticato, questi in certi fardelli sì fattamente appiccò il foco, che arse le vestimenta, e non guari mancò che con 1 abbruciamento degli arredi non bruciasse anco sè stesso, e die dalla sua stanza la mia non s’incenerisse. Il gran fumo che avea già dato a lui nel core , diede a me negli occhi ; onde con la persona di lui fummo ancora in tempo a liberar la nostra. Lode a Dio ; il nostro soccorso non fu quello di Pisa. Oggi questo caso , perchè non è senza reminiscenza dell’ ugual periglio che ho passato, non è senza compassione della gran strage che rimiro. Non è cosa che più induca il dolore dell’ altrui miserie, quanto il raccordarsi delle proprie avversità. 14. Venerdì, quando in più tribunali da più persone io mi ritrovo maggiormente molestato , da più d’uno de’ miei stipendiati son tradito. Lasciamola così ; basti sapersi eh’ io son lasciato così ; onde a pena io stesso ho fatta una scrittura per risposta alla domanda di uno, che cento altre mi son fatte da cento altri, e tutte a-vanti a giudici differenti. La causa è la stessa , e da’ creditori in più parti, per più straziarmi, vien divisa. Che meraviglia poi, se per lo dispendio del tempo e per lo consumo della sanità non posso a meno di agra- mente affligermi, e per gl’ improvvisi stratagemmi, e per le ingiuste macchine contrarie, non posso a meno di mortalmente affaticarmi ? In questo giorno feci pur tanto, che, o persuasi dalla mia lunga instanza, o stanchi dalla mia stanchezza, i Reggenti in collaterale mi concessero per singolarissima grazia che un solo commissario fosse conoscitore della mia giustizia. Il Consiglier Pier Antonio Caravita, già deputato per quelle parte dei negozi che al Duca di Nocera si appartengono, vien dichiarato supremo giudice negli affari tutti che dalla di lui vendita dipendono. Spero di pervenire con minor dilazione e con maggior chiarezza a quel sentiere ove per lo dianzi gl intrichi erano intoppi. Impediscono il cammino tutti coloro che dal fine del viaggio prevedono il precipizio del proprio intento. Sì come l’andar con tardanza è proprio di chi non ha ragione, così il camminar con prestezza è prò prio di chi 1’ ha.............. 15. Sabbato, sbrigate le ordinarie ripetizioni di quel tanto che passò nella settimana passata, e disegnate strade a quel tanto che s’incomincia per la settimana ventura, esco di casa per abboccarmi con Dottori, e per ingerirmi con Caivano, il quale più che mai vuole ogg darmi a credere che sia tutto mio, e ch io sia tutto suo, che però come suo tratta il mio. Debbo esser sicuro eh’ egli mi mantenga nel possesso della sua grazia, mentr’ egli si mantiene nel possesso della mia terra. E per certo io gli rimango molto in obbligo ; perchè col governar egli i miei popoli mi toglie da quelli obblighi che apportano i governi ; col tormi quelle entrate gli è piaciuto levarmi da molestie. Ma il fine principale — 563 — di lui (dice lui) fu il distaccar dal mio dosso un’ infinità di quei rapaci pretensori, che ogni giorno con vecchi scartabelli in mano, mostrando nove ingordigie nel core, si erano fatti sanguisughe delle mie vene. Lo stesso avvenne in questa istessa città di Napoli, in ogni secolo apportatrice di miracoli. Imperciocché, s egli è vero quel che per verissimo afferma Alessandro da Alessandro (ij, una sanguisuga d’oro, magicamente fabricata, posta che fu in queste acque, da innumerabili sanguisughe in que’ giorni da malignità pestilenziose crudelmente infette, dal morbo le purgò. Dunque il male ho da ricevere per bene. Orsù, non più. Chi sa? chi sa ? Forse Dio m’ aiuterà. 16. Domenica parve destinatami a tributi di vassalli e a regali di amici. Nelle ore del mattino e nelle ore della sera, nel ricever presenti e nel dispensare in voce ed in iscritto i dovuti ringraziamenti, ebbi che fare e che dire. Confesso che a me, fuor che in certe domestiche occasioni, è di gran noia l’accettare i donativi. Sperimento verissima la sentenza : « Gratius est dare quam accipere » ; e ne conosco la ragione. L animo del nobile è generoso ; « Generosus animus est qui potius amore quavi vi trahitur (Seneca). So che non fu detto a proposito dei doni ; ma lo porto a mio proposito. Chi dona, in tanto dona in quanto ha mira di ricever più di quel che dona. Nel dono adunque che si riceve hassi a conoscere la violenza che si (1) Alessandro Alessandri (Alexander ab Alexandro) g'ureconsulto napoletano del secolo XV, celebre per la sua opera intitolato Genialium dierum, libri VI ; opera di erudizione e di filosofia, sul modello delle Notti Attiche di Aulo Gellio, dei Saturnali di Macrobio, e del Policretico di Giovanni Salisbury. — 564 — accoglie. L’animo generoso ama di essere tirato più dall’ amore che dalla violenza ; e però aborrisce tutti quegli atti che mostrano di forzarlo più tosto che di riverirlo........... Sia stato detto per trascorso. E ritornando al mio discorso, in tutto oggi son visitato e presentato. Non però tutti d’una maniera vengono i presenti : non tutti sono di quella condizione che troppo è odiosa alla mia. Vengono di quelli che sotto nome di doni hanno qualità di debiti. Mi recano frutta paesane i miei sudditi del mio paese ; anzi mi recano i tributi del vassallaggio, portandomi per devozione ciò che non possono a meno di portarmi per convegno. Tali sono le città di San-t’ Angelo e di Nusco, le terre di Andretta e di Carbo-nara. Di quest ultimo luogo la dimostrazione mi fu cara in primo luogo; perchè, quanto meno per adesso egli gode i frutti del mio dominio, tanto più dimostra le radici del suo ossequio. Questa terra già dissi come, a pena da me acquistata, mi fu dall altrui trappole rapita ; onde, per quanto ella mi conosca per lo certo suo patrone, mentre è forzata a riconoscere in padrone 1’ incerto occupatore, ella è più tosto in obbligo di portarmi affetto che di portarmi donami. Dalla devozione di costoro si desta in me la compassione verso loro. Non è compatimento senza amore. Tanto maggiormente m induco ad amar questi Carbonari, quanto più scorgo ne’ loro carboni 1’ esca di quel foco che un pezzo fa giudicai spento. Lo giudicai, perchè, come i più separati dalla mia presenza, tuttor si ren-deano lontani dalla debita osservanza. Ma forse nauseati dal reggimento di quelli altri, i quali più che al pub- blico beneficio furono intenti al proprio risparmio, bramano cangiar complessione col cangiar condizione ; e già si augurano migliori avvenimenti da chi governa col proposito della benevolenza, di quei che provano da chi maneggia coll’ intento dell’ avidità. E dritto è bene che sia differente la riuscita, ove diversissima è la strada. E differenza da chi gode il campo in affitto a chi lo tiene in possessione. Dopo il dolce, ecco l’amaro. Ricevuti i doni da’ miei sudditi, ecco i doni del Vescovo di Nusco, e del Duca di Caivano. Non diss’ io che in questo giorno ho regali di più sorti ? Ambedue mandano cacciagioni selvagge, e frutti domestici. Quegli vuol lusingarmi, acciò non gli faccia guerra ; questi vuol acquietarmi, acciò si faccia pace. Io voglio sempre bene a chi non mi vuol male ; ma non so come riputar amico mio chi mi traslata il mio. Grande aggravio si può dissimulare , ma non si può a meno di sentire. Sua Signoria è dottore e dotto : alle belle invenzioni che ha, convien credere che sia nato ancor poeta : quindi è che sì come sa leggere ad altri così sa praticare anco in sè stesso quel tal verso : « Munera, crede mihi,placant homincsque Deosque » (Ovidio)': onde si ha forse inventato il modo di placarmi senz’altro restituirmi, imaginandosi di bastantemente compiacermi , mentre mi favorisce di tanta parte di quel che nasce nel mio, per farmi appunto raccordare ch’egli occupa quel che non è suo. Gnaffe ! chi vide mai liberalità che a questa incomparabile si agguagli? Eccetto se forse la pareggiamo a quella di quei tiranni, che, so&g'°gate ai men possenti le provincie , ne concedettero agli oppressati gli abituri. — 566 — 17. Lunedì, festivo a Sant’Antonio; festivo a Napoli. Sia lecito pensarlo senza dirlo ; ho già fra me stesso talvolta imaginato che sì come i cavalli così i cavalieri siano alla protezione di questo titolare tributarii ; perche sì come nel mattino i cavalli, così nel vespro 1 cavalieri a quelle strade empiono il corso. Certamente lo fanno con tal frequenza, e con tanta giovialità, che si può dire esser questo il primo e 1’ ultimo giorno del loro carnovale. Il popolo tutto corre fuori della porta Capuana, e tutto concorre nel vasto borgo che dal Santo prende il nome. Da questo concorso ognun prende il solazzo, se dopo grande affanno si ha per solazzo il veder molta confusione di vagabondi per le strade, gran perspettiva di femmine per le finestre, gran baccanali di gente per le carrozze, poco numero di maschere a cavallo, quattro vestigia di zannate (1) a piede, « veggio a molto lan guir poca mercede » (Petrarca). Napoli è quel delle altre volte; non però quel delle altre volte è in Napoli...... Manca la sostanza; tutti i fiumi di questa parte dell Italia sono entrati nel mare della Spagna ; il quale, perchè il danaro è il primo sangue, avrebbe il titolo di Mar Rosso. Ma nel Mar Rosso non entrano mai fiumi......... 18. Martedì tutto quanto non bastò per lasciarmi col procaccio scrivere bastantemente. Calici amari si appre sentano oggi alle mie labbra. Val poco essere allontanato dalle radici dell’assenzio, s’entro ai fogli se ne vengono le foglie. Orsù, caviamone profitto : se 1 amarezza dei (1) Forse mascherate di Zanni; 0 forse traduzione materiale del geno\ese xiannaUi, che sta per chiassata. — 567 — succhi estingue la putredine degli umori, io posso dal mio fele aspettar la mia salute ; anzi posso dal mio fele augurar la mia felicità. Egli è tanto vero che la felicita dal fele ha il suo cominciamento , che non per altro ella è chiamata felicità. Prova di questa verità siano le istesse lettere del medesimo vocabolo; nel quale i primi caratteri il nome di fele, anzi di più feli artificiosamente contengono. Non a caso volle il padre di tutte le voci farne apprendere, come per arrivare, non pure a possedere, ma solamente a nominar felicità, con-vien passare per mezzo di feli. Questa prima parte è in sicuro ; l’altra è sicuramente in dubbio ; eccetto se noi, 1 ordine variando, e l’ultima metà del vocabolo alla prima anteponendo, nel proferire felicità vogliamo inferire cita di feli. Che se cità non è altro che unione di citadini, tanto diremo Unione di Feli quanto diremo felicità.Conchiudiamo : questa vita mortale non ha felicità che nella morte. 19. Mercordì, passo all’ertura de’ Padri Cappuccini. Quivi me la passo con la conversazione del Padre Fra Jacopo Raggio. Questo Padre è fratello all’ Ill.mc (e spero in breve Eminentissimo) Raggio, mio signore; ed è parimente fratello a due miei cugini e padroni. Egli , sotto la povertà dei ruvidi suoi panni, conserva il tesoro degli angelici costumi : egli, non men affinato nello studio ch esercitò nella predica, ha talento di persuadere con la dottrina ciò che imprime con l’esempio, e senza esempio clemente verso gli altri, senza misura è rigoroso contro sè medesimo. Per tanto la sua benedetta repubblica, distoltolo da Roma, 1’ ha inviato a piedi scalzi in questa città, ove, nella vegnente stagione dei pesci , — 568 — sarà pescatore degli uomini. Dio conceda a lui quelle forze che paiono assai necessarie alla sua gran delicatezza ; perchè sì come egli per la quiete dell anime non quieta, così l’anime nel dispendio delle fatiche di lui facciano usura delle facoltà del cielo. Dai piacevoli ragionamenti di questo Padre intendo novelle di mio figlio, che quante più sono buone tanto più mi sono care, e tanto più mi sono care quanto più sapute da lui le stimo certe..........Gli affet- tuzzi della libertà si son cangiati in sensualità d ubbidienza; gli appetiti dei solazzi si sono trasformati in avidità di lettere........Sia lode a Dio ! Egli ha intelletto per condursi a qual si voglia meta. Gli mancava solamente quello sprone, che sempre è necessario alla recalcitrante nostra umanità.......... 20. Giovedì, nulla mi è permesso allontanarmi da quei Dottori, ch'io pago come avvocati, e non so ben se chiami difensori o struggitori di clienti. Quivi si torna da capo a quell’affare, per lo quale ormai non ho capo nè piede. Non voglio mai più sperare, se prima le speranze incerte in certezze non si lasciano vedere ; se ben sin dall’ altr’ ieri e troppo ben mi ho indovinato , quel tanto che ogfofi alfin mi è succeduto : ma in ogni modo, oo # perchè in questo mondo ciò che grandemente si desidera facilmente si spera, per maggior mia caduta dopo la mia partenza da quell’ officiale, mi lasciai di bel nuo\o sollevare da nuova promessa fattami per bocca di quel suo confidente. In fine, ancor iersera mi danno il negozio di Caserta del tutto per finito. Questa mattina trovo che fu un imbroglio, che forse per maggiormente avvilupparmi fu intricato. Così non intricato mi fossi mai con — 569 — questi mezzi, che forse 1’ avrei di già com’ altri posto in termine. Ma se non ha termine la contraria mia sorte, come alla mia credenza poss’io già mai prestar fidanza ? Dura cosa al pensare, più dura al sofferire , 1’ aver a perdere per destino quel che si cerca per ragione, anzi quel che si trova per ingegno. Pur pure, chi sa? Forse non così sempre sarà. 11 buon tempo dopo il cattivo sempre viene a chi l’aspetta. Il punto sta nell’aver tanta pazienza, o tanta vita, per attenderlo. Io son de 1’ aspettar ormai sì vinto E de la lunga guerra de’ sospiri, Ch’ i’ aggio in odio la speme e i desiri. Non diss’io da capo, che non ho più capo nè piedi? Confesso il vero, perdo ormai, con la speranza del conseguire, il desiderio dell’ oprare. Dio mi aiuti. 2i. Venerdì, per esser giorno di passione, mi parve proporzionato ad un passionale convinto. Priego pertanto il Padre Raggio, che venga, come sì suol dire, a far meco in quel mattino penitenza. E ben 1’ avrebbe fatta, se, essendo egli assuefatto a cibarsi più di contemplazione che di cibo, dal contemplar le belle vedute del mio casino non avesse pigliato il solito alimento. Tanto all’ uno ed all’ altro riescono dilettevoli i domestici discorsi, che non è in tutt’ oggi negozio per me importante che ci disunisca dai ragionamenti. Allora solamente ci è d’ uopo il separarci, che già 1’ ora comincia ad imbrunirci. E pur tanto di tempo sino alle cinque della notte mi avanzò per negoziare di molto proposito, e di molte mie proposte, con Stefano Bianco, a fin di non trovarmi all’ improvviso in bianco ; mentre nel giorno Soc. Lio. St. Pumi. Voi. XXIX, f*jc. il. }7 — 57° — che segue mi bisogna seguitar l’empia fortuna; e pie-sentar a lui certo memoriale, che consistendo ne calcoli della privata mia fortuna, convien che sia formato da chi solo, o più d’ ogni altro, n’ è informato. 22. Sabbato, adunque, spiegato avanti a’ miei ministri, su la tavola de’ miei negozi, l’apparato de miei papeli, reco loro tal pastura, che non men par dura a loro nel masticarla, di quel che diffìcile paia a me nel digerirla. Oh quanto meglio sarebbe il poter vivere digiuno, oh quanto è vero che, fuor di quello che n è di necessità, tutto il rimanente è di miseria ! Ancora le ricchezze par che i ricchi impoveriscano, quando per eccesso di abbon danza cagionano mancamento di allegrezza ...••• 23. Domenica, sono dal Cardinal Savelli, a fin complimento; e sono, ad instanza di lui, dal Consig Varella, a fine di negozio. In questo tempo gli altri si danno buon tempo; imperciocché da piacevolissimo giorn a’ piaceri conveniente, da burlevoli drappelli di don in maschera favorite, stavansi le più nobili turbe in mil lantosi solazzi trattenute. Non m’importa 1 esser fra turbe; m’importa l’essere turbato. 24. Lunedì, quasi quasi con le reliquie della pazienza perdo ancora il rimanente del cervello ; tanto dall narie brighe sono oppresso, e niente meno dalle solite insidie vengo fastidito. Il mio amico, il mio protett il mio padrone, ancor non ben contento di aversi il mio territorio occupato, vorrebbe da me qualche danaro a conto di quel eh’ io non gli devo. E perchè per altri 10 non lo sodisfaccio, di me non si dimanda sodisfatto. Ma perchè antivede, il prudentissimo signore, di non poter a lungo andare mantenersi per giustizia quel che — 57i — si acquistò per autorità, s’ingegna di tormi per arte quel che non gli viene per ragione. Mi dà oggi lunga batteria; pertanto non mi fa render la piazza. Ho contromine per le lusinghe, ho armi per le astuzie. Egli, imperversato per la inutil prova, tanto più ingagliardisce gli artificii, e incrudelisce gli odii ; si fa bravo contro la mia debolezza : si travaglia contro la mia fatica; per attraversarsi a’ miei desiderii pone intoppi a’ miei negozi. Quell’ aggiustamento col Caserta, che con 1’ opra d’ un novamente ritrovato intercessore appunto oggi si è conchiuso, per novo ingegno di quest’ ingegnoso un’ altra volta ecco intricato ; e quando io penso aver finito, « Veggio di man cadérmi ogni speranza — E tutti i miei pensier romper nel mezzo » (Petrarca). 11 modo, che fu sottilmente imaginato, fu altrettanto leggiadramente eseguito. Egli, sotto 1’ abito di mio stretto confidente, anzi di assoluto mio movente, perchè sia levata la parola a quel mezzano, s’ ingerisce a recarla come principale. A tale intento si manda avanti le ragioni del decoro e della sicurezza, circostanze alla perfezione delle pratiche in ogni caso rilevanti. È piaciuta la opinione, ed è approvata la persona di lui. Chi non è informato della cosa, che sia burlato da chi sa non è gran cosa. In fine, questo concertato negozio prende egli fra le mani, perchè sotto colore di sollevarlo da terra, quasi infielice Anteo gli venga a scoppiare fra le braccia. 25. 26. Martedì e Mercordì, le ordinarie lettere mi occupano la mente, mi travagliano la mano, m’ incurvano il collo. Per sopraccollo, informazioni ad avvocati, scritture ad archivisti, instanze ad agenti, gli scritti interrompono coi fatti. Così fosser pur fatti ; ma son fatti di — 572 — parole, i quali se ne svaniscono quasi incantate fabriche d’Armida; e quando io credo aver alloggio, repentinamente 1’ albergo si dissolve in fumo. 27. Giovedì, attendo a molti affari, ed al mio solito più con diligenza che con prosperità. Spiano con le mie risposte gran montagna di lettere avute da miei monti. sbrigo infinità di memoriali, tutti in una volta pervenu timi da quella volta: m’incammino poscia a San Paolo, e trovo tutto Napoli per quel cammino. Viene 1 occasione a questa frequenza dalle processioni dei curiosi e dei devoti ; perchè sin dalla passata domenica in questa lor chiesa i Padri Teatini hanno quelle stazioni cominciate, che nella seguente domenica per insino a quella della Quinquagesima da’ Padri Geromini altresì continuate, dai Padri Gesuiti col fine del carnevale saranno termi nate. Sia benedetto il donatore d’ogni bene, che nei giorni di tanto male indusse per mezzo de suoi religiosi, nell’ opre della religione, il fine della carità. 28. Appunto per esercitar una delle opre della carità, in questo Venerdì mi trasferisco a visite di malati, lai era il Signor Andrea di Gennaro, mio signore e Giudice. Stavano, con questa occasione, nella stanza di lui molte dame in giro, per far corona alla moglie di lui. Ben conveniva eh’ alla bellezza venusta ed alla bella venustà di questa leggiadrissima signora rendessero onore le più belle. Ma con pace delle altre, nel mirar la D. Tolla, bisogna che sovvengano quei versi del Petrarca. Tra quantunque leggiadre donne e belle Giunga costei, ch’ai mondo non ha pare, Col suo bel viso suol de 1’ altre fare Quel che fa ’l Sol de le minori stelle. — 573 — E con tutto ciò, perch’ella tanto pone il suo pregio nella cortesia quanto altra porrebbe il suo vanto nella superbia, tutte quelle che in questa città le sono emule per esterior bellezza, tutte le sono compagne per intrinseca amicizia. Ha forza in lei 1’ eminenza del bello d’indurre anco nell’ invidia 1’ affetto, non che la riverenza ; ed ha vigore di unire eziandio negli atti della riverenza gli offici dell’ amistà. Queste sono quelle istesse, che in uno stesso cocchio sempre mai sono vedute, ne’ medesimi luoghi ritrovate, e delle divise medesime vestite. Ma quando, sollevata più dalle rote della sua gloria che dalle rote della quadriga, fa mostra della sua pompa la maravigliosa vaghezza di questi bellissimi sembianti, ciascuno resta in dubbio se questo sia quel carro descritto dal Petrarca, ove trionfa Amore, o pur se sia quell’ altro che per trionfo della Morte egli descrisse. Imperocché queste accorte saettatrici dell’ anime gentili, prendendo di mira dai loro occhi i cori altrui, armano dolcemente su 1’ arco dell’ Amore le saette della Morte ; onde si hanno dal comune applauso meritato il titolo de Las Matadoras. Desse dunque uccidono gli uomini coi volti ; ma uccidendo gli avvivano. Ed io mi seppellirò ne’ miei silenzi, mentre posso riuscitar il mio nome nei lor nomi? Di quelle non è ragione che i nomi in questa carta vengano obliati, i meriti delle quali con tanta ragione in questo mondo sono riveriti. La prima sia la già nominata Di Gennaro, Duchessa di Cantalupo: sieda a canto a lei la Principessa di Satriano : occupino i lati della carrozza la Duchessa di Sant’ Elia e la Principessa di Belmonte: diano le spalle al cocchiere e la faccia alle altre la — 574 — Duchessa di Campochiaro e la Contessa di Chiaromonte. Ecco, di animati gioielli, più che d’insensibili broccati guernito il cocchio : eccolo fiammeggiante, più che per guarnimenti d’ oro, per quei vivaci raggi che insieme abbellano ed abbagliano la vista. Io, quanto a me, lo piglierei per quel del Sole, se a strascinarlo vi raffigurassi Eto e Piroo. Ma in loro scambio, solleciti al medesimo esercizio, non so come legati precursori, fanno ufficio di corsieri Amore e Brio. • • Lo stesso concetto mi uscì di bocca, nel vario ragionamento con queste dame in questa visita passato. Onde fu una di loro, la quale, non men scaltra che manierosa, domandandomi che cosa sia Brio, e qual talento egli si goda ond’ io lo ponga al paro dell’ Amore, e qual prerogativa egli possieda onde ugualmente con 1 Amore io 1 introduca ministro alla Bellezza (quasi mi voglia dire che la Bellezza abbia necessità di oprare il Brio per porre in opra 1’ Amore), conchiuse che quel tale mio pensiero a quelle sue bellissime compagne, e ancora a lei, riusciva niente men strano che nuovo; onde avrebbero tutte volentieri udito s’ era da me, per una tal quale dimostra zione dell’ingegno, o per indubitata probabilità della ragione, sostenuto. Così ognuna di loro col brillar del ghigno e col chinar del capo confermò. Ed io confesso che non meno abbacinato nella mente dai loro accenti, che offuscato nella vista dai lor volti, nel discovrire il porto immobilisco nel viaggio ; perchè al soffio degli angelici lor fiati non potendo resistere 1’ articolata vela de’ miei detti, mi trovai per troppa sorte senza sorte. Ma chi senza pericolo di naufragio può navigare in pelago di raggi ? Occorse a — 575 — me quel che al Petrarca bisogna dire che avvenesse, quando egli scrisse in quel sonetto : Onci’ io non potei mai formar parola, Così mi ha fatto Amor tremante e fioco. Ancor Didone, nel voler favellare ad Enea, nel più bello del cominciare, fu suo mal grado forzata a finire. « Incipit affari, mediaque voce resistit » (Vergilio). Questa sola differenza è tra questi e me; che ove il lor tacere nacque dall’ eccesso dell’ ardore, in me si generò per lo mancamento dell’ardire: quel che fu in loro effetto di concupiscenza, effetto è in me di moderanza. E sempre moderato chi sempre è riverente : la riverenza partorisce la timidità: dalla timidità s’indebolisce l’eloquenza. . . . Dunque la stima degli altri e di me stesso mi fanno star come fuori di me stesso. Nel cominciar del dire io resto muto. Indi, o tanto o quanto rincorato, impasto tra’ denti una tal risposta, che per esser mal fatta, mi avvedo che non è per 1’ altrui bocca. Voglio camminar più avanti; inciampo; e quell’inciampare mi fa del tutto al fin cadere. Nella caduta, in vece di esserne burlato, ne vengo compatito. Imperciocché a quelle signore, che nel-1’ avvedersi del mio cadere tanto maggiormente si vedono pregiate, forse per in tal guisa ringraziarmi, piace in tal parlare favorirmi : « Signor Gio: Vincenzo, non la scapperete per questo, no. Quella risposta che a noi dovete, bisogna che sotto pena di commettere mancamento voi non ci manchiate. Voi, diverso da voi medesmo, e differente dall’ altra volta quando per Napoli pigliaste volta, più da noi non comparite. Voi, per attender tutto ai casi vostri, di noi — 576 — altre non fate caso ; e noi non dovremmo far di voi più conto. In ogni modo, vi stimiam degno di scusa, perchè sappiamo che non può darsi a trattenimenti chi è impedito da negozi. Ben siamo informate che i vostri diporti consistono nei vostri studi. Ma già che vi invigorite allor solo che studiate, studiate un po’ per noi. E già che più non maritiamo di vedervi negli spasseggi, fate che vi vediamo almeno negli scritti. In fine vogliamo (vogliate o non vogliate) un ragionamento composto da voi, sopra il concetto proposto da voi e rifiutato da noi. Se Dio vi dia quel che maggiormente desiate, compiacete ». Accetto il comandamento di buona voglia : prometto il conpimento di buona vena : mi obligo a far loro, e quanto prima, vedere che quella Bellezza non innamora, alla quale il Brio non somministra 1’ Amore. E così per pegno della data parola, strettami cortesemente la mano, mi lasciano non men pieno di debito, che di desiderio di pagarlo. 