ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME XXVII GENOVA TIPOGRAFIA R. ISTITUTO SORDO-MUTI MDCCCXCV ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME XXVII GENOVA TIPOGRAFIA R. ISTITUTO SORDO-MUTI MDCCCXCV LE MONACHE NELLA VITA GENOVESE DAL SECOLO XV AL XVII PER M. ROSI ■ e torri medioevali abbellite da castellane gentili, le città piene di mistero e di lotte, frammiste talora con poetiche voci di fidenti cantori, parvero degne di studio a non pochi valenti, mentre altri pensarono ai claustri solitarii abitati da vergini, che, pregando per tutti cercavano allontanare i flagelli della guerra. Anche leggende si formarono intorno a quelle vergini egregie, e il poeta amò tratteggiarne la vita silenziosa, aiutato in questo dal popolo, che vide in esse le sue fate benefiche. La sacra vergine dei primi secoli, dalla fede infiammata e da carità mossa, vedeva in sé una creatura dappoco, che doveva purificarsi e sollevarsi dinanzi a — 8 — Dio ed agli uomini colla preghiera e colla pratica delle virtù. Essa accorreva al chiostro fervente di puro amore, pregustante celestiali piaceri, stanca del mondo senza averlo conosciuto, convinta che in terra tutto sia triste, tutto impuro, e quindi cupida d’acquistarsi un’altra vita meno dolorosa e spoglia di ogni materialità. La coscienza dell’ umana miseria le faceva sprezzare il viver sociale, un’idea religiosa la conduceva al chiostro, e ve l’accompagnavano la speranza di un bene futuro per sé e il desiderio che le sue preghiere riuscissero utili all’ universale. Non sognava ancora monasteri cambiati quasi in fortezze, non serve ossequiose, non vassalli avviliti; molto meno temeva che altri pensieri profani turbassero la quiete del chiostro, dove solo era chiamata a beneficare, pregare e soffrire. Mutarono i tempi : non più la fanciulla da ideale religioso mossa, non più la vergine pensosa solo della propria spirituale salvezza e del bene altrui, non più la ragazza sprezzante del mondo e de’ suoi piaceri, correva al monastero; vi era spinta invece la figlia di ricchi genitori, cui tornava grave 1’ accumulare una dote degna del casato, o la giovanetta che sperava dal chiostro vita quasi oziosa in luogo del lavoro assiduo, che la condizione di sua nascita le imponeva. Quindi anche da buone famiglie usciranno fanciulle con dote scarsa, lasciando lieti i parenti che av- * X ranno di che arricchire il fortunato primogenito, il quale, spettatore del martirio della sorella, si preparerà ad imitare a suo tempo il paterno esempio sulle figlie che verranno. Il convento avrà più numerose abitatrici, crescerà in mondana dignità, e sarà maggiormente stimato dal volgo che ama inchinarsi al blasone ed allo scudo; ma frattanto la monastica rigidezza resterà patrimonio di poche, le altre si goderanno il lusso, e con gioia lasceranno le preghiere per ricevere i nobili parenti, e non questi soli, i quali con libero linguaggio loro parleranno di feste d’ ogni genere e avranno cura d’ informarle persino degli scan-daletti più recenti. Ed allora si ridestano sentimenti che si volevano morti, rinascono pensieri che parevano dimenticati, ed il cuore, che si credeva soltanto destinato a battere per il cielo, è mosso ormai da ben altri stimoli. Invano, alcuni padri in principio, ed in seguito quasi tutti quelli che avevano due soldi da spendere, han cercato di far diminuire le tentazioni mandando le figlie, ancora bambine, in mezzo a monache curanti di farle innamorare del chiostro, di condurle a credere che tutto quanto Dio aveva creato di bello e di amabile si trovasse nella vita claustrale. La natura ha le sue esigenze, e più che mai le impone quando a giovinetta ignara del mondo reale, se ne dipinge un altro cosi diverso, quando le si fa credere che il cuore ha diritto a gioie che si possono godere anche nel chiostro, che anche l’ambizione può soddisfarsi, e che il monastero più offre, quanto più chiara é l’origine, quanto più abbondanti son le ricchezze dei parenti. L’abnegazione di prima, il sentimento di sacrificio sono venuti meno, si ritorce lo sguardo dal cielo, si volge alla terra. Le orazioni regolamentari, le cerimonie sacre imposte dai superiori si riducono a mere formalità, e la religione così intesa si può conciliare con sentimenti ben diversi, e ancora con azioni non tanto conformi al servizio divino. La vergine de’ primi tempi, che sentivasi chiamata a guadagnare per sé la salute eterna, e per gli altri beneficii non piccoli, convertesi a poco a poco in una reclusa forzata, alla quale, in luogo della rassegnazione o dell’ entusiasmo antico, si voglion dare meschine soddisfazioni d’amor proprio. Essa allora non capisce perchè tutto debba limitarsi al chiostro, per disprezzare un mondo che non ha mai ben conosciuto, un mondo, sia pure pieno di guai, ma la cui eco attraverso le chiuse finestre giunse ai suoi orecchi gradita, solleticante. Pian piano si apriranno le finestre, poi le porte, ed alla povera reclusa arriverà libera l’aria delle strade; sentimenti indefiniti le agiteranno 1’ animo, passioni violente più tardi le scuoteranno il cuore, essa cesserà di essere solitaria custode dell’altare e tornerà nel mondo. Cosi in ogni parte d’Italia abbondano monache dimentiche dei propri doveri; Chiesa e Stato se ne impensieriscono, ed in qualche luogo sorgono speciali magistrati in aiuto ai diretti superiori dei monasteri, nei quali si cercherà di ricondurre 1’ esatta osservanza delle regole. E non si tratta di fatti isolati, di rare eccezioni, par proprio che molte e molte monache gareggiassero coi laici nel mal fare. Il Marcotti nel suo grazioso libro Donne, e monache (i) ne dice di belle. Aggirandosi fra le monache veneziane, trova che per lunghi anni tutti i voti a cui si obbligavano venivano offesi, e con dovizia di documenti ampiamente il dimostra. Qui badesse insignite di feudali diritti che sui vassalli (i) G. Marcotti, Donne e monache. Firenze 1884. Per le monache veneziane vedi pure il Molmenti, La Storia di Venera nella vita privata. Parte terza, cap. VII. Torino 1880. — II — fan sentire il peso di lor prepotenza, là monache vagabonde ed impudiche, che spesso anche da preti aiutate, si danno in braccio a men nobili passioni, più oltre gentili fanciulle astrette al chiostro da parenti avidi, e che pare volessero dimostrare coi fatti che la lor vocazione non era stata intesa. Notizie ampie sulle monache romagnole ce le procurava Corrado Ricci, pubblicando la Vita della madre suor Felice Rasponi (1), ed illustrandola con diligenza e dottrina. Questa bella biografia dovuta, a quel che sembra, ad una monaca del Cinquecento, è una ricca miniera di notizie pei costumi monastici del secolo XVI. I pettegolezzi , le gare, le invidiuzze sono efficacemente ritratte, non meno dei sacrileghi amori, e la schiera numerosa dei monachini si rappresenta con fedeltà e vivezza grandissima. L’ opera ha una certa tinta romanzesca, ma il fondo dei fatti narrati ha forse più verità di quello che può sembrare a prima vista. Difatti i mali principali, cui la biografia di suor Rasponi svela, richiamano l’attenzione dei superiori, che in vari tempi e a diverse riprese danno ordini per assicurare la clausura dei monasteri, e per togliere ogni mezzo che in qualche modo potesse servire a far dimenticare alle monache i voti cui si erano astrette (2). Nè la Curia Romana poteva restare indifferente. Lasciamo gli ordini d’indole generale dati per le monache tutte, e rammentiamo sol di passaggio alcuni decreti fatti per singoli monasteri. (1) Vita della madre Felice Rasponi, scritta da una monaca nel 1570, e pubblicata da Corrado Ricci. Bologna 1883. (2) Vedi nell’ op. cit. le illustrazioni del Ricci, p. 209 e segg. — 12 — 11 29 luglio 1525 si comanda al Vicario del Vescovo di Verona di eseguire la riforma, già ordinata, dei conventi di S. Chiara e di qualunque altro ordine (1). Il 9 febbraio 1526 si fa altrettanto al Generale dei minori conventuali (2). Il 22 marzo 1^28 si raccomanda al Vicario del Vescovo di Ferrara, e al Priore della Certosa, di riformare le monache della Ca bianca, perché questo monastero tam in capite quam in membris deformatum est, e perchè le monache vitam a religione alienam ducunt; e così di seguito (3). Quindi non farà meraviglia se in qualche parte d’Italia alcuni monasteri erano « ridotti a pubblici postriboli » (4), e se altrove « le tresche lascive erano frequenti » (5). E neppure farà meraviglia se in tanto dilagare del vizio, i più finivano coll’assuefarvisi, e ne parlavano ormai come di cosa assai naturale, ed entrata quasi quasi nelle abitudini comuni, tanto che nel Cinquecento l’accuse di amori sacrileghi erano divenute molto frequenti e certo non producevano quell’ effetto che altri credette (6). Ma questo non è il luogo di regalare uno studio sulle (1) Documenti vaticani contro 1’eresia luterana, per B. Fontama, p. 28. Roma 1892. (2) Pubb. cit. p. 30. (3) Pubb. cit. p. 37. Vedi nella stessa pubblicazione ordini per le monache di Venezia, Padova, Treviso, per la Lombardia ecc.; tutti ordini che mostrano le tristi condizioni dei monasteri. (4) Il Mutinelli. Storia arcana e anedottica d’Italia, Venezia 1855, voi. I, a p. 170, cita un dispaccio veneto del 10 aprile 1585, dove si dice che « i monasteri di Venezia e Torcello sono in mal stato e ridotti alcuni di loro a pubblici postriboli ». (5) Il Santo officio dell’Inquisizione in Napoli, per L. Amabile. Città di Castello 1892. voi. I, p. 325 e segg. (6) Ved. A. Borgognoni. (Lorenzo di P. Francesco dei Medici), Studi di letteratura storica. Bologna 1891. — i3 — monache d’Italia, e domandiamo scusa di aver trattenuto alquanto il lettore prima di venire al nostro vero argomento. Egli ce lo perdoni. Dovremo dire delle monache genovesi cose non sempre belle e lodevoli: ci rincrescerebbe davvero se taluno losse indotto a ritenerle peggiori delle loro sorelle d’ altre parti d’ Italia. PARTE PRIMA LE MONACHE GENOVESI AVANTI IL SEICENTO CAPO PRIMO. Le monache genovesi, lo Stato e la Chiesa sino alla definitiva costituzione d’un permanente Magistrato delle monache. u detto che per alcuni secoli si ebbe nelle monache grande fiducia, e vi fu grande parsimonia di ordini e decreti a loro riguardo. Può darsi che in pieno Medio Evo vi fosse di essi minore bisogno, e che le monache attendessero al santuario con amore ed onestà, che dessero esempi di morigeratezza e d’ ogni più bella virtù ; può anche darsi che meno acuito fosse il senso morale e si apprezzasse di più il sistema del lasciar fare, lasciar passare. Certo si é che i documenti e le memorie genovesi nulla di particolare ricordano intorno a questo, e che dobbiamo giungere sino ai primordii del secolo XV (i) per trovare l’arcivescovo Pileo De Marini (i) Dapprima era nostra intenzione restringere lo studio al secolo XVII, perii quale abbiamo fonti copiose. Ma poi essendoci parso che il lavoro restasse un po’ isolato, ci decidemmo a premettere un’altra parte che contenesse tutte le Atti Soc. Lio. St. Patriì. Voi. XXVII. a — i8 — lodato qual severo moderatore de’ costumi frateschi e monacali (i). Ma col procedere di questo secolo le cose cambiano assai, e delle monache devono occuparsi non solo Governo e Arcivescovi, ma perfino i romani Pontefici. Nel 1444 la Repubblica mossa dalle preghiere dei cittadini, eh’ erano disgustati per il vivere sregolato delle monache dei Santi Giacomo e Filippo all’ Acquasola, pregava Eugenio IV a porvi rimedio col mandarvi Suor Filippa Doria allora nel convento di S. Domenico a Pisa.,-Aderiva il Pontefice, e 1’ opera della Doria parve che riuscisse veramente utile (2). Tre anni appresso le cisterciensi di S. Sepolcro in Sam-pierdarena ricorrevano esse stesse al Governo, denunziando di essere angariate dai monaci di Tiglieto frequentibus visitationibus variis oneribus presertim tributis... pecunias quot modis possunt ab eis extorquendo; e pregandolo a sottrarle all’autorità di quei monaci, che pretendevano di avere giurisdizione sul monastero (3). Il doge Giano di Campofregoso riconosce la giustezza dei lamenti e prega il Papa a contentarle, avvertendo di sapere inter illas mulieres variis modis pleraque fieri minus quam honesta, e esprimendo 1’opinione, che coll’ accogliere la domanda, si sarebbe recato honestati illius monasterii et commodis adiumentum (4)- notizie che si hanno delle monache anche nei tempi precedenti. Quindi la prima parte deve considerarsi principalmente come introduzione alla seconda, che è assai diversa e per 1’ ordine e per 1’ ampiezza. (1) Belgrano, Vita privata dei Genovesi, cap. LXXXIV. Genova, Tip. Sordomuti, 1875. (2) Belgrano, Op. cit. cap LXXXIV, pag. 476. (3) R- Arch. di Stato in Genova. Registro litterarum (a. i447'4^)- Minuta di lettera in data del 16 decembre 1447. (4) Loc. cit. — i9 — Ma il male non si restringeva ad uno, o a due monasteri soltanto. Quell’ immoralità, che serpeggiava in ogni classe di cittadini, toccava anche le monache in generale, e nel 1459 il Governo impensierito pensava agli opportuni rimedi. Il 25 marzo di quest anno si fa una solenne adunanza dei dodici anziani e di altre magistrature, presieduta dal luogotenente regio, e si tratta dei gravi peccati che si commettono dalla gioventù genovese , malgrado le ammonizioni dei predicatori (i)-E si aggiunge.' preter hec petulans audacia et impudentia monacharum totam per urbem assidue discurrentium, et parum continenter parumque religiose viventium. Per cui si eleggono quattro cittadini Pietro De Montenegro, Eliano Spinola, Lodovico de Franchi e Babilano Grimaldi, ai quali si aggiungono tre sacerdoti: il vicario arcivescovile, un padre dei predicatori di S. Maria di Castello, ed un padre lateranense di S. Teodoro. Devono i quattro laici riguardarsi come censores morum ad compescenda eiusmodi peccata, e servirsi del consiglio e dell’ opera dei sacerdoti, ogni qualvolta vogliano, presertim in negociis ad monachas et ad sedanda civium odia pertinentibus. L’ opera di questa commissione parve che tornasse utile, e certo si ritenne necessario l’avere uomini pratici e dabbene che delle monache si occupassero. Prova questa efficacissima per dimostrare che i costumi di esse richiedevano cure particolari. Difatti nel 1462 si aveva una specie di magistratura che doveva esclusivamente pensare a questo, e nella quale eran (1) Il verbale di questa adunanza si conserva nel R. Arch. di Stato. Diversorum a. 1459-60, sotto la data 25 marzo 1459. ^0Ci — 20 — chiamati i nobili uomini Nicolao Giustiniano, Matteo Fieschi, Antonio di Cassiana e Antonio Doria. Il 18 aprile di quest’anno il doge e gli anziani, ricordato di avere giorni avanti scelti insieme coll’ Arcivescovo i quattro cittadini suddetti, ad tractanda remedia quibus monacharum pudicitia cohiberetur, affidano loro 1’ ufficio ut ipsi reverendissimo Archiepiscopo frequenter assistant, memorando, sollicitando et, ubi opus esset, consulendo quod et quibus viis agendum foret, ut remedia tandem adhiberentur contra impudentiam ipsarum monacharum (i). Peraltro non era facile ricondurre sulla retta strada donne da lungo tempo assuefatte a soddisfare i propri capricci; e difatti, il io gennaio 1468, in piena seduta del consiglio degli anziani e di altre magistrature, si nota: quam ignominiosum sit diutius pati tantam monialium civitatis 111 vivendo licentiam, que usque adhuc nullis legibus aut modis coherceri potuit. Ita ut demum crescentibus malis et publico civitatis dedecore necessarim sit ad apostolice sedis auctoritatem confugere, et ab ea remedium postulandum (2). In seguito a che si delibera di mandare un ambasciatore al Pontefice, il 12 dello stesso mese si elegge a quel-l’ufficio Ambrogio Spinola e si vota la spesa di trecento auri (3). Che effetto avesse quell’ ambasceria non conosciamo direttamente, sappiamo però che anche nel 1472 i mali deplorati continuavano e che i cittadini mandati da (1) R. Arch. di Stato. Diversorum a. 1461-62. Deliberazione del 18 aprile 1462. In margine porta : Contra monacharum impudentiam. (2) R. Arch. Diversorum annor. 1466-68. Deliberazione del 10 gennaio 1468. Doc. II. (3) Id. id. Deliberazione del 12 gennaio 1468. Doc. cit. — 21 — Genova a congratularsi con Sisto IV, trattarono anche dei rimedi opportuni per ricondurre le monache sulla via dell’onestà (i). Sisto IV delegava a rimettere l’or> dine tre religiosi forestieri, che insieme coi quattro cittadini già eletti, nel fatto ormai pare costituissero un vero Magistrato delle monache (2). Peraltro all’ opera loro si oppongono le monache ed anche preti interessati ad impedire ogni riforma, le une e gli altri mandano persino delegati a Roma e ottengono che la quistione sia deferita alla Rota romana, dinanzi alla quale viene citato 1’ Ufficio dei quattro. Il Governo genovese se n’ ha a male, ma pure ritenendo « vergognoxa coxa dovere cau-zare a Roma cum le moneghe e preti per tale caxion », delibera di lasciare all’ Ufficio dei quattro libertà di scrivere, o di mandare persona al Papa per informarlo della necessità d’una riforma, e di lasciar poi ogni decisione alla coscienza del Pontefice. Si pongono intanto a disposizione dell' Ufficio cento fiorini per le spese occorrenti (3). A questo punto non vorrà negarsi che davvero tristi fossero le condizioni morali delle monache genovesi, cosa questa che é provata ancora da una lettera che frate Giovanni da Udine, generale de’ minori francescani, scrive il 10 gennaio 1472 a fra Giovanni dei Franzoni, ministro della Provincia di Genova, al quale assicura che i frati e le monache vivono disonestamente senza freno e senza religione (4). (1) Schiaffino, Annali ecclesiastici della Liguria, voi. Ili, p. 592, a. 1472. Ms. nella Bibl. della R. Università. (2) R. Arch. Diversorum 1471-72. Deliberazione del Consiglio degli anziani ecc. 30 aprile 1472. Doc. III. (3) Deliberazione cit. (4) Belgrano, Op. e l. cit. p. 478. — 22 — Come rimediarvi? Le pene spirituali avranno certo giovato, senza conseguire peraltro lo scopo voluto: quindi si ricorre anche ad altri mezzi per isolare le monache, per togliere loro ogni occasione di scandalo. Troviamo inflitti un decreto governativo del 4 maggio 1476, col quale, accettate le proposte del vicario arcivescovile, degli abbati e religiosi sub quorum obedientia moniales Ianuae et districtus esse videntur... iubetur omnibus et singulis iuris peritis et procuratoribus, aliisque personis laicis, ut posthac recte aut per indirectum, palam vel occulte, 11011 audeant vel presumant patrocinari, scripturas conficere, aut aliquod auxilium, consilium vel favorem dictis monialibus prebere (1). Se i contravventori esercitano il pubblico ufficio di procuratori e notari, perderanno i privilegi concessi al loro collegio, e pagheranno inoltre la multa di venticinque ducati d’oro stabilita per i trasgressori in genere (2). Ma la migliore prova delle condizioni, in cui si trovano le monache genovesi, e delle difficoltà che si incontravano per condurle ad meliorem frugem, ce 1’ offre la storia delle domenicane del convento dei Santi Giacomo e Filippo, già sopra citate. Filippa Doria verso il 1444 dal convento di S. Domenico di Pisa era (1) R. Arch. di Stato. Diversorum, a. 1476. (2) In un breve che Paolo III mandava al Vicario arcivescovile di Genova il 1 gennaio 1538, si ricordano le cure invero poco fortunate che per le monache ebbe il papa genovese Innocenzo VIII (1484-1492). V. Schiaffino, Annali ecclesiastici della Liguria, ms. nella Bibl. della R. Univesità, t. IV, p. 103. Nella raccolta Molfino conservata nell’ Arch. civico di Genova, trovasi un manoscritto anonimo intitolato: Chiese di Genova. In questo, a p. 152, si parla delle cure usate da Innocenzo VIII per la riforma delle monache genovesi, e specie di quelle di S. Andrea. — 23 — venuta per migliorarle, ma poi messasi insieme con Tommasa Gambacurti, fondatrice del convento di S. Silvestro (detto di Pisa), lasciava le sorelle dell’ Acquasola, le quali, a quanto pare, tornarono agli antichi amori (i). Del resto abitando le monache dei Santi Giacomo e Filippo fuori di porta, e quindi esposte ai pericoli delle guerre allora tanto frequenti, ottenevano facilmente, o si prendevano, il permesso di rompere la clausura, con un certo piacere, anche degli amministratori, per colpa dei quali i beni del monastero dependebantur et deteriorabantur (2). Pio II non é contento né delle monache, né dei loro amministratori, e con bolla del 29 luglio 1461 affida la direzione del monastero al Vicario arci' vescovile e al priore di S. Matteo, privandone i domenicani come le monache stesse avevano chiesto, ed ordina che queste d’ ora innanzi mantengano la più severa clausura sub excomunicationis latae sententiae poena. Riebbero presto il governo d’un vicario domenicano, ed in maggioranza sentirono il peso de’ nuovi ordini e fecero di tutto per scuoterli. Sembra che nessuna concessione ottenessero, ma è certo che tornarono a menar vita poco edificante, tanto che il 1497 fu necessario che undici domenicane di S. Silvestro di Pisa colla priora suor Chiara Centurione pro dicto monasterio reformando co se conferrent (3). Ma anziché riformarlo può dirsi che lo rinnovassero, perchè delle vecchie abitatrici solo tre (1) Belgrano, Op. e 1. cit. p. 479. (2) Elencliica Synopsis idest strictum ac verum compendium, fundationis, incrementi ... celeberrimi conventus divi Dominici Ianuae... per F. Th. De Augustinis, p. 574. Ms. del secolo XVII, nella Bibl. della R. Università. (3) De Augustinis, Op. cit. p. 576. — 24 — accettarono i nuovi ordini, le altre preferirono conservare altrove più libera vita (i). E cosi finiscono le poche memorie del Quattrocento, le quali dimostrano, se non erriamo, che i costumi monacali erano in genere poco edificanti, ma che tra le monache stesse, tra i Superiori ecclesiastici ed il Governo nasceva ormai di ciò un vero disgusto e si pensava ai mezzi opportuni per porvi rimedio. La riuscita peraltro era ben difficile: monache e loro protettori si opponevano e si opporranno ancora, e si deploreranno sempre gravi mali anche nei secoli seguenti. Al principio del Cinquecento infatti troviamo un documento, dal quale si vede che esistevano ancora dei delegati alla riforma dei monasteri, eletti forse ogni tanto quando maggiore se ne sentiva il bisogno, perché ad esempio nel 1476 pare non vi fossero, non venendo ricordati nel decreto governativo sopra citato (2). Comunque a noi interessa notare il fatto che deputati alla riforma dei monasteri vi sono al principio del secolo XVI, e più ancora eh’ inviano una supplica al Papa perché esso obblighi le monache di S. Margherita di Granarolo a sottomettersi alla giurisdizione arcivescovile, usando contro di esse, si opus fuerit, auxilio brachii secularis (3). (1) Il De Augustinis, Op. cit. p. 577, riferisce in questa maniera i nomi delle tre rimaste: « M. S. Clementia Doria, M. S. Lichinetta Lomellina, M. S. Ursula de Paulo ». (2) Ved. indietro, p. 22. (3) R. Arch. di Stato. Diversorum, Miscellanea, 3145. Vedasi pure ciò che intorno a questo fatto e ad altri risguardanti le monache del Cinquecento, diciamo altrove, e cioè: La Riforma religiosa in Liguria ecc., in Atti della Soc. di St. P., voi. XXIV, fase. II, p. 575; e II Barro ecc. Appendice I, negli stessi Atti, voi. XXV, fase. II, p. 499 e segg. — 25 — Non si creda che la quistione giurisdizionale fosse in questo caso di poco momento. Le monache affidate alla cura del Vicario arcivescovile, che, come sopra vedemmo, faceva parte dell’ Ufficio, diciamolo così, delle monache, trovavano in esso una tutela contro probabili soprusi, ed una censura efficace dei loro costumi. Invece lasciate alla vigilanza di frati molto potenti e non sempre zelatori di onestà, incontravano spesso gravi pericoli, pericoli invero, che a parecchie di esse non dovevano dispiacere (i). Affidarle alla tutela del Vicario arcivescovile, sottometterle alle deputazioni speciali dal Governo nominate, era davvero un tanto di guadagnato per la moralità e per la religione. Ma tutte le cose anche le più nobili e giuste, anzi specialmente queste, hanno i loro vigorosi oppositori, e noi a proposito delle monache ne vedremo di belle. Rimettiamoci dunque pazientemente alla ricerca. Sotto il pontificato di Clemente VII i governanti di Genova chiedevano al Papa efficaci provvedimenti per frenare la scostumatezza delle monache. Clemente rispondeva con un breve diretto all’ Arcivescovo di Genova e al Priore di S. Teodoro, del 21 gennaio 1529 (2). Comincia col ricordare i lamenti della Repubblica, cum moniales... totaliter in lascivam vitam declinassent in grave o eorum salutis dispendium, et perversum totius civitatis exemplum. Rammenta altri brevi mandati per lo stesso fine e con buoni frutti da precedenti Pontefici all’ Arcivescovo e al Priore di S. Teodoro, e si duole che a certis diebus citra aliquod ipsorum monasteriorum, moniales forsan ex maiori frequentia et familiaritate cum clericis, rc- (1) Ved. Io Studio cit. La Riforma religiosa ecc. p. 574. (2) Ved. doc. IV. — 26 — ligiosis, ac saecularibus personis regularem observantiam aliqualiter relaxare coeperunt in grave aliorum monasteriorum, et civitatis praedictae periculum. Perciò il Vicaiio arcivescovile ed il Priore di S. Teodoro, assistiti da tre o quattro cittadini da eleggersi per il Governo, si adoperino ab confirmationem clausurarum, et regularis observantiae alias impositae contra quoscumque icim laicos, quam clericos. Le parole del breve non potrebbero esser più chiare. Il Governo si è lamentato d’ una generale rilassatezza di costumi, ed ha invocato efficaci rimedi. Non si tratta di qualche isolata debolezza, ma propiio d una generale corruttela, che il breve inclina ad attribuire ai frequenti rapporti di monache con ecclesiastici e con laici, ed alla inosservanza d’ una vera e propria clausura. Come si vede, gli ordini dati in proposito sul cadere del Quattrocento non avevano raggiunto il loro scopo, anzi, almeno in qualche monastero, alcune monache continuavano a correr la cavallina. Del che naturalmente si vedevano gli effetti. E sul finire del secolo da una monaca domenicana e da Pellegro De Gradi nasceva un figlio Bernardo, cui si dava il cognome Granello, e che in seguito si