29. Sabbato, prima del desinare, ho il mio solito antipasto delle amarissime mie cure. Sul tardo, cerco ristoro dalla commedia e dal ballo, che si videro in Palazzo, 1’ uno e 1’ altra così al diporto di questi Padroni come al piacere di questo carnevale confacenti. 30. Domenica, sbrigate molte faccenduole della mia casa; e spediti molti affari delle mie cause; veduta la Santa Messa; visitato Savelli; abbattutomi in Villa, io lo tengo a pranzar meco. E seco dopo il pranzo vo a Santa Maria della Grazia ; nel cui monastero da que religiosi studenti fu rappresentata una commedia. Il posto di questo monastero, perchè sovra le Pigne è posto, da questo mio quartiere per due miglia è separato. Il nostro - 5.77 — viaggio parve a noi tanto più lungo quanto più incomodo; perchè per ischermo dell’acque, che cadevano turiose, bisognò che in cocchio camminassimo rinchiusi. Ma se nella città non fece in tutto oggi altro che piovere, nella montagna non fece altro che nevicare. Onde, a quel sito eminente pervenuti, scorgiam da lunge quei colli incanutiti, che patiscono le offese dell’ inverno, perchè dalla temperie che abbiam noi si stanno separati. E separati da loro veggiam gli uccelli fuggitivi, che, per non rimaner ancor essi in quelle carceri di gelo imprigionati, dibattendo ansiosi inverso i nostri muri i rapidi lor voli, amano più tosto arrisicar la libertà nei nostri cittadini ospizi, eh’ esporsi all’ aspettata morte nei lor selvaggi alberghi. Mi scordava di far menzione della udita commedia. Ma forse è ben eh’ io me ne scordi. Oh, Dio buono ! e che noia, il veder quella figura, che storpiata delle sue membra si mostri difettosa! Non è cosa più abominevole , della corruzione di quel buono, che nella primiera sua bontà fu desiabile. 31. Lunedì, con altra commedia (ma spagnuola) fattasi nell’ ordinaria sala del pubblico Palagio, soavemnte si emendò la nausea della preceduta. Non pertanto, questo diporto mi occupò tanto, che lo spazio a’ negozi dovuto, da me non fosse assegnato.......... - 578 - X. Febbraio. — In obbedienza alle dame — Amore e Brio. — Dal corso maschere al ballo di Corte. — Giovedì grasso----magro. — Cortesie del Cardinal Savelli. — Mascherate popolari e giostre signorili. — H teatro di Palazzo. — L’avviso di Giannettino Spinola. — Sicarii in viaggio. Nuovo ballo a Palazzo. — La quadriglia delle belle. — I cavalieri delle torce. Quaresima. — L’ ospite agostiniano e il vin d’Albano. — Prediche del P. Raggio. — Invito di concittadini. — Nè giuoco nè chiacchiere. Ancora nei tribunali. — I frati a Sant’ Angelo. — Parte il card. Savelli. Da caP° agli Odiosi. — Viaggio del Cardinale Infante. — Storia di un arco trionfale a Genova. — Notizie dei sicarii e della vittima designata. Una porta con dannata. — Afflizioni domestiche. — Il gran da fare del reggente Tappia. Proteste d’amicizia e calici d’ assenzio. i. Martedì, non già per essere il primo del mese di Febraro, ma per essere il primo della settimana di car nevale, si chiudono le porte a’ Tribunali; si scomunicano i negozi ; a’ negozianti s’ intimano i trattenimenti, ed ai litigi universali un « Longum . . . vale, vale, inquit, Jola » (Vergilio). Sia pur in ora buona. Io spedisco 1’ordinaria lettera, poscia da quel peso io penso spedirmi, che a quelle Si gnore è piaciuto di addossarmi. Mercè di tal fatica, m tutt’ oggi non ho posa. 0 bene o male che mi riesca, infardello dei miserabili cenci della mia memoria un tal ragionamento sopra il Brio. Appena è generato dalla mia fantasia, eh’ è partorito dalla mia penna. Questa ne mandò prima 1 abbozzo in questo mio giornale ; poi ne — 579 — mandò il netto in altro foglio. E il foglio, con questo viglietto, a chi già l’attendeva fu inviato: « Leggiadrissime Dame » L’ altro ieri la mia vista si abbagliò nella gradita luce de’ vostri raggi: poi la mia mente si rischiarò nella vigorosa fiamma de’ vostri comandi: or la medesma vampa ha riacceso il già spento carbone de’ miei concetti. Ho scritto, come avete ordinato: non so già se ho scritto come avreste voluto. Ho abbozzato un ritratto del Brio: per farlo apparire naturale, io l’ho copiato dai vostri volti. Quella di voi che aborrisce la stima dell’o-riginale, quella non faccia stima del ritratto. Frattanto degnatevi di avermi vostro, e più per devoto servitore che per compito dicitore. Dio vi conservi il brio, già che il brio vi conserva la bellezza. » Da questa vostra casa, il primo di Febraro 1633. DISCORSO. < Mi avvedo, 0 mie Signore, eh’ io vi feci una sciocca promessa, e che ora per osservarla converrà eh’ io mantenga una pazza conclusione. Non è egli pazzia il pormi a provare a voi con le parole, quella verità che provate voi con l’opre? Ridicola dunque, non che facile, mi riuscirà questa mia prova. Ma se, come ridicola, non si affarà alla vostra voglia, almen si confarà con la stagione. I carnevali, perchè introducono i risi, disloggiano i pensieri. Un pensier solo rimase pur nel mio cervello nel far questo discorso, eh’ è il sodisfar al vostro desiderio — 5 So — col pagamento del mio debito. Ecco, lo pago ; forse di moneta scarsa, non già di falsa. E poiché volete saper da me quel che sapete voi meglio di me, con brevità, ma con sincerità, voglio contarvi che cosa è Brio ; qual mestiere abbia alle mani; quel che operi nella Bellezza, quel che vaglia nell’Amore; acciò possiate voi sentenziare, che senza brio non è bellezza che si debba amare. > Per lo Brio non so bene s’ io m’ intenda un tale atto naturale che da origine sovranaturale dipendente (perchè non solo è parte, ma principio di quelle terrene bellezze che sono ad imagine delle sovrane idee), nume celeste vien giudicato da Platone ; o pur s io mel creda, mentre lo vedo a suo talento raggirare il mondo, esser quella tale e special prerogativa che gli angelici movi menti sogliono compartire ai moti illustri, secondo quel che ne pensò Diogene ; o pur s’io mel dichiari primo mobile dei cieli della Bellezza, senza 1 opra di cui non oprerebbero le sfere dell’Amore, come affermò Teofrasto. So bene che non dirò male, se dirò che il Brio è un certo effetto nel corpo umano, che quasi fabricato d af fetto divino, per la scala della leggiadria, di cui tanti sono i gradi quanti sono i gesti, solleva gli spiriti vitali alla fruizione dell’ eterna vita; mentre nella grazia bellis sima di lui 1 anima, dalla contemplazione dell oggetto beatifico rapita, sormonta dalla felicità di quel bello che vede, alla gloria di quel bene che desidera. > Forse dirò meglio, o meglio forse mi dichiarerò, se definirò finalmente essere il Brio non altro che quel movimento dell’ anima, che palesato dai movimenti del corpo, maestoso non meno che vivace, soavemente unisce ed epilogate illustra le parti tutte della Bellezza e della - 58. - Grazia , e porge argomento al Ficino di chiamarlo una tal Grazia, la cui mercè, per lo guardo e per 1’ udito è 1 animo allettato; « Gratiam quandam, quae animum allicit per visum et auditum » ; movimento del quale intese Francesco Petrarca favellare, allor che disse: Atto gentile, Dolci parole, a1 bei rami m’ han posto Ove soavemente il cor m’ invesca. > 11 Brio ha per padre il Valore, per madre la Piacevolezza: la Cortesia lo accolse in fasce; le Grazie gli diedero le poppe. Non so com’ebbe spagnolo il nome, se lontano dal sussiego ebbe il costume. Egli si allevò sotto il padiglione d’Amore: fu sua cuna la Bellezza: furono suoi trattenimenti più continui i motti più leggiadri : furono suoi ministri più cari i risi più modesti ; furono suoi compagni più soavi i giochi più vezzosi : furono gli esercizi suoi più famigliari i gesti più garbati. Onde, ingrandito, e in sè medesmo avvalorato, per sè solo, e con un solo atto avvenente, assedia 1’ alme ; con un sol guardo vivace assalta i cori ; con una sola paroletta acconcia domina i voleri; con un solo raggiro manieroso soggioga le menti ; per insino con un sol silenzio opportuno persuade gli animi. Ed infine, se tace, se parla, se guarda, o se non mira, se sta fermo, o si move, sempre move altri ad amarlo: perchè infatti ne’ suoi portamenti egli si porta in guisa, eh’ il tutto cede alle sue nobili maniere. > E perchè non solamente è spiritoso, ma tutto quanto è spirito, egli non tratta mai con la gentaglia, ma sempre conversa con la nobiltà. Questa in lui non è alterigia, ma civiltà. Da nobile com’ è, beato lui nel servire altrui. Ma s’ altri vuol gareggiare con lui per merito, subitamente si solleva per dovere, e non lascia invendicata la pretensione; perchè se alcuno si sforza di arrivar con 1’ uguaglianza, lo fa stare addietro nel picco della precedenza. » Talvolta la signora Bellezza, di sua natura sempre vana e d’altrui paragone sempre impaziente, contrasto con esso lui; dandosi ella ad intendere che le piccole sue spade avessero a ferire, ove solamente le volanti frecce di lui san penetrare. Ma venuti alla prova, le fece egli conoscere com’ella rimane disarmata, se dell armi di lui non viene provveduta. Alla fin fine, donnesca malizia non la può contro maschio valore. » Dice il Brio, eh’ egli per nascimento è più nobile della Bellezza; perchè la Bellezza nasce col natale del Corpo; ma ch’egli, nato dopo il corpo, nasce dall ingegno ; onde partecipa di quella condizione che tanto più lo rende nobile, quanto più nobile della qualità corporale è la mentale. Dice eh’ egli per azione e più potente della Bellezza ; perchè, s’ ella perviene a farsi veder dagli occhi, non però sempre arriva a farsi sentire dai petti ; ma eh’ egli mai non si move inverso i guardi, che sempre mai non si conduca intorno i cori. Dice ch egli per professione è più qualificato della Bellezza; perchè, ove senza estrinseco artificio ella non è stimata, egli senza aiuto di straniero artefice, stimabile in sè stesso, vien stimato per sè stesso. Dice eh’ egli per natura è più durevole della Bellezza; perchè, ov’ ella ad un soffio del tempo si dilegua, egli ad onta del tempo contrasta con 1’ età. Dice eh’ egli per esercizio è più amabile della — 583 - Bellezza ; perchè, ov’ ella sovente sconciata dalla severità si rende odiosa, egli nemico della superbia sempre si fa compagno dell' Amore. Ma sentite di più, sentite. » Che il Brio si faccia per compagno Amore, è per grazia che ad Amore egli vuol fare. Quell’ Amore che fa del tiranno al mondo, quello bisogna che si tenga di buono d esser compagno, perch’ è vassallo al Brio. Amore se ne starebbe a dormire, se dal Brio non si sentisse risvegliare. Amore giacerebbe senza oprare, se la mano del Brio noi prendesse a favorire. Amore se ne cadrebbe senza voleggiare, s’ egli dalle piume del Brio non prendesse 1’ ali. Non parrà iperbole eh’ io meglio che ad Amore assegni 1’ ali al Brio, mentre si saprà come Seneca attribuisce tra gli alati il primo luogo a quell’ augello che di più colorate penne ha il primo onore. Ed ecco il Brio di tanti colori variate le piume de’ suoi pensieri, quanto varii sono i pregi degli agili suoi gesti. » Amore è tenero e nudo pargoletto : onde non ardirebbe far del bravo com’egli fa; ma quando il facesse, le risate ad ogn’ ora se gli farebbero, se dal coraggioso Brio non prendesse armi e vigore. Amore non dominerebbe le genti innamorate, s’ egli del Brio non fosse innamorato; onde, essendo natura di chi ama il trasformarsi nella cosa amata, egli vivendo nel Brio più che in sè stesso, dal Brio riceve quella tal qualità, la quale, sì come da Aristotele fu chiamata la sostanza di qualunque essenza, così da Pitagora fu dichiarata 1’ origine della Natura. » Amore è desiderio del Bello. Chi dice il Bello dica il buono, secondo la cattedra peripatetica. Il Buono non — 5S4 — è buono, se non è diffusivo. Ma la Bellezza, quanto meno è diffusa, è più stimata; onde 1 innamorato Petrarca n’ ebbe a dire : « Una chiusa bellezza è più soave ». Dunque, non ha bontà. La bontà le \ iene dalla grazia. Chi dice grazia dice Brio. Dunque se Amore desidera 11 Bello, desidera il Brio, nel quale egli riconosce tutti quei beni che si diffondono tra la grazia e la venustà, tra la gravità e la leggiadria, tra la piacevolezza e la severità, ch è quell amoroso misto che da Giovanni Della Casa fu epilogato in un sol verso. « Dolce rigor, cortese orgoglio, e pio >. > Se Amore è desiderio, e se desiderio, per opinion d’ Aristotele nella Fisica, non desidera quel che è, o quel che ha, ma desidera quel che non ha e quel che ha da essere, non si dica che Amore ami quella Bel lezza che si vede, nella quale consiste tutto quel bene che ha; ma si affermi ch’egli desidera quel Brio, che giornalmente con nove imagini figura quel bene che non è, quel Brio che con inaspettati cenni ad ogn ora graziosamente ne promette più di quel che ne appresenta, quel Brio che ha tal destrezza per farne più bramare quel che meno si può sperare di conseguire, mentre da quel tanto che ne fa vedere, cose molto maggiori ci sa darne ad intendere. > Se Amore è godimento ; e se godimento amoroso, per parere del Filosofo nel Fedro, consiste nella quiete dell’ anima innamorata; nè questa quiete si ottiene senza la fruizione del fine; mentre il fine di non volgare amante non è il fruire semplimente de’ beni del corpo, ma de. beni dell'animo, o pur di quei dell’animo e del corpo insieme; certo è che Amore non arriverà al fruire, se - 585 - di tal bene egli ben non s’impossessa, che in sè contenga 1 uno e 1’ altro de’ sovradetti beni. Ma tal bene egli non trova nella bellezza del corpo, se non la trova accompagnata con la bellezza dell’ animo. La bellezza esteriore può solamente dimostrare la qualità corporale : il Brio, perchè pullula dall’anima interiore, dimostra la condizione animale. Dunque, che maraviglia se stanno accoppiati Amore e Brio? Se al Brio non vuol servire, Amor non vuol godere. » Aggiungasi: se il godimento d’ Amore, per sentenza del gran Stagirita nella Retorica, è quella vicendevole corrispondenza eh’ è necessaria nell’ amore, questo godimento nella bellezza del corpo è impossibile ad avere; avvenga che la bellezza collocata in un donnesco volto assai volte è menzognera, e spesso è muta. Solamente nella stanza del Brio s’alloggia il godimento; perchè il Brio, eh’ è parte dell’ anima, come segretario de’ concetti di lei, per mezzo di movimenti, or mansueti ed or ritrosi, è fedele interprete delle cifre del core, onde Amor si assicura della corrispondenza, 0 dell’ inganno. Di qui è che a proposito di Sofronia disse il Tasso: Amor, eh’ or cieco, or argo, ora ne veli Di benda gli occhi, ora ne gli apri e giri; perchè, senza la guida del Brio, Amore è cieco; guidato dal Brio, Amore è Argo. Dunque, per lo suo meglio non si scompagna Amor dal Brio. Anzi, cieca.non men del figlio sarebbe la Dea più bella, se 1’ amorevol Brio non le togliesse dal volto quella benda che per ischerzo Amor le pose al guardo. Nè comparirebbe ella festeg-gevole, per quanto sia vaga, se per opra del Brio non Atti Soc. Lio. St. P»tru. Voi. XXIX, fase. 11. 58 — )S6 — apparisse graziosa. Non altro che il Brio, diremo esser quel balteo per tante gioie dovizioso ond’ella è cinta, di cui testificò Giunone la soavissima forza di placai dice Publio. Ma insieme dico che portatore di questa lettera è il Brio: dico che la Bellezza è un lampo di quei lumi che si vedono, ma dico che il Brio è l’esca di quei beni che si godono. Con quest’ esca si accende per 1’ appetito visivo il lume visuale, senza il quale i beni della Bellezza non si vedono. Die che la Bellezza, come giurò Senofonte, accende a paro del foco; ma dico che il Brio, come attesta la sperienza, infiamma più del foco. Perchè se la Bellezza come foco materiale riscalda da vicino, il Brio come foco sovrana turale abbrucia eziandio da lontano. Dico che se la Bellezza adopra certe armi effeminate, che quanto più sono vedute tanto meglio possono essere fuggite, il Bri si arma con baleni di gioia, onde scocca fulmini di affetto, tanto men reparabili quanto più invisibili. Dico — 587 — che se la bellezza, come parte della fragile umanità, è caduca, il Brio come parte di quella divinità ch’ai principio dichiarai, così di facile non cade. Caduca, perchè mortale, è sempre la Bellezza; ma il Brio, anco brioso nel far dell’immortale, non so come arriva a far parere che dagl'anni acquisti brio. A lui dà l’animo, ancor nelle nevi dei crini, nei solchi della fronte, nelle valli degli occhi, nei colli del collo, di gettar semi di grazie, per accoglierne messe di piaceri ; tutto perchè, se il rigore della insuperbita Bellezza meritò in castigo il rigore dell’asprissima vecchiaia, la benignità del pietosissimo Brio ottenne in premio il mantenimento dell’ autunno d’Amore. Onde, se per confusione della Bellezza canta il papagallo d’Armida, Così trapassa al trapassar d’ un giorno De la vita mortale il fiore e ’l verde, (Tasso) per invito alla permanente e fruttifera stagione del sollazzevole nostro Brio, canta il papagallo di Quirina, ammaestrato yià da sag-gio amante, o 00 7 Quirina, in gentil cor pietade è loda (Casa). « Piano; che non intendo già io, se il Brio faccio pietoso, di renderlo impudico. Anzi dichiaro che, sì come la Bellezza non è bella se dal Brio non è abbellita, che il Brio non è leggiadro se la sua leggiadria non è accompagnata da venustà, in quel modo che credo aver accennato qui sopra, in quel modo che piacque a Quintiliano, allor che disse: Venustum est quod cum gratia quadam et Venere est » ; onde, quando egli ebbe nel — 5 88 — Brio riconosciuto quel che maggiormente avea desiderato, non tanto lodò la bellezza di Quinzia, che maggiormente non esaltasse il brio di Lesbia. < E conchiudo, che la Bellezza senza disinvoltura è ruvida Bellezza. Onde l’assomiglio a conca d’amore, ma negletta, se dal suo guscio non fa spicar la perla del pregiato Brio. Certamente è perla il Brio, perchè ha la precedenza fra tutte le più rare gioie dell’Amor più fino. È perla, perchè niente meno giova al core di quel che diletti grandemente al guardo: ma è perla per la candidezza delle sue maniere, per la purità delle sue pompe, per la ricchezza de’ suoi meriti; perla senza neo di sozzura; perla senza macchia d’ammaccatura; perla, degna prole del cielo; gemma incomparabile del mondo ; gemmato monile della gloria; perla, tesoro dei pensieri, corona delle azioni, gioia delle gioie. Or quale tra le più belle donne non s’ingegnerà di questa bella perla, più che d’ogni altro ornamento, di adornarsi? Ah sì, sì, lo so; o • 7 ben io la nomino: quella sola ne starà lontana, la qual più bella che nobile trovandosi, considerando quanto alla viltà di rustica bellezza mal si affacciano le perle gentili del vivace Brio, da troppo onore vergognata, al biancheggiar delle perle arrossirebbe ». (i) 2. Mercordì, vidi la chiesa di Monte Oliveto, divenuta Capella Reale; imperciocché, secondo l’antica usanza, e secondo l’antico privilegio da quei monaci acquistato, il Viceré, pomposamente ricinto d’ogni intorno da numerosa corona, d’officiali e di titolati fabricata, quivi assi- (i) Non dispiacerà che queste variazioni, tra erudite e galanti, su d un grazioso paradosso di società, siano qui riferite integralmente. Piuttosto dispiacerà il non sapere dal narratore come il suo discorso sia stato aggradito dalle nobili Matadoras. — 589 — stendo alla Messa, è presente alla benedizione delle candele, che in questo giorno, in riverenza della purificata Madre di Dio, presenta la Chiesa di Dio. Lo strepito del concorso non lasciò ben udire il concento della musica. L'apparato fu confacente al loco ed al locato: la ceremonia non venne al fine, che il giorno già non fosse al mezzo. Fui poscia a’ Dottori per li soliti affari; a Gio: Battista Mari per insoliti negozi; e al Cardinal Savelli per gli ordinarii complimenti. Egli seco mi condusse al carnevalesco passeggio della città. Questo riuscì non povero di maschere, e ricco di carrozze. Nella sopravenuta notte, e nella regia Sala, molto alla grande si tennero le danze. Dopo le quali, già stanco per tedioso diporto, nelle mie straccia ricercai l’amata requie. 3. Giovedì grasso, dice il volgo: giovedì magro dissero "1 non volgari; perchè digiuno d’ogni diporto, ognuno si lagnò per mancamento di ristoro. Ed è da scrivere che alcuni tanto ne mostrarono pallido il sembiante, che sembrarono dalla mestizia alla magrezza pervenuti, come se per la quaresima digiunando fossero passati. L’esser già pronte alcune mascherate, e Tesser dall’ incessabil pioggia impedite, cagionò in certiduni tanto maggiore la malenconia, quanto più nell’ opinione avèvanne concetta l’allegrezza............... In questo mentre io me la feci continuamente nello scrivere......Queste occupazioni che giornalmente mi recano questi miei ragguagli, chi sa che un giorno ancora non mi siano di profitto ? 4. Venerdì, passai tutto il mattino col Dottor Salamanca; tutto il dopo desinare col P. Raggio; tutta la sera co’ miei scritti. — 590 — 5. Sabbato, fo complimento di visita a D. Pietro Bas-sano, che, Preside già in Montefusco, obligò con la sua giustizia la mia devozione. Compisco ad officio di amistà col Signor Paolo Gerolamo Pallavicino, che con ìscam-bievole servizio m’ impegnò di trovarmi seco. Negozio a lungo col Caivano : Dio voglia che al solito non sia in vano, e che non più mi tenga in lungo. Promette assai ; lo merito molto, lo spero poco. Ricevo poi gran lascio di lettere, così da Roma come da Sant Angelo venute; la sola lettura delle quali m’impedisce infino a sera. La notte mi accompagna a Chiaia. Quivi col Cardinale m’ accompagno. Compagno ancor si dice il servitore. Di grazia, non siano con rigore censurate le mie formule del dire. Io parlo come cavaliere, e non come grammatico. 6. Domenica, il mio Padrone Eminentissimo, venutomi a levar di casa per seco portarmi nel suo cocchio, fa una predica a me, come a Vergilio fece Orazio: * Miscc stultitiam consiliis brevem.......» Onde, per non parer pazzo, fo del pazzo: vo ancor io per le contrade, ove per soverchio piacere quasi impazzate si vedono le turbe. Non è alcuno del popolo minuto che non sia ridicolo rappresentatore di alcuna burlevole apparenza. Colà un bottegaio de’ più facoltosi finge uno stravagante personaggio da remoti paesi pervenuto. Dall altra parte un altro de’ più poveri rappresenta un contadino de’ più ricchi. Quegli, tutto pennacchi in capo e tutto svolazzi in dorso, per imitar il vero, esce adornato di falso; questi, guernito di cavoli la berretta e di catena d’agli il busto, per comporsi un vestito alla bizzarra, ha involati ritagli di cento colori ai sarti. Dal cantone — 591 — di quella strada, sonando una chitarra, comparisce un tale, che con maschera nasuta, a cui l’una delle guance è segnalata (?) fa il trastullo. Da quell’altra si presenta un altro che sotto nero cupolino mostrando un candido barbone, fa il Viniziano; e se quegli ha un abitello tinto nel carbone, alla misura di lui sì lungo e stretto che gli par cucito in su la pelle, questi ha un abitone tinto in grana, sopra di cui porta una tal sucida gualdrappa, onde assomiglia la bestia del Sior Medico. Non finirei mai di contare quel che appena finimmo di vedere. 