ascriveva all’ albergo degli Usodimare. È questi quel Bernardo Usodimare Granello, che fu per molti anni notaro della Curia arcivescovile di Genova, e che venne legittimato da Lorenzo Cibo il 2 marzo 15 31 con atto pubblicato dal Vicario arcivescovile il 2 agosto 1532 (1). Vedasi in qual modo l’atto si esprime riguardo (1) L’atto di legittimazione, colla relativa pubblicazione, trovasi in un codice membranaceo del secolo XVI conservato nella Biblioteca della R. Università di Genova. Occupa in tutto 16 fogli in quarto. — 27 — alla nascita di Bernardo ed alla condizione de’ suoi genitori..... Cum ipse Bernardus ex quondam Peregro de Gradi quondam domini Blasii cive Ianuae tunc coniugato et ex quadam moniali ordinis predicatorum fuerit et sit genitus et procreatus, et in pupillari etate constitutus existens, ex certis respectibus et rationalibus causis cognomine et de agnatione Granellus fuerit denominatus et appellatus, et ulterius ex refermatione et novis ordinibus in civitate Ianuae editis et conditis amore aliorum civium eiusdem civitatis in Albergo nobilium Ususmaris fuerit et sit aggregatus et connumeratus taliter qualiter presentialiter vulgo et comuniter denominatus fuit et denominatur Bernardus Ususmaris Granellus, omisso in totum cognomine illo paterno De Gradi, et non obstans quod dicti De Gradi ex prefatis ordinationibus et novis ordinibus in Albergo nobilium de Cicala fuerint connumerati et aggregati. Cosi il notaro della Curia Bernardo Usudimare, che ali’ atto della legittimazione dice di avere 38 anni di età, nasceva verso il 1493 da Pellegro De Gradi ammogliato e da una monaca, fatto per sé stesso forse non tanto grave, ma che unito a quanto delle monache si è veduto, conferma la giustezza dei lamenti che contro la corruttela di esse generalmente si facevano. Peraltro dobbiamo dire che, date le condizioni morali dei tempi, date le condizioni speciali dei monasteri e particolarmente il sistema che allora s’ usava nelle monacazioni (1) , tali fatti eran ben naturali e dovevano accadere con una certa frequenza, destando un’ impressione assai minore (1) Ved. per ora negli Alti della S. L. di S. P., voi. XXV, fase. II, Il Barro, appendice I. In seguito ne riparleremo. — 28 — di quello che oggi si potrebbe credere. Ciò peraltro non vuol dire che Stato e Chiesa non cercassero di rendere impossibili, o almeno difficili, certi fatti, e non ricorressero ad ogni mezzo per assicurare alle monache una vita tranquilla ed onesta. Certo da lungo tempo le cure erano grandi, e si giungeva persino ad affrontare l’ira di potenti pur di riuscire al bene. Il i gennaio 1538 Paolo III, accogliendo la domanda del Doge e dei Governatori di Genova, ordina a Marco Cattaneo vicario arcivescovile di compiere una generale riforma dei monasteri di monache (1). Giustifica quest’ ordine ricordando che causa di scandali è il non osservare la clausura, già imposta invano da Innocenzo Vili; per cui ragionevoli sono i lamenti della Repubblica e necessario é il provvedere con prontezza ed energia. Vuole quindi che il Vicario visiti tutti i monasteri della città e del dominio, che corregga gli errori, stabilisca la clausura, e provveda ne laici aut aliae tam saeculariae quam ecclesiasticae ac religiosae personae etiam ad ipsarum monialium confessiones audiendas deputati ad illa (monasteria) suspectum accessum habeant. E cinque giorni più tardi (2), dopo aver ricevuto notizie di scandali avvenuti in alcuni monasteri, culpa et defectu eorum monasteriorum regiminibus praesidentium (3), il Pontefice ordina allo stesso Vicario arcivescovile di condurre l’ispezione colla maggior diligenza possibile e (1) Ved. doc. V. (2) Breve di Paolo III a Marco Cattaneo, vicario arcivescovile di Genova, 6 gennaio 1538. Doc. VI. (3) Breve di Paolo III al Vicario arcivescovile di Genova. Doc. VI cit. — 29 — di correggere e punire senza riguardo, valendosi, ove fosse opportuno, anche di pieni poteri. Frattanto si erano dalla Repubblica eletti i tre cittadini da Paolo III desiderati fin dal breve del i gennaio ; e questi, cioè Vincenzo Sauli, Agostino Pinello e Martino Giustiniano Di Mongiardino (i), aiutano detto Vicario arcivescovile nella difficile opera affidatagli dal Pontefice. Finita la visita, il Vicario stesso nel giorno 26 gennaio provvede con un decreto, che dimostra in lui ferma risoluzione di togliere ogni abuso. Compiuta la visita ai monasteri, egli dice, come si era ordinato in precedenti brevi pontificii, ex dignis respectibus et rationalibus causis... et pro scandalis vitandis, è necessario togliere ai lateranensi di S. Teodoro il reggimento delle monache di S. Maria delle Grazie, di S. Andrea e di S. Bartolomeo dell’ Olivella (2). In omaggio al decreto pontificio le priore di questi monasteri furono' invitate a scegliersi altri direttori spirituali tra i frati cassinesi di S. Caterina, e i predicatori osservanti di S. Maria di Castello. Le priore non si curarono di obbedire, ed allora il Vicario arcivescovile insieme coi tre cittadini, che formavano il Magistrato delle monache, assegnarono il governo del monastero delle Grazie ai cassinesi di S. Caterina, il monastero di S. Andrea ai predicatori osservanti di S. Maria di Castello e il monastero di S. Bartolomeo dell’ Olivella ai minori osservanti di S. M. Annunziata (3). Le monache (1) Sono ricordati nel decreto col quale il Vicario, il 26 gennaio 1538, toglie ai lateranensi di S. Teodoro la cura di alcuni monasteri di monache genovesi. Doc. VII. (2) Ved. Doc. cit. (3) Schiaffino, Ann. ecclcs. t. IV, p. no. — 30 — venivano invitate ad obbedire prontamente e a troncare qualunque rapporto coi frati di S. Teodoro verbo vel scriptis per sese, vel interpositas personas. Gli ordini del Vicario erano recisi e dovevano destare un vespaio. Sembra che i lateranensi offesi nei loro interessi morali e materiali, e fors’ anche le monache, cui certo non dispiacevano le cure di essi, ricorressero a Roma, e dipingessero, per lo meno come non necessario, lo zelo del Vicario. Il fatto si è che pochi mesi più tardi il Papa invia all’Arcivescovo di Genova un breve in proposito, col quale cerca di appianare ogni cosa (i). Ricorda anzitutto le premure usate da lui e dai suoi predecessori per 1’ onesto regolare vivere delle monache di Genova in generale, conviene che la condotta di queste debba esser corretta, ma osserva che gli ordini dati dal Vicario dispiacquero alle monache, le quali ormai non han più fiducia in lui, che così difficilmente potrebbe, ove occorresse, esercitare verso di loro qualunque ufficio. È quindi necessario che 1’ Arcivescovo, quando vi sia bisogno, per la cura dei monasteri lasci da parte il suo vicario Marco Cattaneo e pensi ad altri. Quanto al fatto speciale dei confessori per i tre monasteri in questione, non costringa le monache ad accettar contro voglia frati di un qualche ordine regolare, ma egli stesso deleghi idoneos praesbiteros saeculares. Così resta stabilito che le monache genovesi in generale non erano un modello e che in particolare, pure ammettendo errori anche da parte del vicario monsignor Cattaneo, non si distruggono le accuse fatte contro i (i) Il breve è del 4 luglio 1538. Ved. doc. Vili. — 3i — frati di S. Teodoro, né si sente meno il bisogno di provvedere alle monache da essi protette. Di tutto ciò quest’ ultimo ordine pontificio dà chiara ed assoluta conferma. Siamo in pieno secolo XVI e i costumi dei cittadini in generale richiamano le cure del Governo, i giovani si danno a vita allegra e disordinata, sprezzano i vincoli domestici e fortemente impensieriscono gli uomini assennati (i). La Repubblica tenta opporre freni di ogni maniera, ricorre a leggi speciali e non dubita di creare un magistrato particolare che di tali cose abbia zelante cura (2). La donna educata in modo vizioso non porta in famiglia quel non so di particolare, che ella sola conosce e che affeziona l’uomo alla casa: quindi resta spesso derelitta, ed invano cerca con altri mezzi quei conforti che natura le ha preparati in famiglia. Già molte di esse vengono in monastero allevate con criteri che sembravano buoni ai padri, ma che non erano certo i migliori per renderle utili a sé stesse ed alla società (3). I genitori, specialmente se di civile condizione , e poco forniti di ricchezze, le riguardavano come un peso, e quando non potevano maritarle purchessia, magari con un vecchio, che si contentasse di poca dote, le destinavano al chiostro senza guardare alla loro vocazione (4). Il monastero diveniva la prigione di queste infelici, che in esso facevano compagnia ad altre chiusevi talora (1) Ved. in Alti della S. L. di S. P., la nostra pubblicazione il Barro, appendice II, p. 503 e segg. (2) Ved. 1. cit. (3) Ved. pubblicaz. cit. app. 1, pag. 498 e segg. (4) Id. id. per punizione, tal altra entratevi per 1’abbandono di un momento (i). Vi trovavano certo donne oneste, che alla vita monastica si eran date pel sincero desiderio di servire a Dio in quel modo, che loro sembrava il migliore ; ma che cosa potevano fare queste a prò’ di tante altre, che avarizia paterna, o falso entusiasmo bambinesco, avevano guadagnate al chiostro ? La bella commedia il Barro, dovuta al chiaro cinquecentista genovese Paolo Foglietta (2), ci porse in altro luogo propizia occasione di notare qual fosse allora la vita delle monache genovesi, e come il sistema di riguardare il chiostro quale rifugio di donne, cui per diverse ragioni, e specialmente per mancanza di dote, eran negate le nozze, tristamente accrescesse il numero delle infelici, con poco onore delle famiglie e degli ordini religiosi. I nuovi fatti che abbiamo addotto in questo studio, le osservazioni che qui ed altrove facemmo intorno ai costumi genovesi in generale (3), ci permettono di credere che una società siffatta non potesse in generale dare ai monasteri i fiori gentili e soavi che le antiche istituzioni monastiche chiedevano, e che anzi, se qualche fiore vi era portato, poteva in quell’ambiente viziato da tanti mali, in gran parte ormai tradizionali, poteva, dico, difficilmente sottrarsi a precoce appassimento. È giusto peraltro osservare, che dopo la prima metà del secolo XV qualcosa si era fatto a prò dell onestà monacale. L’opera di Filippa Doria e di Chiara Centurione, lo zelo di arcivescovi e di loro vicari, le premure del Governo e de’ suoi deputati, i brevi di (1) Comm. Il Barro, atto I, se. 4, e nota relativa. (2) Ved. 1 appendice più voice cit. della stessa commedia. (3) Ved. avanti a p. 19 e 31. — 33 — Pontefici, tutto in misura più o meno larga aveva contribuito a questo. Ma la resistenza di alcune monache, la ricaduta di altre, il rinnovarsi frequente degli stessi ordini, e soprattutto il perdurare delle cause principali di quei mali, che sembrano la generale corruttela dei costumi ed il falso sistema usato nelle monacazioni, non permettono di dare ai monasteri quell’ indirizzo, che sarebbe stato onesto e bello. Anzi diremo di più; anche se si riuscirà a stabilire una severa clausura, anche se si costringeranno le monache a vivere tra alte mura isolate dalla vita mondana, non si potranno togliere sostanzialmente i mali deplorati finché non saranno tolte almeno le cause prime dei mali stessi. Per ora, se ben guardiamo, tutto quello che si é fatto a vantaggio dell’ onestà monacale si riduce a togliere più che sia possibile alle monache il contatto con persone, che per qualunque ragione potessero indurle al male, o tutt’ al più si é ricorso a mezzi repressivi, la cui efficacia può per lo meno mettersi in dubbio. Si proibisce ai laici di trattare le cause delle monache, si allontanano da alcuni conventi di esse i monaci di S. Teodoro, e via di seguito; ma per ora nè il Governo nè la Chiesa pensano sul serio ai mezzi migliori per avere monache veramente oneste, che fuggano il peccato per verace sentimento dell’animo, e non se n’astengano soltanto perché non capitano loro le occasioni più propizie del peccare. Questa doveva essere, se non erriamo, la vera riforma; tutto il resto ha un valore secondario, e da solo è fors’ anche privo di vera efficacia. A questo certo pensava quel buon padre Giulio che nel secolo XVI scriveva quei Atti Soc. Lig. St. Patri*. Voi. XXVII. 3 — 34 - seti nati avvisi intorno all’ educazione delle giovanette, che altrove recentemente pubblicammo (i)- Ma fino al tempo a cui siamo giunti, non ci sembra che si possa provvedere con efficacia a levare le vere cause di questi mali, quantunque si dimostri la sincera intenzione di rimediarvi. CAPO II. Il Magistrato delle monache — La vita monacale dall’ instituzione di questo Ufficio alla del secolo XVI. Il Governo genovese certo per le monache molto aveva fatto, e contro i mali che affliggevano esse aveva usato pure un mezzo che ai nostri vecchi governi assai piaceva, avea cioè eletti ogni tanto speciali magistrati che della cosa si occupassero ed agissero con facoltà più o meno estese, talora anzi con poteri pienissimi. Dap prima, e fu già detto, si trattava di tre o quattro cittadini che a nome del Governo da soli ricercassero i mali che travagliavano i monasteri e vi recassero gli opportuni rimedi (2). I deputati visitavano i monasteri, (1) Ved. lì Barro, app. I, p. 501 e segg. , (2) Nel R. Arch. di Stato, Scritture e consigli in materie giurisdizionali, n. S1 conservano rapporti al Senato intorno all’origine e all’ essenza del Magistrato delle monache. Furono fatti sul finire del secolo XVII per difendere i diritti dello Stato contro l’Arcivescovo che aveva sul Magistrato eccessive pretese; ma ci sembra inutile pubblicarli per intero, non dicendosi nulla più dei documenti che conosciamo. Inoltre, occorrendo, ne riporteremo via via qualche brano. — 35 — prendevano informazioni, davano qualche ordine, poi il loro ufficio cessava e le cose tornavano come prima, si ripetevano gli stessi disordini certo con poca edificazione del pubblico, finché si ritornava alla nomina di altri ufficiali. Presto venne l’intervento ecclesiastico : se n’occupò l’Arcivescovo d’ accordo col Governo (i), portò aiuto il Papa, e nella seconda metà del secolo XV specialmente Sisto IV, che il 1472 univa ai deputati laici scelti dal Governo tre ecclesiastici forestieri (2). Quali frutti questa commissione assai numerosa raccogliesse é difficile precisare; è provato invece che si tornò presto agli antichi lamenti, ed ai vecchi rimedi presi dai laici e dal Vicario arcivescovile, che troviamo quasi sempre in tale magistrato straordinario (3). Nella prima metà del secolo XVI, quando nel 1529 Clemente VII affidava al Vicario arcivescovile ed al Priore di S. Teodoro l’ufficio di correggere le monache, li invitava altresì a procedere d’accordo cogli ufficiali scelti dal Governo; e Paolo III, il 1 gennaio 1538, rivolgendosi per lo stesso fine al Vicario arcivescovile, voleva eh’esso si accordasse coi tre o quattro deputati che la Repubblica avrebbe eletti. Così fino.a questo tempo, dacché 1’ autorità ecclesiastica ai monasteri genovesi aveva rivolto il pensiero, si procedeva di pieno accordo fra essa e tre o quattro cittadini, che in via straordinaria il Governo sceglieva per provvedere alle monache. Però essendo assai frequenti i casi che richiedevano 1’ opera di tali ufficiali, avvenendo molto spesso di dover (1) Ved. avanti p. 19. (2) Ved. avanti p. 21. (3) Ved. avanti p. 22 e segg. — 36 — corrigere ct reformare, doveva venire spontanea 1 idea di creare uno stabile Magistrato, tanto più in un secolo nel quale le magistrature particolari vanno rapidamente crescendo. Inoltre un Magistrato permanente, che esercitasse una non interrotta vigilanza, poteva impedire che certi abusi si commettessero, che certi altri divenissero più gravi, e specialmente avrebbe da sé stesso cui ala l’esecuzione degli ordini, che venivano fotti per il bene delle monache. Così senza dubbio la pensava Giulio III, quando il 4 settembre 1551 dirigeva all’Arcivescovo di Genova un breve famoso, che si può ritenere come la patente di fondazione dello stabile Magistrato od Ufficio delle monache (1). Il Pontefice ricorda che già qualche suo predecessore, su richiesta della Repubblica, aveva contesso all’Arcivescovo o suo Vicario di visitare e correggere, insieme con tre o quattro cittadini scelti dal Governo, i monasteri di monache, ma che queste tornavano presto agli antichi amori. Era quindi necessario per ristabilire l’ordine ad ogni costo, e sopratutto per mantenerlo sempre, creare un Magistrato permanente, che senza interruzione si occupasse dei monasteri di monache. E questo sarebbe stato costituito dell’Arcivescovo o suo Vicario e di tre o quattro cittadini scelti dal Governo. Quindi l’Arcivescovo od il suo Vicario si unisse tosto coi delegati laici per il pronto compimento di quest’opera, che stava tanto a cuore del Doge e dei governatori, che pure questa volta avevano richiesto l’aiuto del Pontefice a prò’ delle monache, le quali deviavano dalla retta strada anche (1) Ved. doc. IX. — 37 — culpa superiorum, tametsi per temporum intervalla reformatae (i). Quanto durassero in carica i cittadini eletti in seguito alla bolla pontificia, e se fossero tre o quattro, non saprei dirlo. È certo però che la necessità di un permanente Officio delle monache era ormai riconosciuta, ed è anche probabile, anzi direi quasi certo, che tre dovessero essere gli eletti nel 1551, e che essi restassero tutti in carica sino al 14 gennaio 1556, in cui un decreto della Repubblica fissava legalmente le norme per la nomina degli ufficiali delle monache (2). Il decreto insiste sul bisogno d’ uno stabile Magistrato in una città che ha tanti monasteri, in quibus possunt aliquando aliquae inesse imperfectiones; e dichiara che con questo decreto deinceps duraturo, ogni anno, nel tempo in cui di solito si scelgono gli altri magistrati, si elegga un ufficiale delle monache, che resterà in carica per un triennio. Ogni anno per l’avvenire scadrà d’uffizio il più anziano per elezione, ma per questa prima volta scadrà Battista Saivago, eh’ è il più giovane di età. Da queste ultime due dispo- (1) Ved. doc. IX. cit. Coni’ era da aspettarsi i domenicani e i francescani, che tanto potevano sulle monache , cercarono di conservare la loro autorità minacciata. Può vedersi in proposito la lettera che il Doge e i governatori scrivevano il 29 marzo 1552 a G. B. Doria e a G. B. Lomellino, perchè s’adoperassero a vincere in Roma 1’ opposizione dei frati. In essa è notevole questo passo: « Noi » havemo assai più a core la conservatione et bon governo delle monache di » Genova nostre fighe e sorelle, di ciò che hanno li frati foresteri, la conversa-» tione delli quali, eccetto li casi di necessità per amministrazione delli sacra-» menti, in tutto tenemo dannosissima ». R. Arch. di Stato, Registro litterarum, voi. 65 (2) Il decreto si trova ms. nella Bibl. del R. Arch. di Stato, Liber decreto rum (930-1563) f. 187. Ved. doc. X. - 38 - sizioni si vede che il Magistrato anche allora trovavasi in carica e che era di tre cittadini. Qual fosse l’ufficio di essi risulta dalla bolla di Giulio III, che noi riguardiamo come il vero institutore del permanente Magistrato delle monache, e dal decreto stesso della Repubblica, non che dalle tradizioni che ormai esistevano in Genova intorno all’autorità di detti deputati, i quali in passato ogni tanto venivano chiamati a correggere e riformare i monasteri di monache. Circa il modo d’ elezione sostanzialmente si tiro qualche tempo innanzi cosi, giacché un decreto, emanato su quest’argomento il 5 luglio 1569 (1), in complesso non fa altro che confermare per l’avvenire i criteri stabiliti nel 1556, ed applicarli subito alle persone che allora si trovavano in carica. Il decreto del 1569 11011 parrebbe neppure assolutamente necessario, non trovan-dovisi vere differenze dal precedente; ci sembra che la Signoria approfittasse della nomina di magistrati nuovi, cui difatti ora si provvede, per togliere al primo decreto quel non so che di dubbioso che poteva vedervisi. Ed a credere questo c inducono anche le parole che troviamo al principio del medesimo decreto : Dux et gubernatores .... volentes providere et exclarare modum el-lectionis officii monialium etc. (2). (1) Bibi, del R. Arch. di Stato, Decretorum lib. III, f. 46. Modus electionis Officii monialium. (2) Nel secolo XVII si passò all’ elezione dei tre ufficiali assieme e si rinunziò alla nomina di uno per anno. Quando e perchè si venisse a questo nuovo sistema non sappiamo, ma che esso si usasse è certo, e noi ne abbiamo un esempio nel R. Arch. Acla diversa monialium colla nomina dell’ Ufficio avvenuta il 9 gennaio 1658. Ma non è questa la prima nomina fatta col nuovo sistema, perchè se ne parla come di cosa ormai consueta. — 39 — Nell’ esercizio del ministero gli ufficiali delle monache dovevano agire coi mezzi spirituali non piccoli che spettavano al Vicario arcivescovile, in questo loro collega; e non credendoli sufficienti, erano certo costretti a ricorrere volta per volta al Governo, il quale senza dubbio si sarà affrettato a sorreggerli. Nulla infatti ci prova che nel 1551, nel 1556 e in alcuni anni successivi potessero essi stessi direttamente prendere dagli ufficiali dello Stato le forze necessarie per far rispettare la propria autorità. Però il 19 agosto 1579 la Repubblica concede loro il diritto di valersi delle forze dello Stato quando vogliano, ed in conseguenza comanda ad ogni pubblico ufficiale di fornire gli aiuti necessarii, perché siano eseguite tutte le cose che da essi vengano ordinate (1). In tal modo TUfficio rafforzato e materialmente e moralmente, ormai diveniva una vera magistratura autorevole fornita di potere esecutivo, che poteva far eseguire direttamente i suoi ordini, e quindi senza perdita di tempo e con aumento di prestigio per sé, e di efficacia per le deliberazioni stesse. Tuttavia, quantunque tale concessione avesse dovuto accrescere 1’ autorità del Magistrato, non sembra che il Governo ad esso solo lasciasse la cura delle cose monastiche; anzi subito l’anno appresso abbiamo un decreto, col quale il Doge e i governatori direttamente provvedono a cose riguardanti i monasteri di monache. Fatto questo, se non erriamo, il quale dimostra che in pratica doveva riuscire assai difficile determinare dove finissero le attribuzioni generali del Governo, e donde cominciassero (1) Bibl. del R. Arch. di Stato. Decretorum lib. V, f. 90 del ms. Doc. XI. — 4o - quelle speciali spettanti all’ Ufficio delle monache. Il 29 gennaio 1574 (1) il Doge ed i governatori per conservare monasteria sanctimonialium non tantum pura et illibata, verum etiam in eo extimationis et opinionis candore, sicut perpetuam virginitatem Deo professas decet, ordinano che nessuno di notte entri nei monasteri od in altri luoghi destinati alle monache, insciis vel invitis ipsis, e finisce con queste poco miti parole : Si quis autern tantum sibi sumpserit ut decretum hoc contemnat, poenam ultimi suplicii nulla excusatione admissa subire cogetur (2). In seguito l’autorità dell’Ufficio delle monache andò mutandosi ed in qualche parte si accrebbe, specie col diritto acquistato alcuni anni più tardi di giudicare tutte le cause che riguardavano le monache ed i loro interessi; cosicché anche per le quistioni che potevano nascere quanto ai beni dei monasteri, il Magistrato delle monache veniva a costituire un tribunale con autorità cognoscendi, decidendi et sine debito terminandi ac indicata per eos exequendi summarie simpliciter et de plano sine strepitu et figura indiai, ac sola facti veritate inspecta (3); e ciò in omaggio ad una decisione presa poco prima dal pontefice Gregorio XIII (4). Intanto si applicavano lentamente in Genova i decreti del Concilio di Trento, come pure quelli che, in armonia alle decisioni tridentine, la Congregazione dei Regolari (1) Bibl. del R. Arch. di Stato. Decretorum liber. V, f. 33.1 (2) R. Arch. di Stato. Acta diversa monialium —-— , deliberazione 29 gennaio *574- (3) R. Arch. di Stato. Politicorum n, ~— (a. 1540-1593), decreto del 27 ottobre 1583. Doc. XII. (4) Breve di Gregorio XIII, 7 luglio 1583. Doc. XIII. — 4i — andava via via formando ed imponendo dapertutto. Il bisogno di riforme sentivasi dovunque, e la fazione cattolica più severa, vittoriosa in questi ultimi tempi a Trento ed imperante a Roma, s’ abbandonava ad una severità, che in molti luoghi ed a molte persone parve eccessiva. Le monache genovesi furono restie ad accettarle, e, come nei tempi passati, si trovarono di esecuzione difficile gli ordini di Papi e di Ufficiali delle monache, così ora difficoltà non minori ebbero ad incontrare i decreti emanati dalla Congregazione dei Regolari, che non si lasciò rendere affatto indulgente pei buoni ufficii del cardinale genovese Antonio Sauli (i). Il Concilio tridentino stesso recò pure altri pensieri in Genova. Nacque il dubbio, se per il Concilio tutte le prescrizioni fatte dai Papi riguardo al Magistrato delle monache dovessero ritenersi abolite. E perché 1’ autorità dell’Ufficio non diminuisse, il Doge ed i governai ori ricorsero a Gregorio XIII pregandolo a levar di mezzo ogni dubbio, e a dare nel tempo stesso qualche ordine adatto a rendere più forte la disciplina nei monasteri e a farli crescere in decoro e dignità. Il Pontefice aderiva, ed il 7 luglio 1583 pubblicava una bolla con cui pienamente rassicurava la Repubblica sul valore del Magistrato delle monache, e con precise disposizioni e gravi pene procurava di accrescere il prestigio di esso e 1’ obbedienza che tutti gli avrebbero dovuta (2). Certo il Papa non avrebbe potuto con maggiore zelo dimostrare d’essere sempre disposto a sorreggere lo Stato (1) R. Arch. di Stato. Lelt. di cardinali, nani, generale 281$. Il cardinale Antonio Sauli al Doge e ai governatori, 19 maggio 1589. (2) Bolla di Gregorio XIII, 7 luglio 1583. Doc. XIII. - 42 - in pro’ della disciplina monastica, confermando disposizioni della Repubblica ed accogliendo proposte di essa. Ricordiamo a questo proposito anche gli ordini che il Governo fece nel 1474 riguardo all’ ingresso nei monasteri, per aggiungere che il Papa andava anche più innanzi, non solo abrogando con una bolla del 15 marzo 1585 qualunque privilegio che avrebbe potuto a chicchessia porgere occasione di disobbedire agli ordini del Governo, ma per giunta stabilendo altre severe norme per impedire anche alle donne 1’ accesso ai monasteri, i quali dovevano essere più che mai isolati, perchè nulla potesse turbare le menti delle monache, et a pio ac religioso proposito avocare (1). Il Magistrato delle monache pertanto giungeva al cadere del secolo XVI pieno di forze, sostenuto dalla Chiesa e dallo Stato che vi avevano rappresentanti, e senza aver dato occasione a notevoli dissensi fi a i due poteri. La Repubblica, come si è veduto, 1 aiutò con ogni mezzo, perchè facile gli riuscisse la sua missione e perchè esemplare condotta le monache avessero (2)-Nè, capitando l’occasione, mancò di difenderne i diritti contro ministri dello stesso Pontefice, come quando nel 1582 mons. Bossio vescovo di Novara, venuto a Genova come visitatore apostolico, cercò di visitare anche 1 monasteri di monache. Reclamò altamente la Repubblica chiedendo che almeno ricevesse in compagnia gli ufficiali li) Bolla di Gregorio XIII, 5 marzo 1585. Doc. XIV. (2) Inutile avvertire che le leggi criminali genovesi fissavano pene maggl0n per delitti comuni commessi contro monache. Vedasi ad es. il cap. 3 del lib- 11 p. 25 dell’ediz. Genuae 1557; de adulteris et stupratoribus, ed il successivo cap. 4 de raptoribus, che minacciano la pena di morte contro gli autori di stupro 0 ratto di monache, anche se queste siano annuenti. - 43 — delle monache, ed il visitatore si limitò a visitare le chiese dei monasteri, tralasciando, per quanto appare dagli atti della sua visita, di occuparsi espressamente di cose che spettassero alla disciplina monacale (i). Anche 1’ autorità religiosa genovese contribuiva con ogni mezzo al miglioramento dei costumi monacali. La Sinodo diocesana del 1567 rinnova severe proibizioni riguardo all’ingresso nei monasteri, e dà ordini precisi perché alle monache si tolga ogni occasione di distrarsi dalle cose religiose per pensare a mondani affetti (2). Inoltre la Sinodo stessa stabilisce norme precise, perché le fanciulle che vengono tenute in convento per educarsi, non servano di pretesto o di occasione a distrazioni od a colpe (3). E l’arcivescovo Antonio Sauli (1586-91) veniva pur lodato a causa dello zelo che dimostrò a vantaggio dei monasteri di monache, di cui ebbe ad occuparsi prima e dopo la sua nomina a cardinale (4). (1) R. Arch. di Stato. Lettere di ca> dittali, m. 9, il cardinale Giustiniano al Doge ed ai Governatori, 22 giugno 1582, ecc. Vedi in proposito, negli Atti della Soc. Lig. di S. P. t. XXIV, fase. II, il nostro Studio: La Riforma reltgjosa ecc. a pag. 571 e segg. Peraltro in casi eccezionali la Repubblica ricorse anche a deputazioni straordinarie, che dovessero occuparsi pure dei monasteri. Troviamo infatti nel R. Arch. Acta circa monasteria monialium —-—, un decreto del 28 gennaio 1626, 1379^ col quale si nominano tre cittadini per inquisire super delictis gravibus et occultis directe tendentibus in offensam Dei (secondo una legge dell’anno prima); ed il primo d’aprile si concede loro di spendere per un bimestre denaro del pubblico, pro hàbendis relationibus eorum quit circa monasteria moliantur vel teneantur conversationes quae forte ad crates jierent. II 3 giugno si fissa la somma da spendersi a 3 scudi, ed il 26 dello stesso mese si porta a 50 lire. (2) Synodi diocesanae et provinciales editae atque ineditae S. Genuensis Ecclesiae, Genuae iS (3) Syn. dioces. ed. cit. p. 82. (4) Paganetti, Storia ecclesiastica della Liguria, Roma 1766, voi. II, discorso IV, p. 266. - 44 - Quindi non farà meraviglia se anche i monasteri di monache sul finire del Cinquecento si trovarono assai migliorati, quantunque le cause prime di disordine neppure ora fossero tolte, e sebbene numerosissime fosseio le fanciulle che venivano chiuse nei monasteri (i). Com’ era da aspettarsi questi buoni resultati feceio ere scere lo zelo degli ufficiali delle monache, e 1 autorità loro si andò lentamente svolgendo: l’Ufficio ebbe un proprio archivio dove tenne le carte che ad esso si riferivano, e nel secolo XVII, che può chiamarsi il secol d oro di questo Magistrato, ebbe anche alcuni referendarii, che andavano vagando per la città, si trattenevano sulle piazze, alle poi te dei monasteri ecc., a prendere informazioni sulla condotta delle monache, sulle persone che le visitavano, o che in qualunque maniera avevano rapporti con esse (2). I medesimi referendarii si occupavano ancora di coloro che poco rispetto avevano alla chiesa, che assistevano distratti, o peggio, alle sacre cerimonie, che convertivano il luogo destinato al culto ad ufficio molto diverso. Essi erano pagati (3), ed a cose ordinarie indirizzavano (1) Nel R. Arch. di Stato. Carle del Senato, filza 316, a, I59°> s' tr0 ‘ supplica dell’ abbadessa e delle monache di S. Andrea, che pregano il Sen ^ dispensare dal mantenere gratis in tutto ed in parte dodici monache, perche è l’entrata, ed invece circa cento sono le monache. 11 Senato, il 20 deccmbre 59^ uditi gli ufficiali delle monache, riduceva il numero monialium gratis rectpt ad sex tantum. .. . 1 R Archivio (2) Le relazioni di questi signori si conservano ora in gran parte nei di Stato, insieme colle altre carte dell’Ufficio, le quali però cominciano solo primi anni del secolo XVII. (3) In un rapporto del 30 agosto 1627 si legge : V. S. IH."’ se contcnt‘ darme il stipendio, perché il mese è passato overo finito. In margine al foglio trova scritta con altra mano la parola paga. R. Arch. di Stat0, Jurisdictionalium t ecclesiast. ex parte '354- - 45 — ogni settimana il loro rapporto a tutti gli Ufficiali o ad uno di essi, che in questo caso riferiva ai colleghi ed insieme con essi deliberava, (i). Le cure maggiori dell’ Ufficio delle monache nel secolo XVII erano dirette ad impedire che i monachini s’ accostassero ai monasteri, e dalla chiesa o dalle grate avessero rapporti colle monache. Spesso i monachini venivano ammoniti severamente e ricevevano 1’ ordine di non accostarsi più ai monasteri; non di rado però erano imprigionati, condannati a multe ed all’ esilio. Parecchi monachini riuscirono a penetrare persino nei conventi, ed allora si ebbero pene anche maggiori; altri furon meno puniti per l’efficacia di potenti amici o congiunti, ma certo non molti potettero del tutto sottrarsi alle premure dei deputati, cui li raccomandava il vigile sguardo dei referendari di mestiere e di occasione. Gli ufficiali delle monache rimasero in tre per tutto il secolo XVII, e la nomina loro spettò sempre al Senato, che soleva chiamare a quel posto uomini specchiati per nascita e per valore personale. Nel processo del lavoro, esaminando l’opera da essi compiuta nel Seicento, c’incontreremo spesso in uomini, che appartenevano alle primarie famiglie di Genova. La qualità delle persone accresceva certo il prestigio dell’ Ufficio, e rendeva facile quella libertà che sembra godesse; e sono davvero rare le raccomandazioni della O ' Repubblica al Magistrato perchè adoperi maggior vigi- lo Molti rapporti sono scritti in foglio ed hanno esternamente l’indirizzo ad uno degli Ufficiali. Altri son diretti in generale agli 111.”" Signori Deputati. - 46 - lanza od energia. A suo tempo ne vedremo l’occasione, ne esamineremo l’importanza. Peraltro, se l’accordo fra il Governo e i tre ufficiali da lui scelti fu costante, invece, la stessa armonia non passò tra gli ufficiali medesimi e la Curia arcivescovile. L’Arcivescovo o il suo Vicario, che qui fa lo stesso, a poco a poco cercarono di sopraffare i colleglli, arrogandosi un potere che secondo altri ad esso non spettava. D’altra parte spesso in molti affari, specie di poca importanza, i cittadini scelti dal Governo agirono pei loro conto, anzi vedremo che ben rari sono gli atti dell’ Ufficio nei quali accanto al nome dei laici, che ne facevano parte, compaia quello dell’Arcivescovo o del suo Vicario. Altre volte invece l’Arcivescovo opera per suo conto, e per esempio in un fatto assai grave qual fu la fuga di due monache dal convento di S. Brigida (i)> 1’ arcivescovo Stefano Durazzo affida da se solo a G. B. Pechineto, rettore di S. Salvatore, causam harum couti a quasvis dicti monasterii moniales et earum quamhbet, per iscoprire le complici e punirle severamente. Or venendo a mancare 1’ accordo tra la Curia genovese e gli Ufficiali laici, e sorgendo anzi quistioni giurisdizionali, di cui s’ hanno traccie anche nelle carte dell Uffizio stesso, la potenza di questo dovette diminuire. Inoltre sembra che sul cadere del Seicento anche per altre ragioni, che via via dai fatti stessi che narreremo appariranno, scemasse presso il popolo il prestigio di questo Magistrato, cosicché al cominciar del Settecento esso viveva ancora, (i) La fuga avvenne il 1658. Alcune cose che riguardano questo fatto si fecero d accordo tra i laici e l’Arcivescovo, altre no. Ne riparleremo. — 47 “ ma di vita debole e stentata, quasi occulto, comecché gli pesassero le funzioni, che doveva esercitare. Dilatti il i gennaio 1704 il Senato, eletti al solito i tre Ufficiali delle monache, delibera « esser da tener segreto non solo il nome e raguaglio delle persone elette, ma ancora in genere 1’ esistenza di tal deputazione » (1). Noi pertanto alla finire del secolo XVII, vedendoci venir meno la fonte principale delle ricerche, chiuderemo il nostro Studio. (1) R. Ardi, di Stato. Filze monialium v ' 1386 PARTE SECONDA LE MONACHE GENOVESI DEL SECOLO XVII Atti. Soc. Lig St. Patru. Voi. XXVII. CAPO PRIMO. Le Chiese. rima di entrare in monastero ci fermeremo un poco nelle chiese, per vedere quale rispetto per esse avessero i fedeli del secolo XVII. La chiesa serviva assai bene per avvicinarsi al monastero; ed inoltre, siccome il luogo destinato al culto ha qualcosa di sacro, il contegno che in esso e per esso si teneva, può fino ad un certo punto giovarci per conoscere meglio le disposizioni che si avevano verso i luoghi abitati dalle donne sacre a Dio. Per il Cinquecento esponemmo diverse notizie nell’appendice alla commedia il Barro (i) e nel capitolo primo dello Studio sulla Riforma religiosa in Liguria (2); e completando e conducendo più innanzi le ricerche, che (1) Atti della Soc. Lig. di St. P., voi. XXV, fase. II. (2) » » » » XXIV » - 52 -- per i tempi anteriori fece l’illustre Belgrano (i), ci convincemmo che il rispetto alle chiese ed alla religione non corrispondeva troppo alle ostentate dimostrazioni di tede, che con molta frequenza Governo e privati solevano fare. Nel secolo XVII gli uomini maturi, che esercitavano od ambivano pubblici uffici, godevano per le strade e per le chiese abbandonarsi ad esagerate dimostrazioni di pietà. « Assagliono il sacerdote quando s’invia all altare, lo premono, lo trattengono per santificare le labra immonde colla sacra pianeta, nè credono sodisfare a questo pio ufficio, se con sonori scoppii non avanzano li baci delle rustiche nutrici. Gionto al luogo dell’ incruento holocausto, lo assediano sì strettamente, che né egli, nè il ministro ha maniera di muoversi. All’introibo et al rimanente delle preghiere, che ad alta voce si proferiscono , con singhiozzi, sospiri, singulti et altre divote dimostrazioni intelligibilmente rispondono. All’elevatione si prostrano, congiongono la fronte alla terra, e con brevi iaculatorie, orationi di fede, di speranza, di amore, di timore, di contritione, di dolore, di pentimento et simili, secondo il costume di ognuno, sì altamente esclamano, che in sinagoga o moschea pare di essere, non in tempio di cristiani. Quindi si rialzano, percuotono il petto, incurvano il superciglio, stralunano gli occhi, contorcono la bocca, elevano gli homeri, dibattono i fianchi, inarcano le bracchia, si scuotono su le ginocchia, insomma chi più si disforma, chi più spirituale o spiritale si dimostra, non solo gloria maggiore haver meritata (i) Vita privata dei Genovesi, cap. LXXIX. Genova 1875. - 53 - nel cielo, ma più voti favorevoli haver acquistati nel Magistrato si persuadono » (i). Quindi é certo che la pubblica opinione era favorevole a coloro che davano aperti segni di religiosità, e che le rumorose e rozze dimostrazioni di fede potevano agevolare 1 acquisto dei pubblici onori. Ma v’é di più. Per via non possono « andare senza la corona alla mano », né astenersi dal « biasciare qualche Ave Maria nelli saluti e cerimoniosi incontri. Non diversamente si diportano nelle altre cose spettanti alla religione. Ma nelle congregationi, per la secreta pietà instituite scuoprono li loro fini più reconditi : poiché sotto la specie di spirituali fratellanze trattano e decretano tutto ciò che appartiene allo Stato » (2). Cosi il contegno tenuto in chiesa e per le strade contribuisce a guadagnar voti, le riunioni religiose private servono a trattare gli affari di governo. Dovrà ciò farci dire che tali cittadini fossero tanti ipocriti, e che la religione non servisse loro che a fini politici? Noi non arriviamo a tanto : anzi ne piace 1’ ammettere che non disprezzassero il sentimento religioso; notiamo però che il far servire tal sentimento, dalle masse riguardato come valida guarentigia morale, anche a scopo meramente politico, prova che in essi non doveva essere profondo il rispetto alle cose sacre, né molto grande la riverenza verso la religione. (1) Delle politiche malattie della Repubblica di Genova e loro medicine, descritte da M. C. Salbriggio. Amberga, 1676, cap. IX, p. 115. Quest’opera fu scritta da Gaspare Squarciafico dopo il suo bando da Genova. È certo appassionata, ma noi ne citiamo solo quei passi, che vengono ampiamente confermati da sicuri documenti. (2) Salbriggio, Op. e /. cit. — 54 - Invece gli uomini, che per etcì o per nascita non potevano aspirare alle cariche della Repubblica, sembra che tenessero meno alle apparenze, e che con mezzi non dubbi dimostrassero apertamente quel non so che di irriverente verso la religione e le cose sacre, che dagli uomini maturi e magistrabili era coperto con rumorose dimostrazioni di pietà. Infatti i giovani ricchi, vestiti con estrema eleganza e foggie straniere, « vanno primieramente alla chiesa a vagheggiare le dame. E costume O Ou . .. servire solamente quelle tali, che già con sacro et indissolubile contratto sono ad altri sottoposte » (0* Questi vagheggiamenti, di cui parla il Salbriggio, non erano rari, né privi di conseguenze; e noi abbiamo documenti numerosi per dimostrarlo, ed altresi per provare che avvenivano cose anche più gravi a scapito della religione e perfino della decenza. Vediamone qualcosa. I primi di maggio del 1635 il figlio di Alessandro Spinola, nella chiesa del Gesù, « al doppo pranso mentre si diceva la lettione, non intento alla parola d Iddio, ma sì bene, si pose, come è suo solito, vicino alle signore...... vagheggiando con ridere » (2). E collo Spinola nei giorni appresso altri fecero lo stesso nella medesima chiesa del Gesù, e fra questi un giovinetto che ai primi di giugno ridendo, cianciando, eccetera, vi si comportava peggio che « se fusse stato in pubblica piazza » (3). E peggio ancora si faceva a S. Domenico, con piacere e connivenza delle donne, tanto che il 6 (1) Salbriggio, Op. e l. cit. (2) R. Arch. di Stato. Protectorum Ufficii Sanine Inquisitionis Relazione dell’11 maggio 1635. (3) R. Arch. Categoria e num. cit. ——• - 55 ~ giugno 1645 il referendario diceva nel suo rapporto: « Stimeria sotto loro correttione (dei vagheggini) accertato, che tanto li predicatori in qualunque chiesa, quanto li confessori, avisassero le loro penitenti non civettassero, ma stessero come si conviene, già che lo negotio principale per emendare questo si gran mancamento dipende buona parte da loro, non possendo far cosa più grata al Signore, che sradicare questo abuso da questa città » (1). E a S. Maria di Castello una schiera di giovani « stavano vagheggiando le signore, fra le quali era la figlia maritata del magnifico Bartolomeo Garbarino » (2). E nello stesso mese, durante la messa al Gesù, Francesco Torriglia al mattino stava ascoltando presso al confessionale una « signora che si confessava », ed al pomeriggio con altri giovani si sedeva vicino alle signore e le vagheggiava, facendo inoltre « ragionamenti poco honesti, né convenienti al luoco sacro » (3). Ed altre chiese divenivano veri luoghi di convegno. Per esempio « nella chiesa di Sant’Antonio suole essere ogni festa Giovambattista Marino a parlare con una figlia, cioè al dopo pranso, ponendosi ambedue a sedere sopra una banca e stanno vicini soli, et il ragionamento è di due o tre ore » (4). E cosi alle Vigne, dove convenivano belle donne e qualche vecchia, « che si dice esser di quelle che portano le ambasciate » (5). E più ancora a S. Lorenzo dove « non mancano persone, ben di bassa qualità, (1) Rapporto del 6 giugno 1645. (2) R. Arch. 1. cit. Rapporto del 18 marzo 1645. (3) Id. Rapporto del 26 marzo 1645. (4). R. Arch. 1. cit. Rapporto del 30 maggio 1646. (5) Id. Rapporto del 6 maggio 1646. - 56 - si dice dell’uno e l’altro sesso a parlare insieme, le quali alle volte son scomodate dal parlare dalli chierici, che si vedono alla sera far la diligenza » (i). E siffatte cose si ripetevano con grande frequenza in tutte le chiese. Abusi non piccoli venivano pure dalle processioni, allora tanto comuni, sia per opera degli spettatori, sia per causa delle casaccie che vi partecipavano. Erano queste associazioni religiose instituite con fine di pietà, ma che già dal secolo precedente eran molto degenerate (2), e che nel Seicento potevan dirsi fors’ anche peggiori. In questo tempo, ai popolani che ne facevano parte, davano pretesto a gravi disordini e l’autorità politica doveva occuparsene. Il Salbriggio citato (3) deplora lo scandalo che producono, ed aggiunge: « Ma particolarmente nelle notturne vigilie dedicate alle visite de’ sacrosanti Sepolcri, simulando gare di precedenza, carichi di tutte sorte d’armi, accorrono sotto la propria Cassa (questa é una devota scultura del loro Santo protettore 0 protettrice, che portano al Tempio maggiore), e quasi sotto insegna più militarmente che piamente si radunano ». Spesso vengono fra loro alle armi e si sparge sangue ; il Senato manda soldati, e cc la nobiltà in vane truppe divisa et armata ne’ luoghi più proportionati si dispone ». (1) R. Arch. di Stato, l. cit. Rapporto del 6 maggio 1646. (2) Ved. negli Atti della Soc. Lia. di St. P., voi. XXV, fase. II, l’appendice alla commedia il Barro. (3) Op. cit., cap. Vili, p. 107 e segg. - 57 — E se si crede che poco importassero le casaccie ai Genovesi, odasi ciò che in proposito dice il secentista Ambrogio Spinola (i): « Quasi tutti i Genovesi hanno sì infisso F humor delle casaccie, che ognun di noi per non lasciar pregiudicare alla sua in individuo si metterebbe fra i spiedi. E felici noi se havessimo quell’amor alla patria et .alla libertà pubblica, che il nostro buon popolo ha alla sua casaccia ». E di questo zelo il buon Andrea cerca trar profitto, proponendo di cavar dalle casaccie « dolcemente e con sicurezza una militia domestica, la quale ci assicurarebbe in gran parte dai nemici di fuori, e da un impeto subito qui del nostro presidio di soldati forestieri ». Anch’egli per altro deplora i disordini, che specialmente nelle processioni del giovedì santo talora a causa delle casaccie avvengono; ma, osservando che il proibirle sarebbe impossibile, perché in questo caso « ogni sinistro che succedesse alla città di malattie generali et di penuria di viveri sarebbe attribuito a tal proibitione », vorrebbe un Magistrato speciale che si occupasse della faccenda e si adoperasse « con discretion e dolcezza circa le contra-fattioni delle casaccie ». E mentre queste entravano nelle chiese, i vagheggini approfittavano del disordine per conseguire i loro fini. Ad esempio, Fanno 1646, « nella chiesa di S. Lorenzo il giovedì santo mentre passavano li oratorii, 0 sia casazze, li magnifici Nicolò Raggio, magnifici Laurentii, Carlo et Ambrosio fratelli Spinoli et Ioanni Baptista Peri che (r) Ambrogio Spinola, Dizionario storico-filosofico. Opera del sec. XVII, cons. ms. nella Biblioteca Brignolc Sale e nella Universitaria, t. I, articolo Casaccie. - 5S - stavano a sedere a man sinistra su la banca eh era accostata alla porta grande, per dove entravano in detta chiesa le casazze, tenevano alle spalle di detta banca una giovane col suo manto spagnolo, con la quale di quando in quando facevano ragionamenti. « E nel confessionario vicino alla cappella della san tissima Annonciata di detta chiesa sedeva il magnifico Giovanni Battista Lomellino magnifici Benedicti, parian o con una donna d’aspetto e d’abito servente » (0* Qu'n * la pubblica pietà nè per la via, né in chiesa aveva che ringraziare le casaccie. Inoltre le feste solenni erano d’incitamento a cattive azioni. Cosi nel 1646 il secondo giorno di Pasqua al mat tino e più alla sera colloqui sospetti di uomini con donne ed anche di un prete, il reverendo P. Geronimo, avven vano nella cappella di S. Giorgio pure nella medesii chiesa di S. Lorenzo, protetti dai graditi silenzi dell °m 1 amica (2). E presso a poco lo stesso accadeva nelle a chiese, ed in tutti gli anni, come risulta dai numerosi rap porti che i diversi referendari mandavano al Magistra^ La novena, ad esempio, che nel marzo del 1646 S1 ce brava in onore di Sant’Antonio nella chiesa di S. ra cesco di Castelletto (3), porgeva a due Spinola la occasione di seguitarvi « mattina e sera due dame, c ivi andavano forsi in scandalo di chi le vedeva ». E talora le chiese divenivano sede di cose anche pi gravi. Nel novembre 16$ 1 all’Annunziata « un prete, (1) R. Arch. di Stato. Protect. Sancii Off. ~'o| Rapporto del 14 aPrl'e 1 * (2) Ved. rapporto cit. (3) R. Arch , loc. cit. Rapporto del 14 marzo 1646. — 59 — in habito di prete forestiero, s’innamorò d’una giovanetta vedova, e l’amore fu talmente disordinato, che fece cosa non mai udita, massime in luoco sacro........ e ciò seguì al dopo pranzo vicino al pulpito, in tempo che si diceva vespro » (i). E nella chiesa delle Vigne si danno convegno « alcune donne giovani di mala conditione, che trattano con giovanotti alla libera, con molto scandalo del popolo e poco rispetto verso Dio » (2). Note di questo genere si susseguono e si rassomigliano per tutto il secolo, e riguardano ogni chiesa della città, con prevalenza notevole per le chiese di S. Lorenzo, di S. M. delle Vigne e dell’Annunziata, che dovevano essere le più frequentate. Non si tratta di casi isolati, che non potrebbero condurre a nessuna conclusione seria d’indole generale, ma di fatti che si ripetono pressoché ogni giorno, e dovuti non solo a giovani dissipati della classe patrizia, ma anche ad uomini d’altra condizione e persino a chierici. Potremmo continuare a citar fatti su fatti, ma, a dire il vero, l’idea di far un elenco non ci seduce affatto, né d’altra parte nessuno si divertirebbe a leggerlo. Le cose dette peraltro, se non c’ inganniamo, basteranno a dimostrare quanto giuste fossero le lagnanze che allora si facevano sulla mancanza di rispetto verso le chiese in generale, e quanto opportuni si dovessero dichiarare certi provvedimenti richiesti con insistenza ed in gran parte applicati. Ma vediamoli senz’ altro. (1) R. Arch. di Stato, 1. cit. Rapporto del 25 novembre 1652. (2) R. Arch. di Stato, 1 cit. Rapporto del 13 agosto 1652. — 6o — Nel 1625 si promulgava una legge eccezionale contro « gl’ inconvenienti e scandali che immediatamente sono in grave offesa di Dio » (1). Essa doveva durare un decennio e permetteva ai Serenissimi Collegi grande libertà di condannare a bando 0 relegazione, cittadini rei di offese che la legge non si curava di specificare con molta chiarezza. Parve però che la legge stessa fosse utile, e quindi fu di decennio in decennio prorogata, ed anzi nel 1645 venne « fatta dichiaratione che nella dispositione di essa s’ intendevano compresi et a quella soggetti anche coloro che nelle chiese offendono Dio, con usare modi illeciti, scandalosi, 0 irriverenti all istesse chiese et al culto divino » (2). Ma quantunque questa non fosse 1’ ultima proroga, e la legge venisse anche in seguito applicata contro quei che mancavano di rispetto alle chiese, tuttavia i mali deplorati non cessarono, e si senti anzi il bisogno di altri provvedimenti più sicuri ed efficaci, provvedimenti che sopratutto prevenissero e non soltanto reprimesseio (3)- Odasi subito che cosa avvenne in proposito 1 anno 1656. Nel luglio di quest’ anno il Doge e i Serenissimi Col legi trasmettevano all’Ufficio dei monasteri una denunzia anonima contro il vestire donnesco, perché 1 esami nasse e proponesse provvedimenti. Al dir dell’anonimo, gravi flagelli minacciano la citta, perchè, secondo quanto a S. Brigida manifestò la « Rema dè cieli, padrona di questo Stato, il vano ornamento e (1) R. Arch. di Stato, 1. cit. (2) R. Arch. di Stato, Monialium (3) R. Arch. di Stato, Categoria e fil^a di. — 6i — vestir delle donne, con il scoprir quelle parti che alla christiana modestia conviene nascondere, era cosa odiosa a Dio e provocatrice dell’ira sua». Altre testimonianze di tanti provano la stessa cosa, e dimostrano la necessità di rimediarvi per togliere le anime da gravi pericoli, e sottrarre la città stessa dal « flagello che la minaccia », non avendosi per il provocante vestire delle donne rispetto alcuno neppure ai luoghi destinati al culto (i). In questa denunzia prevale l’ascetismo e si riprova il vestire, ed anzi il non vestire delle donne, per ragioni puramente morali, mettendo in evidenza i pericoli, a cui espongono i mortali le donne vagando per ogni luogo con tali abbigliamenti. E 1’ Ufficio delle monache, esaminata la quistione cogli stessi criteri, propone pene pecuniarie per frenare il lusso eccessivo, e soprattutto per indurre le donne ad andare « coperte sino al collo, per togliere in questo modo l’occasione di quelle offese di Dio, che pur troppo si deve temere ne procedano » (2). Non è questo il luogo di parlare delle leggi suntuarie a Genova, solo ci preme di notare l’osservazione già fatta allora, che le donne, secondo molti contemporanei, non davano esempio di verace sentimento religioso, né di rispetto ai luoghi