11 tutto era gozzoviglia, perchè il tutto era invenzione. Quella tra le invenzioni che più si accomodò alla verità, maggiormente si confece alla piacevolezza. Tra queste alcuna non ebbe più del naturale che una tal camerata, ove, mentre alcune donne non so ben se vestite alla polacca o alla francese, vestite però da uomo, cingevano la spada, i loro uomini, che non vidi ben se alla spagnuola o all’ ungara vestiti, in abito però da donna, filavano la conocchia. Mentre questi de’ popolani correvano col cervello, corsero molti de’ nobili all’ anello. Per occasione di questa poco numerosa e molto improvvisa giostra, si ridussero molte dame nel reai Palazzo , e quivi alle più comode finestre. Noi dalla carrozza fummo spettatori della piazza. Riuscì la faccenda più tosto per la penuria de’ cavalli bisognosa di scusa, che per la valentia dei cavalieri povera di lode. Veramente questi signori napoletani, sì come nel maneggio delle armi vere non hanno il secondo luogo, così nell’ esercizio delle finte, tanto a piedi quanto a cavallo, possiedono il primo posto. Questa festa fu vigilia alla gran festa che per la notte — 592 — apparecchiavasi. Onde nel calar dell’ora saliti alla gran sala, udissi da Spagnuoli una magnifica rappresentazione, da intermedii apparenti e da macchine giranti maestosamente invigorita. Dell’opra, sì come di chi la recito e di chi 1 ornò, che cosa posso io dire, che non ho nulla a par di quello che se ne dovrebbe celebrare. Dirò solamente che per ogni sua parte così compite fu rono le perfezioni, che quel che alle altre volte recava il diletto, or apportò col diletto lo stupore. Crebbe la maraviglia, quando, terminata la favola, voltata la scena, quel che fu palco alla commedia fu suolo al ballo. Già le dipinte perspettive delle case han fatto metamorfosi in sodi apparamenti di ricchis simi broccati: già la sinfonia di varii musici è cangia nel concerto di molti sonatori: già il bel cielo di questo teatro, che prima era allumato dalle lampadi, °r e sere nato dalle vive stelle di appunto cento e trenta dam Già paiono stelle volanti, mentre movendo all avviso dell orecchio la maestra agilità del piede, quanti pas' fanno tanti raggi formano. Sotto gemmato baldacchino per insolita gioia il Viceré e la Viceregina si festeggia00 Queste Eccellenze, perchè danno lo spirito a queste anime, possono chiamarsi l’anima delle eccellenze. • 7- Lunedì, me ne sto chiuso in camera; non tanto per chè all uscire sono dalla continova pioggia impedito, quanto perchè mi trovo dall’ ordinarie lettere occupato. Voglio dire una cosa. Prima d’ora ho posto mira che non mi vien lettera che miri a’ miei travagli. Se fossero mirati, sarebbero alleggeriti, ,non accresciuti. Ma forse sono mirati più con quell’occhio che mira il proprio allevia mento, che con quell’altro che compatisce 1 altrui carico. — 593 — Osservo che dalla mia Casa di Genova già mai di alcun lieto accidente (che pur non mancano di goderne) egli è possibile che mi pervenga nova alcuna. Alla mia volta i ragguagli dilettosi hanno il piè zoppo; i dispiacevoli hanno 1 ali. O Dio, sai pur eh’ io mi sono allontanato, si può dire, da me stesso, per dar la quiete ad altri. Gli altri, allontanati forse con gli animi, si avvicinano coi papeli, per involar la quiete a chi la diede a loro. Che sarebbe di me, se il Signor Giannettino Spinola non fosse, com’egli è, tutto per me ? Egli, fratello di mia madre, alla mia Casa è fatto padre. E non men amico che parente, è quegli solo che non men mi sostiene con l’autorevole sua protezione, di quel che m’obliga con 1 incomparabile sua benignità. Egli solo, perchè da vero mi ama, da vero mi compatisce; e perchè mi compatisce assai, mi aiuta molto. Dio gli paghi per me quel debito, che per quanto io sappia conoscere non posso io sodisfare. Quell’ affetto che lo induce ad aver cura della mia roba, non è gran fatto se lo spinge ad aver pensiero della mia vita. Con quest’ ordinario egli mi scrive tal novella che passa i termini dell’ ordinario. Per zelo del mio bene mi ragguaglia il sospetto d’alcun male ; e male che non finirebbe senza 1’ ultimo mio fine. Si sa che alcuni galantuomini, dalla nostra città inviati, in questa si sono trasferiti, con determinazione di non partir da Napoli che un Signor genovese non facciano partir dal mondo. Di questo tale che corre pericolo mi mandano quei contrassegni che formano il mio ritratto. La novella è sicura quanto agli assassini ; è incerta quanto ai nomi; ond’ io non posso esercitar quella dili- — S94 — genza che richiedono i casi d’importanza. L’incertezza aumenta l’ansietà: l’ansietà non cresce la difesa. Ove si corre pericolo di cadere, non è peggio che 1 andare al buio, e il non poter avvertire il passo della caduta. Non ho altro timore che quel che mi viene dall e-sempio. So com' altri, per aver servito bene al pubblico, furono da’ nemici della patria martirizzati. Non so di aver offeso con la mia persona, fuor di coloro che si reputano offesi dalla mia giustizia, Non ho altro conforto che quello che spira Dio nel mezzo a questo core non consapevole di colpa. < Hic murus aeneus esto Nil conscire sibi, nulla pallescere culpa » (Orazio). Non ho altro modo, per disfare gli altrui modelli, che il conversar poco, e l’osservar molto; già che ad un repentino assalto di violenti tradimenti qualunque esterior riparo è inutile difesa. Non ho resoluzione di armarmi, per nun palesar occa sione, e forse intempestiva, d’impaurirmi. Anche a chi ha paura spesso conviene il non mostrarla. E poi, 1 aggiun gere alla soma di quegli anni eh’ io porto, il peso di quelle armi che non ho in uso di portare, sarebbe un espormi a danno sicuro per fuggire un incerto pericolo, e un far ridere coloro che mi fanno sospirare. Final mente la mia vita non importa più tanto, che meriti d’ esser guardata più che tanto. Per la mia morte non s’incomoderebbe più quella mia Casa, per la quale oramai si rende inutile la mia vita. Non manco per questo di assistere col Savelli, per la miglior parte della notte, al ballo che solennissimo si fece nel Palagio. Anzi, per meglio dissimulare quel sentimento che per più rispetti mi convien tacere, faccio - 593 — tal forza alla mia complessione, non assuefatta al fingere, che procuro di mostrar nel volto quell’ allegrezza che non ho nel petto....... Torniamo al ballo, f'u lungo in eccesso, e però difettoso, se per eccesso del troppo si trova difetto nel piacere. Ma forse il fece parer più lungo l’aspettarsi al fine di questo un altro ballo, che più d’ ogni altro veduto meritava di essere bramato. Dunque, nel finir le altre signore le già stanche lor carole, diedero principio otto di loro ad una leggiadrissima lor danza. Queste assai tra di loro fatte simili per abiti, benché differenti tuttavia per meriti, ma tutte belle ed avvenenti, tutte in un tempo si alzavano, con maestosa leggiadria guidando in ballo una loro invenzione, quanto più gaiamente intrecciata tanto più generalmente goduta, e particolar_ mente dagli occhi di questo Viceré, i quali rimasero da tal vista beatificati, mentre i guardi degli altri rimasero stupiti. Le otto dame che per maestria di danza e per forma di bellezza, da Sua Eccellenza favorite, a questo ballo furono le scelte, sono le Signore, Tonna (i) di Gennaro, Lante Brancaccia, Duchessa di Sant’ Elia, Duchessa di Campochiaro, Poppa (2) Caracciola, Principessa di Sant’Agata, le mogli di Nicolò Giudice e di Giovanni De Vera. 8. Nel giorno di Carnevale non vidi cosa alcuna delle (1) Dianzi chiamata Tolla; ma Tolla e Tonna sono ambedue vezzeggiativi di un sol nome, Antonia. (2) Cosi il manoscritto; ma anche può chiamarsi Peppa. Noto intanto che delle sei MataJoras, in questa quadriglia ne appaiono tre, la Di Gennaro, la Sant’ Elia, la Campochiaro. — 596 — molte che s'intesero. Non vidi, perchè sino a mezza notte nello scrivere per lo procaccio m' occupai. Intesi che nella solita Reggia, oltre la solita commedia e 1 ordinaria danza, comparve una più tosto vistosa che dispendiosa mascherata ; la quale dal Principe di San Severo, in numero di otto, con pennacchi e con giubbe alla guerriera, non so con quale invenzione ivi introdotta, intrecciò ballo più di torchie che di piedi ; che per essere riuscito più lungo che leggiadro, apportò forse maggiore l’affanno a’ ballerini, che 1 piacere ai circostanti. 9. Siamo al giorno delle Ceneri, da giorni in qua da me desiderato. Sia il ben venuto. Già vi riverisco, ceneri salutari........Di questo sol giorno di quaresima sento, non già il dispiacere del digiuno, ma il nocumento già del cibo. Onde, per poco buon sentimento nella persona, e per molto travaglio nella mente, non pur non esco di casa, ma di camera. 10. Giovedì, pur me la passo in casa, parte nel \eder piovere, parte nel sentir informare, e parte nel godere il Padre Fra Deodato Solerà, agostiniano ; che, per esser vicino alla chiesa ov' egli predica, per questa quaresima si ha eletto alloggiamento in questa casa ; ove con ottimo Albano che il Cardinale Savelli quotidianamente mi ap presenta, i suoi faticati spiriti rinforza. Nel rimanente, s'egli è venuto qui per crapulare, tanto potevasene astenere. Da me. sì come ha letto alla monastica, così ha mensa all’eremitica. 11. 12. Venerdì e Sabbato non furono bastanti ai miei negozi ; or con avvocati, or con ministri occupo 1 ora. o Manco male, se non fossero più tosto perdute che occupate. Quella fatica è perduta, che riesce infruttifera...... — >97 — 13- Domenica, nello andare sino a Costantinopoli (che per quanto non sia quel eh’è lontano da queste parti dell’Europa, è nulla di meno lontano da questa parte della mia contrada) e quivi nel sentire in quella devota chiesa una devota predica del Padre Raggio, impiegai tutto il mattino. Mi fermo indi nella mia casa, e sempre fermo su la mia scrittura. 14. Tra le numerose lettere eh’ io ricevo in questo Lunedì, non ricevo da mio zio la confermazione di quel dubbio. Il saper quanto egli è ansioso mi distoglie dalla ansietà. E mentre dormo sopra la vigilanza di lui, prendo indizio di bene dal non sentir più pratiche di male. 15. Martedì, sento tre prediche; l’una nel mattino dal Padre Greco; 1’ altra nel dopo pranzo dal Padre Raggio; l’ultima nella sera da un amico, il quale, o sia per esortarmi, 0 sia per avvertirmi, tenta di ridurmi a certa bettola, ove i gentiluomini Genovesi tengono in ogni sera la conversazione, protestandomi che da loro mi faccio mal vedere, coi quali io non mi faccio mai vedere. < Agginngete (io dico a lui) non pur eh' io non soglio, ma eh' io non voglio conversare. Le mie brighe non mi danno licenza che accetti le grazie delle graziose lor briorate. Sì come già mi onoro della memoria eh’ essi © O tengono del mio nome, così insuperbirei della stima che facessero della mia compagnia. Ma la mia compagnia, sempre insipida a tutti, non riuscirebbe saporosa a nessun di loro, perchè coi loro studi non conferiscono i miei genii. I trattenimenti loro sono allegri, i miei sono malinconici; un contrario con 1’ altro non si aggiusta. Rendano essi grazie a Dio per essere tanto meritevoli — >98 — d’invidia, quanto io son degno di compassione; e non vogliano offender con l’accusa chi deve esser difeso dalla o infermità. « In quei ridotti, ove il tutto si riduce a giuochi e a discorsi, fuor dall’impedire, che cosa io potrei fare? Se per lo gioco, io non seppi mai giocare ; se per lo ragio-mento, io non seppi mai discorrere. Per apprender questo non ho tempo, per imparar quello non ho talènto. Onde lascio l’officio di discorrere a quelli che sanno favellare, e lascio il mestiere del giocare a quelli che giocando non possono che vincere.....................» 16. Mercordì, cerco al suo monastero un Gesuino, che ieri mi cercò per la partita di Stigliano. Per non avermi egli ieri ritrovato, mi dice che il partito oggi è perduto. Dove non ha delitto la trascuraggine, sì come è discolpa la fortuna, così è conforto la pazienza . . . • • 17. Giovedì, per la istessa causa contro il Prencipe di Stigliano sono a’ tribunali, tentando per rigore di giudizio quel che non arrivo per soavità di accomodo. A questa pratica aggiungo quelle contro di Spinazola e di Ferrerò; e non tralascio quelle altre, delle quali, si come il catalogo empie un lungo foglio, così il ragguaglio empirebbe un grossissimo volume. 18. Venerdì, sono alle mani coi monaci di San Guglielmo, che nel territorio di Sant’Angelo dai padroni antichi già introdotti, a poco a poco ove furono abitanti si son fatti padroni. Pretendono di aver in signoria quel tanto eh’ ebbero in goduta; e come se non fosse più monastero ma feudo il loco che possiedono, gli atti della giurisdizione oggi vi esercitano. Si racchiude ne’ chiostri più religiosi l’avidità dell’avere; ma non sta molto rin- — 599 — chiusa, che affacciata alla finestra della umanità, quella che parve ambizione di servire si dichiara superbia d’imperare. Egli è dunque buon consiglio, quando s’introduce nella propria casa albergatori forastieri, il considerarli come nemici; acciocché tenuti nell’umiltà più tosto che nel fasto, abbiamo sempre a trattarli come amici. Terremo ora che fare, a svellere questa edera, la quale così tenaci abbarbicate in questo muro ha le radici, che già da più fessure minaccia la ruina del pubblico edificio. Finisco il giorno entro lo studio del Salamanca, ove gli agenti degli Spinazuola, congregatisi per amichevole convegno, allontanatisi poi da qualunque ragionevole partito, danno a divedere che quell’adunanza e quell’istanza per parte loro non fu fatta già per aggiustare, ma bensì per differire................... 19. Sabbato, io servo per alcun spazio di cammino il Cardinale Savelli, che in verso Roma fa viaggio. La sicura promessa del suo presto ritorno addolcisce l’amaro fiele della sua partenza. Intanto a me grandemente rincresce la sua assenza, perchè la mia solitudine grandemente si accresce dalla sua mancanza. Nostro Signore Dio che gli ha dati eccelsi meriti, gli dia felici avvenimenti. In verso sera mi movo in verso l’Accademia, ove dal nostro Prencipe fu proposto per problema, se sia più da lodarsi il Riso di Democrito, o ’l Pianto di Eraclito; e fu determinato in favore del Riso, concorrendo veramente in lui quelle ragioni tutte, che potevano sofisticamente suggerirsi in prò’ del Pianto.......... 20. Domenica, visitati i miei Dottori, fo due visite a conto dei miei crucci. Amendue queste visite feriscono — 6oo — ad un conto. L’uno e l’altro dei visitati sono da Sua Eccellenza gli aggraditi. Il primo è il Vescovo di Pozzuoli, buon religioso, buon predicatore, buon amico ; 1 altro è il Reggente della Vicaria, (i) fatto oramai Vicario del superiore Reggente. Quegli con le dimostrazioni della sua dottrina e con 1 opre della sua carita, riduce 1 animo del Padrone alla devozione di lui. Questi aggroppando coi vincoli della parentela i legami della servitù, stringe alle sue voglie la volontà di chi comanda. L uno e l’altro, sì come gareggiano per merito, così contrastano per cortesia. Se dall uno sono accettato con favore, son favorito dall’ altro con promesse. E da tutti due mi sono egualmente onorato con eccesso. In questi giorni era pervenuta la novella, come il Cardinale Infante (2) era per passarsi in brieve nell’Italia. Chi dice per un rispetto, chi per un altro; chi afferma per assistere in Milano, chi discorre per arrivare sino in Napoli. Io per me non so bene se mi creda una cotal venuta; so bene che per queste parti io non la credo. In ogni modo, perchè, o la credono, o mostrano di crederla i Ministri in questo luogo, già parlano di quei preparati alla solennità di tanto arrivo, che inferiscono la spesa, onde giustificano la nova necessità d insolito peculio. Mentre dunque col dispendio de nostri danari si trattano i trionfi, mi chiede il detto Reggente la relazione di quell’Arco Trionfale che alla Reina sorella del-1’ Infante in Genova innalzato, fu dal mio basso ingegno, per ordine pubblico, composto. (1) Se ne vede il nome alla pagina seguente. (2) D. Fernando, Infante di Spagna, creato cardinale da Paolo \, il 29 Luglio 1619, al titolo di S. Maria in Portico. — 6oi — Io lo ringrazio, nella stima che fa dell’opra, della stima che fa pur dell’ autore. Ben gli protesto che il mio raccontamento servirà più tosto ad altri per esempio della sua cortesia, che per esempio a lui della sua fabrica. E soggiungo altre ragioni, che , sì come fanno 1 intenzione della mia Repubblica più lodevole, così rendono l’opra della mia mano più scusabile. 21. Lunedi, per lo medesimo rispetto, sapendo che serve a doppio chi serve presto, anzi sapendo che la medesima prestezza nell’ operazione vale in emenda, tanto o quanto, dell' operato, ad altro che a porre in netto il ricercato abbozzo io non attendo ; e tanto intorno certe mie note io mi affatico, che prima della notte ancor lo mando. E lo mando con questo viglietto a parte : « All’ Ill.mo Signor D. Giovanni d’ Erasso Reggente di Vicaria e mio Signore Ill.mo Signore « Dirò come appresso Omero dice Tetide a Giove: a cui si diedero i passati, non si nieghino i presenti beneficii. V. S. 111.ma, che ha voluto il ragguaglio di quell’ Arco Trionfale eh' io già feci, aggiunga al primo onore di avermi comandato, il secondo di avermi compatito. So che la finezza del suo guardo scorgerà mille difetti, non meno intorno l’estensione dello sciitto.che intorno la composizione del lavoro. Ma so insieme che rammentando le ragioni che a voce le rappresentai, si parrà in obligo con la sua scusa di sostener la mia Atti Soc. Lto. St. Patbu. Voi XXIX, fase. 11. — 602 — difesa. Chi regge la giustizia, non può a meno di farmi la giustizia. V. S. 111.'ma mi farà giustizia se mi farà grazia. « Da questa Sua casa, ne’ 21 di Febraro 1633 Di V. S. 111.ma aff.mo servidore Gio: Vincenzo Imperiale ». ARCO TRIONFALE DESCRITTO. Correva 1’ anno 1630, quando ne’ 20 di Giugno giunse dal mare di Spagna nel porto di Genova la Reina Maria, sorella a Filippo il IV, e sposa ad Ernesto re d Ungheria. Onde, volendo la Repubblica Genovese con alcun apparenza di giubilo testificar la dovuta allegrezza per così solenne arrivo, deliberò, tra le altre dimostrazioni del suo devoto applauso, un Arco trionfale; sotto a cui ricevuta Sua Maestà, ella avesse a mirar celebrato, 0 almen riverito, nell’ altrui pubblica pompa il proprio merito. Desiderò poter fare assai ; ma fu impossibile che 1 opra si estendesse al desiderio. Imperciocché 1’ angustia delle strade, del tempo, e d’ altro, chiuse il cammino a cose grandi ; e fu stimato meritevole più di compassione che di scusa il componitore della macchina, mentre gli convenne accomodar il lavoro più alla capacità del sito che al modello della fabrica. Stavasi 1’ Arco situato quasi nel fine di quella nuova e lunga strada che dalla Porta di San Tomaso per diritto cammino corre a terminarsi nella piazza del Guastato. Parve in certo modo che formasse nuova porta alla Città, — 603 — così vicina mostrò la schiera dei nuovi palagi che per ambe le parti 1’ arricchiscono. La materia onde fu costrutto emulava il bianchissimo marmo ne’ rilievi, ed imitava il giallo broccatello nei fondi. Da varie nicchie, fintamente incavate nel porfido, spiccavano statue industremente coperte dal bronzo. L’architettura che gli fu maestra, fu regolata da legge dorica: la misura che gli fu conceduta, narrerò. La pianta, nella parte del mezzo, tendeva al quadro, negli angoli all’ ovato. Per altezza (considerata sino alla sommità degli ornamenti più sollevati) si misuravano dal suolo palmi 88; per larghezza palmi 76; per fianco palmi 40. Aprivasi nel mezzo a lui 1’ entrata principale, ch’era 15 palmi per largo, 29 per alto, e 25 per fianco. Questa porta veniva guernita da cadaun de’ lati con due colonne di rilievo, alte palmi 22, e per diametro grosse palmi 3. Queste consentivano, tra 1’ una e l’altra di loro, lo spazio di palmi 5. Questo spazio lasciava in comoda nicchia (1) comparire una statua di 8 palmi. Le statue, da zoccolo ben erto 10 palmi dalla terra, venivano sostenute. Ed esse 1’ architrave, fregio e cornicione, sostenevano, che giuntamente l’altezza di palmi 5 trapassavano. Sovra il gran sporto del cornicione, che d’ogni intorno l’opera collegava, sedere un ordine di accasati balaustri maestosamente si vedeva. E vedevasi dall’ eminente centro di questo largo giro insuperbirsi un’ altra loggia, in guisa di rivellino, che, sostenuta da pilastri, (i) In tutta questa relazione, per nicchia e nicchie, il manoscritto reca sempre nicchio, nicchi. Correggo, per evitar confusioni. — 604 — adornata da cartelle, ed intagliata da nicchie, in un tempo recava pompa a sè medesma, e comodità a quattro gran cornucopie; le quali da quegli angoli estremi cominciando, e nella cima sè stesse restringendo, servivano di base a due grand’aquile imperiali, sostenitrici d un globo, che sostenea la statua della Fama. Questa era in atto di porgere alla Reina vegnente la corona. Imitavano il bronzo tutti gli ornamenti. La misura della loggia fu di palmi 16 nell’altezza; delle cornucopie palmi io; delle aquile palmi 6; del globo palmi 9> della statua palmi 12. Ad amendue i lati di questa fabrica si univano due loggie, che in forma ovata (come si disse) non pur allargavano ed ingrandivano, ma fiancheggiavano, col giro loro portato in fuora, il vivo alla facciata. Erano queste gemine loggie sostenute da dodeci colonne, del rilievo, della misura, della posatura e dell’ officio narrato delle prime, senz’ altra differenza da quelle a queste fuor che nel traforo; onde sì come tra 1 mezzo ad ognuna di quelle si vedeva la nicchia, di queste si vedeva il cielo. Qui, senza tediare con maggior diceria, s’ abbia in supposto che 1’ istesso ordine dei cornicioni e delle balaustrate, che di sopra si è descritto, in tutto il gir0 fosse continuato. Quasi punto al cerchio di queste vacue loggie sorgevano due altre colonne, molto più alte delle altre ; una cioè per ognuna; le quali, a differenza delle prime, erano intorte, scanalate, e secondo 1’ ordine composito abbellite. Queste, finte di bronzo, superiori alquanto al colmo delle balaustrate, mostrando per due carte intorno al — 6o 5 — fusto loro serpeggiante il motto : « Plus ultra », si fecero conoscere geroglifici delle colonne, non più Erculee, ma Imperiali. Sei fecero conoscer meglio, nel mostrarsi destinate a reggere sopra il capo de’ lor capitelli il piede de’ due Sposi Reali. In imagine , non che in devozione di questi, dirizzate quivi apparivano le statue: ognuna di loro alta palmi 14, che in forma di bronzo effigiate stavano in atto di porgersi 1’ una 1’ altra amichevole lo sguardo, e in un lo scettro. Dell’ edificio ecco il corpo. Vi manca l’anima. Ed ecco l’anima. Perch’ è più facile il discendere che il salire, dal di sopra comincisi a vedere. La macchina più erta si era il globo, sopra il quale assisa stavasi la Fama. In questo, sopra fascia d’ argento che quasi zodiaco 1’ intorniava per traverso, con caratteri neri aveva Claudiano per parte della Fama scritto il verso: « Vestri juris erit quicquid complectitur axis ». Sovra caduno de’ piccioli pilastri che la balaustrata frammezzavano, certe palle di marmo venato grazioso finimento si facevano. Ma fra ’l mezzo a queste palle, e in quelle parti appunto che di rimpetto alle due statue si vedevano, quattro nobili piramidi si alzavano, che aggroppate nella sommità delle aguzze loro aguglie gl’ infrascritti versi discoprivano. Da mano destra alla facciata principale, e a faccia della Reina, leggevasi questo distico : Magnorum regum soboles, parituraque reges, Prognata imperiis, jus dabit