sacri, recandosi in questi ed altrove vestite in simili foggie (3). Le donne andando in chiesa cosi vestite attiravano gli (1) R. Arch di Stato, Monialium —-—. ■ 3»s (2) R. Arch. di Stato, Monialium Deliberazione dell’ Ufficio delle mo- I3»5 nache 4 luglio 1656. (3) Ved. in proposito negli Atti della Società L. di S. P. voi. XXXV. fase. II. Il Barro, a p. 500 e segg. — Belgrano. Vita privata dei Genovesi, cap. LV. — A. Merli, G. Andrea III, Doria Laudi ed Anna Panfili. Genova, 1871. — 62 — sguardi degli uomini, e, secondo numerose denunzie, facevano preparare cose poco conformi al decoro ed all o-nestà femminile. Naturalmente il vestire in tal modo non era altro che un nuovo incentivo, perché le donne di per sé stesse, specie trovandosi in chiesa mescolate cogli uomini, accrescevano poco la devozione di questi, sempre ben inteso secondo i numerosi denunziatori clic prevedevano il finimondo da simili contatti. Non farà quindi meraviglia se, il 30 gennaio 1658, il Senato, su proposta del Magistrato delle monache, ordina che le donne stiano sedute in mezzo alla chiesa separate dagli uomini (1). Rimedio questo che non servì a nulla, perché i vagheggini potevano sempre levarsi il gusto di far corona alle belle sedute in mezzo alla chiesa, vagheggiandole secondo il solito. Quindi, dopo tre anni di prova, i deputati dei monasteri vedendo che le denunzie continuavano a fioccare con grande insistenza, stimano « non esservi forma più focile che di procurare che in alcune chiese più principali, come sono S. Lorenzo, S. Maria delle Vigne, S. Siro, il Gesù e S. Domenico, »1 si faccia una divisione e separatione con tavole, ordinane 0 che in una parte possano stare solamente gli uomini e nell’altra solamente le donne » (2). Ma ci voleva altro. Fatta la legge, si trova subito il modo di eluderla, e le denunzie si rinnovano e i lamenti continuano, segno che i mali seguitano. E poi se nelle funzioni solenni e diurne sembrava rimedio assai efficace la separazione ordinata, come poteva essa bastare ad fi) R. Arch. di Stato, Monialium —-—. (2) R. Arch. di Stato, 1. cit. Deliberazione del 6 maggio 1661. - 63 — impedire i convegni nelle cappelle delle chiese, e special-mente nelle ore mattutine prima del giorno e la sera verso il tardi ? Eppure soprattutto occorreva pensare a questo, perché, se la vista ed il contatto di donne più o meno scollate nelle funzioni diurne potevano preparare abusi, le chiese nelle ore indicate ne vedevano e di gravi. Quindi, verso il 1679, il Senato, commosso dalle frequenti denunzie di mali gravissimi, ordina che le chiese, siano chiuse alle ventiquattro ore (1), e che si eserciti vigilanza continua per impedire che avvengano fatti contrari all’ « onore di Dio ed all’ honestà ». Sembra peraltro che gli ordini venissero poco eseguiti, che le chiese non fossero chiuse al tempo voluto, e che prima dell’alba i mali deplorati si ripetessero, e che anzi aumentassero in modo da impensierire seriamente. Questo almeno risulta dai lamenti del Senato e dell’ Ufficio delle monache, e dalle denunzie indirizzate all’uno e all’altro, delle quali denuncie ne piace riportarne integralmente una giunta ai senatori il 21 marzo 1679 (2). « Serenissimi Signori. Universalmente si benedisce da’ buoni l’ordine delle SS. VV. Ser.me di serrare le chiese all’ Ave Maria della sera, perché cosi chi odia la luce non bavera più tante comodità di far male all’oscuro. Ma quello che non si potrà fare la sera può commettersi la mattina per tempo, in certe chiese, dove fanno certe officiature che s’incominciano innanzi giorno con gran concorso. I scandali seguiti in simili congiunture (1) R. Arch. di Stato, Monialium —V,-. ' 1386 (2) R. Arch. di Stato, 1. cit. — 64 — (tacendone molti altri) sono che furono ritrovati secolari adulterare con donne dentro i confessionarii, e sentire le loro confessioni fingendosi sacerdoti. Pertanto si supplica di rimedio, perchè la casa di Dio non resti in questa forma dishonorata. Si va osservando che gli ordini delle SS. VV. Ser.me dati di fresco non s’osservano; deputare le persone che li faccino esseguire, servirebbe di gran riforma in questa città ». Il 21 marzo il Senato esaminò la denunzia insieme con altre quattro arrivate nel medesimo mese sopì a la stessa materia, ed ordinò che si trasmettessero tutte alla Giunta dei monasteri perchè le studiasse, e riferisse. Ma trattandosi di cosa assai grave, oltre ai Deputati delle monache, se n’ occupano gl’inquisitori di Stato, che il 27 marzo 1679 fanno una relazione, la quale riportiamo integralmente, come prova del rispetto usato allora verso le chiese (1). « Seren.™ Signori. In proseguimento delle diligenze va facendo il Magistrato eccellentissimo et illustrissimo d’Inquisitori di Stato, per sapere i disordini accennati nel decreto di VV. SS. Ser.me del 14 marzo corrente, contro il rispetto dovuto alla chiesa et al culto divino, e particolarmente dell’eccesso scandaloso in quella ^ S. Lorenzo, deve offerirle, che di questo non ha il Magistrato, per le molte diligenze fatte, arrivato a rintracciarne il proprio. Ha bensì da esso il medesimo Magistrato ricavato che di tali qualità di delinquenze ne seguono i trattati in essa chiesa di S. Lorenzo, e si negotiano particolarmente verso la capella del Socorso con contadine ( 1) R. Arch. di Stato, 1. cit — 65 - et altre femine per mezzo di donne mediatrici, nelle hore specialmente del cominciare la notte, per quale vi é l’ordine del chiudere in tal tempo le chiese; e così ancora verso le hore 19 e 20, e nel tempo del vespro e della compieta, poiché in tali tempi et hore per il minor concorso delle persone si stimano essenti dall’esser osservati e scoperti. E che di tali maneggi et eccessi ne seguono pure in gran numero nel chiostro della medesima chiesa di S. Lorenzo, commessi da banditi et altri ritirati ivi, li quali col mezzo di donne della suddetta fatta conseguiscono di havere tali femine. Oltre che ufficiando in detto chiostro il reverendissimo et illustrissimo Magistrato di Misericordia, in tali occasioni, e massime nell’occasione di distributioni d’elemosine, li suddetti ritirati non solo ne fanno i negotiati, ma ne seducono ancora dell’altre alle loro sensualità. Ha havuto di più il medesimo Magistrato notitia che nella chiesa di S. Siro seguano giornalmente tra nobili e dame confabulationi e discorsi con perdimento del dovuto rispetto a Dio benedetto et alla chiesa, e perciò degni delle prudentissime riflessioni di VV. SS. Ser.me per riparare ad essi ». Gl’ Inquisitori di Stato non potevano parlare con maggior chiarezza, e noi quindi non ci fermeremo a commentare il loro rapporto, che conferma ed amplia le denunzie anonime giunte ai Senatori. Diremo solo che questi dolentissimi di tali fatti, dopo avere ancora per alcuni giorni trattato cogl’ Inquisitori e cogli Ufficiali delle monache, il 13 aprile 1679 deliberano, che « gli illustrissimi et eccellentissimi Residenti in Palazzo rinnovino l’ordine all’ illustrissimo Sargente generale di fare Atti Soc. Lig. St. Patri*. Voi. XXVlI. S - 66 - che le chiese non si aprano alla mattina prima che non sia giorno chiaro, et alla sera si chiudano alle ventiquat- tr’ hore » (i). Ed ora ci pare che basti. Il secolo XVI che cominciava assai male, non s’ avvicinava alla fine in condizioni migliori, per quanto riguarda il rispetto alle chiese. I fatti addotti, i provvedimenti presi dimostrano all evidenza, che non si trattava di pochi casi isolati, ma che molte, troppe erano quelle persone che mancavano di rispetto, e che facevano anche qualcosa di peggio. Nobili e popo lani gareggiavano, e perfino alcuni ecclesiastici amavano di appartenere a questa schiera. I vecchi patrizi, che si abbandonavano a rumorose dimostrazioni di pietà, non erano in sostanza molto migliori dei giovani scapati e delle donne leggiere, in quanto che le pratiche loro ser vivano spesso a fini politici. È notevole poi il tatto c il popolo doveva in generale credere che il rispetto a e chiese, la seria osservanza delle pratiche religiose, fosser necessarie, perchè altrimenti non si potrebbe spiegare ^ contegno dei nobili magistrabili e del Governo, che^S1 adoperava zelantemente per mantenere il rispetto a chiese. Eppure da quel popolo stesso uscivano i vagheg gini, che nei templi perseguitavano le belle, uscivano ancora, ed in gran numero, i monachini, che piesto impareremo a conoscere. Se non erriamo, ci troviam qul dinanzi ad uno dei soliti fenomeni che spingono taluno a vedere dapertutto ipocriti e gabbamondo, e che invece fanno credere a noi, che nel secolo XVII, e non in questo soltanto, da molti si tenesse assai alle pratiche religi°sc (i) R. Arch. di Stato, 1. cit. Deliberazione del 13 aprile 1679. — 67 — per consuetudine più che per altro, che si frequentassero le chiese, perché cosi si era sempre fatto, ma che poi non si riconoscesse in .sostanza che le pratiche religiose dovessero servire per inalzare 1’ animo a Dio, ma si stimassero materialmente solo per se stesse, e si credesse che potessero benissimo giovare a scopi poco religiosi. L’importante era di frequentare le chiese, di andare a messa, al vespro eccetera, quando si era in chiesa tanto valeva pregare col cuore, pensare a cose celesti, quanto occhieggiare qualche bella donnetta, ed immaginare gioie forse meno celesti, ma certo molto ambite. Non tutti la pensavano cosi; ma molti v’ erano indubbiamente, ed altri non pochi dovevano avvicinarvisi: quindi, mentre si voleva rimediare, e molto davvero si faceva, si otteneva poi un bel nulla. Ed ora avviciniamoci ai monasteri. CAPO SECONDO Le Monacazioni. Se i vagheggini genovesi avevano si poco ritegno nelle chiese, é assai difficile che non dovessero cercare le belle donne anche nei monasteri. In questo genere di cose non é agevole fissar limiti, ed il saper che qualche graziosa ragazza aveva preso il velo, non poteva impedire agli amatori di pensare a lei e di ricercarla. Ma prima di tutto vediamo da quali persone ed in qual modo venivano popolati i monasteri. - 68 — Nel secolo XVI questi erano di rifugio a molte figlie di nobili decaduti, che non potevano convenientemente dotarle; erano di ricovero ad altre poverette, che ignare della vita, educate nei monasteri, tutto restringevano al chiostro, ed in quello si imprigionavano confondendo giovanile vaghezza con seria vocazione; erano tal altra il rifugio di fanciulle deluse, che cercavano nel monastero l5 obblìo del passato; erano ancora, ma forse per il minor numero, il luogo sinceramente scelto per servire a Dio, per fuggir le gioie e i dolori mondani, che esse ritenevano di ostacolo al conseguimento della vita futura. Ma queste, che certo dovevan essere apprezzate per nobili azioni e puro amore (i), che cosa potevano fare con delle compagne di provenienza e di idee tanto diverse? Pei tempi anteriori al Seicento lo ricercammo nella parte prima di questo studio, ed anche altrove (2); 11011 C1 resta quindi che venire al secolo XVII, per vedere se in questo le abitatrici del chiostro erano di natura diversa. Andrea Spinola, che al principio del secolo viveva. , si lamentava perché i padri di mediocre fortuna non potessero per le grosse doti « maritar più gliuole » (3), ed esortava le madri a « non cacciar nei monasteri ìe figlie d’ età sì tenera, che non arrivando a conoscere ciò che si faccino, v’ habbino poi le poveiette (1) Anche in questo tempo Genova dovette a pie donne istituzioni benefiche ed altre lodevoli opere, di cui si possono trovare ampie notizie negli scrittori ecclesiastici liguri, e specialmente nello Schiaffino e nel Paganetti, gii altre volte citati. (2) Atti dellla S. L. di S. P. voi. XXV fase II, appendice al Barro. (3) A. Spinola, Dizionario storico filosofico, ms. nella Biblioteca della R. Uni versità, art. Monache. - 69 — a restare qui per trovarvisi già, e non haver chi dia loro mano » (i). Parole queste d’un uomo buono, indipendente e fiero, che dimostrano come continuava su per giù il vecchio sistema di monacazioni, che nel secolo precedente sollevava le proteste di tante anime oneste, e produceva le più tristi conseguenze. Nel Seicento, dopo che pian piano si erano applicati i decreti del Concilio Tridentino, ed altri formati in ar-monia con questi, anche a Genova si usava una cotal maggior cautela nell’ ammissione di nuove monache, e si dava grande pubblicità alle costituzioni monastiche, di cui si fecero parecchie ristampe (2). Le regole prescrivevano la licenza dell’ Ordinario, volevano che vi fosse certezza sulla vocazione della petente, esigevano che le fanciulle fossero provate prima di essere definitivamente chiuse nel chiostro. Ma chi non sa che le regole anche migliori, le leggi le più onestamente severe si possono eludere quasi sempre da uomini astuti e disonesti? Ognuno ha presente la Monaca di Monza forse più infelice che colpevole, e sa bene che in sostanza quanto di essa pubblicava il Manzoni veniva provato con sicuri documenti (3). Vigeva ancora il sistema di condannare (1) A. Spinola, Op. cit. art. Donne. (2) Per esempio, appena fondato il monastero dell’Agostiniane dell’ Annunziata, il 1604 ne pubblicò a Genova le Costituzioni Maria Farroni in un volumetto di 234 pagine. E le stesse ristampò nella stessa città il 1618 Giuseppe Pavoni in un volumetto di 123 pagine in formato più grande. E Benedetto Guasco il 1656 stampava le Costitutioni delle RR. Monache del monastero di Sant’ Antonio di Padova in Carignano. E nel 1663 Pietro Giovanni Calenzani stampava le Costitutioni del monastero di Gesù e Maria della Purificazione in Portoria; e così di seguito. (3) Tullio Dandolo, La Signora di Monza e le Streghe del Tiralo. Milano 1855. - 7o - al chiostro ingenue fanciulle, eh’erano di troppo in famiglia, perchè, se si fossero maritate con riputazione, avrebbero portato via troppo al primogenito: oppuie, perchè navigando i genitori in cattive acque, non tiova-vano neppure il mezzo di accompagnarle, sborsando una dote anche semplicemente discreta. Molte fanciulle di potenti famiglie poi, educate in convento, erano desiderate dalle monache, che, chiamandole a perpetue compagne, speravano di aver tra loro il mezzo di guadagnarsi la protezione degli autorevoli parenti di esse, i quali avrebbero cercato di accrescere lustro ai monasteri, dove le proprie figlie dovevano vivere il meno male possibile. Così le famiglie d’accordo colle monache, talora le monache da sole, facevano di tutto per accrescere abitatrici al chiostro, abitatrici che non erano anche per altre ragioni molto scarse in un tempo, in cui si credeva che il miglior modo di servire a Dio fosse pur sempre quello di chiudersi in un monastero. Certo quest idea doveva potere moltissimo sopra le giovanette di alloia, che senza dubbio venivano a credere sincera vocazione, ciò che era soltanto l’effetto temporaneo dell’ impies_ sione su loro prodotta dai discorsi, coi quali tanti e tante magnificavano la vita monacale. E poi? È focile immaginarlo; ma pur non dovendosi nella storia immaginar nulla, sibbene provare tutto, veniamo ai fatti. Il 7 giugno 1644 gli Ufficiali delle monache sapendo che il 5 dello stesso mese « una figlia del magnifico Giovan Domenico Pallavicino, nominata Clemenza, senza licenza dell’ Ordinario e senza essere stata da lui essa-minata, entrò nel monastero delle reverende monache di.S. Nicolao di questa città, sotto pretesto di volersi — 7i — monacare in esso» (i), e che la Badessa si rifiuta di consegnarla al padre, ordinano alla Badessa ed alle portinaie del convento di renderla entro tre giorni, « sotto pena della privatione dell’ uso delle voci e delli ufficii che hanno, et inhabilità ad ottenere quelli et altro ». Ed il 12 giugno infatti la ragazza era consegnata a Nicola Pallavicino suo zio (2). E nel 1652 Francesco Lomellini-Gentile domanda al cardinale Durazzo che le sia restituita la figlia Barbara, che crede sia « stata persuasa et indotta ad entrare in detto monastero, non già che talle sia stata l’ultranea sua volontà » (3). La lanciulla d’ ordine del Cardinale fu tolta dal monastero di S. Tomaso «e posta in casa del signor Pier Maria Gentile appresso la signora Francesca sua moglie, ad effetto di saper da essa signora Barbara la sua propria volontà circa il continuare in esso monastero ». E don Domenico Centurione, incaricato d’insegnare la dottrina cristiana alla Barbara, dice che la fanciulla non gli pare ancora in grado di potersi scegliere uno stato. Quindi ne veniva per conseguenza il rilascio di essa (4). E nel medesimo anno, un Doria si lamenta che Maria Luisa sua figlia, dopo essere stata come educanda nel monastero di S. Maria delle Grazie, sia stata indotta a (1) R. Arch. di Stato. Monialium —. (2) R. Arch. di Stato 1. cit. — La consegna avvenne con difficoltà e fuvvi presente il cancelliere, che redasse il relativo verbale. (3) R. Arch. di Stato. Monialium (4) R. Arch. di Stato. 1. cit. — Ecco le parole testuali di don D. Centurione: « Detta figlia non mi pdre ancora di habilità da poter elleggere stato, non vi scorgendo ancora in lei quella pienezza di cognitione che per questo si richiede ». Il giudizio è del 12 aprile 1652. — 72 — rimanervi come monaca (i). Il Cardinal Durazzo arcivescovo di Genova si rivolge alla Sacra Congregazione de’ Vescovi e Regolari, e questa il 19 ottobre ordina all’ Arcivescovo di « operare in modo che la detta zitella esca subito dalla detta clausura: il che seguendo potrà poi assolverla con la facoltà, che a tale effetto se le communica, con imponerle una congrua penitenza salutare e proibirle l’ingresso nel sopradetto, 0 in altro monastero, ancorché per prendervi 1’ habito monastico, senza licenza della Sacra Congregazione derogatoria della presente » (2). E nel 1663 la Congregazione stessa interveniva per la monacazione arbitraria di due figlie di Giovan Battista Lomellino entrate in S. Andrea, e ordinava al Vicario generale di farle subito « uscire dalla clausura » 0)-Ed il Vicario s’ affrettava ad ubbidire, rimandando alle case loro le due fanciulle. Simili casi nel secolo XVII non erano davvero rari, e tutti quelli, di cui a noi é giunta memoria, riguardano fanciulle di ricche o nobili famiglie. Ma chi può assicurarci che fossero i soli, 0 che piuttosto altre fanciulle non trovassero il modo di salvarsi, appunto per non avere famiglie potenti? E se le regole severe per le monacazioni si potevano offendere dalle monache da sole colle famiglie contrarie, che cosa non poteva farsi coi parenti d accordo? In altri capitoli di questo studio (1) R. Arch. di Stato. Monialum —. Lettera del Doria all’Arcivescovo, [9 ottobre 1652. ‘3 4 (2) R. Arch. di Stato. Ordine della S. Congregazione, 8 novembre 1652. (3) R. Arch. di Stato. Monialium j-y. Lettera scritta dal cardinale Ginetti in nome della Sacra Congregazione al Vicario generale di Genova, 7 settembre 1663. — 73 — narrando le vicende infelici di qualche monaca sventurata , vedremo come essa cercherà scusare i suoi trascorsi ricordando con parole commoventi la storia della propria monacazione. A cagion di esempio suor Maria Candida Crevasca, fuggita dal monastero nel 1643, diceva giustificandosi: « Io fui fatta monaca qui contro mia voglia, e feci la professione piangendo, per forza e senza capitolo, senza voti delle monache, e però ci sono sempre stata malvolentieri ». Sarebbe voluta andare in altro monastero, ma neppure in questo desiderio fu contentata, come confermò la priora suor Agata Isola, che, interrogata nel processo di fuga, rispose, e per la Crevasca e per due altre monache fuggite insieme. « Io dicevo che stessero forte, che ha vesserò patienza, che ce ne sono tante delle altre che negavano la sua volontà » (1). Suor Candida chiedeva anche al padre che la liberasse, ma egli, per mancanza di mezzi, 0 di voglia, non ne fece mai nulla. Prova questa che le regole per le monacazioni si potevano impunemente trasgredire, e che talora si faceva davvero. Né basta. A proposito di monacazioni in un rapporto all’Ufficio delle monache su certe chiacchiere di parlatorio, troviamo queste parole: Non tutte le monache sono di vocazione del suo sposo a esso consacrate, ma dell’ interessi proprii e di ragion di stato (2). Ed in un altro scritto allo stesso Ufficio sul medesimo argomento leggiamo: I discorsi mondani possono nuocere massime a quelle che non sono state chiamate (OR- Arch. di Stato. Monialium —\— v ' i;84 (2) R. Arch. di Stato. Monialium Relazione, 6 agosto 1644. - 74 - da Dio, ma postevele per ragion di stato (i). di questo avremo occasione di riparlare. Intanto speriamo di non poter essere chiamali imprudenti , se fin da ora affermiamo che le monacazioni, malgrado le cure della Chiesa e dello Stato, potevano dare sempre luogo ad abusi, che effettivamente accadevano. Il sistema deplorato nel secolo XVI vigeva ancora, e le vittime venivano pur sempre sacrificate agl interessi di famiglia e ad altro. Quindi nel secolo XVII i monasteri sono materialmente più chiusi di quel che non fossero prima, l’ammissione sembra più guarentita con cautele morali, e si rende in parte un poco più difficile, perchè si domanda una dote discreta (2), ma le abitatrici di essi non possono reputarsi molto cambiate. Certo le occasioni per far insorgere la natura contro le regole dovevano essere scemate; però la natura non era cambiata, anzi si continuava a trascurarla dimenticando di studiare bene le fanciulle e di educarle a studiare se stesse, prima di chiuderle nel monastero. Quanto a questo 1’ esperienza aveva poco insegnato agli uomini di allora, e tutto ciò ne porta a ricercare con un certo senso di amarezza i mezzi usati dai Superiori ecclesiastici e laici per isolar sempre più tante povere recluse, per toglier loro ogni divertimento anche onesto, per considerarle ormai come morte. (1) R. Arch. di Stato, 1. cit Relazione del }i agosto 1644. (2) Jnstitulio Magistratus monialium. Ms. nella Biblioteca della R. Università. - 75 — CAPO TERZO. Spassi di convento — Grate e parlatorio — Bambini e monache — Educande — Doni — Pettegolezzi. Giovanette d’ ogni condizione chiuse in convento venivano assoggettate a regole severe, perchè dimenticassero , od almeno disprezzassero il mondo. Ma pure alcuni conforti erano loro permessi e sopra altri qualche volta si chiudeva un occhio, oppure si gridava forte senza giungere a farsi totalmente obbedire. Uno spasso assai frequente le monache trovavano alle grate cd al parlatorio. Parenti, amici, con un pretesto o con una ragione qualsiasi, vi si recavano spesso, portavano le notizie del di fuori, parlavano di persone prima conosciute dalla monaca, e questa riviveva in un altro mondo, e usciva dal parlatorio con impressioni, che dopo averla momentaneamente confortata, dovevano bene spesso lasciarla a disagio. Ma i referendarii dell’ Ufficio delle monache, e spesso relatori d’occasione, non le lasciavano in pace: si appressavano alle porte, osservavano, interrogavano, cercavano di sapere o d’indovinare 1’ argomento dei discorsi che si facevano, e riferivano unendo ai fatti la nota delle proprie impressioni. I biglietti da essi mandati all’ Ufficio dei monasteri ci sveleranno tante cose, faranno dopo due secoli assistere noi pure a colloqui di monache, e ci riveleranno non di rado anche insinuazioni maligne. Rapporti fre- -7 6 - quenti vi sono per l’anno 1623, dai quali appare che numerosissimi erano i frequentatori dei parlatorii, cosicché il Senato, il 12 giugno di quest’anno, fece uno speciale decreto, col quale, dopo essersi lamentato che alcuni giovani frequentando i monasteri dessero suspicandi causam, manifesta il timore che i loro famigliari colloqui producano offensam Dei tradii temporis, ed ordina che severamente si puniscano (1). Gli ordini vengono eseguiti; e subito, nei soli mesi di giugno e di luglio, molti giovani sono chiamati dinanzi al cancelliere dei Serenissimi Collegi e da lui severamente ammoniti, perché non pratichino più a monasteri, e perché non si facciano più vedere neanche nelle chiese o nelle vicinanze dei monasteri medesimi. Anzi riguardo ad Ettore Lomellino, che pare già altre volte fosse stato invano ammonito, il 27 luglio il Senato ordinò di arrestarlo, di avvertirne l’Arcivescovo, e di dirgli quae audita sunt de dicto magnifico Ilectorc in materia monialium (2). Ed il 12 agosto la medesima sorte tocca a Battista Raggio, che é rimesso in libertà, diremo cosi provvisoria, solo il 3 ottobre, dopo che ebbe pagato mille scudi, come pegno che si sarebbe presentato ad omne mandatum Serenissimum Collegiorum (3). Il 7 gennaio 1628, uno a mosso da giusto zelo », avverte che « non contento Giovan Francesco Lomellino detto Bragazza di haver amicizia in S. Nicolao con (1) R. Arch. di Stato. Monialium ——. (2) R. Arch. 1. cit. (j) R. Arch. 1. cit. Ordine senatoriale del } ottobre 1623. — 77 ~ qiialche monaca, andando in detto luogo sotto coperta di una figlia, che vi ha, di più va portando innanti et indietro ambasciate et lettere per parte di suor Arcan-gela Benedetta Pallavicina » (i). In un rapporto de’primi d’agosto 1627 leggiamo: « Alle reverende monache di Santo Thomaxio gli va Giovanni Battista Traxi, compagno di Nicola Parodi; e esso 1 raxi é scrivano in Duana, e é cotidianamente a ore indebitte stando alle grè (grate) e ragionando con grandissima secretezza con una monaca; et uno maestro Luca, bancallaro (falegname) di dette monache, quando essi compagni vanno alle gré, gli fa la guardia e gli porta gli biglietti .... » (2). Inoltre, aggiunge il referendario, « detto I raxi per essere cosi amico di dette monache, non vole sua moglie in casa ». I monachini vengono ammoniti severamente, e minacciati di carcere e bando; quanto al falegname maestro Luca, gli Ufficiali delle monache provvedono per farlo mandar via. il 14 settembre 1627 giungeva quest’altra relazione assai maligna: « Un tale, chiamato per nome Nicola Rebusso, uno delli gabellotti che stanno alle porte di Santo l'omaso, va continuamente nel parlatorio delle reverende monache di Santo Tomaso a hore straordinarie, non havendo ivi che fare, onde che ne nasce grandissimo scandalo a tutti » (3). Ed il 9 di novembre dello stesso anno si fa ammo- 1) R. Arch. di Stato. 