imperiis. Di rimpetto alla stessa, ma nella facciata opposta: Imperiis assueta dabit pia jura paternis. — 606 — Da mano manca, e a fronte del Re : Austrius hic sponsus: ne caetera quaere: superbit Magna sub Austriaci nomine Fama minor. Di rimpetto allo stesso, ma nella facciata opposta: Imperium Terris, animos aequabit Olympo. Ma nel frontespicio dell’ Arco, ove, sostenuta da pilastri dissimo sollevarsi a guisa di rivellino una tal loggia all’ altra superiore, si rimirava in gran sfondato la statua della Liguria; la quale non solamente del timone, della palma, dello stocco e dello scudo, entrovi il motto Libertas, com’è solito in lei, scorgevasi guernita; ma oltre il solito di due faci dedicate a Imeneo vedevasi adornata. Con queste ella, stando in atto di ricevere la vegnente Sposa Reale, offeriva comodo soggetto a grande iscrizione, che a piè di lei, quasi dedicatoria di quest opra, in queste parole pompeggiava: MAR1AE ET ERNESTI NUPTIAS QUIBUS PROPITIIS ASTRIS COELUM PRAELUCET RESPUBLICA GENUENSIS DESIDERII FACIBUS AUSPICATISSIMAS AUGURATUR ET VOVET. Nell’ architettura, necessaria è la corrispondenza: onde, nella medesima guisa, nella facciata a questa opposta, miravasi la statua del Re Bifronte, che dello scettro, delle chiavi, delle armature e delle insegne proprie pom- — 607 — poso, per parte della città di Genova, sì come della Liguria, nell’ iscrizione appresentava questi detti : GEMINUM COELI AUSTRIACI SOLEM GEMINA FACIE IANUS PRETERITORUM MEMORIA FUTURORUM VOTIS VENERATUR ET COLIT. Scendendosi gradatamente a basso, non era ingrato il vedere otto aquile imperiali, che spiccate nell’ aere, finte volanti nel rilievo, in atto di uscirsene da quelle bande ove tra 1’una e 1’altra delle colonne di sotto all’architrave godevasi il traforo, quivi su 1’ ali aperte nel mezzo a quelle aperture sè medesime librando, ognuna di loro con la grandezza del suo corpo empieva la larghezza di quel sito. Ma tutte quante poste in officio con azioni varie, o da variati motti dichiarate, o d’ imprese o d’ emblemi facevano 1’ officio. Un’aquila mostrava con l’una delle griffe sospendere quel fulmine che con 1’ altra ne avventava ; e vantandosi col motto « ponere seu tollere » dava chiaramente a divedere come in facoltà della Casa Austriaca fosse 1’ apportare e il togliere la guerra. Altra sopra un grandissimo scettro riposata, dichiaravasi per l’unica ministra del supremo Giove, mentre teneva in motto le parole: « hac Jupiter ». Altra col solo starsene ritta, e verso l’oriente sempre fissa, additata dal motto: «semper dextra» recava la speranza di quegli ottimi successi, che da siinil gesto accolsero gli antichi. Altra portando in pugno il fulmine, e nell’altro il lauro dal fulmine sicuro, ed avvalendosi del motto « utrumque pro utroque » insegnava - 608 - come l’Austria tratti la guerra per fin di pace. Altra stringendo nella branca un preso lepre, e palesando in motto: « pulchra si Deo » alludeva a quel testo di Senofonte, ove Ciro prendendo augurio nel vedere una cotal cacciagione fatta da un’aquila, dice a’suoi: «pulchra venatio futura, si Deo libuerit ». Altra per avventura quel che Isaia disse dell’aquile: « cìirrent et non laborabunt », nel maggior volo suo per suo peso portava il motto : « cumt et non laborat » ; ed accennava come sia tanto infaticabile quanto è veloce il corso del suo volo. Altra, sospendendo nelle zampe alcuni trofei (forse per emular quella che pone 1’ Alciato per segno di valore: « Nos aquilae intrepidis signa benigna damus ») si compiaceva del motto: « Intrepidis signa ». Altra, fatta ministra di duplicati fulmini, dispiegava nel motto : « duo fulmina belli > ; il che non ha bisogno di maggior dichiarazione, a chi è informato come in questo luogo celebravasi l’antica e la moderna unione di quest’Aquile gloriose. E tempo che trascorse le imagini volanti si mirino le immobili. Sei statue, oltre le già descritte, nelle lor nicchie collocate si vedevano. Quattro, in fra le colonne delle due facciate principali, ai lati dell’ingresso pom-peggiavano; due nelle pareti, e sotto il vólto dell’entrata, insuperbivano; tutte finte in bronzo; tutte di palmi 8 in altezza; tutte per varii significati in azione. Da ogni azione di queste, una di quelle Virtù veniva espressa, che più particolare negli eroi proposti fu considerata. Imperocché le quattro nel di fuore alli quattro Filippi re Cattolici, e le due nel di dentro agl’ imperatori Carlo Quinto e Ferdinando Secondo furono in questa occa- — 609 — sione, per proprietà di lode e per uguaglianza di prerogativa, ugualmente dedicate. Ciascheduna delle statue teneva intagliato nel piedestallo un motto; ciascheduna aveva nell intorno dipinto un numero d’istorie; le quali, finte in bassi rilievi, non tanto dell’ eroe simboleggiato il nome faceano ricordare, quanto di quelle prodezze, dalle quali il geroglifico traeva il suo significato, l’egregia menzione faceano sovvenire. La prima dunque a Filippo il Primo, era la statua della Fortuna; avvegna che molto fortunato, se fosse lungamente vissuto, potesse addimandarsi questo gran Signore, eh’ ebbe in sorte di esser padre d' un Carlo V e d'un Ferdinando II. Era lo scritto alla statua di questi, « Summa sequens — Fastigia Rerum ». Le istorie dipendenti da questa avevano luogo in questi luoghi, cioè 1’ una per quadro sopra la nicchia (e questa in bronzo); due effigiate per bisquadro, lungo il basamento (e queste in marmo); tutte indifferentemente adornate da cartelle; tutte nelle cartelle dichiarate dagli argomenti. Chi vedeva una di queste statue, le vedeva tutte quanto all’ ordine della misura, ma le vedeva tutte varie quanto alla relazione della storia. La superiore conteneva il primo ingresso di Filippo al reame di Castiglia, per sua fortuna, con la morte della Reina Isabella, fattone erede, e per sua sorte, in luogo del Cattolico re Ferdinando, fattone padrone. Per dichiarazione: « Philippus I ab Hispanis in oriente, dum Ferdinandus a Superis in occidente, spectatur>. La storia seconda esprimeva quando egli fortunatamente stabilì la pace con Massimilano imperatore, Lodovico Duodecimo re di Francia, e Ferdinando Cattolico. Per dichiarazione: « Maximilianum patrem, Ferdinandum — 610 — socerum, et Ludovicum duodecimum foedere jungebat ». La storia terza narrava com egli, ancor giovinetto di quindeci anni, provò tanto felicemente nella guerra di Francia, che alla sorte del figliolo più che al \alore proprio senno Massimiliano attribuì 1’ evento della vittoria. Per dichiarazione: « Vix post decimum quintum numerabat annum, cum de Gallis triumphos numeravit ». Seguiva dall’altro lato della facciata medesima la statua della Prudenza, assegnata a Filippo Secondo. Era lo scritto a piè di questa: « Bello clarior An p melior ». La istoria di sopra faceva apparire questo prudentissimo Re in atto di conciliar a sè molti poj sollevati : il che sagacemente procurò, e felicemente conseguì nella Germania e nella Fiandra. Per dichiarazione: « Philippus Hispaniae Rex II, prudentiae primus, in motibus sedandis nihil reliquum reliquit ». La istoria seconda figurava 1’ unione degli Stati di Portogallo quelli di Castiglia. Per dichiarazione : « Lusitaniam Ca-stellae adjunxisse justitiae fuit, Lusitanorum animo glutinasse, priidentiae Philippi ». La istoria terza pro feriva la gran vittoria, dalla sua gran prudenza con^ guita, della inespugnabile fortezza di San Quintino. 1 er dichiarazione: « Strenuis hostibus felicissime fugatis, Sanctum Quintinum ad deditionem compulit ». Dalla parte diritta della facciata opposta, la statua della Religione era dirizzata: questa ad onore del reli giosissimo Filippo il Terzo. Lo scritto di lei. « Du. et comes — Unica fides ». La prima istoria ragionev mente in primo vanto di questo religioso monarca additava il nobile scacciamento de’ Mori dalla Spagna, con incomparabile intrepidezza risoluto e con sorte indicibile — 611 — eseguito. Per dichiarazione : « Philippus III, imperio magnus, pietate maximus, ut religio staret Mauros expulit ». La seconda dipingeva la restituzione di Vercelli, verace testimonio di quanto oprasse più nell’ animo di questo religioso Re 1’ affetto del ben pubblico, che 1’ interesse dell’ utile suo proprio. Per dichiarazione: « Italiae motus compescebat vincens, sedabat restituens ». La terza palesava coni’ egli religiosamente soccorse la cattolica religione, sovvenendo il moderno Imperatore non pur d’ armi e di armati, ma di tre milioni d’ oro, in tempo che la Germania si trovò gravemente oppressa dalla guerra. Per dichiarazione: « Germaniam nutantem, pro Ferdinando Caesare, solus auro et ferro sustinet ». Dalla parte sinistra della facciata istessa, succedeva per quarta statua la Benevolenza, e questa per gloria di Filippo il Quarto collocata. Questo era il detto di questa: « Ouicquid agit — Componit amor ». Nel primo luogo 1’ Istoria dimostrava 1’ acquisto novamente e gloriosamente fatto di Breda, e con 1’ acquisto della piazza la liberalità della gran benevolenza del trionfante verso gli acquistati. Per dichiarazione: « Philippus //// eo imperio maior quo benevolentior, in Bredanos rebelles nihil vindictae plurimum clementiae ». Nel secondoT i-storia faceva apparir quelle galee che apparvero nel 1625 in un medesmo giorno in questo porto, portatrici di quel soccorso che non meno fu opportuno di quel che fosse grandemente necessario all’afflitta città di Genova: una cioè dalla Spagna, e questa carica di danari ; molte da Napoli, e queste cariche di soldati. Per dichiarazione : « Triremes Philippicae, auro et armis onustae, imo eodem die ex Hispania Ncapoliquc Genuam advola- — 6I2 -- bant ». Nel terzo 1’ istoria insegnava il fatto, anzi le fazioni accadute nella Riviera genovese, ricoverata dalle ingiurie de’ nemici con 1’ aiuto de’ Spagnoli. Per dichiarazione: « Ora Genuae occidua, propere avulsa, festinantius in pristinum redacta, ope Philippi » • Da qui, per non interrompere il corso delle nicchie, fa di mestieri un’ occhiata alle due statue che stanno ad ambedue le pareti dell’ andito e sotto la volta del-l'Arco; le quali sono alle prime confacenti e parallele. Nella parte destra ergevasi dedicata a Carlo il V la statua della Libertà, che nel piano uguale all altra conteneva questo retolo: « Regium ditare —- Non ditescere ». L’ istoria primiera faceva ritratto di questo liberalissimo Imperatore in opra di consegnare a Ferdinando 1’ Impero ed a Filippo il Regno, ancorché ancor non vecchio per età, nè debole per forza. Per dichiarazione : « Caroli V munificentia nunquam intentura, fratri imperia, filio regna, nobis otia ». La secondaria faceva imagine di quella restituzione che in testimonio della inaudita sua liberalità fece del Regno a Federico Duca di Sassonia. Per dichiarazione: « Saxonem sincere, victum servare, ipsique regnum addere, Caroli virtus inclita ». Per l’ultima, nella sinistra parte sollevavasi, conse-grata a Ferdinando Secondo, la statua dell eroica Generosità, che parlava in questo motto: « Aequatur Superis — Seipsum Superans ». In una delle istorie si contavano i trionfi d’Ungheria, e le stragi delle migliaia di Turchi, per opra di pochissimo esercito, da questo generoso guerriero conseguiti. Per dichiarazione : « Fer-dinandus Caesar, austriacac suae gentis, gloriavi tnnu- — 613 — meris suae victoriae triumphis decorabat ». Nell’altra delle istorie si spiegavano le maravigliose maniere della eroica generosità di questo invitto Campione, mentre nel mezzo a provincie soggiogate si compiace , per unica sua gloria, della sua clemenza, onde annovera tra gli amici i popoli ribellanti di Germania e di Boemia. Per dichiarazione: « Generosus et fortis, ferro Germaniae et Boemiae vulnera sanat ». Impediti dal cerchio della volta rimasero i siti alle istorie nel di sopra ; onde quello spazio, che prima parea voto, or con nobile ovato venne riempito. Questo riempito fece parer supplemento di bellezza quel che fu mancamento di capacità. Dentro a questo ovato stavasi al naturale misteriosamente Atlante colorito, il quale, mentre con le braccia parea che il Mondo sopra il capo sostenesse, parea che il nostro Imperatore in certa guisa simboleggiasse. E perchè nel geroglifico il mistero maggiormente si scoprisse, era il globo di quel Mondo disegnato in quella forma, ond’ è ripartito ed adornato quegli che per particolar insegna è dato a Cesare. Quindi, per maggior dichiarazione del loco, e per maggior gloria del locato, in una di quelle sbarre che al globo imperiale per sostegno della santa Croce si attraversano, quelle parole di Seneca si leggevano: « Pondus latore MINUS ». Mi avveggo eh’ erano rimaste involte nel silenzio quattro imprese, che, pur vedendosi nel di fuori alla presente macchina, non so come erano rimaste fuori della presente descrizione. Queste quattro compivano il numero di dodeci; e qui compiranno il fine della diceria. Erano, nella guisa delle altre otto, cavate dall’Aquila; — 614 — ma sì come quelle veleggiavano massiccie, queste im- mobilivano dipinte. Nel zoccolo sempre dell’Arco, in fra que’ spazii che tra 1’una e l’altra delle istorie necessariamente oziosi comparivano, comparvero a giusta misura disegnate e al vivo colorite le quattro aquile, in tal modo. Una in cima ad un asta, circondata da corona di alloro, nella maniera che i signiferi delle antiche legioni costumavano per pubblica insegna di portare, dava ad intendere che sempre ebbe e sempre avrà dall’ aquila Austriaca, sempre imperiale e sempre trionfale, sicura guida il mondo; e lo dichiarava col motto: « Hac duce securitas ». L altra, posta per fanale, com’ è costume, ad eminente poppa di generale Capitana, col motto quasi che col lume chiaro si rendeva, esprimendo : « Nuwien et lumen » Un altra in o-uisa di fabricarsi il nido su la cresta d’ un alto scoglio (com’è natura) dimostrava quel che dall’aspettata prole Austriaca attender si dovesse, mentre dicea col motto: « In arduis ponet ». E finalmente un’altra, che col rostro attuffato dentro il mare, invecchiata si ringiovenisce (come in San Girolamo si lcgge) dava a riconoscere che dentro il mare de travagli si riconduce « ad inventatevi » (che tale era il motto) questa sempre mai generosa ed immortale Aquila d Austria. 22. Martedì, la Dio mercè, convenute le mie lettere, da Genova oggi venute, con le mie diligenze in Livorno, in Civitavecchia, in Roma e in Napoli già fatte, piglio il capo di quel filo che avviluppa quel mortifero trattato, del quale a me già fu trattato. Per non darmi a divedere, o per età sì stolido di mente, o per viltà sì pigro d a-nimo, che ove si sospetta di congiura contro la mia — 6i5 - vita non abbia tanto cervello per chiarirla, o tanto vigore per annichilarla, confesso che già non solamente avea saputo degli assassini i nomi, ma che avea de’ medesimi seguitate indi le traccie; in modo che, stando a • •• • • * • • mia notizia ove invenirli, dipendea dalla mia voglia 1 allacciarli. Ma sì come la vigilanza è il maggior riparo, ove la fellonìa è il maggior nemico, così la dissimulazione è il miglior rimedio, ove la dimostrazione è il peggior male..... Uscito dunque dall’ oscuro di quel tanto che si dubitò per me, entro nel chiaro di quel molto che si può temer per altri. Il trattato è vero ; ma per altro gentiluomo egli è trattato. Concorrono in lui qualche circostanze, che nell’ imagine di lui potevano dimostrare il mio ritratto. Da qui nacque il sospetto. Io non perdo tempo in renderlo avvertito, perchè vada avvertito...... Avvisato da me, così per obligo di carità, come per legge di amicizia, il buon gentiluomo confessa pure che, per non aver temuto dei nemici, è stato miracolo che 1’ abbia scappata dai sicarii.....Dice che per 1’ avvenire si sentirà risoluto ad osservare 1’ altrui vigilanza..... 23. Mercordì, sto in perpetuo moto, e non men d’ a-nirno che di corpo, girando intorno alle case di tutto il Collaterale, che 1’ una dall’ altra per lo più sono lontane. Alla fine arrivo a finir le visite. Così Dio voglia che al fine dell’ informazione abbia fine la causa che oggi informo. Questa è quella partita della porta di Sant’ Angelo, novamente stata aperta, della quale altra fiata per interposta persona io già trattai. Della mia giustizia, per ordine di Sua Eccellenza, dal regio tribunale di Monte-fusco è venuta ultimamente tal chiarezza, che niun’ altra — 616 — cosa può far più nocumento alla mia ragione, che lo aver troppo ragione. 24. Giovedì, agli sproni dell’argento aggiungo gli stimoli del fiato, onde i miei sollecitatori soliti si sentano sollecitati più del solito. Ma gli animali restii si mostrano tanto più rattenuti, quanto maggiormente si sentono spronati. Danno questi tali più tosto orecchio alle canzoni dell’ Oreggia, il quale contro di me fa il peggio eh’ egli sa, di quel che diano il core alle istanze che lor fo. Io, per avere il mio, dò il mio. Ma perchè a lor non piace quel eh’ io dono, se non 1 accompagnano con quel di più eh’ essi mi rubano, stimo impossibile che il mio mal si vegga terminare, fin tanto eh ogni mio bene essi non veggano finire. Ormai non posso più. Già con più mie lettere, e con caratteri più di sangue che d’inchiostro, ho dimandato in Casa quell’aiuto, che per aiuto della nostra Casa, non che per sovvenimento della mia persona, dóvexasi per segno d’ affetto e per conto d’interesse a me offrire, prima che con mio rossore e per necessità 1 avessi a domandare. L’ ho domandato, e se non ho da mentire, per lo vero mi ho da vergognare. « Turpe quidcm die tu, sed tamen vera fatemur » (Ovidio). L’ ho domandato, e non 1’ ho ottenuto. Così dall’ irriverenza è pagata oggi la osservanza; così dalla ingratitudine è sodisfatta la pietà; che i padri, i quali per legge di natura son padroni della persona, non son più signori della volontà de’ lor figlioli. E quei figlioli che dovrebbero alleggerire i pesi al padre, sono quelli che li aumentano, per quel-1’ istessa cagione per la quale non li alleggeriscono. Ben vedo il mondo come va; e ben quegli eh’ erra vede quel — 617 — che fa. Ma se vedesse bene, non provocherebbe a sè stesso maggior male. I primi errori sono d’ignoranza; i secondi di fragilità; i terzi di ostinazione. I primi si hanno a compatire ; i secondi si possono scusare ; gli altri senza castigo non si devono vedere. Castigatore (e questo è quel che mi atterrisce) sarà Dio ; il quale, in premio dell’ ossequio eh’ io portai sempre a chi mi andò avanti, non lascerà impunita 1’ empietà di chi mi viene addietro. Non è ella empietà che i giovani trionfino negli ozii, e che i vecchi consumino nei guai? e che tanto questo iscambio a lor paia ragionevole, che, sentendosi al lor carico spronare, par che si sentano nell’anima ferire? Per utile della mia casa mi son privato della mia quiete. Altri si gode la sua quiete nella mia casa, e mi priva della sua compagnia. Chi sa che non vi sia di peggio ? e che a me non possano adattarsi le disavventure di quel Terenziano personaggio, che diceva: Contrivi in quaerundo vitam atque aetatem meam ; Nunc exacta aetate, hoc frudi pro labore ab iis fero, Odium: ille alter sine labore patria potitur commoda. Questo è certo, che tanto questa inconvenevole comodità gli par conveniente, che si reputa offeso, quando per sua gloria e per suo beneficio è provocato a scomodarsi ; e quasi voglia dire : io vivo solamente per dormire, come destato da un sogno si duole che alcuno tenti di farlo risvegliare. Non dorme nel suo letto chi si corca nell’ altrui. Non è mai suo quel letto che si usurpa alle vigilia d’ altri. Se dal legittimo padrone di quel letto si sentirà destare, non pensi di dolersene; altrimenti Marziale rinfaccerà a lui come a Levino, allora Atti Soc. Lig. St. Patma. Voi. XXIX, fase. 11. 40 — 61S — che, addormentatosi nel teatro di Pompeo, colui che ne avea cura ne lo scacciò : In Pompeiano dormis Invine theatro, Et quaereris si te suscitat Oceanus ? Per minor sentimento, dall’ istoria mi sia stato lecito per ora passarla con la poesia. Nè più di questo: tanto basti. Da un tantino dell’ unghia si conosce il resto del leone. 25. Venerdì, tutto il mattino idolatrando Tappia, non mi movo dalla stanza della solita udienza ; ove al solito non è udienza, ma la stanza, e però mala stanza. Il mio bisogno è grande, perchè il fascio de’ miei negozi, che dipendono da questi redditi, è grandissimo. Egli, che ha la cura di tutti quanti gli introiti di questo Regno ; onde, per quanto si affatichi, a fatica una minima parte può curarne ; pure, o sia zelo del servizio pubblico, o sia mira del comodo privato, il buon vecchio tutto aduna in suo potere il generale avere; ma, o perchè non lo può ben portare, o perchè non lo può ben ristringere, del convogliato peso lascia cader per terra, con altrui danno, il maggior cumulo .... Alla fine, perchè vinco per importunità quel che non poteva superare per instanze, da Sua Signoria vengo introdotto ; in certa provvigione, intorno la cassa di San Lorenzo già concessami, resto compiaciuto. Nel particolare del debito di Ostuni non mi manda disperato. Intorno altri miei crediti piglia da me le mie scritture, e a me dà quelle speranze che si possono cavare dalle sue promesse. Egli mi fa venire in mente un tal Carete, già dell’ esercito degli Ateniesi generale. Costui, tanto — 619 — pronto al promettere quanto pigro al mantenere, diede occasione a quell’ adagio: « Charetis pollicitationes » (Suida). 26. Sabbato, quel che immediatamente può venir dal-1 opra mia non è lentamente accompagnato dalla mia diligenza. Opra però poco, la diligenza ; che la diligenza non è bastevole per l’opra. Questa mia macchina tanto è divisa, e talmente trovasi intricata, che ha bisogno d altre spalle, anzi di più spalle, per essere sostenuta. Scrivo per insino a passata la metà della notte, anzi per insino al cominciar del nuovo giorno, occupato nella molteplicità di quei negozi, che per Palermo, per Messina, e per tutte le provincie di questo Regno inferiscono il bisogno d’un infinità di recapiti. Sappia questo mio travaglio chi si piglia buon tempo, acciò gli giovi per pigliarselo maggiore. 27. Sono andati alcuni giorni che non sono andato al mio Caivano. Oggi vo; da lui ricevo più carezze eh’ io non voglio. Vorrei non aver a trattar mai con quelli, che nel loro discorrere, per mover altri e per compiacer sè stessi, talmente adoprano l’effeminata cantilena di Agatone, che del tutto aborriscono il parlar sodo di Sofocle........Per abbreviare il mio ragionamento, dico che in breve ho da reintegrarmi del mio loco. Non può essere altrimente; perchè il Signor Duca me lo assicura. Ma ohi m’ assicura eh’ egli si sia convenuto col suo debitore, per farmi subitamente sodisfar del mio? Egli mel dice. loco ne an serio ille dicat, nescio » (Terenzio). 28. Lunedì, sento la predica dal Greco; poi sento dai miei dottori il solito latino. Raggiro indi a’ miei Giudici, — 620 — che mi fanno raggirare il capo. Così a digiuno quei calici d’assenzio mi è d’uopo assorbire, che non men difficili mi riescono al digerire, di quel che amari mi paiono nell’ingoiare......... — 621 — XI. Marzo — Sequitur lamentatio. — La carne più tenera. — Scadenza di affitto. — La bella visitatrice. — Arti di Sirena. — I consigli dell’ esperienza. — Dai diavoli agli angioli. — Accademici ed avvocati. — Galee genovesi. — Alla Concezione. Il reliquiario smarrito. — Da capo la Sirena. — Nella guerra d amor vince chi lugge. — Viaggio di penitenza al Vesuvio. — La spedizione di Capua. — Intimazioni legali — Il cavalier che tutta Italia onora. — Consolazioni filosofiche. — All’ Accademia degli Oziosi. — Un epigramma di Marziale. Settimana Santa. — Il reliquiario ritrovato. — Processioni. — La Madre e il Figliuolo. -- Deliberazione improvvida. — In tiro a sei. — Cortesia del duca di Caivano. — Avellino e il giardino di Caracciolo. — Il mercato d Atripalda — Il leone e il gallo. — Arrivo a Nusco. 1. Secondo il conto ch’io feci nel primo dell’Autunno, questo primo di Marzo conta il primo della Primavera, onde contò il primo dell’anno fra gli antichi. 0 primavera, gioventù dell’anno, Bella madre di fiori, D’erbe novelle, e di novelli amori, # ' Tu torni ben; ma tcco Non tornano i sereni E fortunati di de le mie gioie; posso dire col Guarini. Imperciocché non di gioie, ma di noie si compongono i giorni della mia vita...... 2. Mercordì, procuro il riposo della mia mente dalla solitudine del mio casino......E perchè per opra della virtù visuale si conforta mirabilmente in noi la virtù animale, dalle belle vedute della Chiaiese costa — 622 — sento alquanto sollevar 1’ animo oppresso. In appresso, ripigliato alcun vigore, io ripiglio il solito travaglio; e per insino alla metà della notte me la passo tra 1 applicazioni convenienti, e tra le operazioni dovute alle faccende mie premeditate. 3. Giovedì, porto il mio scritto, che fu il parto del mio concetto, alla sperimentata abilità dell’avvocato Salamanca, perch’ ella, come nodrice de’ miei negozi, o come produttrice de’ miei pensieri, col diligente lambire della eloquentissima lingua dia la forma all’embrione dei miei raccordi. Così ce ne andiamo unitamente al Segretario della Regia Camera, per impetrare, col mezzo dell’ informazione di lui, rimedio a quel male che mi ha novamente fatto il Viceré, male informato. Sua Eccellenza ha spedito un viglietto tanto favorevole al Marchese di Spinazzuola, e tanto contrario alla mia giustizia, che in capo a venti anni verrebbe ad impedirmi quella spedizione che io desidero, in esecuzione di quella sentenza che io possiedo. E la possiedo, perchè nel tempo che 1’ altra volta in questo luogo, e fra 1’ altre per questa causa, io dimorai, prevalse nella generosa mente del Duca d’Alva la mia candida ragione (1). (1) D. Antonio Alvarez di Toledo, Duca d’Alba, fu viceré di Napoli dalla fine del 1622 al 16 agosto 1629. Il viaggio a cui allude l’Imperiale è forse quello del 31 dicembre 1627, narrato sommariamente nella relazione Vili del fascicolo antecedente. La causa principale del viaggio era politica, e doveva aver attinenza con la guerra accesa pel marchesato di Zuccarello tra il Duca di Savoia e la Repubblica di Genova. In quella occasione, e certo a richiesta dell Imperiale, il Viceré di Napoli concesse alla Repubblica di Genova uno de suoi mastri di campo, D. Roberto Dattilo, marchese di Santa Caterina, perchè assumesse nella Liguria occidentale il comando degli assoldati. Nella relazione IX dell Imperiale — 623 — 4- Venerdì, mi sento in casa intimare, per parte del- 1 Angiolo Consigliere (1) un tale sequestro alle rendite di Sant Angelo, pretese da creditori del Nocera, dal quale uscendo il debito deve uscire il pagamento. Che i creditori diano il morso alla carne più tenera , è ragione ; che il Giudice, nell’aprir l’orecchio ad essi loro, il tenga chiuso a me, non è ragione. S’egli mi avesse udito, non mi avrebbe al certo condannato....... Questo male tanto più facile avrà il rimedio, quanto più palese è il fatto male. Buono è che tutte queste pratiche hanno in giudice universale un Commissario buono. Egli , non può a meno di atterrare, con una intimazione al Consigliero, quel ch’egli fabricò senza consiglio; avvegna che, se si fosse consigliato, avrebbe anco saputo come dall’ autorità del Commissario l’introdursi in questo affare ad altri era impedito. 5. Sabbato, egli è pur quel benedetto giorno nel quale io dovrei sperare, anzi pretendere riposo. E pure, e pure, se mai son stato travagliato, se mai sono stato afflitto, lo sono oggi. Quelle parole che mi furono date per l’aggiustamento della mia compra, quelle speranze che mi furono vendute per la restituzione della mia terra ; quelle sono svanite, e quell’altre che aspettava altronde, vengono mancate....................: ... 6. Domenica, quanto meno aspettato, tanto più opportuno sopravviene a' miei dispiaceri un cotal caso, che, se non mi è di compito conforto, mi è di alcun (Ragguaglio del Commissariato in Riviera, l’anno 1631) vedemmo indicato un Raimondo Dattilo, detto anche Campo Dattilo, comandante d’una compagnia, allora a Porto Maurizio. (1) Detto ironicamente; forse allude al Caivano. — 624 — divertimento. Questa mia casa ormai non è più mia ; perchè non avendone io confermata la pigione, è da locarsi. In Napoli è costume che in ogni anno per li quattro di Maggio tutti quanti gli affitti, o si prolungano, o pur si riaffittano. Per tal effetto, son pochi quei palazzi che su le porte loro da tre mesi avanti non portino la cedola. Questa giova per un salvo condotto a tutti coloro che, sotto pretesto di veder l’abitazione, bramano sovente di veder gli abitatori. Ecco, quando ad ogni altra cosa ho fissato il niio pensiero, sento nel mio cortile carrozza forastiera. Da questa veggo scender bella dama, intenta a salir nelle mie stanze, verso le quali non so quale avesse ella il suo intento. Questa è la volta che si appresenta nobile occasione a padroni di questo bello stabile, di mostrarsi servidori a bello instabile. E questa è la volta che si offerisce a me comodità di cedere il luogo dell’ospizio a chi può levar da luogo anco il cervello. Orsù, non più. Mi obliga la creanza a quel ricevimento che richiedono, la conoscenza che ho dal merito di lei, e la stima ch ella fa del mio conoscimento. Qual debito che si paga con diletto, è pagato con prontezza. Mi trovo assai presto al pie di quelle scale, che già si onoravano del peso di quei piedi. Compiti i primi offici de’ primi complimenti, mi concede eh io le porga il braccio; indi consente con industre negligenza che la sua nuda mano palpi il mio polso palpitante ; forse non ad altro fine che a prenderne argomento di quell’amorosa febbre, per cura della quale ella non aborrirà d’esser medico. 11 mal d amore non è altro che un contagio. Quella infermità che non ho, se così guari mi fermo, io ricevo — 625 — da chi 1 ha. Chi può star vicino al foco, e non scaldarsi ? Già sento nelle vene mandar i primi bollori infetto sangue al core; e già per mio rimedio m’è d’uopo il domandar aiuto alle salutifere virtù della modestia e della fede, supplicando e l’una e l’altra con quelle parole di Persio: « Venienti occurrite morbo », Pervenuti nei piani della sala, si distacca dal mio braccio, ma non vuol ch’io mi distacchi dal suo volto. Più mira nel malenconico mio guardo, eh’ ella non guarda nel solazzevole mio albergo. Più mira, che, mirata, alfin vuol ch’io la miri; e appena la miro, par ch’ella mi dica: ancor non mori? Io non moro, perchè non ho più vita. Par che senza parlare il mio cor le voglia dire: la mia vita rimase prima d’ora in poter della mia morte; tanto vivo, quanto vivo a quel tormento che la memoria del passato e la miseria del presente somministrano ; le mie liti sono i miei trattenimenti ; i miei crucci sono i miei diporti ; le mie pene sono alfin le mie vivande ; onde, se, convertite di pascolo in essenza, mi rendono sì penoso, che l’anima del mio corpo è la mia pena, non è maraviglia se, come diverso da me stesso, tutto quel che non mi è di pena mi è di doglia. Apprende l’avveduta Signora ne’ muti miei concetti i lamentevoli miei dolori ; e, non so come, i miei dolori destano in lei segreti ardori. Quando alle facelle del-1’ amore s’ accomiatano le facelle della pietà, che incendio non se ne può aspettare? Mi accorgo ben io che da que’ miei detti, benché non detti, si sono ingranditi in lei già i nati affetti; onde, quasi Didone, « his dictis incensum animum inflammavit amore ». Ed ella, che vuole ch’io me ne avveda, conditi tra i sorrisi e tra i — 626 — sospiri m’appresenta inzuccherati quelli intingoli della sua voce, che crede esser valevoli al ristoro delle mie doglie. Non si possono contare le soavissime parole eh’ ella mandò avanti, legfgiadre nQn men che amorevoli o o ministre della sua compassione e della mia contentezza. Egli è bene il tacerle, perchè il meglio di tutto è il dimenticarle......................... Alla bella pietosa io rendo grazie della compassione : non accetto le grazie della pietà. Il core molte ne scelse, niuna ne accolse. Già so che cosa è amore; e per averlo ostinatamente servito, mi ha in pagamento della servitù sodisfatto con la moneta della infedeltà. E se cosi mi ha trattato in gioventù, che ne potrei pretendere in vecchiezza, sempre dall’amor tanto mal veduta, che sempre dal suo sdegno è mal trattata? Sì come non è maggior infelice di quel che in vecchiaia si trova innamorato, così non è maggior scimunito di quel che in vecchiaia s’innamora. Non è pena maggiore Che in vecchie membra il pizzicor d amore (Guarini). Ma quando ben fosse costante e fosse grato amore, e quando l’amare ancor non fosse amaro ; non sara sempre disdicevole a farsi, quel che disdicevole è infino a dirsi ? Certi errori, che in certi anni paiono meritevoli di compatimento, in certi altri, perchè son degni di ca-castigo, in lor castigo riportano 1’ altrui riso. ...••• Così ce la passiamo in piacevoli discorsi per lungo trattenimento dimorati, e senza alcun interrompimento in ugual dimestichezza insieme qui seduti. Ma per quanto — 627 — soli sediamo, quella Signora ed io, non si toglie del tutto dal seder 1 animo mio. Viene intanto 1’ ora della sua partenza. Quel suo partire a me parve l’ora della mia libertà. Ma se dopo la partenza che da questo mondo fece il figlio, per mostrar la sua intrepidezza Pollione cenò trionfalmente coronato, io, dopo la partenza che fece lei da questa casa, per mostrar la mia costanza sto contro il mio costume per cenar vittorioso. Bisogna ch io confessi la vittoria, mentre io non niego la battaglia : anzi dico che, non so come, sentendo a poco a poco dentro di me lacci moderni aggropparsi a’ nodi antichi, con raccordarmi di quel verso di Giovenale : « Breve sit quod turpiter audes » posi in opera, la Dio mercè, quel di Vergilio: « Eripui, fateor, leto me et vincula rupi ». 7. Lunedì, uscito dalle catene dei diavoli, entro nei trionfi degli angioli. Oggi si celebra la festa, quanto gloriosa in cielo, tanto solenne in Napoli, per la devozione dovuta al suo patriota protettore Tomaso d’Acquino. Dunque io passo il tempo nel tempio de’ Padri Domenicani, ove non pure il corpo di lui, ma quel crocifisso che parlò con lui, comodamente in questo giorno si contemplano, da coloro che più per riverenza che per curiosità qui si conducono................. 8. Martedì, mi convien passare dalle meditazioni dello spirito alle occupazioni dell’ intelletto, e accompagnare con l’opre della testa le fatiche delle mani, scrivendo in tutto il giorno, e nella miglior parte della notte, acciò non parta il solito procaccio senza il solito peso delle mie lettere. Così le mie lettere portassero il mio peso ! Oh quanto, oh quanto vorrei pagar del porto! — 628 — 9- Mercordì, prima che andar a sentir nella chiesa delle Grazie una dotta disputa che tennero quei Monaci per certe lor conclusioni all’Accademia nostra dedicate, vo ad udir nella casa del Caravita una sciocca disputa che tiene con me quel galantuomo dell’ Oreggia, per certa sua pretensione al saccheggiamento della mia borsa. Già dissi altrove come pensò, col domandare a me quel che non gli viene, di poter sbrigarsi dal pagare a me quel che mi viene. Il reo salta in commedia, sotto imagine di attore......Il Giudice già già dichiara quel che chiaro conosce il mondo. Così potessi io chiarire quelle grosse quantità di danari, che nella vendita delle mie liti e nella compra de' miei territorii segreta-mente si ha nascosa, come faccio palesi quelle due migliaia di ducati che, sì come dalle ricevute del medesimo si vede, egli si ha rapite. Quel tanto eh’ io procuro è più tosto per castigo della sua furberia, che per rifacimento della mia cassa........ 10. Giovedì, conforme all’uso, in casa di Acquino si la la giunta. Io corro ad aggiungere quei raccordi che stimo opportuni intorno quel che dei loro infruttiteri discorsi posso accòrre. Son lunghi gli scritti di quelle cause che si trattano ; ma però non veggo scritto alcuno di quelle cause che si finiscono. Io non so bene a qual partito più appigliarmi................... 11. Venerdì, con l’arrivo di cinque galee intendo essere alcuni Signori Genovesi in Napoli arrivati. Tra questi sono Filippo Spinola e Nicolò Doria. bodisfaccio dunque a me stesso col sodisfare all obligo di visitarli. Non albergano per stanza sì vicini : onde, nel far questi complimenti, alla stanza della notte il giorno si avvicina. — 629 — 12. Sabbato, e per destar lo spirito con la predica del Padre Herrera, e per consolar l’orecchio con la sinfonia di quelle Monache, dimoro quasi tutto il giorno nella chiesa della Concezione, per agnome nominata de’ Spagnoli. Nell’ uscirne, mi avvedo che da un grosso cordone ch io porto in collo, un grosso reliquiario, che da quello era portato, non so come, se n’è uscito. L’uno e 1 altro sono di oro massiccio ; e questi, figurato a rilievi con alcune gioie: ma più nel di dentro che nel di fuori, è gioiellato; perchè, in mia ricchezza incomparabile, non solamente per gioia, ma per anima di lui, conserva non pur la figura ma la carne di Teresa santa, che è l'anima della mia vita. Egli è già gran tempo che senza l’aiuto di questa santissima reliquia mi pare di non poter vivere un momento. Ella mi fa sempre invito alle azioni buone, impedimento alle cattive, difesa dalle nemiche, guida nelle dubbie. Or che farò?................... 13. Domenica, per celebrar l’ottava dell'altra preceduta, intendo ch altra visita da quell istessa Dama è apparecchiata. Fu assai tutt' uno l’intenderlo e il praticarlo; in quel che sento dire ch'ella viene, io mi affaccio, e ne vedo la venuta. . . . Che farò? Sento che Amore per una delle sue più penetrabili saette contro il mio petto incurva l’arco. Ceder non voglio, contrastar non oso; fuggirò dunque......Prevaglia l'azione della mia sicurezza alla regola dell" ordinaria creanza. Ecco una portella che dal giardino per via segreta mi pone in strada: onde, giunta quella Signora non mi trova in casa. Piglia il possesso della stanza, di cui non già si stacca ; manda ella a ricercarmi : chi mi cerca mi ritrova. Eccomi al secondo assalimento più debole che al primo. Ammonisco l’ambasciatore che neghi l’ambasciata, mentre ammonisco me stesso col fuggir da chi mi cerca, a schivar quel che veduto mi pentirei d’aver mirato. . . 14. Lunedì, se devo dire il tutto, e se il tutto devo dir secondo il vero, per la recidiva di ieri non mi sento sano in tutto. Amore, sotto maschera di nobiltà, rinfaccia all’animo la commessa villania; e coverte le sue taci da ceneri di compassione, quel che non potè tare con l’armi della sensualità, comincia ad operare con 1 arti della gratitudine. L assalto è tanto più formidabile, quanto è più stimolato: tanto più pericoloso, quanto 1 assalto è più debole. Già il core comincia a dire : < . Sì come col chiodo grande si scaccia il chiodo piccolo. così con lampo maggiore si smorza minor lampo. \ oglio dunque oggi sperimentare se dalla rimembranza delle fiamme esteriori si consuma la memoria delle interne, anzi se della imagine delle fiamme eterne, s'inceneriscono gli aspetti o delle fiamme transitorie.................. M incammino insomma alla volta dell ardente Somma. Già la carrozza mi ta valicare il gran ponte della Maddalena, sotto del quale il canoro Melibeo vede passare il mutolo Sebeto: 2[ià mi ta vedere il borgo di Resina, se bene, per essere uno di quei luoghi che dall incendio furono saccheggiati, assai poco se ne può vedere: già mi ta entrare nella terra della Torre, nelle case della quale per la finestra solamente si può entrare. \ i alberavano trenta mila fochi; adesso il foco vi alloggia le sue ceneri * e sria le vedove abitazioni sarebbero ro— * o vinate, se dalle ruine istesse non tossero sostenute. — 631 — Di no\o entro nella campagna; ma non trovo più campagna; tutto è funesto campo di miserabil strage: tutto è arsiccio pelago, già inondato da fiamme con— \ertite in mare.....La curiosità è stimolo alla fatica; affretto i passi per avvicinare i guardi. Già dall’abbassato colmo rattiguro del monte il vero centro; ma, fatti accenti i tuoni, già dalla spalancata bocca cosi mi pare che il monte mi ammonisca: < Peregrino, afifrèttati a a edermi, e a lasciarmi ; chi ofuan bada all* osservare le mie ruine, provoca le sue >.............. Frettoloso nel partire, non mi curo nè pur a dietro di mirare. Già ritorno alla mia casa, ove gli oggetti già pensati non compariranno alla presenza degli oggetti ora eduti. L impressione dell orrore è sempre bastante a cancellar la stampa del piacere. 15- Martedì, delle molte lettere che ho da scrivere io sbrigo la metà, da quell'ora ove il giorno ha il suo principio per insino a quella ove ha la sua metà. Lascio di loro il fine per quelle ore che succedono al suo fine. Fra questo mezzo temp>o esco di casa, per essere in tempo a trovar in casa otticiali. M imbatto per la strada in alquante compagnie di Spagnoli, che in ordinanza se ne marciano: indi in molte truppe d’italiani, che alla sfilata s incamminano. Giungo al Palazzo, e veggo lo gran spazio di quella strada fatto incapace alla gente guerriera che vi passa. Arrivo più avanti, e miro che dall Arsenale più di trenta mezzi cannoni si strascinano : che nel largo di esso più di mille a cavallo si radunano; che da ogni parte un’infinità di carri, e tutti colmi di munizione, si conducono. Colà si osservano gli officiali da guerra, eh entrano in cocchi da viaggio: colà si ve- — 632 — dono i nobili della città, che si vestono gli abiti della campagna: di qua e di là si sentono i suoni delle casse confusi con gli strepiti delle trombe, che invigorendo gli animi assordano gli orecchi. Ognun domanda cosa • vi è; nessun dice altro, se non che di notte tempo si è partito il Viceré ; il quale avendo determinato di far piazza d'armi in Capua, ha voluto stimolar quelli armati, con lo esempio della sua persona, che segretamente aveva già eccitati con 1’ autorità del suo comando. Questa espedizione da pochi penetrata, a molti improvvisa, a tutti non è piaciuta. Chi dice che questo inaspettato fortificar di Capua, e questo repentino armamento di guerra, sia per la difesa; chi dice per la offesa. . • Chi dice per la difesa, non loda che il romore delle nostre armi senza gran bisogno faccia molto strepito.... Chi dice per l’offesa non loda quel cammino, ove il primo passo che si move non può farsi senza danno....... Intanto il Signor Conte di Monterey, pervenuto in Capua, la fa da quel che è ; lascia che gli altri ciarlino, ma non lascia che i suoi dormano......H nostro Viceré, che di Napoli non teme, ma teme dei confini, la frontiera delle spalle. Queste circonda con trincee; le trincee munisce con bastioni; ^li uni e gli altri assicura con profondi fossi; i fossi rende sicuri con precipitosi spalti. E mentre non pur al chiaro del sole, ma al lume della luna, stimola coi propri guardi gli altrui stenti, egli non pur si rallegra, ma si maraviglia di veder uguagliati dagli altrui lavori i suoi pensieri. . . . Indi, per anima di questo corpo sapendo esser necessarii i corpi armati, fatta da tutte le bande di questo Regno richiamar la — 633 — milizia ile soliti battaglioni; levate dai siverni (i) quella gente che così a cavallo come a piede in buon numero è assoldata; distribuite a tutti quanti, con le munizioni per lo combattere, le provvigioni per lo vivere, gode in istruirli, non men che in rassegnarli.......... 16. Mercordì me la fo in casa, più per soggezione che per quiete. Si aggiustarono in ore differenti alcuni amici a tarmi complimenti. Tra questi Filippo Spinola, Paolo Gerolamo Pallavicino, Nicolò Doria e Giacino (sic) Di Negro, l'ra il riceverli, il trattenerli, il ringraziarli, il giorno andò alla sera. 17. Giovedì mi sento destare da un pubblico portiere, che mi porta certa intimazione per lo credito che tiene il Principe di Sermoneta sul danaro della compra. Questi è uno di quei capi che mostrano immortale, non che formidabile, quest Idra. Tutt’oggi mi afìatico per turar ben bene questa gola, non già col foco, ma con quel metallo che si affina dentro il foco. Quel che mi abbrucia di più è il vedere ogni dì più, che di molti i quali posso pretendere, molto pochi finora si possono chiarire. Quindi è che mezzo profondato dalle amare voragini de’ fluttuanti miei pensieri, è forza eh’ io gridi col Petrarca : Morta fra l’onde è la ragione c l’arte, Tal ch’io comincio a disperar del porto. Manco male, se, disperato del porto, almen sperassi \) Da stivimi, antica voce genovese marinaresca, per luoghi di svernata ; e qui per quartieri d’inverno. Am Soc. Lio. St. Patku, Voi. XXIX, Fuc. 11, 41 — 6>4 — della vita ! Sente queste mie voci il buon Marchese di Villa, che ben posso nominare : 11 cavalier che tutta l’Italia onora , Pensoso più d’ altrui che di sè stesso. (Petrarca). Sia benedetto Dio, che pare lo abbia destinato perchè, nel mio maggior cordoglio, per mio maggior conforto mi si trovi sempre a lato. « Ille regit dictis animos et pectora mulcet » (Vergilio). Egli non lascia unguento salutare de suoi detti, che possa credere opportuno al medicamento de miei dolori. E mentre ascolta che dolendomi dell insopportabile mio peso, mi querelo del maggior mio figlio, che non mi ha conceduto il ricercato suo soccorso; anzi, che mi lagno più per lo mancamento di quest aiuto che per la oppressione della mia soma; egli si forza di recar forze alla mia mente, e consolazione alla mia tristezza, appuntellando con quelle topiche ragioni che si affanno a queste particolari avversità. Egli dimostra come sotto l’instabilità di questi cieli non è felicità nè miseria che sia stabile: come la rota di questo mondo fa repentinamente vagheggiar nell alto quel che testé si rimirò nel basso; come la metamorfosi degli umani accidenti fa che vediam spesso convertirsi in aspetto di bene quelli avvenimenti ch ebbero imagine di male. « E tal par grave danno — Che poi via maggiormente in pro’ ne torna » (Bembo) . • . « E qui do fine a questo punto » soggiunge. « Quanto all altro, che la prontezza di vostro figlio non assecondi alla vostra volontà, tanto è lontano dall obbligo che ha un figlio, e figlio d’un tal padre, e padre già di tre ti- - 635 — glioli, che se non lo diceste voi, che ben so come, prima di aprir la bocca in profferirlo, vi scoppia il core nel pensarlo, io non lo crederei. Io so pure ch’egli, sì come ha età per intendere, così tiene abilità per operare : io so pure ch’egli deve, al vostro esempio, aver impresse le regole della filiale ubidienza ; io so pure che da sè stesso deve ben capire come quel che fa per la vostra grazia tutto fa per la sua gloria. Io non vorrei far torto a chi debbo far onore ; ma per iscusa di quel torto ch’egli fa più a sè medesimo che a voi, consentitemi ch’io vi porga in considerazione se forse egli ha mancato più tosto per eccesso di temenza che per mancamento di osservanza. In vece di sentirsi affidato dalla vostra compagnia, chi sa se forse si è intimorito nel farvisi compagno? .... Non sapete come la va? Cer-tiduni, scrupolosi nella coscienza, sono timidi eziandio nella virtù. Molti che vagliono in molte cose, in certune non valgono. Non tutto la natura impiega in uno. Chi è quegli che possa vantarsi d’essere a guisa del coltello Delfico? Del quale faceste voi menzione, com’era in un istante Tanto al cucir quanto al tagliar possente? (Stato Rustico) « Comunque sia, mentre questa ragione, che lo scusa appresso voi, lo accusa appresso gli altri, io ne dirò un’ altra. So pure eh’ egli ha per moglie la figlia di vostra moglie: debbo pure imaginarmi che da quelle Signore debba accettare quelli avvertimenti, senza sua repugnanza, che da stranieri forse non accetterebbe senza sua vergogna. Chi sa se passando esse con lui quell’ of- — — lìcio che vedono opportuno al vostro intento, e necessario al suo bisogno, lo disponessero a tener più conto della vostra quiete, dalla quale dipende in gran parte di tutti loro la salute? Chi sa che all’ora d ’ora non si trovi egli pentito, come certo sarà, s’egli è avveduto ?... » Voi dite benissimo, signor Marchese * risposi ». Voi dite benissimo che mio figlio può più tosto per molta temenza che pt*r poca creanza aver mancato. Coll’averlo sollevato io, l’avrò io dunque avvilito? Eh, che non si può scusare per poco animo, chi ha tanto core per non compatirmi, ed ha tanto ardire per abbandonarmi .... Nè lo difende l’inabilità a’ negozi, e massimamente a que’ negozi che contengono litigi. Ben si sa che a questi egli è addestrato : . . Chi sa ? forse il suo mestiere è più di servire a frivolissimi litigi» che di comandare ad importantissimi negozi ; e più di trattenersi in una bottega di un sudicio notaio, che di affacciarsi in un tribunale di un forbito giudice. Però a miglior considerazione lascio ancor questa ragione. Nè* so quanto alla socera aderisca: dalla moglie so ben quanto ei dipenda. Ma la moglie, per quanto in sè stessa possa essere prudente, non so quanto negli altri possa essere zelante. Comunque sia, se queste mie Signore credessero di ridurlo, io credo che non mancherebbero per beneficio loro di ammonirlo. Ma forse elle temono che questa di questo giovine sia natura (incolpiamone la natura, per non incolparne l'ostinazione), e però a quel cruccio non lo ardiscono invitare, che da lui vedono aborrire. > Non è la prima, no, non è la prima volta ; anzi più, non è la terza, che 1’ amministrazione, anzi la si- - 637 — gnoria di tutte le mie cose da me liberamente in lui conlerta, da lui per qualche spazio posseduta, per suo spasso mi tu poi rifiutata. Piacesse a Dio che così non losse, e eh’ egli a pentimento s’ inducesse.....Empio non fu, nè sarà mai mio figlio. Così fosse stato, o fos-s’ egli amorevole. Solamente del suo poco amore 1’ immenso affetto mio può querelarsi. Ma voltate quelle querele che non mi servono, a quelle provvigioni che mi giovano, mi raccorderò di quel che ognuno si raccorda. Proverbio ■ ama chi ti ama » è fatto antico; lo so ben quel che dico: or lascia andare. (Petrarca). Lascierò andare ancor io. E già che non si cura del fatto mio, col non curarmi io più del suo, farò conto ch'egli con questo suo modo di procedere mi abbia voluto come savio ammaestrare..........». 