1. cit. Lettera d’inccrto letta al Senato il 7 gennaio 1620. (2) R. Arch. di Stato. Monialium —L_ ' 1)81 (3) R. Arch. di Stato. Monialium cit. - 7» - nizione severa a Visconte Passano, giovane di scagno (commesso) che va di continuo a S. Tomaso, ed insulta e minaccia della vita le persone che « lo riprendono delli mali portamenti che lui usa appresso di detto monastero; et lui si avanza con dire, io sono homo dell illustrissimo signor Marchese di Santa Croce, e posso portare qualsivoglia qualità d’armi, ecc. » (1). Per ispiegare il gran numero di relazioni e di denunzie che si trovano nel quinquennio 1623-27, ^ ut'le ricordare che in questi anni il rigore era stato estremo, come si vede anche dall’ intervento diretto del Senato, che viene in aiuto agli Ufficiali delle monache, e non risparmia ammonizioni, carcere e bando, pur di allontanare i frequentatori dai monasteri. E sembra che in parte lo scopo si raggiungesse, perché nell’anno 1528, non solo le denunzie sono più rare, ma uno dei soliti referendari dice precisamente: « Vostre Signorie Illustrissime non si potranno mai immaginare come é (sic) soletari al presente detti monasteri, et anche pochissimi parenti gli vanno a visitare » (2). Però presto i monachini ritornano agli antichi amori, e trovano monache compiacenti che li ascoltano alle grate e nei parlatori. Di fatti nel 1629 alcuni, che si dicono parenti delle monache di S. Bartolomeo del C.armine, scrivono: a Questo convento é ridotto a segno tale che noi altri parenti ci siamo eletti di privarci d andar a visitare le nostre monache, e questo perché di ( 1 ) R. Arch. di Stato. Monialium cit. Ammonizione fatta dal secretario dopo la deliberazione degli Ufficiali delle monache, 8 novembre 1617. (2) R. Arch. di Stato. Monialium —■— Relazione del 1 marzo 1628 l)*4 . - 79 — continuo sono in quelli parlatorii il magnifico Paolo Adorno, Carlo Serveto e Giovanni Battista figlio del medico, li quali, con poco termine e manco rispetto d iddio e de’ Santi di quello sarebbe raggione, procedono ecc. ». Invocano quindi provvedimenti contro uomini, che hanno già corrotto con denari chi cercava farli smettere, altrimenti non si potrà « oviare qualch’altro inconveniente che é per succedere » (i). Ed al monastero di S. Nicola, nel novembre del 1632, v' erano « alquanti preti et altri secholari che stavano fachiendo cademia apresso lo curio de la chiesa. Poi era (sic) alquante monache a la ferata, et li deti preti stavano burlando le dete monache; poi venne uno frate dela Nonziata, vi parlò dopo de li deti » (2). E Stefano Negrone, malgrado l’ordine avuto di non più tornare ai monasteri, nel marzo del 1633 frequentava con insistenza quello di S. Brigida, recandosi « in busola vestito da prete nel parlatorio, 0 sia in chiesa, cosa che é di molto scandalo » (3). E pur vestito da prete frequentava S. Bartolomeo il giovane Galeazzo Casati, che altre volte soleva praticare alle Convertite (4). Nell’ aprile del 1633 a S. Brigida, nel parlatorio, è stato il signor Francesco Spinola a parlare per spatio di due o tre bore. Parimente « sono stati due giovani, de’ quali uno di parentado Gentile, et havendo la servente preso (i l R. Arch. di Stato. Monialium -1^ ■. Denunzia del 25 novembre 1629. (2 R. Arch di Stato. Monialium —■—, Relazione del ; decembre 1652. ' ijsj • ’ ' (3) R. Arch. di Stato Monialium . Denunzia del 6 marzo 1653. (4) R. Arch. di Stato. Monialium -1 . Relazione del 31 agosto 1634. — Sole chiavi della chiesa et apertala, detti giovani sono entrati dentro, e poi glieli ha serrati e sono andati a parlare alla Marchese » (i). Il 17 giugno del medesimo anno a a S. Leonardo, finito il vespro, Innocenzo Fiesco andò al parlatorio, e fece fermar di fuori uno cittadino eh’ era seco » (2)-E il cavalieri) Giovanni Battista Cardinale veniva accusato di recarsi continuamente al monastero di S. Leonardo, col pretesto di servire le monache, e di trattenerv tsi a parlatorio chiuso fino a « mezz’ora di notte » 0)-E Giovanni Battista Garbarino frequenta S. Bartolomeo per suor Angela Cherubina Tassa, ed approfittando che la zia della monaca è superiora, « di giorno a tutte I hore passa ragionamenti profani tanto in parlatorio et in chiesa, quanto dalle muraglie della città; ma quel che à pegg10 di notte, il più delle sere sino alle due e tre hore, si tra tiene seco al parlatorio et in chiesa » (4). E cosi di seguito in ogni monastero, tanto che co passar degli anni i pensieri del Magistrato e del Senato crescono, specialmente per il monastero delle Convertite, che ancora per altre ragioni si dimostrava bisognoso di severe riforme. A proposito di esso, il 29 luglio 1 Ufficio delle monache ordina che si facciano forti rampogne a parecchi frequentatori del monastero, ritenendo vero in sostanza quanto giorni prima era stato detto m una lettera anonima, che fra altro accusava alcuni gioco R. Arch. di Stato. Monialium —-— Relaziono del 20 aprile J. 1 }*9 ' (2) R. Arch. 1. cit. Relazione del 27 giugno 1633. (3) R. Arch. 1. cit. Relazione del 6 maggio 1633. (4) R. Arch. di Stato Monialium —. Denunzia dell'8 novembre t6j6. — Si — vani di recarsi a parlare, a mangiare e a bere « dalla sera alla mattina, serrando di dentro, perchè non siino veduti » (i). I discorsi fatti nel parlatorio delle Convertite e dei-l’altre monache, specie in ore straordinarie, non dovevano certo essere sempre ascetici, e tali da incoraggiare le monache al mantenimento del loro voto. Quindi in qualche monastero s’introdusse 1’ uso di far assistere nei parlatori ai colloqui una monaca delle più provate; ed un referendario, il 16 luglio 1644, scrivendo in genere dei discorsi che si facevano in tali conversazioni, nota clic utile sarebbe estendere a tutti i conventi l’uso di farvi assistere una monaca seria « per sviare ogni occasione di non raggionare di materie più che honeste, giachè non tutte (le monache) sono di vocatione del suo sposo a esso consacrate, ma dell’ interessi proprii e di raggion di Stato » (2). E pochi giorni più tardi un altro referendario si doleva che i frequentatori di monache, parenti o no, facessero loro « sapere tutti li spatii, sponsalitii si prendono e seguono nella città, che non ponno che apportare solo pregiuditio all’anime loro, e massime quelle non sono state chiamate da Dio, ma postevele per raggion di Stato » (3). Non sappiamo se i desideri espressi in queste due ultime relazioni inducessero gli Ufficiali delle monache a impedire simili discorsi, e a permetterne solo altri fatti sotto buona vigilanza. Riteniamo però che ordini o non (1) R. Arch. di Stato. Monialium Deliberazione del 29 luglio 1657. ' Us5 (j) R. Arch. di Stato. Monialium Deliberazione del 6 agosto 1644. ()) R. Arch. di Stato. I. cil. Relazione del ji agosto 1644. Am Soc. Lto. St. P»Ttt». Voi. XXVII. 6 — Si — ordini si continuasse su per giù nella stessa maniera, proprio come prima a parlare a qualunque ora. E che l’argomento dei discorsi non variasse molto, può dedursi anche dai lamenti che in proposito fecero più tardi altri referendarii e denunziatori, e dal riso con cui assai spesso le monache accoglievano i visitatori. 11 numero di questi non scemò per tutto il secolo XVII ; e quantità grandissima di rapporti si potrebbero ancora vedere, rapporti che si riferiscono tutti su per giù alle stesse cose, e che fanno fruttare ammonimenti, carcere, multe e bandi ad uomini d’ogni condizione, che s’ostinavano a frequentare parlatorii e grate. Ne citeremo ancora due fra quelli che più dettero da fare all’ Ufficio delle monache. Nicolao d’Andrea e Giovanni Pedevilla con insistenza frequentavano il parlatorio e le grate delle Convertite, non tenendo conto alcuno delle proibizioni ricevute, ma solo pensando a vagheggiare il primo suor Maria 1 cresa ed il secondo suor Felice Madalena Savignona. I Juc monachini sembra che fossero molto potenti, e per riuscire ad incarcerarli ci volle un regolare processo, e piuttosto lungo, quasi come quelli che si fanno oggi, Pe^ <3U,1*C s’interrogarono testimoni e si chiesero informazioni. Una teste, fra le altre cose, disse: « Trovato Nicolao di Andrea nel curio (ruota) da monsignor Viario, diceva dé sbaratti, et io dissi al medesimo signor Nicolò, non dite queste cose a monsignor Vicario, et esso mi rispose: non ho paura di monsignor Vicario, o non lo stimo, et una di queste due parole mi disse » (i). I due vennero quindi (i) R. Arch. di Stato. Monialium . Deliberazioni dell' Ufficio delle monache. 15 luglio 1662. - 83 - posti in carcere; ma le carte giunte fino a noi non ci dicono quanto vi furono tenuti, né, riferendo la loro condanna, ci avvertono se la meritassero solo per l’insistenza al parlatorio, oppure anche per qualche atto sconveniente. Perché anche il parlatorio si poteva prestare ad azioni che la disciplina monastica condannava, e che sembra non dispiacessero pochi anni prima di questo fatto ai frequentatori di S. Nicolosio. Secondo una denunzia, che gli Ufficiali delle monache riconobbero giusta, il 2 ottobre 1657, nell’entrare del parlatorio di questo convento vi è una parte oscura in cuna con li bughi larghi che vi entra meso il brado del-l'homo, e qui vanno tutti li fastidiosi del monastero. Di più in chiesa alla ferriata vicino alla porta vi sono li bughi larghi, causa che ivi vanno li pocho timorati di Dio. Bisognerebbe anche levare di presso alla ferriata quella cantera che serve a male di tocamenti e mangiamenti con parenti: uno ad una bora di notte gli stava. Secondo la denunzia, rimediando a questo, cesserà la grande affluenza di visite al monastero, perché gli uomini « se non have-rano la comodità di toccarli la mano, non venirano a turbare 1’ honor di Dio » (1). Il Magistrato delle monache, ricevuta la denunzia dal Senato, l’esaminò il 2 ottobre 1657, ed il 6 dello stesso mese l’Arcivescovo, avuta notizia della denunzia pure per ordine del medesimo Senato, si affrettò a provvedere agl’ inconvenienti lamentati (2). (1) R. Arch. di Stato. Monialium Denunzia colla semplice data 1657. (2) R. Arch. di Stato. Monialium Deliberazioni dell’Ufficio delle monache. 2-6 ottobre 1657. - 84 - Gli altri rapporti e denunzie contro i frequenta tori di parlatorii e di grate che vi si recassero solo per ciarlare, o per poco di più li lasceremo da parte. Il lettore per altro non ci perderà molto, perché non vi si cavano altro che le stesse notizie intorno a monache sorridenti e ciarliere, ed a monachini pettegoli, che torse altro sperando si rassegnavano intanto a fare dei discorsi od a poco di più accrescendo in sé il desiderio di cose maggiori, e recando ad alcune monache pensieri forse non troppo casti, e alle rimanenti solo un innocente piacere. Ed ora passiamo ad altri conforti monacali. Un piacere per le monache, specie per quelle che erano entrate nel chiostro senza vocazione, doveva essere il riprodurre in convento 1’ ombra almeno d’ una vita di famiglia. Ecco pertanto molte monache tirarsi d appresso bambine e bambini, ai quali dedicavano cure materne, e per i quali talora dimenticavano la vita cui erano condannate. Bello certo doveva essere prodigare affettuose attenzioni ad una vezzosa bambinella, bello imprimere nel suo cuore i primi affetti, educarne amorosamente l’intelletto ed il cuore. La monaca si sentiva tornata in famiglia, doveva credere di aver nuovamente una casa propria, e soddisfaceva al bisogno di amare, che, specie nelle donne, dicono sia fortissimo. Però tutto questo non piaceva ai Superiori ecclesiastici che lo ritenevano dannoso alla vera vita monacale, e quindi essi fecero di tutto per togliere alle monache tale sollievo. Ordini in proposito furono dati diverse volte durante il secolo, il che, se non erriamo, dimostra quanto le monache fossero restie ad obbedirvi e ad abbandonare l’oggetto di premure assidue e di affetti gentili. - 85 - il 2i maggio 1672 l’arcivescovo Giovanni Battista Spinola deplora 1 uso che si segue « in alcuno de’ monasterii di monache » di tenere bambine e bambini « contro le proibitioni fatte », ed ordina in conseguenza alle monache della città e diocesi « che non introduchino, né permettino che altre introduchino, putti, nè fanciulle ne’ loro monasterii, quantunque minori di anni sette, sotto pene » ecc. (1). E pochi anni più tardi il Vicario arcivescovile rinnovava lo stesso decreto, dolendosi che fosse rimasto fino allora inosservato, e che alcune donne seguitassero ad introdurre e trattenere in monastero « fanciulle femine et ancora putti » (2). Cosi continuavasi un abuso, che ha la sua radice in uno dei più puri sentimenti femminili, a cui difficilmente la donna rinunzia, specie quando è costretta contro sua voglia a lasciare altri affetti, cui, per quanto dicono, tiene moltissimo. E la monaca doveva rinunziare anche ai parenti. Secondo le costituzioni monastiche era appena permesso di rivederli ogni tanto alle grate, o in parlatorio, di trattare con essi intorno a cose dello spirito, astenendosi da qualunque accenno ad affari di famiglia o a mondani interessi. Ma di fatto tali costituzioni venivano osservate ? Vedemmo altrove con quanta frequenza i parenti più o meno lontani si recassero al chiostro, ed ancora conoscemmo con quali argomenti intrattenessero le monache: non é ora il caso di tornarci sopra. Qui invece diremo che alcune monache brigavano per tirare in (1) R. Arch. di Stato. Monialium Decreto del 21 maggio 1672. (2) R. Arch. di Stato. Monialium Decreto del 12 maggio 1679. convento delle loro parenti come converse, non sappiamo se per verace affetto verso di esse, o per collocarle, ovvero per 1’ una e 1’ altra ragione insieme. Di questo si dolgono molte suore di S. Nicolò, dicendo in una lettera firmata, che ciò nuoce al buon andamento morale ed economico del monastero, ed invocando pronti provvedimenti (i). E subito, il 16 luglio 1672, l’Arcivescovo e gli Ufficiali delle monache ordinano. « che per dieci anni prossimi le reverende monache del monasterio di S. Nicolosio non accettino monaca conversa di detto monastero alcuna, la quale habbia nel detto monasterio qualche monaca conversa sua paesana » (2). Ma questo provvedimento parziale e per un solo monastero, non poteva bastare, trattandosi di cosa che accadeva ugualmente anche negli altri. Pertanto otto anni più tardi il Vicario arcivescovile doveva occuparsene a proposito di S. Marta. Nel decreto relativo, pur trattando in ispecie di questo convento, ricorda che in diversi tempi sono stati fatti ordini per proibire l’ammissione di converse parenti di monache nei monasteri in generale, insiste nel dire che tali ammissioni « apportano mali effetti », e raccomandasi che per evitarli sieno sempre osservati gli ordini odierni insieme coi precedenti (3). k cosi facevasi di tutto per privare le monache anche di converse, che fossero loro congiunte di parentela 0 di patria. Restavano le educande. Fanciulle di buona famiglia (1) R. Arch. di Stato. Monialium Lettera originale del luglio 167*• (2) R. Arch. 1. cit. Deliberazione del 16 luglio 1672. (3) R. Arch. di Stato. Monialium Decreto dato nel Palazzo arcivesco' ile il 5 marzo 1680. - 87 - erano messe in convento, perchè si riteneva che in casa non potessero acquistare educazione conforme alla loro nascita. Esse servivano certo di distrazione ad alcune monache, divenivano per altre quasi figlie, e senza dubbio portavano nel convento quella letizia e quella vita che viene dalla gioventù e dalla spensieratezza. Molte monache vivendo colle educande potevano illudersi d’ aver quasi un’ altra famiglia, e dedicando alle fanciulle cure materne dovevano illudersi d’ esercitare quel soave ministero che natura assegna alla donna. Poteva anche darsi che monache dotate di sentimenti meno gentili, irritate di essere state messe in convento contro loro voglia, facessero scontare alle piccole allieve parte delle pene che esse avevano sofferto e soffrivano, e si adoperassero quindi efficacemente nel secondar le voglie di certi genitori che destinavano le figlie al chiostro (i). Pertanto le educande erano parte integrante della vita monastica. Alcune monache, non potendo per la regola adornare se stesse, cercavano di far apparire belle di vesti pompose le ricche educande, dimostrando in quest’ ufficio gusto raffinato e tendenze troppo mondane. Certe educande vestivano abiti talora scollati, si valevano di « seta, oro e gioie », sprezzando il modesto abito « prescritto dall'Ordinario ». Quindi il cardinale Ginetto invia al Vicario arcivescovile, il 19 settembre 1664, una lettera piena di lamenti, e comanda fra altro che nel vestirsi l'educande seguano esattamente le regole stabilite (2). (1) Ved. in Alti della S. L. di S. P. jpp. I alla commedia il Barro. Ed in questo medesimo Studio il capitolo Monacazioni. (l) R. Arch. di Stato. Monialium—. Lettera del Cardinal Ginetto, scritta a nome della S. Congregazione de’ Vescovi e Regolari il 19 settembre 1664. — 88 — Ed il 1680 il Vicario arcivescovile si duole degli stessi abusi, ed ordina alle Superiore dei conventi di non permettere « che l’educande portino vesti di seta, ovvero con oro o argento, e quali non siano compite e non coprino totalmente il petto et anco le spalle, sotto pena arbitraria all’ Ordinario » (1). L’educande poi ricevevano visite alle grate e nei parlatorii, e porgevano così occasione di vedere e di parlare alle monache che le accompagnavano (2). Tali occasioni diventavano più frequenti, e certo anche più gradite, quando qualche fanciulla veniva dai parenti promessa, e, lasciata ad aspettar le nozze in monastero, vi nce- (1) R. Arch. di Stato. Monialium —-—. Decreto del Vicario arcivescovile. 138$ (2) Come curiosità a proposito di divertimenti che le monache potevano avere per causa di educande, notisi una mascherata fatta nel parlatorio di S. Nicolosxo, a quanto sembra, col permesso della Priora. Ne trascriviamo la relazione da un rapporto che uno dei soliti referendarii ne fece all’ Ufficio delle monache il 9 marzo 1639. R. Arch. di Stato. Monialium « Giovedì grasso si ballò e sonò da persone mascherate nel parlatorio di S. Nicolosio, e si dice che fu ad instanza del signor Christofaro De Fornari per rallegrare una sua figlia che ha in detto monastero amalata, e pare che la madre Priora gliel’ habbi acconsentito. E vero che gli volean ritornare Domenica grassa, ma detta madre Priora non glie 1 ha voluto più permettere. » Detta Domenica grassa al dopo desinare, finito vespro, entrarono in detto parlatorio di S. Nicolosio due compagnie di persone mascherate : però l’una non vi trovò 1’ altra. » La prima fu di cinque, tutti vestiti da donna alla sarzanese con maschera, quattro de’ quali, cioè ognuno di detti quattro, teneva in braccio un figlio di legno fasciato, e l’altro portava un paneretto coperto di un meizaro verde. » La seconda fu di tre, due vestiti da huomo con maschera e l’altro da donna con una roba turchina senza maschera, che però non si conobbe. Questi ultimi uscirno fuori del parlatorio in tempo che il Signor Pantaleo Balbi aspettava di fuori, per andare a parlare alle grate di chiesa, dove parlava Giovanni Francesco Gualtieri, che v’ andò subito quasi che arrivò in chiesa chiamato dal chierico per parte d’una monaca ». I -89- veva le visite dello sposo, e talora udiva anche qualche mattinata eseguita sotto le finestre per conto del medesimo sposo. Peraltro i Superiori cercavano impedire anche questo; ed anzi, a proposito d’ una Senarega educanda in S. Andrea, promessa sposa al magnifico Agostino Viale, avvennero nel 1^56 curiosi incidenti. Com era naturale e come sembra fosse uso, malgrado proibizioni e rabbuffi, il Viale si recava spesso a visitar la sposa, ed anzi una notte le fece fare una serenata, che, secondo uno zelante denunziatore, fu ascoltata volentieri anche da quasi tutte le monache, le quali « continuarono a stare alle terazze e balconi, senza dubbio con grande deservitio di Dio » (1). Se n occupa il Senato, affida le indagini all’eccellentissimo Giulio Della Torre, ordina ad « Agostino Viale che non debba accostarsi al monastero di Santo Andrea sotto pene arbitrarie », e proibisce a tutti i musici della città « il fare musica di sorte alcuna sotto qualsivoglia monastero di monache » (2). Ma 1’ abbadessa di S. Andrea si duole dell’ allontanamento del Viale, sia perchè ne deriva « qualche nota pregiudiciale al monastero ed alla superiora in particolare, e sia, perché dovendo questa trattare collo sposo « 1 aggiustamento di qualche interesse, senz’il quale andarebbe in lungo la conclusione del matrimonio ». « Al comparire di detti mascherati si fece alle grati di detto parlatorio gran quantità di monache, in compagnia ancora di qualche figlia secolare, e gustavano assai la vista, ma la madre .Priora, che assai subito capitò allegrati, glielo deviò e procurò che se ne andassero, anzi facea star la porta di detto parlatorio serrata ». (1) R. Arch. di Stato: Monialium . Denunzia del 7 giugno 1656. (2) R. Arch. di Stato. /. cit. Decreto del 12 giugno 1656. — 90 — Assicura che ai colloqui tra la Senarega ed il ^'alc ha voluto assistere lei « infallantemente ogni volta » e che ne é a restata edificata ». Prega quindi che al Viale sieno permesse le solite visite (i). La domanda viene in parte accolta, ed il « Senato consente che detto magnifico Agostino possa andare due volte la settimana al detto monastero, però senza compagnia di alcuno » (2). Non risulta che altro sposo si trovasse nelle condizioni del Viale prima e dopo di lui, e che ottenesse speciali concessioni; é certo però, come soprasi accennava, che s’ era introdotto 1’ uso di fidanzare 1’ educande e di ammettere a visitarle i rispettivi sposi, con dispiacere dei superiori locali, che cercavano impedirlo e talora perfino coll’ intervento della S. Congregazione. A prova di che riferiremo un brano della lettera già citata, che a nome della suddetta Congregazione il cardinale Ginetti serpeva al Vicario arcivescovile il 19 settembre 1664. « Quando accade (dice il cardinale dopo alquanti lamenti) che alcune di esse (educande) siano maritate, vogliono 1 Eccellenze Loro (della Congregazione) che subito «-he sarà concluso 1’accasamento, debbano rimandarsi alle case loro; e quando per qualche riguardo considerabile non potesse ciò effettuarsi, dovrà Ella (vicario) in tal caso prohibir loro il farsi vedere ai parlatorii 0 altri luoghi della clausura » (3). Questi ordini difficilmente saranno (1) R. Arch. di Stato Monialium Lettera di suor M. Angelica de Bernardi abbadessa di S. Andrea al Doge ecc.'1 (2) R. Arch. 1. cit Deliberazione del Senato 2j giugno 1656. (3) R. Arch. di Stato. I. e let. cit. - 9i — stati del tutto eseguiti in monasteri che avevano tante educande (i), e con monache tanto interessate a rendere i colloqui facili e frequenti. Dall’ insieme delle notizie a noi giunte riguardo alle educande, appare come esse in generale dovessero tornare gradite alle monache, e come per molte fra queste dovessero servire di vero e proprio svago e quasi ombra d’una famiglia, che avevano da bambine abbandonata, e che nel giovane cuore ardentemente bramavano. Conforto non piccolo per le monache era 1’ amicizia con estranei, amicizia dimostrata nei colloqui alle grate e nei parlatorii, in altri modi che presto conosceremo, ed anche collo scambio di doni, di cui parleremo subito. « 11 7 ottobre 1639 alla mattina per tempo (dice uno dei soliti referendarii) era nel parlatorio delle Convertite Carlo Navone, già dato in nota, che parlava con suor Maria Luiggi, la quale anche regalò di frutte mandate in panere » (2). Nello stesso monastero delle Convertite il medesimo anno 1639 v erano parecchie monache, che ricevevano doni dai loro amici. Per esempio, il 15 ottobre, a suor Maria Luiggi mandava il calderaio Giovanni Domenico Tatis « per il suo garzonetto due pezzi di rami piccioli (1) Da varie pani sappiamo che le educande erano numerose. Da una lettera poi scritta da monsignor Ginetti al Vicario arcivescovile, il 17 agosto 1663, si deduce che la S. Congregazione de’ Vescovi e Regolari si lamentava del numero eccessivo di educande raccolte in S. Marta, alcune delle quali o ricevute ad effetto di monacatisi, rimanendovi poi longo tempo in abito secolare senza prendervi il monastico ». Ordina naturalmente di lar cessare l’abuso introdotto per eludere gli ordini dati sul numero delle educande gii sorpassato. (2) R. Ardi, di Stato. Monialium . Relazione 11 ottobre 1639. novi, cioè una scgetta con suo coperchio et una concha lavorata » (i). « Due sorelle, figlie di una tale Beneitina, pur monache alle Convertite, ricevono pesci da un tal Giuseppino, che vende pesci in Chiappa...... il quale ebbe con esse famigliarità fin da quando erano al secolo » (2). E nel medesimo anno essendo stato messo in carcere Giovanni Antonio Sturla, accusato d’amoreggiamenti con suor Maria Pollonia vicaria delle Convertite, questa « le manda ogni giorno da mangiare e bere, facendole comprare il vino in fiasco dal fondaco di San Ge-nesio » (3). Suor Pollonia, che sembra fosse ricca di mezzi, si era sempre mostrata generosa verso lo Sturla, con grande meraviglia del referendario, il quale, in una sua relazione del 22 novembre 1639, osserva, che « le monache erano facili a prendere, ma a dare difficili ». Era questi però assai propenso alle meraviglie, più di noi certo, thè riteniamo quei doni naturalissimi, sapendo dallo stesso relatore che la Vicaria passava i quaranta anni, ed era quindi in un’età in cui amore appare più forte, se e da qualche dono incoraggiato (4). Però non si creda che lo Sturla, figlio d’un pesciaro, non ricambiasse, secondo sue forze, i doni della V icaria. Un relatore del 5 gennaio 1640 avverte che « alle monache Convertite é stato regalato un papagailo: sembra alla Vicaria: e pare sia venuto (per quanto si é inteso) (1) R. Arch. L cit. Relazione del 26 ottobre 1639. (2) R. Arch. di Stato, loc. e relazione cit. (3) R. Arch. di Stato, loc. cit. Relazione del 17 novembre 16)9. (4) R. Arch. di Stato. 