18. Venerdì, alla predica del P. Raggio ; poi mi apparecchio ad una predica che la nostra Accademia mi ha ordinato. Domani sarà il giorno: il luogo sarà il solito: un lungo epigramma sarà il soggetto. Questi miei Signori, per troppo desiderio di onorarmi, hanno poca voglia di favorirmi. Essi, per mostrare che in altra sessione un corto componimento di Marziale da me scelto lasciò loro con appetito, cercano che uno troppo compito del medesmo, da lor medesmi accappato, lasci loro con sazietà. Dio mi aiuti. La carriera lunga non fece mai vincere il palio a corridor già stanco. Non so qual pensiero abbia in lor suggerito un simile concetto. Mi danno per argomento 1’ esplicare quell’ epi- — 638 - gramma eh’ è al n. 104 del Libro nono, che comincia: « Appìa quarn situili venerandus in Hercule Caesar ». Forse 1’ aver essi già penetrato eh’ io sono di partenza in brieve alla volta di que’ comprati e intricati territorii, ha fatto parer a loro che si convenga il favellar di strada a chi ha già il core in strada, e che non disdica nelle strade di questa provincia il metter bocca, a cui si affretta nelle strade dell’ istessa provincia a metter piede. 19. Sabbato, perche* 1’ apparecchio della prossima Lezione non impedisca gli apparecchi della solita azione, assai per tempo in casa di Acquino feci una rassegna generale di tutti i procuratori, agenti e scritti miei. Si presero molti appuntamenti: si diedero molti ordini: di questi e di quelli si dispensarono le copie, e si ritennero in me gli originali. Con questa regola, o qualcosa si farà, o si saprà con quel che sarà fatto quel che resti giornalmente a farsi. Poi stanco mi ritiro in casa. Quivi non mi dà 1’ animo di accostarmi alla mensa, mentre ho il core di affaticarmi alla Accademia. 11 digiuno del corpo è cibo all’ intelletto. Venuta 1 ora, passo dalla carrozza alla cattedra. Già la sala tutta piena fa ch io vuoti la mente in questa guisa.....(1). 20. Domenica, è quella delle Palme. Vo lietamente, non men che devotamente, al sacro tempio, con fiducia di ottenere dal trionfante mio misericordioso Redentore quella palma per 1’ anima mia penitente, che non pretesi nel giorno d ieri dall Accademia nostra per I anima mia (1) Segue la lezione, assai lunga, eruditissima, che troverà suo luogo tra i discorsi accademici di Gian Vincenzo. parlante. Benedette croci che, di palma fabricate, i trionfi alle mie croci predicete! Ma che? Vi osservo da ramoscello d’ olivo sostenute. Dunque io mi parrò vicino a’ miei trionfi, quando sarò al possesso della mia pace.. .. 21. 22. Lunedì e Martedì Santo, non impediti dalle cure delle Curie, tanto mi tennero tra gli ozii dello spirito, quanto mi permisero i negozi del procaccio. 23. Il Mercordì Santo è questo. Nel santo albergo de’ Padri Teatini è ragione consumarlo. Da’ santi ofificii che ho sentito, passo a farmi sentire in quel santo officio che ad ogni peccatore è comandato; debito che si paga con guadagno; guadagno che ci tiene in debito. Così, mentre dalla confessione delle mie miserie procuro la salute alle mie piaghe, prima che arrivi 1’ oscurità della notte pervengo alla serenità dell’ intelletto. 24. Eccomi nella parrocchia della nazione a sodisfare all’obligo della Pasqua e all’invito della devozione. Sia gloria a Dio, che per intercessione della gloriosissima sua Madre, della quale oggi per domani riveriamo la solenne Annunziata, si è degnato passare per questa bocca indegna, perchè il limbo del mio core divenga un paradiso del suo lume. Da qui, per la visita di alquanti Sepolcri vo in peregrinaggio, e finalmente nella chiesa degli Angioli mi fermo, ove la flebile menzione della passione di Cristo in copiosa predica di spiritoso Padre si sentì. 25. Venerdì Santo, neil’opportuno tempo e nel medesmo tempio mi trovo umilmente prostrato .... Dal mezzo giorno per insino alla notte me la passo nei devoti e musicali uffici dalle Monache della Concezione profferiti. Quivi inaspettato < bbi il mio reliquiario: onde — 640 — conobbi evidentemente come il ciel permise che in quel luogo vedessi il riacquisto ove mi avvidi della perdita ; e mi confermai nella opinione e insieme nella compunzione da me avuta. Pensando che quella carne della immacolata Teresa troppo si offendesse a stare in compagnia della peccatora mia carnalità, ecco come, confessate le mie colpe, si è degnata reintegrarmi alle sue grazie. Quindi affacciato ad un balcone, mi rattengo nella veduta di quella funesta processione che in questa dolorosa notte, a reverenza della morte di Nostro Signore, per la strada Toledo estendono gli Spagnoli. Ella è numerosa di cavalieri con torchie alle mani, più che di confrati con discipline alle spalle. 26. Sabbato, nel mattino, agli Angioli ; ove nel sentire in un istesso istante gli allegri suoni delle slegate campane. coi risonanti saluti delle accese artellarie da ogni intorno corrispondersi, e queste e quelle al festeggievol suono del « Gloria negli eccelsi all’altissimo Dio * devotamente accompagnarsi, mi avviso di udir un’ altra volta in terra e con la medesima allegrezza cantar il gloria al nostro Salvatore per la resurrezione da questa morte, che già si cantò per la venuta in questa vita. Nel rimanente, alquanto nel monastero in Piedcgrotta per alcuni affari dimorato, mi dedico in via Toledo alla vista di quel trionfo, di cui più riguardevole non fu in tempo o in luogo alcuno mai veduto. Del trionfo merita il titolo quella tal processione trionfale che in allegrezza del resuscitato Redentore la città di Napoli fa vedere, in questa sera partecipe del giorno della nostra Pasqua. Io vorrei descriverla. Ma sì come il merito di lei vince ogni qualunque imaginativa, così lo scritto d’ogni qua- 1 11 - 64i — lunque penna non può far paragone al merito di lei. Nemmeno una delle penne tolte dalle ali della Fama sarebbe valevole, perch’ ella con 1’ effetto supera la Fama. Non tacerò già che ammutolì per istupore anco ultimamente la Reina d’ Ungheria, quando per riverir la venuta di Sua Maestà, e per onorar sè stessa nella venuta di lei, questa città le fece avanti spasseggiare questa processione, avvenga che in diverso tempo, nell’istesso modo radunata. In questa, sì come si riduce 1’ epilogo di tutte le pompe più maestose, così per conseguenza si riduce il compendio di tutte le persone più nobili. Di loro, chi per le strade, chi per le finestre, a spettacolo insieme sì festoso e sì devoto si apparecchia .... Tutta strada Toledo, tutta la piazza del Palagio, tutto il largo del Castello, non sono ben capaci della radunata comunanza. La notte non par più notte, tanto copiosa è la frequenza di quei fuochi che allumano quei contorni. In tanta frequenza si osserva tanta regola, che, o la moltitudine non apporta confusione, o la confusione non apporta strepito. Così va, quando nel numero è la qualità. Pochi, ma poco civili, paion molti: molti, ma ben accostumati, paiono pochi. Ed ecco i trombettieri, fatti araldi del pietoso esercito vegnente: ecco al suo solito esercizio, quasi il generai della battaglia, il battaglione : ecco folto ma lucido squadrone di angelici cantori simboleggiar le schiere degli angeli canori; ecco tutti in variati cantici annunziar a tutti la resurrezione di Cristo .... Entra la processione. Questa è un corpo animato da migliaia d’anime. Anima di questo corpo sono quei portabili palchi, i quali por- - 64- - tano scolpite al naturale quelle imagini che al rappresentar varii misteri vendono adattate. Le prime file contendono i misteri gaudiosi, le seconde i gloriosi della vita del Signore, le terze in lungo numero rappresentano quelle attività di quella della sua Santa Madre, che alla \ ita del figlio sono appartenenti. Ognuno di questi misteri anticipatamente fra i primi titolati è repartito. Ognun di loro si manda avanti lunghissima schiera di confrati; ognun di loro si porta appresso lunghissimo ordine di cavalieri. Quelli sostengono grosse candele in mano; questi in mano tengono grossissimi doppieri. Talché fra tutti io direi che tanno un numero innumerabile di lumi, s’io stesso non ne avessi per insino a settemila in questa sera annoverato. Qui non sono per lodare quelle infinite invenzioni, che in varie divise, or santi, or angeli, or peregrini; curiosa mente rappresentano. Qui non sono per celebrare quelle variate sinfonie, che ad ognuno de’ misteri, ora in concerti di voci, ora in armonia di strumenti (e questi or col braccio, or col fiato) soavemente romoreggiano. Qui non sono per esaltare quelle differenti foggie di colorite livree, che per questa occasione vestono i famigli, nè men le ricchezze di quelli ori e di quelle gioie che adornano i padroni. Stupirò solo di quell ordine che veggo osservato da tanti, come se da un solo; avvegna che, senza necessità d’altro sergente che deir uso, senza che un cenno si senta altrui far cenno, dal principio alla fine questo mai non interrotto corso perviene al fine del suo splendido viaggio. 27. Buona Pasqua ne dia il cielo: siamo alla giocondità del felicissimo suo giorno. Un' altra processione - 643 — veggo assai per tempo; devota sì, ma popolare; onde nel devoto contiene eziandio del ridicolo, che per la stravaganza risveglia la curiosità. Invecchiato costume è in questo popolo e in questo mattino di portar processionalmente la figura di Cristo, nostro Signore, risuscitato, sì come la statua della sua benedetta Madre; la quale fìngono che, non ricevuta ancora del risorto Figlio la novella, tutta vestita di corruccio lo vada ricercando. Per la intrecciatura di questa rappresentazione, in due parti dividonsi le turbe: 1’ una parte da Ghiaia, l’altra da Pizzofalcone: 1’una reca il Cristo, l’altra la Madonna: amendue le squadre avanti il Palazzo vanno a fronte. Quivi si confrontano le statue: quelli che le portano sono addestrati con quegli atti, onde paia che le statue 1' una 1’ altra si salutino. Infine, con 1’ indurre le cerimonie dell' accoglienza nelle statue, s‘ inducono i pianti dell’ allegrezza nella plebe. La quale questi oggetti della novità più nella imaginativa che nella vista apprendendo, ora esalta le riverenze della Madonna, or commenda le accoglienze del Cristo ; e come se i legni avessero parlato, si dà ad intendere di averne i discorsi ancora udito. Paiono queste invenzioni del popolo ignorante; e sono invenzioni del Monarca onnipotente, quando vuol cavare anco dagli oggetti puerili la salvezza degli uomini peccatori. Se non fosse per questa cerimonia, questa mattina in questa città non si vedrebbero persone. Imperciocché, tanto della gente più minuta, quanto della più grande, ognuno, o parte o si apparecchia a partire per Pu-gliano. Questa è piccola villa, per otto miglia dalla città discosto. In questa una cappelluccia alla Vergine — 6-»4 — gloriosa è dedicata. Sotto il pretesto di andar a rallegrarsi con la Madonna, corre la moltitudine a rallegrarsi con sè stessa. La strada che dal ponte della Maddalena conduce al santo luogo è tutta piena, e collocata nel mezzo a larghissima pianura; onde per una parte la spiaggia del mare, per 1’ altra la coltura dei giardini a lei son sponda. In quella si vedono frequentar i traffichi le feluche a centinaia; in questa si mirano moltiplicar i viaggi le carrozze a migliaia. Colà in maestoso spasseggio sovra i saltellanti destrieri fanno pompa della grazia loro i cavalieri ; colà in domestico baccanale sopra ondeggiante prato fan biancheggiar le tovagliole delle mense loro i popolari. Non è finestra che non sia occupata da dame; non è loggia che non sia folta di spettatori ; non è tetto che non sia grave dalla calca. Da per tutto si vede un gioco; da per tutto si osserva un ballo ; da per tutto si sente musica. Per osservar la Pasqua ecco il modo che in Napoli si osserva. 28. 29. Lunedì e Martedì, seconda e terza delle feste, • t f * ad esempio della prima continuano abbondanti d ogni festa. Imperciocché nel Lunedì si esce nella campagna, verso la chiesa di S. Maria dell’ Arco; nel Martelli verso quella di S. Maria del Pozzo. In queste guise, per tripartite bande intendono i Napoletani di avere i lor complimenti a Nostra Signora repartiti. Per dar luogo a questa creanza non lasciano luogo ad altra cerimonia. Tutti i Signori ed Officiali, che nelle feste del Natale ricevono le visite del mondo, in questo della Pasqua le rendono al padrone dell Universo. Almeno, cosi è bene il credere, sebbene per crederlo egli è bene non tanto per minuto osservarlo. — 645 — 11 forastiere non così di facile impara certe regole terrazzane. Mal si praticano quelle usanze che ben non si conoscono: ond’io non manco già di visitare quei più che posso di quei Ministri, dei quali io più confido; e massime avendo ad accoppiare col termine del complimento 1’ officio della licenza che prendo da loro per inviarmi a’ territorii di Sant’ Angelo, alla volta de’ quali alcune considerazioni questa volta mi dispongono. Prima considerazione è il bisogno di osservar quei luoghi, da me, in quel mentre che in Genova per pubblico servizio dimorava, per troppa lontananza e per troppa confidenza prima comprati che veduti. La Dio mercè mi trovo ancora in tempo, onde a me quello non può dirsi che ai tardo avveduti suol rinfacciarsi : « In equo Troiano scriptum est, sero sapiunt Phryges » (Cicerone) avvegna che alcune strade mi vengono dalla giustizia aperte per la uscita, in ritiramento da quelle che dalla malizia mi vennero spalancate per 1’ ingresso. Quel che non feci allora, debbo dunque fare adesso. Si aggiunga il desiderio che hanno quelle genti paesane di veder me, e quello che tengo io di veder loro. So che non è cosa più importante a chi deve amministrare governi, che il conoscer ben bene chi ha da governare ........Segue la necessità di ristorare con le fatiche moderate del corpo le forze indebolite nei travagli dell’ animo..........So che non mancherà chi mi riprenda, perchè nell’abbandonar la Curia io lascio in abbandono in Napoli le cause, sospendendo la mano all’accrescimento dell’edificio, per increscimento del lavoro .... Chi può pensare di finire i negozi, se i negozi non finiscono? Finiscono ben essi la vita di chi — 6+6 — negozia; questo sì. Egli è di mestiere il vivere a sè stesso, chi vuol sopravvivere al negozio. Chi vuol vivere ha bisogno di accomodare la sua natura a quella del paese. Qui converrebbe, a terminare i negozi, che la nostra vita fosse eterna, perchè immortali paiono i negozi. Chi vuole affrettarli viene a rattenerli; imper-ciocché sono portati sulla groppa di certi cavalli, che dallo sprone si rendono restii. A quelle dilazioni che tutto giorno arrecano questi tribunali, pur troppo è necessario accompagnar quelli intervalli che nascondono la fretta .... 30. Mercordì, era della mia gita a’ miei popoli arrivata la novella; e dell’apparecchio loro al mio ricevimento aveva io già ricevuta la notizia. So che in buon numero per buone miglia lasciati a dietro i lor contini mi attendono avanti a’ vicinati. Il pensiero del loro incomodo non mi lascia pensare al mio disagio; onde, per quanto la pioggia minacci d’ impedirmi, non consento al tempo il trattenermi. Per primo passo me ne passo al tempio, quivi genuflesso io prego Dio, che tanto per uscire da questo viaggio quanto per entrare in quel mio territorio, del quale con l’ingresso vo a prendere il possesso, si • * , degni di assistere ad ogni qualunque azione mia, con la guidatrice stella della guardia sua. Adsis, o, placidusqut juves, it sidera cento Dextra feras . . . (VERGILIO). Già la miglior parte della mia famiglia è incamminata; già mi pongo in cammino; già sei destrissimi corsieri, a due a due legati alla proda del mio cocchio, ubidienti al fischiar di lunga sferza, tanto velocemente lo strasci- - 647 - nano, che pare che per l’aria lo conducano....... Qual cammino non è corso, il quale è piano ? Prima che avvederci, ecco vederci dai borghi di Pomigliano, di Cisterna, di Marigliano, di Gallo, di Cimitino; onde ancor non è 1’ ora del desinare, che all’ osteria del Cardinale ci troviamo a far colazione. Mentre si ristorano gli uomini, si rinfrescano i cavalli ; e mentre io cerco un poco di riposo, ecco un corriere di Caivano, che iti’ impedisce di riposare. Sono ancora troppo vicino a Napoli, per conseguir quella mia quiete, che spero dalla sua lontananza. In fine, il Duca mio signore, perseverando negli eccessi della sua solita bontà, perchè nel far la visita del mio Stato io noi trovi, per cagion dell’ occupazione sua in una delle migliori membra di lui, sì difettoso e storpiato, me ne invia dentro una cortesissima sua carta amplissima la cessione. Mi cede quel che ora gli riesce occupare, c che per giustizia al fin non può tenere. Io di cortesia non fui mai solito a lasciarmi vincere; nè fui mai tanto stolido, ch’io volessi obbligarmi a venduta cortesia. Da un canto il prender intiero il possesso di tutto quello che ho comprato mi stimola ad accettare quel partito: dall’altro canto l’accettare il dominio delle cose mie da quella mano, che avendole pigliate senza ragione le restituirebbe senza facoltà, mi distoglie dall’offerta. E tutto ciò, perchè il rifiuto dell’offerta non può essere senza sospetto d’ odio, mi fa stare in dubbio se quel tanto eh’ io non farei per lo mio comodo io debba fare per 1’ altrui soggetto. Ora la mia mente piega ad una parte, ora ad un’ altra . . . Alla fine la sostanza prevale alla cerimonia, all’ambizione l’utilità. « Hacc - 64S — alternanti potior sententia visa est » (Vergilio) di rendergli grazie senza accettar la grazia, di confessar megli obligato, senza addossarmi 1’ obligo di pagare il debito. In questo mentre il Governatore di Sant’ Angelo, con cinquanta altri a cavallo, scudierati da molti altri a piede, e tutti de’ miei sudditi, mi si fanno incontro. Porgono i primi testimoni dell’ affettuosa lor volontà nell’ onorarmi, per indizi della pronta lor devozione all’ ubidirmi. Ripigliato dunque il mio cocchio, ripiglio il mio cammino. Già passo la Catena, terricciuola del Sig. D. Carlo Doria ; già mi trovo in Avellino, città del Principe Caracciolo. Quivi il desiderio di vedere il giardino di quel Signore è cagione eh’ io dimori un’ ora. Ho animo di chiederne 1’ ingresso, perchè provo ancor io nelle comodità che Dio mi ha dato nella mia villa di San Pier d Arena, come il maggior godimento del padrone è quel che gli viene dall’ onore del forastiero. Questo giardino, signoreggiato da eminente palazzotto del Signore, parte in piano e parte in erto, corrisponde col merito alla fama. Egli è nato, per sua disventura nella sua fortuna, all’ingiurie del verno molto esposto, non conserverebbe il suo corpo, se le membra di lui non fossero composte di tutto quel che più resiste al freddo. Le pergolate di lui, non di aranci o di pomi-granati, ma di edere e di lauri regii bisogna che si vestano; i laberinti di lui, non di odorosi mirti, o di fioriti romarini, ma di fetidi bussi o d’ infecondi sanguini convien che si circondino: gli spazi de’ vacui in lui, non di fiori italiani, ma dei fiamminghi è necessario che si coprano; onde in vece delle rose, del garofalo, del gelsomino, e della margherita, la peonia, l’anemone, il — 649 — narciso e il tulipano qui pompeggiano. E in ogni modo, perchè dalla maraviglia talvolta vien la grazia, non è men grata all’occhio quella selva, che, rusticana per natura, si mostri dall’ arte accivilita, di quel che sia quella spalliera, che, civile per natura, quasi in selva sia ridotta, se dall' arte è abbandonata. Usciti dopo i ringraziamenti dovuti, e due migliarelli indi contati, la grossa terra e mercantile della Tripalda ne riceve. 11 convento dei Padri Agostiniani non men povero che vasto ne alloggia: la cena da’ nostri apparecchiata, e la notte pervenuta, invitano, chi al travaglio del cibo, chi al riposo del letto. 31. Ma levatasi di letto a pena l’alba del Giovedì; licenziate, mercè degl’ incomodi sentieri che abbiamo a valicare, le comode carrozze; sagliam tutti a cavallo. Nel passar per lo mezzo di quella terra, osserviamo un ricchissimo mercato che gli è centro; e nel passar per lo mezzo alla gran porta di lei, fu chi alzò gli occhi dove, sotto alla invitta e trionfale arma del Re Cattolico, lesse un tale scritto, che, alludendo a quel leone che per insegna è posto sopra lei, minaccevole si vanta con queste parole: « Si leo rugiet quis non timebit? » e a questo interrogativo rispose : « Gallus » ; perchè in effetto, come altrove si accennò, questo animale non pure non ha paura di quello, ma quello mostra aver paura di questo. Stravaganze di natura ; delle quali in cercando la ragione altri doventerebbe irragionevole. Non posso compitamente riferire quanti mali passi ne bisognò passare, e quanta pioggia ne convenne sostenere. Basti sapersi che non fu pelo indosso che ben non si bagnasse ; nè fu cavallo che più volte non cadesse ; nè Atti Soc. Lio ìt. Patria Voi. XXIX, F*k 11 42 — 6)0 — tu pedone che in quei pendini assai frequentemente non sdrucciolasse. Il cammino veramente non è molto lungo; ma, per opposizione di quel che dissi di quel di ieri, non fu mai cammino disastroso che fosse brieve. Giungo alla città di Nusco assai per tempo, lasciati a dietro il borgo del Voltorale e il fiume delI’Olmito, che la regione di Cassano divide da quella di Nusco. Qui, mal grado della pioggia, da tutto il popolo incontrato alle porte; da baldacchino ricevuto; nel tempio da monsignor Vescovo in estremo favorito; da musiche, da encomii e da ossequii onorato; in casa del Reverendissimo rattenuto per desinare; vo finalmente nel mio Castello per dormire. Ma chi può dormire, se dalla festa si sente molestare ? Questa sera non mi corco a letto per elezione; cado a letto per necessità. - 651 — XII. Aprile. — Nel castello di Nusco. — In via per Sant’Angelo. — Gazzarra di sudditi. — Il vescovo Rangoni. — Di sella l’un, l'altro di seggia smonta. — Le chiavi della citti. — Ricevimento feudale — La chiesa delle Grazie. — I signori del vicinato. — Accanto al fuoco. — La porta aperta, chiusa e riaperta. — La caccia alle lepri. — Al feudo dei Leoni. — Caccia ai daini cammin facendo. — Il bosco del Fiorentino. — Giornata di pesca. — Il cartello del duca di Maddaloni. — Pensiero alla moglie. — Al feudo di Andretta. — Caccia al cinghiale — Carbonara non vista. — Principato descritto. — Guardia e Bisaccia. — Uccellagione. — La visita alla Morra. — Sonetto di Piramo e Tube. — Le cause a rifascio. — Consolazioni filodrammatiche. — La Flaminia. — Venere in maschera veneziana. i. Venerdì, fatte per tempo aprir le finestre della ancor non veduta e comoda mia stanza, confondo i miei sospiri con gli spiritelli dell’aurette, confuse con quei raggi che oggi dai balconi dell’ aria apre 1’ Aprile. Ma la purità di quei tepidi fiati non è sì penetrante, che a purificarmi nel di dentro sia possente. La febbre da ieri discoverta, prima d’ieri originata, in questa notte alquanto invigorita, non sarà poco se fra poco non sarà cresciuta. Non diss’ io, nel partire da Napoli, com' io me la passava ? Non diss io quel che di male io ne attendeva ? Non diss' io che il fermarmi egli era un seppellirmi? Chi mi ha liberato dalla sepoltura, confido che mi distorrà dalla malattia. Spero che riposato il corpo acquisterà vigore dall’animo riposato; e che tanto nel-1’ uno quanto nell’altro, mancate le occasioni della fatica, siano per cessare gli effetti della infermità. 2. Sabbato, la Dio grazia posso chiamarmi sano, perchè incomincio ad accingermi alla sanità. Questa notte ho dormito; oggi mi sento ristorato, e quasi all’esser senza febbre io sono già pervenuto. Viene in questo mentre ad ogni ora il Vescovo a vedermi ; non mi vede senza favorirmi. Se i favori di lui fossero sinceri quanto sono copiosi, converrebbe che i miei debiti verso lui fossero in copia. È merito appresso 1’ uno l’aver acquistato 1 odio dell’altro. Questa amistà, perchè ha mala radice, non darà buon frutto. Ella è amicizia nova, dopo di nemicizia antica. Questo per sè solo potrebbe renderla sospetta ; ma dal sospetto può condurla alla certezza quella infedel complessione eh’ egli nodrisce dal natale, e quella brutta fisonomia che la sozzura dell a- nimo gli accusa nel sembiante.....I Nuscani intanto, mentre per me fanno pubbliche preghiere in chiesa, per me con visite, con presenti, e con ossequii, fanno particolari dimostrazioni in casa. 3. Domenica, perchè all’ usanza dei poco sani aborrisco quella stanza ove non ho avuto sanità, annoverando i momenti alla partenza, 1’ accelero. Dio mi concede di passar dal letto al tempio; scendo perciò dal castello, ed entro nella città. Quivi rendo il tributo dell’ anima al Signore dell universo; poscia pago il tributo della riverenza al monsignore della sua chiesa ; indi contro sua voglia da lui prendo licenza; e dalla mia terra con dispiacer di tutti io prendo alfin commiato. Non ho forze per cavalcare : per camminare mi convien sedere. M incammino a Sant’Angelo, per cinque miglia separato da Nusco. M’ incammino seduto in comoda ca-drega, da quei terrazzani al men male sostenuta. La — 653 - diligente quantità rimedia alla difettosa qualità degli inesperti benché affettuosi portatori. Il viaggio è favorito dall aria temperata, ed è aiutato dalla strada accivilita. Non si move piede, che non si mova su la verde schiena di piacevoli sentieri ; nè si vedono sentieri, che non siano da giardini di frutti, da pergolati di viti, da coltivati di semenze circondati.......... Già guadato l’Ofanto, ritrovo la badia di San Gu-gliemo, che l’un dall’ altro questi territorii divide. Sono a’ loro confini ad aspettarmi le milizie di Sant’ Angelo, alle quali il passar più avanti io divietai, fatto geloso d’ alcuna gelosia tra confinanti. Veggo una compagnia a cavallo, della quale aveva dianzi udita la trombetta. Già sento il batter de’ tamburri ; già scorgo il ventilar delle bandiere e il lampeggiar delle armi, unito al fulminar degli arcobugi. Già mi si appresenta, superiore al suo mansueto colle, il mio castello ; ma non così tosto il vedo, che il fumo degli accesi mortaretti me 1’ asconde. Salgo; e a piè della salita mi si fa incontro il Vescovo Rangoni, che, seguitato dal numerosissimo suo clero, nel vedermi scende da cavallo, lo, nel vederlo, esco di seggia. Egli è vestito da cammino, perchè, a fine di maggiormente onorarmi, si condusse in quell’ ora dalla terra di Bisaccia, ove prima del mio avviso avea dimora. Passano tra di noi le necessarie dimostrazioni della nobile creanza, non so come appuntellate dagl’ interni sentimenti de’ primieri nostri affetti. Voglio sperar bene, perch’io mai gli ho fatto male. Chi sa? per essersi avveduto come sinistramente fu informato, egli di quanto ha fatto si sarà forse pentito. - 654 — Il romoreggiar delle campane mi fa vedere come ho vicini i monasteri di San Marco e di Nostra Donna delle Grazie; quegli officiato da Padri Franciscani della Scarpa ; questi albergato da Padri Franciscani della Riforma ; gli uni e gli altri non meno esemplari che grandemente numerosi. Ed eccomi alla porta della città, ove dal Sindico, ed Eletti di quella, con accomodata orazione presentatemi le chiavi, da un ragazzo, che in gieroglifico di questa terra rappresentava un angelo del cielo, alcuni versi latini o 7 si recitarono per mia lode, in nome di quel comune, che non ebbero del comunale. Poscia inoltratomi, e alla volta del Duomo, si come è mio debito e mio costume, indirizzatomi, ebbi contento nell’osservar quelle strade, non solamente di arazzi naturali e di cupole fogliute tutte quante verdeggianti, non solamente delle arme della mia Casa e di cento variate imprese su le armi medesime innestate, ma di molti archi, e di fochi innumerabili guernite. Da ogni finestra piovevano i fiori in segno d allegrezza, e coi fiori grandinavano i frumenti in augurio di abbondanza. Per ogni parte i vecchi, pregandomi una lunghissima vecchiaia, pareva che con la bontà di Traiano mi pronosticassero la felicità di Ottaviano. Da un canto i semplici fanciulli, dall’ altro le vergini donzelle, a gara predicavano nella solennità del mio arrivo la giovialità del loro acquisto ; e mentre non fu bocca la qual non fosse aperta per ossequio, non fu palpebra la qual rimanesse asciutta per contento: onde non dirò bugia se dirò che mi avvenne per 1’ altrui tenerezza intenerirmi. Confesso il vero : se ben dagli atti frequentati ho fatto un certo abito al mio petto, ond’ egli tanto o quanto si - 655 - copra dai sinistri avvenimenti, e non guari si discopra ai favorevoli successi ; in ogni modo non posso negare a me stesso quel contento che mi è offerto dalla pre-sentanea mia gloria, tanto più mentre procuro che questa gloria, che mi è donata dall’altrui lode, non impedisca il luogo a quella che deve esser comprata con la propria fatica. Alla fin fine, sì come il premio del lavoro è stimolo alla diligenza, così 1’ applauso dell’ opra è pagamento alla virtù. Onde il virtuoso non deve esser ripreso, quando pur di quell’onore egli è invaghito, che non meno dal proprio merito gli è impetrato, di quel che gli venga dall’ altrui grazia conceduto. Lo strepito delle voci, confuso col romore delle campane, per mia quiete si quietò, quando nel tempio, sotto il baldacchino inginocchiato, darsi dall’ organista il principio del Te Deum laudamus fu sentito. Quivi con rinnovate ceremonie il Vescovo sodisfece all’ obligo della creanza; e sebben tralasciati gli eccessi dell’amore, non dimenticò già i termini dell’ ossequio. In queste faccende è giunta 1’ ora del desinare. Più per riposo che per cibo mi conduco alla mia casa. Questa, benché in alcune parti bisognosa di ristoro, dimostra in tutto la magnificenza unita alla comodità. Ha vasto cortile; innumerabili intorno a lui le stanze. Ha corte e larghe le scale; sono di marmo gli scalini e gli ornamenti. Ha spaziosa sala: più di sedeci sono al piano di lei le camere. I balconi di lei signoreggiano con una occhiata quasi tutte quelle terre che stanno al padrone, ancora che tra di loro lontane, unitamente sottoposte. 4. Lunedì, esco per la messa, ed entro perciò nella chiesa delle Grazie. Osservo indi, col novo monastero, il grazioso giardino di que’ Padri. Poscia per esercizio del corpo, per sentimento dell’ animo, e per curiosità del pensiero, io giro d’ ogni intorno questa piccola città, che da strada in piano è circondata. Circondano nulla di meno il piano della strada profondissimi dirupi ; onde 1 abitazione viene ad essere in un medesmo tempo e più salubre e più sicura. Nel rimanente, sono occupato senza noia, perchè ricevo visite senza suggetto. Vengono ad uno ad uno i migliori fra questi cittadini : vengono regali pubblici, e donativi privati: vengono complimenti dal Marchese della Bella, dal Barone di Morra, e dagli altri signori circonvicini. E vengono Monsignore e suoi canonici. A questi resi le grazie; a quello resi la visita. Non deve tener conto del passato chi riceve sodisfazione al dì presente. Sì come 1’ uomo generoso dall altrui cortesia non lascia vincersi , così l’uomo civile dell altrui scortesia deve scordarsi ; e tanto maggiormente, allorché i dispareri senza fondamento sono succeduti, tra quelle persone che di prima, e non senza causa, eransi amate.......Ma che dirà quel di Nusco, già mai non sazio d’ incrudelir contro questo di San-t Angelo ? Questa è la volta che quelle tante aquile eh’ egli su le pareti e su le portiere ha inserite in onor della mia Casa, doventano basilischi in vituperio della sua. 5. Martedì, per mal sentimento e per mal tempo non esco dal mio convogliato pelliccione. 6. 7. 8. 9. Mercordì, Giovedì, Venerdì e Sabbato, non valse il pelliccione a scacciarmi il gelo dal groppone: bisognò che per riscaldarmi la pelle viva, al caldo della pelle morta si accompagnasse quel della vivace fiamma. Questa, accesa in mal forbita caminiera, appiccate le - 657 — faville alle fuliggini, risvegliò sì gran foco, che se il tetto tutto non brugiò, vi mancò poco. Da questo malo effetto cavano buon segno i popolani : e pur mal segno è sempre quello che, per dove passano, lasciano gli incendii. Intanto mi vien notizia che il Collaterale finalmente ha profferita la giustissima sentenza, perchè questo Monsignore subitamente chiuda 1’ aperta sua portella. L’ esecuzione di questo decreto dal braccio di questo Regio i ribunale è rinvigorita .... Il Vescovo, che lo sa, fa rinserrare quel suo muro prima che aspettare il precetto di serrarlo. Cerca di ammantare il bisogno di ubidire col desiderio di compiacere. Io che veggo 1’ opra, e non la intenzione, mi contento di credere che 1’ intenzione corrisponda all’ opra: onde per atto pubblico, in aggradimento di questo atto, comando che passati prima alcuni giorni, onde sia palese la clausura,, venga a mio beneplacito permessa a lui di novo 1’ apertura...... Così cangiati i contrasti litigiosi in amorosi, tra vicendevoli gare di reciproca amistà ce la passiamo, ed egli ed io. 10. Domenica, ebbi la santa Messa nella mia solita chiesa delle Grazie, ove Monsignore mi favorì della sua presenza, e della sua musica, e per lo dopo pranzo mi invitò per questi vicinati alla, sua caccia. Ella fu tanto vicina, che ben potea vedersi dalla mia casa. Si vide nulla di meno con maggior diletto alla campagna, che per esser non men ricca di lepri che feracissima di biade, non così tosto dai sagaci bracchi è intorniata, che alle nari cacciatrici offre più d’una traccia delle ascose bestiole...... 11. Lunedì; perchè l’intento mio fu mai sempre rivolto all’ unione di questi Prelati, il proceder mio fu — 65S — sempre mai guidato da uguaglianza, atta ad impetrarmi egualmente in ambedue la confidenza. Onde, raccorde-vole delle caldissime preghiere che in Napoli e in Nusco quel Monsignore mi fece e mi fece fare, acciò dalle mie persuasioni cessassero ne’ miei sudditi in Roma quelle querele, ch’egli addimanda persecuzioni; oggi, accappata l’opportunità, tratto il negozio; propongo agli amareggiati perchè offesi miei vassalli, quel concetto per volgare che imparai già per latino: « Cum victor arma posuit, et victum decet deponere odia » (Seneca). Io fo lor vedere che quanto hanno di ragione per risentirsi, tanto lor manca di potere per vendicarsi ; che ove non ha luogo la vendetta del passato, deve averlo il fine della quiete nel futuro ; che per quiete loro ricevano in pegno il pentimento del lor Vescovo, e per ostaggio di questo pentimento accettino il testimonio della mia voce...... In fine, parte persuasi con la ragione, parte stimolati con 1’ autorità, tutti riduco alla mia voglia. Si formano le capitolazioni dell’accordo, contenenti le pretensioni dell universal disgravamento. In poche righe si contengono molte cose : non vi è cosa che non sia di essenza, perchè contiene il risarcimento dell’ involata lor sostanza. Questo scritto io mando al Vescovo, secondo il patto. 12. Martedì, presa volta intorno intorno a due vigne, che sono effetti del padron di questo luogo, osservai come la delizia di quei Conti che n’erano padroni, oltraggiata da quei contadini che modernamente ne sono affittatori, abbia cangiato 1’ aspetto della nativa nobiltà in imagine di rustichezza. Delle viti i facoltosi pergolati a terra son caduti: appena gl’invecchiati e ruvidi lor tralci stanno a quattro deboli cannuccie per opra di fles- -6 59 — sibili ginestre avviticchiati. Delle feconde piante alle fruttifere colline il tempo avaro ha impoveriti gli utili tesori ; anzi, la villana ingordigia, impaziente di aspettarne i frutti, per darli al foco ha saccheggiati i rami. Dal nudo sasso scaturisce fora quell’ acqua, che adornata di marmoree vesti comparìa pomposa .... Sì come 1’ assenza del Barone indusse negli altri oblivione, così alla mia presenza 1’ oblivione degli altri induce compassione. Ritornato al mio albergo, che, posto nel mezzo a questi due poderi, per poco spazio dall’ uno e dall’ altro è separato, dallo scrivere a Napoli, a Roma, e a Genova, per tutto lo spazio del giorno vengo trattenuto. 13. Mercordì, già cominciava a parermi strano che il Vescovo al negoziato per lui non rispondesse. Non mi pareva già strano il sospettare che quel eh’ egli bramò, conseguito più non aggradisse. Io so che la natura degli avari è di non saper mai perdere il poco, a fin di guadagnare il molto: io so che la condizione dei meccanici è di non saper mai conoscere il proprio benefìcio, se noi vedono accompagnato dall’ altrui danno. Egli, per mio credere, nel dimandar perdono s’ imagino che non pur le ingiurie, ma le rapine gli avessero ad esser perdonate ; anzi, che le spese della sofferta lite gli avessero ad essere alleggerite; perchè oggi, in vece di ringraziarmi, nè men si cura di rispondermi. E quel eh’ è peggio, senza più onorarmi d’ un suo scritto, mi fa rispondere da un tal suo prete con un viglietto. La risposta, e molto più la maniera del rispondere, inferiscono suspicione del mio operare. Piace al buon Prelato coprir la gelosia di questo Vescovo, col mostrarsi geloso di quei popoli. Epiloga tanto nei concetti, quanto nei modi, tutti gli atti d’ impietà verso loro, e d’ ingratitudine verso me. Tralascio di raccontare le circostanze, e rimango nelle essenze. Licenzia il trattato, perchè spera che in Roma non se n’abbia più a trattare; basta a lui, per ora, con greca astuzia averlo potuto ratte nere......Chi una volta si dichiarò malizioso, non ha più rossore in dichiararselo. L’aspettar maniere nobili da nascimenti plebei, egli è un aspettar che le cornacchie divengano fenici. Ma lasciam pur fare ; lasciam che dalla Sagra Congregazione de’ Cardinali, e dal tremendo Officio della Santa Inquisizione, si ripiglino contro lui le tralasciate accuse...... 14. Giovedì, mi movo in verso quella mia terra, eh’è detta deofli Leoni. Vi sono invitato dal mio curioso desi-derio, e dall’altrui supplichevole invito. Questo luogo, assai comodo per abitazione, e molto ricco per industrie, per poco più di due miglia è lontano da Sant’ Angelo ; onde il capitano di questa corte vi amministra la giustizia. Vi si arriva per continuato sentiere di campi seminati. Questi seminati sono frumenti; e quando questi matura hanno la spica, e che la spica ondeggia al vento, rappresentano un mar d’ oro, nel cui mezzo si solleva un’ isola di smeraldo. Tale in tutte stagioni si dimostra un grazioso bosco, che in braccio dell’ inverno si mantiene non men verde che fronzuto. Dalle folte piante di questo un infinità di daini vengono alloggiati, che dalle vicine pianure vengono pasciuti. Di questi daini in questo sito si avvisano i miei popoli di farmi cosa grata col farmi vedere una tal caccia apparecchiata. Cingono di attraversate siepi il vasto giro alla boscaglia: venuto il tempo che alla festa è destinato, vanno — 661 — d’ogni intorno numerose schiere di villani, i quali, con pertiche e strida componendo strepiti ordinati, pongono in disordine le fere. Queste, intimidite dalla violenza, fidano alla fuga la salvezza; e mentre fuggono dalla forza, urtano le incaute nella insidia ; perchè là dove certi squarci della siepe offeriscono 1’ adito a loro scampo, a pena il capo nella fraudolente apertura elle ivi investono, che dentro ad artificioso canape lo allacciano. Onde più di un animale, o ferito, o pur illeso, dal cacciatore tosto vien preso. Per lo cammino, io son avvisato dell’apparecchio; e sono informato che l’apparecchio mai non riesce a vuoto. Onde tanto più stimolo il mio ronzino, quanto più mi stimola il mio desiderio .... Al mio comparire, compariscono gli spettacoli; questi riescono in me non men dilettevoli per la novità che graziosi per la comodità. Io, sia per la complessione, o sia per gli anni, sono a segno, che, sì come con discomodo non comprerei mai più diletto, così tra i diletti preferisco quel eh’è comodo. Qui senza scavalcare, senza indugiare, senza patire, ho veduto correre, ho veduto pigliare, ho veduto fuggire. Che si può di più pretendere ? Finita la caccia, arrivo alla terra; ove cominciano tutti quelli onori che nel mio primo ricevimento, ad esempio delle altre, s’ingegnarono di far maggiori. Egli è di briga l’inventare; all’inventato non è difficile di aggiungere. Quel che non potei vedere senza gusto, non potrei qui raccontare senza tedio. Sono certe cose che dalla somiglianza uniformi rappresentate, sì come reiterandosi sono soavi al farsi, così riescono noiose al dirsi. Non ebbero termine le cerimonie, che 1’ ora del — 662 - desinare non avesse passati già i suoi termini ; onde il finirsi la tavola e ’1 finirsi la giornata fu tutt’ uno. Per tanto, nel pubblico alloggiamento, ove mi ebbi a fermare, mi trattengo eziandio per dormire, con intento, nel seguente giorno, di osservar meglio il tutto, per godere del tutto. 15. Venerdì, accettati del mattutino gallo i primi inviti ; lasciati gli ozi del mio letto ; spediti i negozi del mio luogo; esco dall’albergo, entro nel tempio, circondo il borgo, indi mi accompagno con Monsignor Vescovo.... Lo scambievole intento nell’ uno e nell’ altro è stimolo al solazzo. Volteggiamo il piano sito di queste terrazzane contrade, che per esser molto abitate non sono immeritevoli di esser vedute. Ci ritroviamo alfin sopra un bel fiume, Che con silenzio al mar va declinando, E se vada o se stia mal si presume, Limpido e chiaro è sì, che in lui mirando, Senza contesa al fondo porta il lume. Così dice 1’ Ariosto, parlando di Doralice e Màndricardo. E così dico io, parlando di noi due. Avvegna che nel-1’ uscir dalle abitazioni a quella parte ove le massiccie lor piante sembrano nel fiume radicate, sul gobbo di sassoso ponte valichiam 1’ acqua dell’ Ofanto, che in un cristallino e tacito, nell’ incessabile viaggio affaticandosi, tutte senza fatica lascia contare all’occhio quelle candide pietruzze che sono calcate dal liquido suo piede...... Tant’ oltre ci conduce il solazzevole sentiere, che alla falda di monte imboscato ritroviam campo allagato ; perchè in due rami del monte qui diviso il fiume, cinge — 663 — quasi con due braccia il seno al lago , a cui fanno ombra nera i verdi crini dei fronzuti abeti. Di questi è dovizioso il bosco ; perciò, forse, del Fiorentino addiman-dato, come che altresì tutto d’ abeti quel di Pratolino sia guernito. Di questo la vasta ed intricata macchia, di tanti cervi e di tanti capriuoli è tanto ricca, che entrato in essa il cacciatore non mai n’ esce povero di preda. Ma perchè oggi è giorno da pesci, lasciamo per la pesca la caccia .... Dimoriamo pertanto agli orli muscosi di questo lago ... Il lago, da tante serenità allumato, come può il pesce mantener celato? Strisci pur quanto sa la mal veduta anguilla, e tutto imbratti in quel pantanoso fondo il lubrico suo petto, che bene è scorta, e bene è presa. Somigliante a lei di corpo e di natura, nascondasi pur quanto può la saporosa lampreda, che delle mani altrui tosto è la preda. La bianca trota, di pallidi rubini stelleggiato il dorso, compongasi pur tra i sassi le umide capanne, che, rivelata per li cristallini tetti, in breve nelle mense più civili è fatta la più nobil vivanda. Alato i lati, di smorta porpora vestiti, l’ingordo balbo appiattisi pur dentro 1’ acquatiche fratte delle cannuccie paludose, che presto presto dall’ elemento delle acque ha da passare a quel del foco. Non faccia dell’Anteo, perchè rada il suolo, fatto del color della terra il carpione, che dalla terra sarà carpito e dall’ aria sarà soffocato. Non presti fede alle volubili alghe il puntuto luzzo, perchè di loro a paro egli sia verde; ma, dal ceruleo contorno palesato, aspetti senza indugio il mal senza rimedio. Se non si cura dell’ offensora cura il rosso granchio, perchè brancato i fianchi, pensi con le proprie — 664 — punte ostare alle altrui dita; preso oramai, vedrà eh’ei prese un granchio. Per queste prese hanno 1’ impresa quei più sperimentati contadini, che nel pescare non la cedono ai più pratici marinari. Onde altri, piantate le piante ove più comode all’ intento scandagliate del laeo ha le seccarne, o o ^ appena leva le incallite calcagna e della deboi spuma le circonda, che circondato con le reti al muto pesce il vagabondo passo, o con fòscina lo uccide, o in van-gaiola lo imprigiona. Altri, non pur scalzo le gambe, ma ignudo insino alla metà, mentre ha notato quel pesce che a galla o più veloce nuota o più animoso guizza, egli o dentro a disteso rezzaglio lo avviluppa, o con l’amo lanciato lo strascina; ed infine, tanto al picciolo quanto al grande ei qui non la perdona, sin che sull’ umida riviera a’ lor trionfi non facciano corona le tremolanti prede, che in lunghi giunchi ne appresen-tano infilzate. Ce ne torniam dunque alle nostre stanze, non solamente la veduta peschiera commendando, ma la recata pescagione a quella del mare preterendo. Quella del mare il più delle volte è incomoda, e sempre incerta; questa della terra è sempre agevole, e il più delle volte anco sicura....... Dentro allo stomaco nostro, quei cibi che si nodriscono nell’ acqua, bisogna che si digeriscano nel vino. Ed ecco opportuno questo luogo a questo intento. Il vino che vi nasce, non cede ai Falerni in eccellenza, supera molti altri in frigidezza. Cantine di lui sono le grotte, il ghiaccio delle quali, sì come conserva la vita a quel liquore, così dona la vita a chi lo beve. Ma è tempo — 66) — di lasciare il bere ; già 1’ ora è di cavalcare. Già ci tro-viimo in Sant’Angelo a dormire. 