7. cit. Relazione del 21 novembre 1639. - 95 — da parti di detto Sturla, e ciò per corrispondere a tanti doni e spese fatte da detta Vicaria per conto di detto Sturla » (i). E nel seguente anno un prete, che frequentava come cappellano il monastero di S. Bartolomeo, veniva accusato di ricevere spesso doni dalle monache, le quali sembra che fossero quasi prodighe con lui, specialmente di leccornie, e che un giorno, fra gli altri, sul finir di gennaio, ricevette « due piatti grandi di stagno coperti, in un de’ quali era latte cotto et in 1’ altro crosetti » (2). E nello stesso monastero Francesco Ré « il giorno di S. Martino veniva molto ben regalato di paste da una di dette monache » (3). E ad una monaca di S. Andrea nel 1556 si diceva che « il signor abbate Ansaldo Grimaldi avesse fatto dono d’ una mostra d’orologgio di prezzo di doppie di più di sedeci » (4). Ed al curio della chiesa di S. Brigida, pur nello stesso anno, « il magnifico Agostino Gentile riceveva un massetto di fiori finti che si pose in petto » (5). E nell'aprile del 1557 prete Seassaro usciva « dal parlatorio di S. Andrea con un bello fassoletto in mano accrespato, che all’hora, per quanto s’intese, le fu dato da dette grate » (6). I doni delle monache ad estranei e di questi a moti) R. Arch. di Sialo. Monialium — ■ . Relazione del 5 gennaio 1640. (2) R. Arch. di Stato. Monialium < ■ Relazione del 5 febbraio 1641. (}) R. Arch. di Stato. Monialium | : -. Relazione del 14 novembre 1641. (4) R. Arch. di Stato, I. cit. Relazione del 25 giugno 1656. (5) R. Arch. di Stato /. cit. Relaz. senza data fra le carte del giugno 1656. (6) R. Arch. di Stato. Monialium Relazione del 3 aprile 1557. - 94 — nache sono frequenti, ma in genere rivelano qualcosa di gentile da ambedue le parti, dimostrano che si vuole ad essi attribuire soltanto il valore di semplici segni d’ affettuosa amicizia. Certo il caso dello Sturla fa eccezione, e i doni che la vicaria Pollonia gli mandava meritano piuttosto d’ esser riconosciuti come segno di violenta passione amorosa, sulla quale a suo tempo ritorneremo. Prima però di parlare dei regali, che si solevano far pure in convento, desideriamo presentare al lettore il cavaglicre delle monache, la cui cavalleria consisteva nel cavar da quelle buone donne regali di ogni genere, questi Paolo Ambrogio Ratto, che, ricevuto ordine di allontanarsi dal monastero di S. Chiara, si mette a frequentare in ore insolite « il monastero delle Convertite, praticando con una certa suor Emanuela Madalena spa-gnuola, et ancora il monastero di Santo Nicolao con una suor Angela Serafina Palmara, con grande am mi ratione e scandalo, sì che per attendere a detti monasteri è stato scacciato dall’ufficio di sotto cancelliere del nuovo armamento, e per essere bisarro, insolente e licentioso, di parlare osceno, ne cava dalle dette monache tutto quello sa desiderare. Chi le (a giuponi di tela d’oro, chi vestiti sontuosi, senza che una sapia dell’altra, e comunemente vien chiamato il cavagliere delle monache per la varietà dell habiti, sebbene non ha un soldo di proprio, né guadagni un quatrino, e spende largamente, e lascia morire di fame sua moglie » (i). (i) R. Arch. di Stato. Monialium —-—. Denunzia letta al Senato il 26 maggia - 95 — Le accuse rivolte contro il Ratto si riconobbero sostanzialmente vere, e quindi esso, il 31 maggio, fu condannato alla relegazione per tre anni nello Stato ecclesiastico, ed al pagamento di 500 scudi come guarentigia che avrebbe osservata la relegazione. Doveva frattanto esser tenuto in carcere fino a questo pagamento; ma il Ratto non si lasciò prendere, e quindi il giorno 8 luglio venne pubblicato contro di lui il bando « nei luoghi soliti della città » (1), mentre egli, a quel che sembra, restò uccello di bosco. Nel secolo XVII era invalso l’uso nei monasteri genovesi che le monache, « sotto nome di pagar scommesse 0 la sua festa, fanno alle compagne regalli, che ascendono a somme rilevanti, e perchè ognuna vuole star al pari con le più ricche, ne segue che obligano le sue rendite, e non essendo quelle sufficienti tribolano li parenti con danno delle famiglie, et altre pongono in tal so-getto i loro amici, che Dio voglia che costi solamente robba » (2). Parte di questi regali, che specialmente si facevano per cambiamenti d’ufficii, 0 per feste di monache, toccavano anche a persone che, senza essere monache, avevano neila vita monacale una parte non indifferente. Erano questi i confessori, a prò’ dei quali « in tutti li monasteri si dà in eccesso, e Tesser confessor di monache é poco meno desiderato che l’esser vescovo, tanto utile se ne cava » (3). Di questo si parlava e (1) R. Ardi, di Stato, 1. dt. Deliberazioni del Senato 26 giugno-7 luglio 1659. (2) R. Ardi, di Stato Monialium Denunzia intorno a gravi disordini avvenuti in S. Andrea. 7 ottobre 1660. (3) R. Ardi, di Stato. Monialium, 1. dt Relazione di deputati scelti dal Senato per un’ inchiesta intorno a gravi disordini avvenuti in S. Andrea, e dei quali si parlerà espressamente in seguito. Ha la data del 16 ottobre 1660. — 96 ~ riparlava con insistenza, ma impedirlo era ben difficile, potendosi tali doni giustificare sempre, non solo dinanzi al pubblico, ma ancora dinanzi alla coscienza, col rappresentarli qual pegno di gratitudine ai confessori, che avevano cura delle monache, o come elemosina perché essi pregassero a vantaggio dell’ anime loro. Quanto ai doni tra monache in occasione di mutazioni d ufficio o di altro, venne fatto un decreto dall’arcivescovo Giovanni Battista Spinola, col quale nel 1667 espressamente si proibiva « il dare o ricevere donativi » (1). Le monache pertanto conservavano uno dei più sen titi bisogni dell’amicizia, quello del donare. Con che peraltro non intendiamo dire che solo da questo nasces sero i doni. Le monache genovesi del Cinquecento erano state accusate d’esser come gli agricoltori, che seminan poco per raccoglier molto (2); delle monache del Sei cento taluno diceva che erano più facili a ricevei e che a dare, e quindi parrebbe che il calcolo, la speranza di maggiori vantaggi, le facesse parer generose, mentre m realtà erano cupide ed avare. Già sopra dicemmo, che qualche regalo era dovuto a violenta passione amorosa, qui aggiungiamo che altri doni potevano benissimo attribuirsi ad avarizia, giacché anche questa può dirsi che fosse cara a qualche monaca del Seicento, e che altri esse li facessero per procurarsi il necessario al mantenimento di un certo fasto, a cui collettivamente o individualmente tendevano, cose di cui l’accusa anche una (1) R. Arch. di Stato. Monialium —y . Decreto dcll'arcivescovo G. B. •('PI noia, 3 luglio 1667. ' ' 1 (2) Atti della Soc. L. di S. P voi. XXV, fase. II, appendice I, alla commedia il Barro. - 97 - relazione sopra veduta. Infatti il 7 decembre 1663 il Cardinal Ginetti si duole, a nome della S. Congregazione de’ Vescovi e Regolari, « che nel monasterio dei Santi Filippo e Giacomo, soggetto al governo de’ frati domenicani, si sia introdotto 1’ abuso che se alcuna monaca si fabrica, e fa altre spese in ornamento della propria cella, pretende che dopo la sua morte rimanga a chi più le piace ». Ordina che si smetta, e vuole « che le celle bora vacanti, o che resteranno in avvenire, si distribuiscano alle più andane tra quelle che vi concorreranno, senz’attendere qualsivoglia dispositione » (1). Ed il Cardinal Durazzo, a cui la lettera del Ginetti era diretta, il 13 gennaio dell’anno successivo comandando che gli ordini della S. Congregazione vengano puntualmente eseguiti, scrive, che « si é hora hora rapportato che s’introducili un nuovo abuso, forse peggiore del primo, clic è di porre in vendita le medesime celle »; e come <ì naturale vuol che si tolga e 1’ abuso vecchio ed il nuovo. E altrove si deplora clic le monache abbiano bisogno di troppo denaro, e che troppo desiderino (2), e altronde si nota con dispiacere che per feste facciano spese eccessive (3). Tutto questo, ripetiamo, poteva benissimo obbligare alcune monache a sollecitar doni di parenti e (1) R. Arch. di Stato. Monialium —. Lettera del Cardinal Ginetti al Cardinal ' . n*s Durazzo, arcivescovo di Genova, 7 decembre 1663. Quest’abuso non era recente. Ved. in proposito negli Alti della Soc. L. di S. P. voi. XXIV fase. II, il nostro Studio, La Riforma ecc. p. 574 e segg. (2) R. Arch. di Stato. Monialium —'sT . Deliberazione del Magistrato delle monache, 30 giugno 1661. C3), R. Arch. di Suto. Monialium rii. Decreto di G. B. Spinola, arcivescovo di Genova, 7 ottobre r666. Atti Soc. Lio. St. Ptrut. Voi. XXVII. 7 _9s- d’amici col dar ad essi qualche piccolo regalo, ma ciò non toglie che altre donassero per puro sentimento d amicizia. Oltre che nell’ amicizia, le monache trovavano conforto in altri piccoli piaceri, che in famiglia non sono negati generalmente neppure a massaie, ma che per monache si ritenevano colpevoli. Alcune si dilettavano di tenere galline, ma ciò dispiaceva ai Superiori, perche il mantenimento di esse costava, e perché era atto di prò prietà, e perché avendo più monache un pollaio proprio in un medesimo luogo, potevano nascere liti *ra le 1110 nache. A questo proposito ricorderemo un curioso at terello avvenuto nel monastero di S. Brigida il 1658. Suor Chiara Giacinta Giustiniani aveva le sue galline, come 1’ avevano quasi tutte 1’altre monache. Un giorno le galline entrarono nelle stanze di suor Maria reresa Cevasco a farvi il loro mestiere, movendo 1 ,ra c 3 suora che le cacciò, proferendo forse parole poco genti 1 per suor Chiara, che accorsa rispose per le rime. Le dLjc suore dopo aver un poco lottato a parole, vennero a e mani, e si scambiarono di belle busse (1). Allora il Vicario arcivescovile pubblica, in data e 25 agosto, un decreto, con cui proibisce alle monache di S. Brigida « il tenere polaro di galinc più cìlK 0 che si tiene di comune », ed obbliga quelle che lo pos segono, a disfarsene entro otto giorni; perché dal tenere galline particolari, « oltre Tesser atto di proprietà, ne segue uno molto danno al monastero per la robba che si consuma » (2). (1) R. Arch. di Stato. Monialium —. Carte dell’Ufficio delle monache P» l’anno 1658. 1 (2) R. Arch. di Stato, l. cit. Decreto del Vicario arcivescovile, 25 ago**0 1 ^’ - 99 - Altre invece si compiacevano in allevar cagnolini, che pei altro non erano punto cari al cardinale arcivescovo Durazzo, il quale, d’accordo coll’ Ufficio delle monache, nel 1656 ordina che tutte le monache « caccino fuori de loro monasterii tutti li cagnuoli o sia cagnuole che hanno nell’ istessi monasterii » (1). Molte poi si divagavano un poco nelle festicciuole, che si celebravano per 1’ accettazione di nuove monache. Allora si mangiava un po’ meglio del solito, si faceva della musica, non so se buona 0 cattiva, si vedeva qualche persona più del solito, perché in quell’ occasioni parenti ed amici venivano a far festa. Ma anche questo conforto dispiaceva ai Superiori, i quali ormai s’eran messi in testa di ridurre il monastero ad una tomba, con quale effetto ognuno il vede. Infatti ogni tanto il Vicario arci-vescovile decreta che per monacazioni non si faccia musica , non si beva, non si mangi, e non si facciano insomma che le sole cerimonie necessarie per rinchiudere una nuova monaca. I decreti sono parecchi, e la loro frequenza dimostra già per sé stessa quanto dovessero essere osservati. Qui, come modello del genere, leggasene in parte uno emanato dall’ arcivescovo Giovanni Battista Spinola il giorno 11 settembre 1666. « Desiderando (egli scrive) oviare a quelle cose, che posson nuocere alle monache di questa città e diocesi ..., con l’intervento e consenso dell’ illustrissimi signori Ufficiali delle (1) R. Arch. di Stato, /. di. Decreto dcll'arcivcscovo Cardinal Durazzo, 21 agosto t6$6. Qualche monaca pare giocasse al seminario. A questo gioco, che somigliava al nostro del lotto, col quale poi si confuse, si allude nell’interrogatorio (atto per la fuga di due monache avvenuta il t6j8, e della quale parleremo ampiamente in seguito. monache di Genova, prohibisce a tutte le monache della presente città e diocesi, anco soggette a regolari, il fare musica nelle chiese esteriori de’ loro monasterii in quelli giorni che si dà 1’habito monacale a qualche zitella, o che qualche monaca novitia fa la professione. Di più all’ istesse monache et a’ loro parenti et altri chi si sia prohibisce, nel sudetto et altri giorni di qualsivoglia festa o solennità, il dare nelle chiese sudette, ovvero nelle sacrestie, ad alcune persone di qualunque stato, grado e conditione, paste, canditi, biscotti, o altra cosa da mangiare o da bevere. E quanto sopra prohibisce con pene arbitrarie » ecc. (i). Come si vede parecchi e svaria i erano i divertimenti che le monache si prendevano, ma a distramele capitava ogni tanto qualche decreto da parte dei Superiori che ormai guardavano a tutto. Questi peraltro ritenevano che i loro ordini non sa rebbero stati mai pienamente osservati, finché le monache non si fossero potute del tutto isolare, proibendo loro qualunque relazione cogli estranei, o riducendo queste al minimo possibile. Di ciò sappiamo già qualcosa, e molto di più potremo togliere dai numerosi decreti emanati in proposito, e che si conservano fra le cartL dell’ Ufficio delle monache. Eccone qualcuno. Gli operai che devono entrare nei monasteri per eseguirvi lavori sieno scelti tra i più serii ed assennati, e vengan chiamati solo per provata necessità. Entrando e stando nella clausura siano sempre accompagnati da due monache delle più vecchie a ciò deputate, essendo tutte le altre (i) R. Arch. di Stato. Monialium —*—. Decreto del Cardinal Durazzo, 11 tembre 1666. ,,>4 — ior — monache retirate, et fatti 1’ essercitii, per li quali saranno entrati, subbito eschino fuori della clausura; che niuno vadi vagando per il monastero, ma solamente alli luoghi prescritti, e parimente non entrino avanti giorno, né vi restino dopo l’Ave Maria di notte, eccettuati però il padre confessore e li signori medici e cherurghi, quali si potrà permettere che entrino in ogn’ hora per urgente necessità » (i). Ed a regole particolari per 1’accesso dei frati, che per confessioni o prediche potevano recarsi spesso ai monasteri, provvedeva per tutti la S. Congregazione il i decembre 1623, confermando in sostanza che nessuno vi si rechi altro che per evidente necessità, inviato dai suoi superiori, o per visitare parenti sino al quarto grado. Vuole che ai colloqui di frati con monache assistano solo auscultatrices de more, non autem alide. Fissa regole severe pei confessori e predicatori, e per chi va a dir messa nei monasteri (2). A Genova però queste regole non venivano pienamente osservate, del che si lamentava, a nome della S. Congregazione, il Cardinal Ginetti deplorando che avvenga « con scandalo de’ secolari e detrimento dell'anime », e ordinando al Vicario arcivescovile di « procedere contro li trasgressori » (3). Il Vicario (1) R. Ardi, di Sisto. Monialium . Ordine dell’Ardvescovo di Genova fatto per le Convertite il 2 gennaio 1651 e confermato in seguito. L'abbiamo citato, ritenendo che molto diversi non dovessero essere gli ordini per gli altri monasteri. (2) R. Arch. di Stato, 1. cit. Decreto del 1 decembre 1623, stampato anche in Roma nel 1624. (3) R. Arch. di Stato Monùlinm —Lettera del Cardinal Ginetti al Vicario I {S} arcivescovile di Genova, to ottobre 1660. — 102 — obbedisce, ma nove anni più tardi l’arcivescovo Giovanni Battista Spinola sente il bisogno di rammentare ai religiosi questi vecchi ordini con un minaccioso decreto (i). Di cosi corta memoria erano allora i frati, e cosi grande era nei Superiori il desiderio di isolare le monache! Il Governo genovese poi, per proprio conto, pubblica di tanto in tanto gride per impedire che presso ai monasteri la gente s’intrattenga a parlare, a giocare, a tar bagni, sospettando non solo che parole disoneste giungano agli orecchi delle monache, ma temendo pure altri inconvenienti facili a capirsi (2). Il monastero doveva essere come un’ isola sacra, a cui si concedeva 1’ approdo solo a persone che lo dimostrassero necessario per il bene delle abitatrici, bene, manco a dirlo, che doveva essere riconosciuto dai Superiori di esse. Vi riuscirono? In parte di certo: rendendo diffidi6 1 accesso al monastero, resero anche difficili per molte monache i rapporti con estranei, e non solo quelli che potevano dare occasione ad inconvenienti gravi, ma persino altri che arrecavano conforti purissimi. Però amiamo ripetere che tali ordini venissero effettivamente solo in parte osservati : molte monache, già si è veduto, trovavano il mezzo di eluderli; tutte poi, anche osservando la più severa clausura, avevano un conforto, che di fatto nessuna legge poteva lor togliere, ed era il pettegolezzo. Le chiacchiere futili di convento, tagliar i panni (I R. Arch. di Stato. /. cit. Decreto dell’arcivescovo G. B. Spinola, i agosto 1669. (2) Ved. nel R. Arch. di Stato. Grida t proclami, specialmente nelle buste ioi7 io*3 - 103 - addosso alle compagne, criticare 1’opera della Superiora, burlarsi di qualche compagna poco svelta, dicono che sia un grande conforto. E se é veramente cosi, le monache genovesi, che con premura speciale venivano private d’ogni svago, trovavano nei pettegolezzi una vera consolazione. Coni’ é naturale dai pettegolezzi si passava ai bisticci non sempre comici, alle rampogne severe, ai rimpianti amari; ma anche tutto questo doveva esser di conforto, distogliendo le buone suore dalla monotona osservanza delle regole. Qualche monaca faceva anche di più, spingeva la mania del pettegolezzo, che in questo caso meriterebbe altro nome, fino alla delazione anonima, e talora alla calunnia contro le compagne. Ad esempio, nel 1633, giungevano all’ Ufficio delle monache parecchie lettere anonime, che invocavano provvedimenti contro suor Ar-cangela Benedetta Pallavicina, monaca a S. Nicolao, accusata di amori molto spinti, di superbia, di arroganza e di simili delizie (1). Ebbene, il 16 decembre dello stesso anno, 1’ Ufficio riceveva una lettera firmata « Una monaca dell’ istcsso monastero », nella quale la scrittrice confessava d’ aver mandate le denunzie precedenti (e sono scritte dalla stessa mano), a per sdegni privati e per ingiurie ricevute da suor Pallavicina ». Le dichiara false, accusando sé ed altre monache di avere tutto macchinato, « perché essa voleva troppo comandare in questo monastero » (2). Questa lettera ci dà (1) R. Arch. di Stato. Monialium - carte del 1633. Ciò che sia di vero nelle accuse fatte alla Pallavicina lo vedremo più innanzi al cap. Vili. (1) R. Arch. di Stato. Monialium Lettera del 16 decembre 1633. — 104 — un' idea della parte più brutta de’ pettegolezzi monacali, ci fa capire che non sempre eran mossi da manìa di critica e di ciarle, ma da animo poco buono, da gelosie, invidie e simili brutture. Ma non insisteremo su questo: in genere i pettegolezzi monacali somigliano, agli altri pettegolezzi di ogni tempo, che si fanno anche fuori de monasteri, e solo diventano più frequenti e nascono per cose meno gravi, a causa della ristrettezza della vita monacale. Colle carte che si conservano potremmo di essi parlare assai, ma, a dire il vero, ci parrebbe di rubar il tempo ai nostri lettori intrattenendoli su tali bazzecole, che è così facile indovinare anche senza bisogno di libri. Preferiamo quindi finire questo capitolo, ormai troppo lungo, e passare senz’altro a studiare altri fatti, che a monasteri ed a monache si riferiscono. CAPO QUARTO. Monache e Musica. Fra gli spassi di convento avremmo dovuto porre anche la musica, la quale del tutto non potevasi mai proibite, e che alle monache d’animo gentile dbveva recare vivissimo piacere. Peraltro Yimportanza di quest’argomento ci ha indotti a trattarne in un capitolo a parte, che ci permetta di studiare con una certa ampiezza e precisione anche i rapporti che i musici avevano colle monache. Le regole in generale permettevano di cantar inni sacri - io5 - nelle chiese e nelle sale dei monasteri, ritenendosi che la musica fosse anche di aiuto alla pietà, e che potesse sollevar lo spirito dalla materia portandolo verso regioni più pure. Quindi non farà meraviglia se monache di sensi gentili coltivarono amorosamente quest’arte, e se alcune di esse, dotate di gusto squisito e di esimie qualità naturali, riescirono a diventare vere virtuose di canto e di suono, e a dilettare gli ascoltatori con divine armonie. Giovanni Battista Confalonieri, che nel 1592, recandosi in Spagna, si fermò parecchi giorni a Genova, racconta meraviglie delle monache genovesi, egregie nell’ arte musicale (1). Il Confalonieri visitò le cose più notevoli della città, fermandosi specialmente a veder chiese e monasteri, dei quali parlò poi con piena cognizione di causa. « Delli monasteri di monache (egli dice) quali sono di gran numero, forsi più di venti, solo dirò che ve ne sono tre, che hanno musiche molto buone. Il monastero di S. Andrea, ha una monaca che di gorga e di passaggi pretende avanzar tutti, et il giorno di detto Santo io la sentii: cosa di molta meraviglia. Nel monastero di S. Marta, vicino a S. Caterina, sotto la cura de’ Padri Cassinesi, ve n’ é un’ altra che suona cosi bene l’organo e canta cosi politamente, che mi parve avantaggiare la prima, anzi che non si potesse cantar meglio (2). « Ma quando sentii la terza nel monastero di S. Leonardo, io non seppi che dire altro, se non che questa (1) Viaggio di G. B. Confalonieri da Roma a Madrid nel i)-p2, pubblicato da D. Gregorio Palmieri nello Spicilegio Vaticano, voi. I, fase. II, Roma 1890. (2) Confalonieri, Viaggio cit. a p. 186 dello Spicilegio pur cit. — io6 — avea più dell’angelo che della donna, per ciò che supera l’età, la natura e forse l’arte in una feminuccia di quindici anni. Ieri, oltre che sentissimo un vespro et una compieta con musica fermatissima e sicurissima senza mai abbagliare, che invidiava qualsivoglia cappella d Italia, questa monaca cantò sola et accompagnata, con tanta maniera, con tanta forza, passaggi e leggiadria, che restavano ammirati quelli ancora che di musica non s intendevano. E poco sarebbe stato il canto, se non avesse fatto stupir tutti con il suono: ella suona d organo, e sonò anco una lira a gamba, e poi un violino, dove sonò una Susanna con tal sicurezza, con arcate cosi dolci, sonore e secondo l’arte, contra battuta dell oigano, .*41 che invero mi pareva sentire un Giovanni Battista <.e violino, e non negarei che non avesse alcuni passaggi di esso scritti a mano ». La musica fu sempre coltivata nei monasteri genovesi anche durante il secolo XVII, e monache impararono a cantare e a suonare egregiamente. Maestri laici si reca vano al convento per istruirle, e spesso le grate e 1 par - latori risonavano di dolci canti, che i maestri ordinavano per esercitare le allieve. Oltre che alle monache la musica insegnavasi pure alle educande, e le feste religiose e monacazioni dalla musica erano rallegrate, spesso altresì colla partecipazione di qualche musico. Però anche la musica diede luogo ad abusi, e talora divenne essa stessa occasione ad amorose passioni, ed 1 referendarii non mancarono di osservare i maestri, che si recavano ad insegnare musica nei monasteri spiandone ogni atto. La musica da insegnarsi alle monache, secondo le — 107 — intenzioni dei Superiori, sarebbe dovuta essere puramente sacra, per servire nelle cerimonie religiose; ma invece si uso talora anche la profana, ed alle grate e nei parlatorii si cantarono canzoni, che non sembravano molto adatte alle caste orecchie delle vergini monache. Ed allora denunziatori anonimi e referendarii di me-stieie dipingevano la musica come perniciosa, e i musici si tiravano addosso dispiaceri e punizioni. « Alle grate di S. Brigida (dice una denunzia anomina) tutto il giorno si fa musica, e li musici sono Falconieri, Giovan Matteo Costa e Giovan Andrea Ghirardi. Il Ghirardi viene solo come anco il Falconieri, che ci viene quasi tutti i giorni. Di più alla notte vengono in strada, sotto le terrazze del monastero ----, e le canzoni che cantano alle grate delli monasteri non sono meglio di quelle che cantano di fuori » (i). « Il giorno della festa di S. Andrea (scrive un referendario), mentre dalle monache del monastero di S. Andrea si cantava il vespro, fu da persone, quali erano in chiesa di detto monastero, sentito sonar di organo et anco di liuto Giovanni Maria Costa musico, quale fu anco visto apresso detto organo nel choro delle stesse monache, non senza grande ammiratione di chi lo vidde » (2). E tanto per la denunzia, quanto per il rapporto, manco a dirlo, piombano punizioni; e per il musico Costa l’ab-badessa di S. Andrea si prende un solenne ammonimento (1) R. Arch. di Stato. Moniaitutn —Denuncia del 24 giugno 1636. (2) R. Arch. di Stato, /. cit. Rapporto del 10 dicembre 1632. — io8 — in iscritto « da attaccarsi al refettorio, e la proibizione di suonar l’organo altro che per Natale » (i)- Sembra inoltre che la musica sacra prendesse un carattere troppo profano, che nella chiesa stessa e nel coro le monache vagheggiassero troppo l’arte musicale, e che per istruirsi perdessero troppo tempo distraendosi dalle cure più gravi del loro stato. Quindi si hanno provvedimenti d’indole generale, per ridurre la musica de’ monasteri genovesi a proporzioni più modeste, per disciplinare più severamente l’insegnamento di essa, affinchè il contatto fra maestri ed allieve non desse luogo a qualche inconveniente. Diverse volte si biasima 1 abuso delle musiche nelle chiese de’ monasteri,' e si ordina di farla solo in determinate solennità (2), ritenendosi^ la musica stessa, anche se castigata, un’ occasione propizia di pericolose distrazioni. Lasciamo di trascrivere i relativi decreti, che nulla hanno di speciale, ad eccezione di uno pubblicato il 1^95» e che da solo può dare un’ idea precisa del concetto che allora si aveva della musica monacale, e di alcuni abusi che da essa derivavano. Eccolo integralmente. « Giovanni Battista Spinola, ecc. Essendoci stato imposto dalla Sacra Congregatione sopra li negotii de Vescovi e Regolari di proibire a qualsivoglia monasteno di monache di questa città e diocesi la musica, nella di- (1) R. Arch. di Stato, l. cit. Deliberazione dell’Ufficio delle monache, 22 cembre 1632. J2) Ved. nel R. Arch. di Stato. Monialium —,---V' Qui noteremo, come x3 * 1 ner esempio, che in un decreto del 7 gennaio 1667 la musica era permessa so 0 p la festa principale della chiesa, per il Natale e pei giorni « nelli quali si havera da levare l’espositione fatta del Santissimo per l’adorazione delle quarant hore » • — io9 — forma e maniera che si contiene nella lettera della medesima S. Congregatione, il tenor della quale é come segue. « Illustrissimo e reverendissimo Monsignor come fratello. » È stato rappresentato alla Sacra Congregatione che in alcuni monasteri di monache di cotesta città, anco sottoposti al governo de’ Regolari, siasi introdotto l’abuso che le monache cantino e faccino cantare in chiesa qualunque sorte di mottetti o altre compositioni, e che i professori di musica vadino ad insegnare alle religiose et alle zitelle educande il canto, e anche ristesse monache cantino in qualunque tempo. Questi reverendissimi miei Signori non approvando l’uso del canto figurato nelli monasteri e chiese di monache, come quello che distrae dall’altre applicationi più necessarie e proprie alla vita religiosa, e molto meno che i professori di musica vadino ad insegnare alle medesime et all’educande il canto figurato, et che le monache cantino ne’ parlatorii, mi hanno comandato di scrivere a V. S. che invigili tanto nei monasteri sogetti a lei, quanto nelli sottoposti al governo de’ Regolari di qualsivoglia ordine, communi-candole in vigor di questa ogni facoltà necessaria, acciò venghino osservati i decreti generali di questa Sacra Congregatione, la quale permetterà solamente alle volte che alcuna di esse monache, per servitio del coro et ad effetto d’instruire le altre, possino per poco tempo imparare il canto fermo, e di suonar l’organo, purché il maestro sia d’età grave e di buoni costumi, e ciò siegua ne’ giorni et hore opportune, sempre con l’intervento — no — dell’ascoltatrici, o d’altre monache specialmente deputate dall’abbadessa. E che l’istesse monache possino solamente cantare in chiesa nel tempo dei divini officii, in quei monasteri però ne’ quali non é proibito; come anche tolera la musica dove é la consuetudine nella chiesa esteriore in alcune feste principali, senza compositioni volgari. E glielo significo, et il Signore Iddio la prosperi. Roma 7 settembre 1695. « Pertanto (riprende l’Arcivescovo), come giusto, 01 di-niamo l’osservanza in tutto a ciascheduno monastero ecc..., sotto pena di privatione della voce attiva e passiva ad tempus 0 in perpetuo, 0 altra a noi arbitraria. Et in quelli casi et in quelle forme che è permessa la musica nella sopradetta lettera, siano servite le Superiore dar aviso a noi delli giorni che intendono che si canti la musica et delli musici che intendono servirsi » (0- Si vede dunque come l’amore alla musica fosse grande nelle monache genovesi, e come gli stessi Superiori lo cali non riuscissero sempre a tenerle fedeli a quel genere che piaceva alla Chiesa. Per cui non solo nella musica un po’ libera che si faceva talora nei parlatori, ma nella stessa musica sacra destinata alla chiesa ed al coro, le monache del Seicento urtavano contro le regole e richiamavano l’attenzione degli stessi Superiori romani. Gli ordini dati pei maestri di musica crediamo che non si fondassero semplicemente sopra sospetti, ma su fatti (1) R. Arch. di Stato, Carte ecclesiastiche, Sala 74, n. 320. — Ili — positivi, giacché anche allora accadeva che maestri abusassero della loro autorità presso le allieve, cosa più che mai facile trattandosi di monache spesso molto giovani e non sempre contente della vita claustrale (i). Il decreto della Sacra Congregazione però non parla di un altro uso, a cui frequentemente serviva la musica. Talora sotto le terrazze e le finestre dei monasteri, schiere di giovani cantavano procaci canzoni d’ amore al suono d’istrumenti musicali, e talora anche un giovine da solo cercava col canto di giungere al cuore dell’amata chiusa in convento. Tal volta l’educande erano la causa di amorose serenate, talaltra servivano esse di semplice pretesto, mentre i canti ed i suoni erano per le belle educatrici. Anche la musica valeva in questi casi come celere messaggiero d’amore, ed i musici improvvisati o di professione ricevevano quasi sempre ammonizioni severe, e talora altresì condanne a prigione e ad esilio. Quindi i Superiori non contenti di aver con regole restrittive resa men bella e meno frequente la musica sacra, non contenti di togliere all’ insegnamento della musica quella dote che forse a molte monache piaceva assaissimo, vol-■ lero anche far la caccia ai poveri innamorati, che, non potendo far nulla di più, si contentavano di manifestare affanni sicuri e speranze incerte in forma musicale sotto le finestre delle loro belle. (i) R. Arch. di Stato. Monialium —Il 4 settembre 1667 Pier Simone I30O maestro di musica « viene relegato ossia bandito ». L’accusa fattagli era di avere frequentato monasterii, specialmente quello di S. Nicolosio, e d’avervi tenuti « sotto pretesto di musica discorsi lascivi ». Spesso si trovano condanne di musici per le cause stesse che fecero perdere la patria a maestro Simone; ma pochi anni se ne fecero tante quante nel 1667. — 112 — Le denunzie e i rapporti in proposito fioccarono pei tutto il secolo, e così per saggio accenneremo ad alcune scelte tra le più caratteristiche. Nel 1625 molti giovani sono accusati di andate durante la notte a disturbar le monache con suoni e canti sconvenienti. Due soli di questi giovani pero vengono riconosciuti ; e 1’ uno, Federico Rubino figlio di Giovanni Francesco medico, è ammonito ne audeat canere vel instrumenta pulsare circa aliqua monasteria monialium, nec etiam prope illa ita ut moniales audire possint; nani alias a Serenissimis Collegiis puniatur (1). L altro, Bat tista Raggio, prima è ammonito, ma siccome non cesso inhonesta sub fenistris protulisse, venne tenuto qualche tempo in carcere e poi liberato colla cauzione di mille scudi (2). 11 30 giugno 1636 a S. Brigida, sotto la terrazza verso la strada, un giovane faceva « gestri di canto, e poco dopo dalle terrazze tiravano dei sassetti più d una volta » (3). _ E nell’ anno seguente, sotto una terrazza fattasi a bricare da una monaca delle Convertite, si recava spesso « il musico Lernarino con un altro a cantare e sonare serenate e mattinate,......tanto larghe di parole d’ amore che non si può dire di più » (4)- Nel carnevale dell’ anno stesso prete Francesco di Moneglia « fece fare una mattinata ad una monaca di (1) R. Arch. di Stato. Monialium --2g-- Deliberazione del 16 agosto 1625. (2) R. Arch. di Stato, l. cit. Deliberazioni del 12 agosto e del 2 ottobre 1625 (3) R- Arch. di Stato. Monialium —— Relazione 8 luglio 1636. 1384 • 0 (4) R. Arch. di Stalo, 1. cit. Denunzia del 1637 e provvedimenti relativi per impedire il rinnovarsi di questo e di altri abusi lamentati nella medesima denunzia. - ii3 — S, Brigida.....Si é poi inteso che detta monaca, pei mezzo di biglietto, ha mandato a ringratiar detto prete » (i). Ed il 1644 « a S. Tomaso nella piazzetta della marina, sotto le finestre delle monache, fu a 22 di luglio di notte fatta, come si suol dire, mattinata di suono e canto; e molti giorni prima ne fu fatta in detto luogo un’ altra, le quali si è poi sentito esser state fatte per parte del signor Nicolò Spinola quomdatn Lucae, e de’ suoi compagni , che sono li signori Giovan Battista Gentile quomdam Stephani e Pietro Spinola quondam Ste-phani » (2). Ed il febbraio dell’ anno dopo si fermavano presso S. Tomaso alcuni giovani, dei quali « 1’ uno sonava la chitarra, li altri cantavano » (3). E molti suonatori e cantatori si denunziano e si arrestano quasi ogni anno, alcuni da riporsi nella categoria dei giovani sfacciati amatori di canti disonesti nel vero senso della parola, e di sconvenienti schiamazzi, altri invece da reputarsi giovani dabbene, che ricorrevano alla musica per dimostrare il proprio affetto a qualche bella reclusa. Notevole é il fitto che i musicanti, diciamoli così, appartengono ad ogni classe sociale: vi sono nobili, popolani e persino preti, come pure di varie classi troviamo i monachini, che con altri mezzi cercano mostrare loro amore a monache. (1) R. Arch. di Stato. Monialium . Relazione 8 marzo 1637. (2) R. Arch. di Stato. Monialium . Relazione del 22 luglio 1644. (3) R. Arch. di Stato. Monialium . Deposizione di tre soldati tedeschi eh’eran di guardia alla porta S. Tomaso la notte del 14 febbraio 1645. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXVII. S - ih — Contro i musicanti ricchi o poveri, nobili o artigiani, usò molto rigore 1’ Ufficio delle monache ed il Governo, ma con resultati poco soddisfacenti. Anche l’ultimo anno del secolo due giovani, Giovanni Battista Marchese, merciaro in Campetto, e Antonio Bettino tintore, furono in carcere « più giorni, in nome et a dispositione del Serenissimo Senato, per causa di musica e sonata seguita incontro al monastero delle monache di S. Bartolomeo del Carmine » (i). Ed il terzo anno del secolo seguente, nel mese di novembre, si avvisò 1’ Ufficio delle monache, ormai assai scaduto, che « giovedì 22 novembre alle ore tre di notte nel vicolo del S. Sudario, ove corrispondono le finestre del monastero delle reverende monache di S. Andrea, il prete Peirano sonando l’arpone, e tra altri due vestiti da abbati, et uno di coloro cantando ariete e canzoni vi si trattenessero, corrisposti con segni da monache che erano alle finestre. Di ivi poi tutti quattro si poi tasserò al monastero delle monache Convertite, dove pa rimenti si trattennero cantando e sonando » (2)- Quindi gli anni passavano, le punizioni si succedevano, ma le serenate sotto le finestre dei monasteri si facevano sempre. (2) R. Arch. di Stato. Monialium —-—. Ordine del Senato per la liberaz*° A ' A • ei due carcerati che già avevano scontata la pena, 5 novembre 1699. (2) R. Arch. di Stato. 1. cit. Relazione del 2$ novembre 1703. - ii5 - CAPO QUINTO. Monachini fuori di clausura — Messi d’ amore. Non a tutti era dato di entrare nel parlatorio, né tutti potevano dimostrare la simpatia verso le monache con suoni e con canti. Altri invece si rassegnavano a vagheggiare le belle rinchiuse dalla chiesa del monastero, dalle strade vicine, dagli orti o da altri luoghi limitrofi, che il permettessero, oppure, con arte vecchia sempre nuova, attaccavano con esse corrispondenza scritta, valendosi di abili messaggeri scelti sopratutto fra le serventi del monastero. In ogni chiesa abbondano i monachini. Di questi i più cercano le monache in coro, facendo ad esse manifesti segni d’amore. Per esempio la festa di S. Limbania nella chiesa di S. Tomaso v’erano parecchi giovani, fra cui « il nipote del signor Tomaso Raggio, il quale non si parti mai di prospettiva al choro delle monache, sino che non fossero finite tutte le messe inclusavi la grande, tutto intento in osservarle massime nel tempo si leva Nostro Signore, che si dimostrano (le monache), se bene poi da qualche appertura si fanno vedere » (i). E nella stessa chiesa pochi giorni dopo « Alessandro Doria in compagnia di due altri, dopo finita la messa (i) R. Arch. di Stato. Jurisdictionalium et ecclesiasticorum . Relazione del 6 giugno 1645. — 116 — grande, si pose in faccia del choro delle monache, dove si trattenne quasi un’ ora, che di già se n’ erano andate le persone, tutto intento a vagheggiare una monica remasta in detto choro con ridere e far segni manifesti » (i). Ed un altro giovane faceva il medesimo nella chiesa di S. Nicolosio, occhieggiando però tutte le monache rimaste in coro dopo il vespro (2). E qualche monaca naturalmente corrispondeva. Per esempio, mentre un vagheggino guardava a S. Leonardo verso il coro, « una monaca s’era affacciata ad una vista » (3). Altri invece le cercavano verso l’organo, dove alcuna si recava a suonare, e i bravi monachini sorridendo e facendo gesti procuravan di farsi intendere dalle belle suonatoci. In tale atteggiamento, ad esempio, fu sorpreso a S. Bernardo Giovanni Battista Cardinale il 19 §'ìUSn0 IÓ33 (4). Qualcuno cominciava dalla chiesa ed arrivava poi a parlatorio, fors’ anche più innanzi, altri si valeva della chiesa per vedere qualche monaca e con cenni farle capire cose, che dopo sarebbero state con altri mezzi eseguite. Però anche ai monachini, che si valevano della chiesa per vagheggiare 0 per altro, dettero la caccia i denunziatori, i referendari ed i magistrati delle mo nache, cosicché parecchi si ebbero severi ammonimenti 0 (1) R. Arch. di Stato, 1. cit. Relazione del 27 giugno 1645, nella quale di nom si indica il solo Alessandro Doria. (2) R. Arch. di Stato. Jurisdictionalium et ecclesiasticorum t 'o~ . Relazione del 27 giugno 1645. l40' 13) R- Arch. di Stato Monialium—'■—. Relazione dell’11 ottobre I&39' . 13®2 (4) Arch. di Stato, /. cit. Relazione del 27 giugno 1633. - 1 r7 — ed anche il carcere. Ma questo non impedì che essi medesimi od altri tornassero assai presto alla carica. Forse un poco meno osservati ed alquanto più liberi erano i monachini che in certe ore passavano sotto le finestre dei monasteri, per vedere le monache e farsi vedere. Simili agl’ innamorati di tutti i tempi consumavano ore ed ore andando avanti e indietro, e si reputavano felici, se qualche monaca dalle finestre o dal terrazzo mostrava di averli notati e di prenderne piacere. E non si trattava di giovanetti inesperti, o di persone del volgo, ma d’uomini fatti e appartenenti a classi elevate. Un referendario, nel marzo del 1645, si prese la briga di seguire verso S. Tomaso Poro Bassadonne e di spiarne diligentemente ogni atto. Odasi la sua relazione. « Essendo andato in visita alli monasteri, ho trovato circa 1’ hore 23 incaminato sopra il passaggio delle muraglie per la volta di quello di Santo Tomaso il signor Poro Bassa-donne in compagnia di uno prete e servitori dietro, et havendolo seguitato, quando é stato alla vista di detto monastero ha lentato grandemente il passo, osservando continuamente le finestre d’ esso, dove ho scoperto alla solita finestra del mare due monache di bello aspetto, che erano in prospettiva da poter esser conosciute. Et essendo giunto all’ incontro d’ esse, ha preso il cappello in mano e salutato per non esser tenuto sospetto, la casa che remaneva in la strada, non essendovisi, come ho osservato, persona alcuna solo di bassa gente che potesse salutare. Si é poi incamminato verso la porta di S. Tomaso, e in l’istesso tempo non ho più visto le sudette monache. Et uscito fuori d’ essa, si é posto a sedere sopra il scalino che va al palazzo del principe Doria, — 118 — che restava in prospettiva delle loro terasse, dove già altre volte l’ho visto e accusato » (i). Notisi 1’ acutezza dell’ osservatore, e la furberia del monachino, che potrebbe certo far da maestro ai vagheggini di ogni tempo. Ma non si creda che gli altri non s’ingegnassero pure, per dare nell’occhio il meno possibile. Per esempio Giovanni Maria Semino verso la sera si pone sulla strada alta e piuttosto appartata, che conduce alle monache Turchine, e di là « fa segni col cappello a chi desidera eh’ é alla finestra del monastero » (2), guardandosi bene di non accostarsi di troppo 0 di lasciarsi vedere dalla gente. E parecchi signori, chierici e secolari, si fermavano abitualmente nelle vicinanze di S. Brigida « delle hoie intiere seduti sopra un muro, eh’è dalla parte sinistra verso S. Tomaso » (3), naturalmente aspettando di poter vedere e salutare qualche monaca. E certuni che tiravano a qualche bella di S. Leonardo, approfittando delle mura prossime al convento, vi salivano sopra, e di là dominando le terrazze del monastero, (1) R. Arch. di Stato. Jurisdictionalium et ecclesiasticorum - 0~ • Relaz'one ^ 10 marzo 1645. Per S. Tomaso era cosa consueta che i monachini si recassero fuori di porta, sulla via di Fassolo che non doveva esser molto frequentata. Ved. specialmente la relazione del giorno 8 maggio 1635. R. Archivio di Stato, Monialium Ed il muricciolo che era fuori della porta serviva a far riposare i bravi vagheg gini e a render loro meno disagevole il lungo aspettare. Ved. nel l. cit la rela zione del 16 giugno 1636. E com’era naturale, le monache quando potevano, rispondevano dalle terrazze e dalle finestre. Relazione del 25 marzo 1635- Arch. l. cit. (2) R. Arch. di Stato, /. cit. Relazione del 6 maggio 1646. ^3) R. Arch. di Stato. Monialium ——. Relazione del 24 novembre 163 3’ 1385 ^ si feimavano a guardare per lungo tempo (i). E talora avevano fortuna, trovando monache alle finestre e rivolgendo loro sorrisi e segni d’amore (2). Per il monastero di S. Brigida servivano anche gli orti di S. Giovanni, nei quali si recavano i vagheggini facendo cenni e saluti « alle monache che erano alle finestre » (3). Per le Convertite invece pare che i monachini dovessero adattarsi quasi sempre a passeggiar sotto le finestre, non trovando in quei pressi nessun pubblico luogo, che meglio si prestasse ai vagheggiamenti (4). Il che peraltro, specie alla sera, non impediva loro di corrispondere talvolta ai saluti ed ai sorrisi delle monache, come avvenne la sera dell’ 11 febbraio 1637 « al cavagliere Lomellino quondam Giovanni Maria, che passeggiando sotto le terrazze, rideva con una monaca, che era sulla terrazza » (5). Qualcuno però riusciva ad entrare nell’ orto dell’ oratorio di Santo Stefano e, quantunque il luogo non fosse comodissimo, s’ingegnava di parlare di là colle monache (6). In posizione più felice era il monastero di S. Bartolomeo dell’ Olivella. Essendo posto presso le mura (1) R. Arch. di Stato, 1. cit. In una relazione del 20 novembre 1633 fra tali vagheggini si ricordano Giovan Francesco Gentile ed il figlio secondogenito di Domenico Doria. (2) R. Arch. di Stato, l. cit. Relazione del 23 decembre 1633. (3) R. Arch. di Stato. Monialium . Relazione del 2 febbraio 1634. (4) R. Arch. di Stato. Monialium—. Relazione del 4 febbraio 1636. (5) R. Arch. di Stato, l. cit. Relazione del 13 febbraio 1637. (6) R. Arch. di Stato, l. cit. Relazione del 13 ottobre 1689. — 120 — urbane, che salivano al Castelletto, potevasi da queste corrispondere colle monache « a puoca lontananza », tanto più che le finestre di alcune celle guardavano proprio le mura in un luogo di consueto solitario, specialmente la sera (i). E pure bene si trovavano le monache di S. Andrea, che avevano terrazze sul giardino de’ frati di S. Domenico, nel quale talora entravano anche dei secolari, che non mancavan d’approfittare di questa felice occasione. Anzi, come curiosità del genere, leggasi questa relazione del 4 maggio 1639. « 11 25 aprile dopo desinare sul tardi erano nel giardino de’ frati di S. Domenico, vicino al l’oratorio o sia casazza di S. Paolo, Flaminio Bianco et un de’ fratelli Giudei speciari, cioè quello non maritato, che segnavano con un bastone a due monache di S. Andrea, eh'erano sopra le terrazze che porgono da quelle parti, le quali parimente corrispondevano ai segni con un altro bastone » (2). E dall’ altezza del Castelletto era facile comunicare colle monache di S. Nicolosio, e i monachini vi si recavano sicuri di esser veduti e di vedere, specialmente quando le monache fossero sopra le terrazze (3)-Chi poi aveva la fortuna di abitar presso ai monasteri e di avere finestre verso di essi, ne approfittava per guardare le monache quando si affacciassero ai balconi, o salissero sopra le terrazze. Chi non ce l’aveva di proprio, si recava potendo in casa di persone compiacenti, e cosi provve- (1) R. Arch. di Stato. Monialium ——. Relazione del 18 ottobre 1636. (2) R. Arch. di Stato. /. cit. (3) R. Arch. di Stato. Monialium —Relazione del 20 aprile I633. ■3°3 — 121 — de va al suo bisogno (i). Dalle finestre come dalla strada i vagheggini non sempre si contentavano di guardare, ma spesso si aiutavano con cenni e con gesti (2). Fia coloro che abitavano presso a monasteri merita speciale ricordo il merciaro Piero Barabino, che stava di casa dinanzi al monastero di S. Brigida. Egli s’era innamorato di qualcuna delle sue vicine, e conoscendo le pene che suol dare amore, riceveva in casa il barbiere Giovanni Stefano Gagliardo pure innamorato di monache. I due amici facendo dalle finestre segni « alle monache con atti disonesti, davano grande scandalo alla vicinanza », e richiamarono 1 attenzione dell’Ufficio delle monache. Questi, trovato « che il detto Barabino fa ancora dell’huomo di maneggio e tiene assai mala vita », l’obbligarono a lasciar la casa che abitava ed a cercarsene un’altra più distante da S. Brigida (3). Le monache dal canto loro non si contentavano solo di corrispondere dalle finestre ai saluti degl’ innamorati, ma, dove il luogo lo permetteva, se ne stavano alle terrazze ed alle finestre nel tempo che gli uomini passavano sotto il monastero per passeggiare, 0 vi si fermavano a godersi il fresco, come per esempio avveniva a S. Tomaso (4), oppure approfittavano di processioni per vedere cd esser vedute (5). Altre si servivano delle (1) R. Arch. di Stato. Jurisdictionalium et ecclesiasticorum —. Relazione del c , ‘401 6 giugno 1645. (2) R, Arch. di Stato. Monialium -^r-. Relazione del io giugno 1641. (3) R. Arch. di Stato. Monialium Deliberazione del 14 marzo 1652. (4) R. Arch. di Stato. Monialium —i-. Relazione del 29 settembre 1644. 4585 (5) R. Arch. Monialium ——. 138; —- 122 — finestre per indicare ai monachini il momento d entrai in parlatorio, e a tal fine ponevano in mostra un segnale convenuto o lo toglievano da una finestra, come usano tare le amanti di ogni tempo (i). Parecchie monache si facevano anche più coraggio, e venivano addiiittura in persona sulla porta del monastero per chiamare qualcuno di conoscenza (2), e persino per intrattenervisi con chierici e secolari (3). Talvolta si mettevano in giro anche dei biglietti, che e monache mandavano ad innamorati e questi a quelle. Pei biglietti si fissavano talora case di recapito (4-)> d°ve gl’ interessati si recavano 0 mandavano a prenderli e a portarli. Tal altra i vagheggini li recavano sino a a chiesa, e qui una fida servente faceva il resto (5)- * frequente però uomini cortesi portavano biglietti « avanti e indietro » a beneficio di amanti gentili e di belle mo nache (6). Ma più spesso portatrici inappuntabili erano le serventi stesse delle monache ed altre brave donne, piene di compassione e di riguardi verso gl innamorati, specialmente quando essi dimostravano coi fatti 1 avere proprio un cuor d’oro. Ad esse, è vero, ac (1) Per es. il sotto-cancelliere del primo Magistrato del vino, il 25 mar- 7^ dopo aver passeggiato a lungo sotto il monastero delle Convertite, appen levato da una finestra un segno di cosa bianca ad una catena, entrò » • Monialium —. 1 384 (2) R. Arch. di Stato. Monialium -4-. Relazione del 20 aprile 1633 a P 138^ posito del monastero di S. Brigida. (3) R. Arch. di Stato. I. cit. Denunzia del 29 luglio 1637 riguardo al monast delle Convertite. Monialium ——. ' (4) R. Arch. di Stato. Monialium -4r“. Relazione del 30 novembre 1 33' 1385 (5) R. Arch. di Stato. Monialium ——. Relazione dell’11 ottobre 1639- 1383 (6) R. Arch. di Stato. I. cit. Relazione del 18 gennaio 1625. - 123 - vano una certa concorrenza anche chierici e sagrestani poco scrupolosi, ma chi ha pratica di serve, con- veira che in tale mestiere queste dovevano vincere sempre (i). Tener dietro a tutte le serve di monache sarebbe impresa assai difficile; non vogliamo condur tanto lontani i nostri lettori, e ci contentiamo di presentarne solo alcune delle più diligenti, che praticavano a S. Nicolosio, e non solo portavano biglietti, ma altresì ambasciate, e che, per quanto stava in loro, cercavano di rendere sicuri e frequenti i rapporti fra monache e vagheggini. Nel 1651 si segnalavano in tutto questo a S. Nicolosio (2) « Geronima Magnana di sopranome la Stella, 0 sia Colombina, e Maria la mora, figlia di una nominata la Cappa ». Poche donne sapevano al par di loro approfittare del contatto che avevano con monache e con estranei, e della fiducia goduta quali serve di monastero, per « portare biglietti inanzi ed indietro ». Esse per altro avevano una rivale valorosa in « Pele-grina moglie del berettero », che, quantunque non serva nel vero senso della parola, pur s’ingegnava di far servizi al monastero. E rivale pure, e forse anche più temibile, era « Maria di Giacomo servitor delle monache ». All’una e all’altra era stato proibito di andare a S. Nicolosio, ma obbedivano così bene, che seguitavano a portare zelantemente biglietti ed ambasciate, ed anzi Maria, per essere più comoda, « ha preso stanza a (1) R. Arch. di Stato. Jurisdict. et eccl. Relazione del 20 luglio 1651. (2) R. Arch. di Stato, l. cit. Denunzia del 6 agosto 1651. — 124 — piggione sopra la piazza di detto monastero » (i)* Di più, non potendo, per la proibizione degli Ufficiali delle monache, accostarsi ad ogni momento al monastero, trova nel marito un brav’uomo che, quando occorre, « la supplisce » a meraviglia (2). Fra queste donne che si contendevano l’onoiedisei-vire le cento monache di S. Nicolosio, il primo posto indubbiamente spetta a Geronima Magnana. Odansi gli elogii che di essa fa la stessa Superiora del monastero, in una lettera inviata all’Ufficio delle monache il 15 ottobre 1651 (3). « Si ritrova (sic) nel monastero di Santo Nichere cento monache, che tutte sono scandali sate una d’altra per una vechia, che serve tutta la sei vitù di certe monache in portando biglieti hoi qua hor là. Pertanto preghiamo a V. S. 111."* approvedere a questo inconveniente e scandalo che porta, e .male che può soccedere. Questa vechia dogni giorno va cercando gio venoti che vengano a discorrere con nostre monache, e tante volte queste giovene, ancora che sieno castigate da me, niente stimino, non vogliano vivere in coro, a’ santi officii, perdano la divotione e lobedienza. Questa vechia poi, se qualche monacha non gradisce la sua ser vitù, va digendo che questa fa bastardi e li manda alla casa grande. Questo scandalo è bastante a solvere tutto il monastero.... » ecc. La povera Superiora continua avvei tendo, che la vecchia va poi in giro a dir del monastero ogni male con grave detrimento dell’ onore di questo, e 11) R. Arch. di Stato. Monialium —-— Relazione del 17 novembre 165!