16. Mi piglio briga nello sbrigarmi. Egli è da sapersi come questo Regno, eh’ è distinto in dodeci provincie, in ogni provincia ha per superiore un tal viceré del Viceré superiore. Chi loro imprestala vicendadeH’amministrazione, sempre non consegna (?) lo scambio dell’ integrità; anzi, talora e mandato a governare quel che più brama di far traffico del governo. Dall’ onore oggidì si cava 1’ utile: ben lo testifica la miseria dei popoli. I padroni di questi popoli rassomigliano i vassalli di questi presidi (i). Poco va che cadauno tra i limiti della gfiurisdizione abbia ripartiti i privilegi del dominio, se da questi, sotto colore di sopraintendenza, tengono impediti gli esercizi dell’ autorità. In questi tempi chi vuol giustizia, non s’ imagini di averla, se non per mezzo del comperarla. Col campanello dell argento in mano sian chiamati alle udienze : al suon di quello ciascheduno è sempre udito; non già sempre è compiaciuto, e spesse volte egli è ingannato. Chi non riceve gran torto si vanti di aver ottenuto grandissimo favore. Per mia ventura mi trovo or presente ove troppo è necessaria la continuazione dei presenti. Signoreggia chi forse in poche altre occasioni ha comandato ; e forse per comandare, in certe altre egli ha servito. Dio ci aiuti : « Nenia unquam imperium fi a git io quaesitum bonis artibus exercuit » (Tacito). Intenderà quel che voglio dire chi ha inteso ciò che di D. Martino Saiavedra si suol parlamentare. Il testo è di Tacito; t) Oscuro: ma per padroni di popoli intende i baroni, i feudatari!. Quello di prèsidi, poi, era il vero nome degli ufficiali preposti alle molte spartizioni del reame, e chiamati anche viceré, còme s’ è visto dianzi ; ma viceré di seconda mano. Vm Soc. Ltc. St. P*t*u. Voi. XXIX, Fise. 11. — 666 — lasciatemi tacere; « nam semel emissum volat irrevocabile verbum » (Orazio). Sì come la Fortuna il più delle volte non discerne le persone nel far pompa della sua possanza, così le persone non distinguono i meriti nel far onore a quei che son possenti. Poco importa eh’ egli meriti, o no ; importa a me eh’ egli da me non si senta dichiarato immeritevole. So che tutti eli altri lo visitano con doni : o io fo come o-li altri : eli indirizzo lettere in Montefusco, o o ove per venti miglia da qui lontano egli ha la residenza: e a’ complimenti dell’ ossequio accomiato i compimenti del tributo. i 7. Domenica, tra molte lettere che spedisco a Napoli per i miei negozi, ne scrivo una per gli altrui solazza-menti. Il Duca di Matalone è molto mio signore : vuole entrare in un Torneo, che in questi giorni per 1 arrivo del Conte d’ Ayala, fatto sposo alla nepote del Conte di Monterey, da quei titolati si apparecchia: mi comanda che gli mandi un cartello per lui particolare, che sia responsivo al generale : contenenza del quale par che sia questa: « Il mantenitor Flegetonte Altemideo vuol sostenere, che non essendo donna che non sia mobile, non è donna che sia fedele ; onde negli amanti la costanza nella fede sia gran parte di sciocchezza ». Ed io, per dimostrar prontezza uguale all osservanza, m’ ingegno a scordarmi de’ miei tanti anni, per servirlo coi seguenti scritti ; ne’ quali io so benissimo che più non può rendersi grato chi più non vale a far 1’ innamorato. Sia come si voglia, io gli scrivo in questa guisa : — 667 — « Mio Signore » Nel procurare di ubidirla, ho cercato di compiacerla. Questo secondo intento ha gareggiato assai col primo: il primo ho conseguito ; non so come il secondo avrò ottenuto. Fa quel che più deve, chi fa quel che più può. V. S. meglio, non pur di me, ma di molti altri avrebbe scritto.. Suo danno, se così mi ha comandato. L’invenzione della impresa dipende dalla risposta della sfida. Se vuole con la confacenza della livrea accompagnare la proprietà della comparsa, facciasi dalla sua Dama assegnare il color rancio ; « color hic aptus amori » (Ovidio) ; ma sopra tutto è il color dell’ Aurora, di cui La fingo degnamente cavaliere, mentre le rimango obligatamente servidore ». « A Flegetonte Altemideo » Quell' io che destinato non meno alle fortune degli » amori che.ai trionfi delle armi, idolatrando la più » bella luce di questo cielo, da quella acquisto il lume, » soffrirò che nubi d’ Incostanza si oppongano ai raggi » della Fedeltà ? Quell’ io che nato alla servitù delle » Donne son fatto grande nella giusta lor difesa, com-» porterò che mai lingua di oltraggio ardisca parlare in » lor dispregio? No, no; mente chi accusa le Dame di » essere infedeli; farnetica chi invita i cavalieri ad es-» sere inconstanti. Non è infedele il Sole, benché ne » suoi giri non stia fermo: tanto vive il Mondo, quanto » a’ moti di lui sempre sta saldo. Ma che ? non a prova — 66 8 — » d’ argomenti, a colpi di picche io qui ti voglio. Piglia » del campo: eccomi in pronto con questa asta, sopra il » tronco della quale fioriscono le vittorie, a farti or » avvedere che non hai petto da sostentare quel che » avesti bocca da profferire. All’ armi ! » Acidalio, Cavalier dell’ Aurora ». « Per dimostrazione non solamente della sua fede, ma della superiorità che in fede ad ogni altri egli pretende, la stella di Venere in impresa porterà. Questa stella, già sorta 1’ Aurora, appar sorgente ; onde nel campo di un • * * rischiarato cielo, nel tramortir delle altre, vivacissima dipinta, recherà occasione al motto : « Sì morendo altrui fè, mia fè non more ». Il qual motto vien dichiarato col seguente Sonetto : Se mai grato al mio amor Amor fia tanto Quant’io con la mia fede a Fè son grato, Come ha il regno di Fè, d’Amor lo stato Avrà pur chi abbia fede e amore accanto. E di Fede e d’ Amor tra quanti, il manto Cinti d’ onor, 1’ Onore han meritato, Come di più fedel, sì di più amato Avrà il mio merto meritato il vanto. Che 1’ amante mia Fè non è già quella Che porta il bianco in viso, il negro in core, Ch’ è, fingendo d’ amar, d’ Amor rubella. Ma, come viva al più vivace albore Fra 1’altre morte è 1’Acidalia stella, Sì morendo altrui Fè, mia Fè non more. 18. Lunedì. Se tutto il giorno d’ ieri da lettere di Napoli ebbi impedito, tutto quel d’oggi da lettere di Genova ho occupato. Manco male se alla occupazione — 669 — dell intelletto non si aggiungesse 1’afflizione dell’animo ! Non è accidente che più ferisca l’animo, della conturbazione dell’ anima stessa. Ogni altro dolore si può chiamar straniero ; questo solo dolore si deve addi-mandar suo proprio. La moglie è 1’ anima del marito. Nel sentir oggi male nove dell’ essere di lei , si argomenti come io sto. L’anima ha principio dal core, e si diffonde per le membra ; onde il corpo accoglie da lei qualità lieta o malenconica. L’amore, avviticchiato con le radici del-1’ anima, si abbarbica nel core ; onde, se chi ama ha godimento, gode l’anima; se ha patimento, l’anima patisce (i).......... 19. Martedì, non posso più far resistenza agl’inviti della mia Andretta, non che agli stimoli della mia volontà. Quei giorni di questa mia dimora in queste parti, furono annoverati da lei, non secondo il conto delle ore, ma secondo 1’ abaco dei minuti. Ella par che cominci a rinfacciarmi, che per troppo trattenermi intorno al capo, io mi dimentichi del piede. I miei popoli, impazienti ormai della dilazione, facendo instanza perch’io favorisca la lor stanza, supplichevoli dicono: Venite, o signore, venite allegramente; la nostra bassezza non induca nel o ’ grand’ animo vostro oblivione dalla nostra fedeltà. Venite, venite felice; che quanto più umili al vostro impero, tanto più devoti al vostro nome, vi faremo provare che « Sunt hic etiam sua pracmia laudi » (Vf.rgilio). Compiaccio dunque a me stesso, mentre ad altri sodisfaccio. Già sono a cavallo: e già molti a cavallo, da quella mia (1) Seguono sette grandi pagine in lode dell’amore coniugale; ma senza nessun altro accenno al mal essere di D. Brigida. Di certo non sarà stato gran cosa. — 670 — terra alla mia casa venuti per accompagnarmi nel cammino, son fatti precursori nel sentiere. Sul mansueto giogo di placide colline stampiamo le nostre orme. Da lunge discoverta raiihcruriam la faccia al luoeo: non tardiam O o molto che ce le avviciniamo assai. Mostrano quei di dentro con fochi e con saluti di foco la fiamma dei lor cori : ma nel mezzo del viario molti usciti di fuori te- 00 stificano con 1’ opre quell’ allegrezza che quei di dentro esprimono coi segni. La moltitudine di milizia in arme, la gente di governo in ordine, sono ad incontrarmi in schiera. Ma schiera che più destasse all’ occhio 1’ allegrezza, o più movesse al cor la tenerezza, non vidi ancora altrove, quale in questa occasione veder mi fece questa terra. Imperciocché per lungo tratto fuori delle porte di essa inviò per mio ricevimento un centinaio di vergini fanciulli, che tutti di bianco, quasi tanti angioli, vestiti, di lauro coronati, alla mia volta processionalmente qui condotti cantatori di certe imparate lodi, di rami d’olivo mi si offersero portatori. Questi da me con paterne accoglienze ricevuti, avanti a me, dietro a verde loro stendardo, ove le mie insegne dispiegavansi, indirizzati, allora presero commiato, quando alla soglia del preparato albergo mi videro pervenuto. Nello scender eh’ io fo da cavallo, sale su certo pulpito un giovane oratore, che in verso esametro recita in mia gloria un lungo encomio. Ma quale- strada ha questa terra, o qual cantone ha in queste strade, che per ornamento di molti archi alla rusticana trionfali non si adorni d’imprese e di versi in mio trionfo? Io non dirò già che tutti questi versi (dei quali io volli copia), sì come furono — 671 —- in copia così fossero in perfezione: ma sembravano perfetti, quanto al luogo e alla occasione. A tale Achille, tale Omero. Ricevo da quel Comune, dentro un buono alloggiamento, un buon desinare. Ricevo indi ad una ad una le suppliche di tutti. De’ lor negozi altri spedisco, altri incammino, alcun non lascio a dietro. Cala intanto la giornata, e verso il rovinato castello io prendo la salita : dalla ertura di questo sito godo la bella veduta della circostante pianura: nel mio ritorno all’ospizio osservo molti balli intrecciati alla solennità della mia comparsa per quelle solazzevoli brigate. Per non mostrarmi severo, me ne mostro curioso: alla line il mio letto mi chiama al mio riposo. 20. Ma quanto più mi corcai per tempo, tanto più per tempissimo mi sorgo. A pena comparso è il Mer-cordì, che in piedi io comparisco. So che Monsignor Rangoni per una parte, e Marc’ Antonio Cristiani mio principal vassallo per un’altra, infoltita de' lor cacciatori e de’ miei sudditi la campagna, tengono assediata ogni intorno la gran selva, ove non pur i cervi più veloci, ma i cinghiali più feroci hanno lor stanza. Già sento dal battere dei bastoni, dal ringhiare dei cani, dal romo-reggiar dei corni, i cervi posti in fuga, i cinghiali posti in battaglia. Già vedo quegli, nell’urtar di attraversata rete, volendo ritornare a dietro, imprigionar una delle gambe di dietro in fra le acute zanne di fervido molosso. Già miro questi, dopo alcune tortuose rote del suo corso astutamente obliquo, da sanguinolento mastino soprag-giunto, e nell’uno degli orecchi tenacemente afferrato, invan spumoso la bocca, voltar contro di lui dente lu- — 672 — nato; quando avveduti i cacciatori, più segretamente che possono alla rattenuta fiera si avvicinano; e quivi, o con spade, o con spiedi, nell’ ispido pelo penetranti, mortalmente lo feriscono; che ben sanno essi, che, sì come le strida contro 1’ assalito sono pericolose per chi assalta, così più celato il ferro del feritore fa più sicuro 1 eccidio del ferito. Sarebbe più facile ammazzarlo con lo schioppo, se non fosse men glorioso. La gloria non sta tanto nel vincere, che molto più non stia nel gloriosamente guerreggiare; imperciocché questo vien dalla bravura, quello dipende dalla sorte.......... Ma nobil mensa sotto ignobil tetto, in questo solitario campo, in questo mentre è apparecchiata. L’ora di fruirne è già venuta: eccoci a tavola. Quivi non tanto ci confortiamo nella dovizia di queste bestie cotte, che abbiamo avanti in abbondanza, che molto più non ci rallegriamo nel cumulo di quelle bestie morte, che presso a noi te niamo a mucchio. E mentre andiam pensando coi repar- * • titi nostri doni di pubblicar le trionfanti nostre spoglie, io dico un mio pensiere : Chi mi negherà che di que duo fratelli, l’uno alla vita cittadina, l’altro alla vita rustica applicati, non fosse il Zeto per sua buona ventura nato al vivere, e non fosse l’Anfìone per sua mala sorte nato al morire? se, mentre quegli, allontanandosi dalle miserie della città per possedere i tesori della villa, ad altro non bada che a goder la libertà della natura e a ridurre in servitù le belve della selva, questi all’incontro , banditosi dalle delizie della villa e datosi alle brighe nella città, ad altro non attende che a strascinare le pietre, onde, fabricando a Tebe il muro, compone a sè medesimo il sepolcro ? Per farsi tener politico, si farà - 673 — sempre tener stolido colui, che per ambizione di comandare comincia dalla soggezione del servire ; anzi, per far la casa altrui, disfa la propria. Questi, poi, non si lamenti, se ne riporta gli odii in pagamento; perchè d’altra moneta non deve esser pagato chi per vano stento apparve scimunito. Dall avidità delle dilettevoli nostre caccie trasportati, fin colà siamo oggi pervenuti, che i boschi d’ Andretta s intrecciano con quei di Carbonara. Non più oltre, io dico ; non si mova il passo ove non ho il possesso ; diansi le spalle a quel luogo, che, per quanto sia mio, non sembra mio ; quel luogo che è meta al nostro Stato oggi sia meta al nostro corso. E prima che il corso del sole arrivi a fine, verso il nostro Sant’Angelo finiamo il nostro giorno. 21. Giovedì, a questi popoli prestata la solita udienza. Al solito, coi miei popoli me ne sto nella mia stanza. Mi pongo a scrivere per descrivere. La descrizione sarà di questi paesi, che, comprati, ora al fine ho pur veduti. Sarà breve questa, perchè son pochi questi: non mi sarà senza profitto ; perciò non mi sarà* senza diporto..... Come si è accennato, i termini ad Andretta sono i confini di Carbonara. Gli ultimi confini di Carbonara sono termine ai primi di tutto questo Stato. Dai primi agli ultimi si misura (e col passo di gigante) lo spazio di trenta miglia per diametro; avvegna che dal ponte del-1’ Olmito a Nusco sono miglia tre; da Nusco a Sant Angelo cinque ; da Sant’ Angelo ad Andretta otto ; da Andretta a Carbonara otto; da Carbonara a quest ultimo suo territorio, che con quello di Melfi si dà mano, miglia sei. « — 674 — Sta il corpo di tutto questo Stato, senza distrazione d’alcuna delle sue membra, unito nel grembo di Principato Ultra. Siede sopra erture, che per la maggior parte si sollevano in colli, per alcuna in monti; questi non molto aspri, quelli assai dolci; gli uni e gli altri in tutto fertili; perchè dove, non essendo la pianura, non si semina il frumento, o si piantano le viti, o si coltivano i giardini; e dove non sono o questi o quelli, ingrandiscono i cerri, le quercie, e i castagni; piante che al paro delle domestiche vengono ad essere fruttifere. Tutti gli elementi paiono a lui stati propizi. Imperciocché l’aria da un orizzonte sospeso vi soffia spiriti purificati, e però in ogni stagione salutari ; la terra, in ricompensa del non suggerir grossi vapori all’aria, dall aria fecondata, copre di grossa polpa talmente le sue membra, ch all a-rator già mai non mostra Tossa; 1 acqua, ch è il latte della terra, per le poppe della natura non lascia man carvi il nodrimento opportuno agli appetiti, non che ne cessario a’ bisogni. Perchè, dove non scorrono i fiumi Olmito ed Ofanto che lo circondano, sboccano innumerevoli vivagne che lo irrigano. Solamente si può dire che gli manchi il foco, o almeno gli sia scarso, essendo anzi che no freddo il paese. Ma non gli mancano legna, onde il foco materiale emenda la mancanza del foco naturale. Le cascine per la campagna non sono rare ; le case nelle due città e nell’ altre terre sono spesse. Di qui è che nell’ abitato le strade sono anguste ; le abitazioni, nel di fuora rustiche, nel di dentro polite, per lo più sono strette ; alcune comode. E gli abitatori, quasi tutti poveri, certiduni facoltosi, egualmente vivono, o di quel - 675 — che cavano dai lor poderi, o da quel che procurano dai lor lavori. Quanto sia il numero di loro (come quelli che per isgravarsi dal peso de’ fiscali, per quanto possono, si nascondono) anco alla Regia Camera riesce tanto difficile a sapersi, che non avendo catasta di fochi che sia certa, ogni giorno la rinnova. Quel che pare possa alquanto avvicinarsi al vero, è quel che dai libri delle parrocchie si è studiato di sapere. Da questi il calcolo veduto è questo: in Nusco anime quattro mila; in Sant’Angelo tremila e cinquecento ; nelli Leoni due mila ; in Andretta due mila cinquecento; in Carbonara quattro mila; somma delle quali è il numero di sedeci mila. In ognuna di queste terre, oltre le cattedrali, sono più chiese, e molto ben guernite, così di canonici e di preti, come di cappelle e di apparati. Vi sono inoltre alcuni monasteri di frati conventuali e di riformati; per i quali, o bastano le rendite, o suppliscono le lemosine. Resterebbe a dire delle fabbriche pubbliche : ma già dei castelli e delle masserie ch’ai Barone si appartengono, ho fatto menzione. I viveri di questi terrazzani sono i frutti di questi territorii. Questi frutti sono in copia e in bontà. Particolarmente in numero e in perfezione sono le galline, forse perchè vivono di ruspa, essendo che in queste bande • • quei soli s’ingrassano che ruspano. Dunque, se qui si vogliono le provvigioni per lo solito mantenimento necessarie, vi è abbondanza: se, oltre il solito, per accidenti straordinarii si ricercano, vi è penuria. Ben è vero che dai vicinati sogliamo essere provveduti. Sono alcune madri buone che fanno le figlie cattive, e sono certe — óyé — madri cattive che fanno le figlie buone. Sì come dal-1’ abbondanza vediam nascere il dispregio, così dalla penuria vediam nascere 1’ abbondanza. L’ ingegni e le complessioni di questi uomini si confanno secondo 1 luoghi, e si disconfanno secondo gli uomini. Questi in ordine cittadino e in ordine contadino vendono distinti. I contadini, dalla feracità della cani- C> , pagna fatti neghittosi, per quanto nascano robusti, si allevano tanto pigri, che più tosto a mani spenzolate bene spesso si spasseggiano, di quel ch a suoi tempi con la vanga in mano si lavorino. Infelicità partorita dalla felicità ; miseria comune a somiglianti comunità ; che però Platone indirizza le colonie a luogo disastroso, e dal mare separato. Al mare non sono essi già tanto vicini, che possano effeminarsi negli agi, o trattenersi ne traffichi di lui ; avvegna che, sì come il più vicino lido, ch e quel di Salerno, per trenta miglia è separato, così il più vicino porto, eh’è quel di Napoli, per quaranta miglia sta discosto. Ma in ogni modo non sono come 1 Belgi, dei quali, nelle montagne faticosi e nelle fatiche valorosi, Cesare osservò sì come il lor patire fosse stimolo al lor ben oprare; « propterca quod a cultu atque humanitate provinciae 'absunt (Comment.). Nè sono come gli alpini Genovesi, de’ quali sì ne’ tempi moderni come negli antichi le prove passarono alle maraviglie, principalmente per essere da que’ monti invitati a’ loro stenti; onde Vergilio, dimostrando nel loro travaglio il lor valoie, n’ebbe a dire: « Assuetumque -malo Ligurem ». Altresì questi cittadini per lo più sono infingardi, e , per conseguenza per lo più si vedon poveri. Se i contadini odiano la fatica, i cittadini non amano la industria. - 677 - Quelli si contentano di quel poco che giorno per giorno si procacciano: questi si appagano, come se fosse molto, di quel poco che possiedono..... Nel rimanente, questi popoli, non avvezzi alla libertà, non la conoscono; e perchè non la stimano, non la bramano. Ma perchè da cinquant’ anni in qua, essendo sempre vissuti a posta degli affittatori, non hanno mai veduto la faccia dei naturali lor padroni, si sono assuefatti ad una certa licenziosa lor comodità, che senza distorsi nel pensiero della pubblica servitù, fa loro desiderare una tal privata libertà ; onde « nec totam libertatem nec totam servitutem pati possunt » (Tacito). Rimane a dire quel tanto che al padrone la rendita di questi luoghi può importare. Qui non mi piace, col darne ragguaglio per minuto, mostrarmi aritmetico minuto. Basti il sapersi che per dieci mila ducati ogni anno può assicurarsi. Onde la compra per duecento mila non pur sarebbe stata favorevole, ma utile; se l’utile di chi trattò, repartito con chi vendè, non mi avesse sì ingannato, che ne sarei molto discontento, se non sperassi in brieve di esserne anco uscito. Ho fatta pertanto la revocazione dell’ instrumento; non già per-appartarmi dal contratto, ma per migliorare nell’ istrumento. Faccia Dio. Frattanto, non posso sofferire che alcun per questo mio dominio si venga meco a rallegrare. « Lasciate finir la o o fabbrica », diceva quel grand’ uomo che fu D. Alvaro de Luna, quando col Re di Castiglia cominciò la sua fortuna. I lavori non si devono lodare dai principii, mentre avanti il fine sono sottoposti a mille opposti avvenimenti. E in ogni caso, in quell’edificio che appena è cominciato ad ingrandirsi egli è sciocchezza il cominciare ad adagiarsi. — 678 — Ecco la notizia de’ miei paesi, e de’ miei paesani. 22. Ouelli ogroretti che nel o-iorno avanti furono in noi ^ 00 o conceputi dall’idea, quei medesimi nella notte seguente vengono allevati dalla fantasia. Onde ad occhi chiusi noi vediamo quelli aspetti per imaginazione, che ad occhi aperti contemplammo per essenza; Che il sogno è pur vago pittor notturno, Che quei sembianti che dal giorno ha tratti Pinge di notte in fragili ritratti. (Stato Rustico). In tutta questa notte andata, quella descrizione che feci ieri mi è dalla memoria al guardo suggerita. E mentre, eziandio dormendo, in quel tanto che scrissi vo al mio solito pensando, parmi nel meglio del dormire di sentirmi da una tirata d’orecchio risvegliare. Sento la mano de-statrice, non la veggo: nell’aspetto divino parmi di vedere il Filosofo divino. Non tanto mi affido alla maestà del suo canuto volto di raffigurarlo, che tanto più non mi assicuri alla voce del suo dotto linguaggio di conoscerlo. Quando egli così mi disse: « Ridiculum est, cum quis sua ignoret, aliena scrutari gesta (Platone). E questo detto, sen sparì: ma questo suo detto, poi ch’io non era allor più addormentato, nell’intendimento mio sì ben restò, che non più se ne partì. Non lascio dunque partir l’alba del Venerdì, ch’io non parta dal mio letto. E mentre non faccio altro che ripetere quella lezione, che da sì gran maestro mi è stato lecito ascoltare, rinchiuso nello studiolo della mia stanza, e molto più nel camerino della mia mente, vo non pur meditando ma scrivendo quelle parole che dal milesio — 679 — Talete sovra la porta del tempio Delfico fur scritte: « Nosce te ipsum ». Le quali, confrontate con quelle di Platone, mi danno ad intendere, che sì come per lo governo degli altri non è cosa più profittevole che la cognizione degli altri, così per lo governo di sè stesso non è cosa più necessaria che la cognizione di sè stesso. Necessaria quanto malagevole è la propria cognizione ; ma niente men lodevole e gloriosa. Di questa ogni uom privato ha di mestieri ; ma ogni persona pubblica molto più tien di bisogno.....(i). 23. Sabbato; quel che si è detto del buon Principe non basta. Pertanto la mia mente non si acquieta, se in tutt’ oggi io non proseguisco nello scrivere quella faccenda che ho cominciata a raccontare. Il ritrovarmi nel governo mi fa venir voglia, più per mio bisogno che per altrui profitto, di andar esaminando i documenti che al ben governare io reputo importanti .... (2). 24. Domenica. Perchè dov’ è nobiltà non può essere villania, e chi non è villano non è scortese, questo Vescovo nella liberal continuazione delle onorevoli sue dimostrazioni, persevera in farmi vedere come più dell antica nostra amistà che della moderna nostra differenza egli si voglia raccordare. Non fu mai smemorato chi non desiderò di essere ingrato. « Et bene apud memores veteris stat gratia facti (Vergilio). Egli sa che per quei fini che altrove io dichiarai, de- (1) Segue una lunga serie di considerazioni sulle virtù necessarie in chi dee comandare. (2) Seguono, per quattordici pagine, 0 poco meno, altre considerazioni sulle qualità dell’uomo di governo, sulle varie forme di governo, e sui doveri della nobiltà, fondata anzitutto sulla virtù, come origine unica del comandare. - 68o - sidero osservare il territorio della Guardia, che posto sui confini di questo Stato, pare appunto che, lo guardi. Questa terra non è più che per tre miglia lontana da questa città; e perch’ella vien compresa nella diocesi di lui, porge occasione a lui di chiamarmi alle graziose caccie di quelle fertili colline. Onde, sì come altra volta e