- 1)82 ' (2) R. Arch. di Stato. I. cit. Relazione del 25 novembre 16$ 1. (3) R. Arch. di Stato. I. cit. - I25 - si ostina a frequentarlo, contro gli ordini ricevuti. Invoca quindi 1 aiuto del Magistrato, aiuto che venne concesso, però cogli effetti che sopra vedemmo. Negli altri monasteri su per giù monache e monachini trovavano aiuti somiglianti, e così continuavasi allegramente ad amoreggiare, malgrado la cura dalle Superiore riposta nella scelta delle serventi, e malgrado le cautele prescritte da un decreto del 16 novembre 1651, col quale l’Ufficio delle monache si attribuiva l’approvazione dei servi e delle serve (1). Quindi i biglietti seguitarono a passare dai monachini alle monache e da queste a quelli, e si mantennero efficaci ausiliari di innamoramenti reciproci. E sul finire di questo capitolo siamo in grado di poter offrire ai curiosi qualche esempio di quest’amorosa letteratura monacale. Nel 1667 capitò agl’inquisitori di Stato una strana lettera. Un anonimo scriveva che, quando era stato senatore, aveva ricevuto avviso « secretamele che un certo padre Paolo Scoto di Venezia, che sta a S. Maria di Castello, teneva amicitia in tre monasteri di monache, cioè S. Chiara, S. Leonardo e S. Nicolosio ». Fattolo chiamare, il senatore credette alle sue negative, e non ne parlò a chi doveva. Ma (segue l’anonimo) « per mia mortificatione una domenica andando a Castello per (i) R. Arch. di Stato. Monialium —7-. Eccone un brano: « Non convenen- 1384 dosi che alli monasteri di monache servino se non persone di bontà di vita provata, prohibramo a qualsivoglia persona dell’uno et l’altro sesso il servire a monasterii di monache della presente città et suburbii anco sugetti a regulari », se non si procurano 1’ approvazione del Magistrato entro dieci giorni. Là pena a chi non obbedisce è di 25 scudi ecc. — 126 — vedere la marina, e dopo andando alli luoghi comuni, trovai questo pezzo di lettera, quale nel pigliarlo nelle mani vidi andava diretto a questo frate Scoto da Venetia, et legendolo restai scandalizatissimo al magior segno non havendo fato la giustitia quando fui avvisato ». Manda quindi la lettera agl’ Inquisitori, dopo essersi consigliato con un religioso, tanto più trattandosi in essa anche di un padre Tadei da Verona, che pare intinto della medesima pece. La lettera inviata ha per soprascritto : « Al padre Paolo Scoto »; e dentro: « Qui non hollo (sic) ricordarvi che vi aricordiate di una vostra amabil serva, e di core vi saluto. Come parimente fa (sic) le amiche, suplicandovi a salutar il padre Tadei a mio nome. Adio, adio. Che se ve lo podese dir in persona, ve lo direi più volentieri. Caro dedo (sic) adio. Li 30 giugno 1669. « Di V. S. M. R. « Aff.ma e oblig.™ serva chissà lei » (0- Nel maggio del 1674 fu intimato al napoletano An^ tonio Sperato lo sfratto da Genova e dal Dominio, perché andava « spesso alle monache di S. Leonardo, S. Andrea, S. Nicolosio, S. Marta, S. Brigida, S. Maria delle Grazie et altri » (2). Prima però eh’ egli partisse, fu accusato di « certe truffe, che si supposero fatte a un tal Calabrese », e quindi posto in carcere (3). La Giunta dei monasteri si occupò di quanto riguar- (1) R. Arch. di Stato. Monialium ^ ■ La lettera dell’anonimo senatore letta dagl’inquisitori di Stato il 15 luglio 1669 e passata all’ Ufficio delle monache. (2) R. Arch. di Stato. Monialium —~. Ordine del 21 maggio 1674' 1386 (3) R. Arch. di Stato, l. cit. Relazione dell’imprigionamento. Senza data. - 127 - dava le monache, e raccolse la voce che egli frequentasse « con qualche scandalo monasteri di monache, e particolarmente S. Leonardo e S. Nicolosio. Ma ciò che qui y più importa a noi, « gli si sono trovati indosso due biglietti aperti di donna, che si suppongono di monaca, un altio suo pure aperto scritto di prigione e due sigillati diretti a monache ». Tutti i biglietti rammentati si conservano fra le carte dell Ufficio delle monache (i), anzi quelli ch’eran sigillati diretti a monache non sono due, ma tre, e quindi in tutto si arriva a sei. Nessuno porta data. Nel primo diretto a « crudelissimo signore », la scrivente si duole eh esso dica d’avere dato il suo cuore a tiranna, lo lascia in libertà di darlo ad altra più degna. Essa, quantunque di poca memoria, ricorderà sempre i suoi doveri verso di lui, che le ha fatti tanti favori (2). Si capisce da esso come lo Sperato si fosse lagnato di esser poco dalla donna corrisposto. Un altro biglietto pur di donna, e intestato « mio signore, padrone observandissimo » si riferisce al dolore che lo stesso Sperato provava per la freddezza vera, 0 creduta, della sua amante. La scrivente partecipa del suo dolore, biasima la donna tanto crudele che lo fa penare, si mostra pronta ai suoi comandi, e, promessogli di avvertirlo del quando dovesse venire, si firma « ob.raa serva A. L. C. » (3). La terza e quarta facciata dello stesso foglio contengono una lettera, che evidentemente lo Sperato scrive (1) R. Arch. I. cit. (2) R. Arch. di Stato, l. cit. Doc. XV. (3) R. Arch. di Stato. 1. cit. — 128 — all’autrice del primo biglietto, per dolersi che essa gli abbia rubato il cuore, che si mostri fredda con lui, e che anzi 10 dimentichi appena egli si parte dalla presenza di lei (i). I due primi biglietti scritti allo Sperato possono essere benissimo di donna secolare o di monaca, nulla vi è in essi che impedisca di attribuirli indifferentemente all una o all’ altra. Altrettanto dicasi della persona, a cui doveva essere diretta la lettera dello Sperato. Invece tre biglietti dallo Sperato scritti di carcere a tie diverse persone, si ritenne che fossero indirizzati a monache. Sono in tre distinti fogliettini di carta, che, piegati mostrano rispettivamente questi indirizzi: « sig.a donna Paola Vittoria », « sig.a donna Gerolima Felice Pallavi-cini » « sig.a donna Maria ». A tutte tre dice di scrivere con un legno intinto nel-l’inchiostro fatto con limatura di ferro, a tutte raccomanda 11 servo Domenico trattenuto prigione in corpo di guardia, e un certo Baldassare, cui s’impedisce di andare a casa, e le prega di esortarli a tacere. Inoltre a donna Paola Vittoria in particolare accenna all’amore che le porta, ed alla speranza di rivederla (2). A donna Gerolima Felice Pallavicina aggiunge di sperare ch’ella si sarà adoperata per farlo ritornare in libertà, ricorda una lettera scritta col sangue, la prega di dire « a Baldassare che prenda le lettere sotto lo nome che sa dalla posta », e le raccomanda di farlo liberare (3). A donna Maria scrive di far « chiamare il padre Francesco di Genova alla Nunziata», per dirgli di dare a lei (1) R. Arch. di Stato, 1. cit. (2) R. Arch. di Stato, 1. cit. Doc. XVI. (3) R. Arch. di Stato, 1. cit. — 129 — le lettere, che gli « vengono di quella signora », e l’esorta a non scriverle che è in prigione (i). Crediamo inutile riportare qui tutti gli scritti scambiatisi fra lo Sperato e le sue innamorate : ci basterà 1’ averne riferito il senso, ed il rimandare il lettore più curioso all appendice, dove sotto il numero XV pubblichiamo come saggio il primo biglietto indirizzato al « crudelissimo signore », e sotto il numero XVI l’altro, che lo Sperato scriveva di prigione a « donna Paola Vittoria ». CAPO SESTO. Monachini in clausura. Fra tanti vagheggiatori appartenenti ad ogni classe sociale, vi dovevano essere parecchi che non si contentavano di platonici amori, che non si rassegnavano di far la corte a monache da lontano o nei parlatorii, ma che mettevano in opera tutti i mezzi per entrare a dirittura nelle clausure. Amori sfrenati, compassione verso le belle rinchiuse, desiderio di sfidare i pericoli che si potevano incontrar nell’ impresa, oltre ad altri sentimenti certo poco lodevoli, ma purtroppo assai comuni, pei quali molti uomini cercano la conquista della donna, specie ad altri vincolata, contribuivano ad accrescere il numero di questi audaci. (ij R. Arch. di Stato, 1. cit. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXVII. 9 — 130 — I mezzi usati sono svariatissimi: si passa dalla volgare entrata per la porta del monastero, resa possibile dalla connivenza di parecchie persone, alla romantica scalata del monastero fatta o tentata con diligenza grandissima. Vi sono poi notizie di monachini, che per avere rapporti con monache salirono sopra basse terrazze, o si valsero della porta del parlatorio lasciata aperta, o schiusa facilmente, o che usarono altri simili modi. I monachini più in vista erano facilmente accusati di avere un figlio in questo od in quel monastero, e talora si prendevano di buone condanne alla carcere, alla multa ed all’esilio. Siamo in generale dinanzi a fatti assai volgari soliti ad accadere anche in altri tempi, non dirò in convento, ma certo in tante case private fra donne libere ed anche maritate e vagheggini esperti, che credono di acquistar gloria turbando la pace delle famiglie. Con simili cose pertanto non intratterremo molto il lettore, al quale chiederemo solo quel po’ di tempo che ci sarà necessario per raccontargli alcuni dei fatti più originali, che dai tempi e dal luogo in cui avvennero, e dalla condizione speciale delle persone che vi ebbero parte, assumono un carattere tutto speciale, oppure rivelano una passione cosi violenta da sfidare ogni pericolo. Carlo Cervetto nel luglio del 1624 é accusato di frequentare con insistenza un monastero, che non viene nominato, e di aver tentato di penetrarvi per mezzo di due funi attaccate ad una finestra priva di grate (i)- Messo in carcere, dopo lunga procedura, lo multano (0 R. Arch. di Stato. Monialium ——. Deliberazione fatta dal Senato per interrogare il Cervetto, 3 luglio 1624. - I3I - in mille scudi solvendis antequam ex carceribus liberetur (i). leró non avendo pagato, la multa gli é commutata in due anni di bando a 500 miglia di distanza dal Dominio genovese, colla sicurtà di 2000 scudi (2). Egli accetta, ma di nascosto torna assai presto a Genova ad aggirarsi intorno al prediletto monastero, riuscendo a sfuggire abilmente alle ricerche del Governo (3). Curioso è il caso di Giovanni Antonio Sturla. Monachino audace e fortunato frequentava parecchi monasteri, ed alle Convertite era entrato nelle grazie della vicaria suor Maria Pollonia. Essendo questa monaca autorevole per il suo ufficio, e più ancora per l’animo virile e le aderenze che aveva al di fuori, menava « il monastero a suo modo », e costringeva la Superiora e le altre suore a chiudere un occhio, e magari tutti due (4). Cosi poteva lo Sturla prendere « famigliarità con la detta suor Maria Pollonia, forsi per la porta, se bene si dice con 1 essere asceso di notte tempo alla terrazza di essa per via di scale di seta » (5). Quindi, dopo parecchie denunzie, lo Sturla fu messo in carcere, dove provò la forza del- 1 affetto di suor Pollonia ricevendo ogni giorno per conto di essa cibi delicati, e venendo a conoscere le premure amorevoli ch’ella fece per liberarlo (6). Queste peraltro non riuscirono molto efficaci, perchè lo Sturla fu « con- (1) R. Arch. di Stato, l. cit. Sentenza del 31 luglio 1624. (2) R. Arch. di Stato, l. cit. Deliberazione del 13 agosto 1624. (3) R. Arch. di Stato. I. cit. Ordine al bargello per l’arresto del Cervetto, e raccomandazioni di maggior vigilanza al Vicario arcivescovile e all’ Ufficio delle monache, 13 settembre 1624. (4) R- Arch. di Stato. Monialium Denunzia del 16 novembre 1639. (5) R. Arch. di Stato. I. cit. Relazione del 22 novembre 1639. (6) R. Arch. di Stato. I. cit. Relazione cit, — 132 — dannato a due anni di relegatione nel Stato del signor Granduca di Toscana, con carico di dare sigortà di scuti cento d’argento » (1). Relegazione, che, a richiesta del padre del condannato, fu cambiata in Cadice, per far « cessale maggiormente il timore dell’inosservanza» (2), tanto più essendo lo Sturla audacissimo ed amico dei birri, ed avendo suor Pollonia molti mezzi per farlo ritornare. Nel febbraio del 1655, la sera del giovedì glasso, Bernardo Viganego con una scala di seta tentò di dar la scalata al monastero di S. Tommaso. Scoperto, quando già « era salito su certi tetti vicini al monastero », scese rapidamente in mezzo a molte persone, che si erano raccolte alle grida ai ladri, ai ladri! Egli fece lo gnorii, si mischiò fra la gente chiedendo notizie dell accaduto, • f 1 A1 quindi, lasciate le scale in mano agli accorsi, iuggi- ^ mattino peraltro le scale furono da lui indirettamente ricuperate, e le persone che avevano tutto veduto, e che erano sicure, o sospettose intorno all’ autore del fatto, vennero invitate a tacere da ser Ampezzi Chiavali avvocato e da Marco Doria, che procurarono di aggiustare tutto con denari (3). Tuttavia qualcuno parla ugualmente, e anzi parecchie denunzie giungono al Senato, che le (1) R. Arch. di Stato. Monialium —. Deliberazione del i dicembre 1639. ' 1382 (2) R. Arch. di Stato. 1. cit. Deliberazione del 7 dicembre 1639. Sembra che non meno forti ed astute di suor Pollonia fossero alcune monache di S. Nicolao, fra cui una « gravida », che riuscirono qualche tempo a ricevere nel monastero Agostino De Franchi, finché non fu relegato per tre anni prima nello Stato ecclesiastico, poscia nel Milanese (Ved. R. Arch. di Stato. Monialium -I3gj“ • Denunzia e decreti del marzo 1641). Notisi l’ardore con cui le monache difende vano gli amanti. (3) R. Arch. di Stato. Monialium —. Varie denunzie capitate al Senato nel 15S4 tebbraio del 1655. - 133 - trasmette all’ Ufficio delle monache (r), ed ordina poco appresso « che gl’ Inquisitori di Stato procurino di mettere in chiaro tutto il successo e poi riferiscano » (2). Manco a dirlo, il Viganego fu messo in carcere, i suoi amici Chiavari e Doria furono tenuti d’occhio, e gl’Inquisitori indagando per ogni dove, il 21 maggio 1655 poterono riferire che « Bernardo Viganego frequentava il monastero di S. Tomaso due volte ogni settimana, visitando una monaca giovane in opinione di bella ». Aggiungevano « che detto Viganego é giovane avenente assai, tutto dato a galli et a vestir sontuosamente et in odori, intento ad amori » (3). Fatto regolare processo, e stabilita anche la responsabilità del Chiavari e del Doria, il giorno 8 giugno (4) il Senato condannò Bernardo Viganego alla relegazione per cinque anni nel regno di Sicilia, colla garanzia di due mila scudi, e fece porre in carcere il Chiavari e il Doria, sospendendo inoltre il primo dal diritto advocandi in caucis criminalibus. Bernardo Viganego dovette rassegnarsi a partire, e i due amici, che avevano cercato di salvarlo col far tacere mediante denaro i testimoni accusatori, non poterono sottrarsi alla pena fissata contro 1 complici di simili fatti. Però peggio di tutti ne uscirono le monache di San Tommaso, le quali certamente avrebbero fatto a meno di processi e di condanne, che, se potevano fino ad un certo (:) R. Arch. /. cit. Deliberazione del 2 marzo 1655. (2) R. Arch. di Stato. I. cit. Deliberazione del 13 aprile 1655. (3) R. Arch. di Stato. Monialium Relazione degl’inquisitori di Stato. 2 maggio 1635. (4) R. Arch. I. cit. Decreto senatoriale del 6 giugno 1655. - 134 - punto impaurire i monachini, nuocevano d’altra parte al buon nome del monastero (i). Nel 1661 Nicolò Lanata veniva accusato di avere « una strettissima amicizia con una monaca del monastero delle Convertite, da cui aveva ottenuta la stampa di tre chiavi formate nel sapone, con la quale un maestro ferraro suo amico, e da lui corrotto con denari, ne ha fatto le simili, e con queste si sa haver penetrato nel monastero di esse monache » (2). Gl’ Inquisitori di Stato incaricano delle opportune indagini gli Ufficiali delle monache, mentre il Senato fa porre in carcere il Lanata ed ordinare in casa di lui il sequestro delle scritture, fra le quali « furon trovati biglietti amorosi, che si é verificato esser di una monaca » (3). Per questi e per informazioni assunte, la Giunta dei monasteri ritiene reo il Lanata, ed, « attesa la qualità della persona, propone che si releghi per due anni nel capitanato di Levanto, con obbligo della cauzione di duecento scudi » (4). I Serenissimi Collegii invece relegano « detto Nicolò Lanata nella città di Roma et in tutta la Romagna per anni tre », colla cauzione proposta di duecento scudi (5)-Peraltro fra i tanti monachini, che nel secolo XVII riuscirono o tentarono penetrare nei monasteri genovesi, il P1U audace fu certamente Giovanni Maria Grandi, eh ebbe (1) R. Arch. 1. cit. Denunzia letta al Senato il 19 aprile 1665. 2) R. Arch. di Stato. Monialium —. Denunzia letta dagl’inquisitori di Stato il 19 agosto 1661. (3) R- Arch. 1. cit. Relazione dell’Uffizio delle monache, 25 settembre 1661. (4) R. Arch. di Stato, 1. e rei. cit. ($) R. Arch. di Stato, 1. cit. Deliberazione del Senato 26 settembre 1661. - r35 — intima amicizia con suor Maddalena Fieschi monaca a S. Andrea. I mezzi a cui ricorse, la costanza che sempre dimostrò per riuscire, i sacrifici che fece, 1’ arte che usò per trovare aiuti fuori e dentro il monastero, fanno pensare al funesto amico della Signora di Monza, del quale però il Grandi non ebbe l’animo efferato e brutale disposto a commettere i più gravi delitti. Giovanni Maria Grandi fabbricante di panni in seta, ammogliato con una sorella di Carletto Viganego, strinse fino dal 1662 con suor Maddalena Fiesca un’ intima relazione amorosa, che durava ancora sette anni appresso. Per acquistarsi l’animo della monaca, non solo le mandava in regalo oggetti di vestiario e cibi (1), ma procurava di vederla spesso e di avere con lei colloqui, o almeno di poterle far cenni. Però trovando il Grandi ostacoli nella Superiora del convento, che non gli permetteva di recarsi spesso in parlatorio, approfittò della casa di Paola Maria De Martini, tessitrice di seta, la quale abitava in una casa presso S. Andrea appartenente a Gerolamo Sauli, e divisa dal muro del monastero per mezzo d’un giardinetto, sul quale dava una terrazza del convento e parecchie finestre delle casa. Il Grandi saliva alle finestre più alte, qualchevolta in compagnia di amici, più spesso solo, e di lassù parlava con suor Bianca Maddalena Fieschi e con suor Maria Gregoria De Franchi, amica e complice della prima. Di rado vi era anche qualche altra monaca, e sempre la conversazione andava assai in lungo. (1) R. Arch. di Stato. Monialium Interrogatorio di Paola Maria De Mar- tini tessitrice di seta. - i36 - Gerolamo Sauli informato dei convegni, che si tenevano nella sua casa affittata alla De Martini, se ne dolse con lei ; ma dopo aver parlato col Grandi, si chiamò contento, anzi diede in affitto al medesimo un altro quar-tierino della stessa casa, posto sotto quello abitato dalla donna (i). Quando poi il monastero cambiò Superiora, ed a suor Maria Agata Saivaga succedette suor Maria Vittoria Grilla, che pare fosse meno scrupolosa, il Grandi potè vedere spesso le sue monache anche in parlatorio. Non per questo lasciò di valersi della casa della De Martini, anzi ne usò anche un’ altra pure presso il convento, abitata da una certa Luisa Besaccia incannatrice di seta, donna, a quel che sembra, molto servizievole, e che lasciava andare il Grandi ad una finestra, « dalla quale si vede nella camera dove dormono le dette donne Bianca Maddalena e Maria Gregoria, le quali dormono tutte due in una stanza » (2). Tanto la De Martini quanto la Besaccia, povere in canna, non potevano rifiutare i loro servigi al ricco Grandi, perchè da lui avevano lavoro e denaro, e fors’ anche le due donnicciole non misuravano bene la bassezza del loro ufficio, quantunque la prima nel suo interrogatorio dichiari di aver resistito molto al ricco monachino e di aver talora rifiutato di servirlo, tantoché egli s’indusse a valersi della Besaccia, che tolse da S. Nicola, dove prima abitava, provvedendole a sue spese una casa piesso S. Andrea. Comunque il Grandi seguitò a vagheggiare le monache dalle due case e poi dal parlatorio, (1) R. Arch. I. C. e interrogatorio cit. (2) R. Arch. di Stato, 1. c. e interrogatorio cit. - 137 ~ se le guadagnò coi doni, e riuscì finalmente a penetrare in convento. Dal quartierino preso in affitto nella casa del Sauli scendeva nel giardino, si accostava alle vecchie mura della città, sulle quali scorreva 1’ acquedotto, e con una scala di corda saliva sopra una terrazza, « che resta sopra 1 altare maggiore della chiesa di S. Andrea ». La scala dalle monache veniva legata ad una croce in ferro, che sulla terrazza chiudeva lo scolo dell’ acqua. Suor Gregoria De Franchi offriva agl’ innamorati una sua stanza, la quale tramezzata le serviva in parte per i colombi, ed in parte per « tenervi confeti et altre cose con un letto ». 11 Grandi si recava spesso ad imitare i colombi insieme con suor Maria Maddalena Fieschi, vi si tratteneva talora una notte intera, tal altra poche ore soltanto, ma qualche volta vi dimorava perfino un paio di giorni, lasciando in questi casi alla buona De Martini 1’ ordine di prendere da un cuoco di sua conoscenza dei cibi già prima da esso comandati. Suor Maria Gregoria De Franchi non si contentava di lasciar crescere nella sua stanza il numero dei colombi, ma provvedeva perché nessuno li disturbasse, e perchè per giunta trovassero poi di che rifarsi le forze. Quindi « passeggiava per la terrazza facendo la guardia, perché se veniva qualche monaca le diceva, anzi era per dirle, che essa donna Maria Gregoria era andata ivi per li colombi, quali si era scordata di serrare nella stanza ». La brava guardiana talora tirando sassetti sul tetto della casa, dove abitava la De Martini, la faceva venire fuori ed appiccava con lei discorso, « et mi diceva — 138 — (confessa la vicina) che andassi a cercare delle ova Iresche, che li voleva trattare da sposi, intendendo, anzi dicendo per detta donna Bianca Maddalena e pei Giovanni Maria, che erano nella detta stanza ». Ma una notte donna Gregoria non potè, o meglio, a quanto sembra, non volle tare a dovere la solita guardia. Sul più bello, si apre la porta della stanza, dove sta^ vano gl’innamorati, entra suor Maria Teresa sorella di suor Maria Maddalena, li sorprende e grida al Grandi 1 volerlo denunziare e far morire. Non pare che suoi Ma ^ dalena si commovesse molto, la qual cosa più che mai ci fa sospettare che ne fosse prevenuta, ma il pover^ uomo svenne. Spruzzatogli del vino sulla faccia, riprese i sens*> e con meraviglia trovò suor Teresa molto cambiata. 1 senti chiamare: « signor Giovanni Maria caro », e si e e Fassicurazione « che lei non 1’averebbe discopei to in giustitia, ma che non ritornasse, et che pei dalle a intendere che non era scorucciata seco voleva richieder e un servitio, che le imprestasse cento lire, che ne voleva pagare un merzaro ». Il Grandi se ne parti piangente, e nel recarsi al suo quartierino sotto all’ abitazione de De Martini, la chiamò, e le raccontò ogni cosa, invitan dola a portare il mattino a suor Teresa le cento lire, eie essa gli aveva chieste. Naturalmente la brava donna obbedì e se ne trovò contenta, perché dalla monaca si ebbe di buona mano « sei soldi et denari otto ». Suor Teresa mantenne la parola, ed il Grandi, quantunque avesse dovuto nel contegno delle monache per lo meno sospettare un tranello, continuò ancora per lungo tempo a far compagnia ai colombi di suor Gregoria, e, a quel che sembra, ebbe la costanza di compiere il settennio. - 139 - Fosse passione cieca che lo legasse a suor Maddalena, osse timoie delle vendette di lei, che si mostrava gelosissima e molto potente (i), il Grandi continuò a frequentai la, e non fu certo di sua volontà, se dovette un giorno abbandonare il monastero e la patria. In seguito a denunzia trasmessa, non si sa bene da chi, il 9 giugno 1669 il Senato concede all’Ufficio delle monache il permesso di far arrestare il Grandi, che lo stesso giorno dal bargello Celasco é chiuso nelle prigioni della torre grande (2). L Ufficio delle monache, per incarico avuto dal Senato, il 6 dello stesso mese prende tutte le informazioni necessarie intorno al fatto, e riceve dal Governo ogni sorta di aiuti. Interrogate le due donne Angela De Martini e Luisa Besaccia, raccolte altre notizie, si convince che il Grandi é veramente reo, trova che é penetrato molte volte nel monastero, che si prestava alla scalata non solo dal giardino, ma anche da altre parti, e di tutto fa una minuta relazione al Senato. Questi il 19 luglio approva la proposta del Doge di relegare il Grandi per cinque anni nell’ isola di Capraia (3); e quattro giorni appresso gli ordina, « che prima d’ uscire di carcere debba dare una 0 più segurtà per la somma di scuti quattromila d’ oro » (4). (1) R. Arch di Stato, l. cit. Nel suo interrogatorio fra altro Angela De Martini dice che una volta, essendo stato il Grandi otto giorni senza recarsi a parlare con S. Maddalena, questa disse alla teste, che dicesse al Grandi che se « 1 abandonava e che fosse andato ad altri monasteri, se bene era chiusa, le avrebbe fatto dare delle schiene per terra prima che passassero ventiquattr’hore, et che haveva forza di poterlo fare ». (2) R. Arch. di Stato, /. cit. Deliberazione del Senato 3 giugno 1669. (3) R. Arch. di Stato, l. cit. Deliberazione del 19 luglio [669. (4) R. Arch. di Stato, 1. cit. Deliberazione del 23 luglio 1669. - 140 - Com’ è naturale, dopo questo fatto si raddoppiarono le cure per assicurare la clausura in S. Andrea, si posero inferriate, si murarono porte, e per il morale non si risparmiarono prediche e punizioni a monache ed a serve. Si proposero anche radicali mutamenti nella pianta del monastero, ma non furono mai eseguiti (i). Non si creda però che la Giunta dei monasteri e la Repubblica che la sosteneva, pensassero ad assicurare anche materialmente la clausura soltanto quando accadevano cose grosse, come questa di S. Andrea. Ci pensavano sempre, ma, come si usa in ogni tempo, anche allora i fatti gravi provocavano provvedimenti più energici, che si spiegano per la commozione che essi destano nell a-nimo di tutti. Del resto continuamente gli Ufficiali delle monache danno ordini per la clausura. Ora comandano di abbattere una terrazza, ora di murare una finestra, or di porre una ferriata, or di alzare il muro di un giardino, e via di seguito. Le carte dell’ Ufficio giunte fino a noi ne sono piene, e attestano le cure da esso usate per ogni monastero. Per quanto spetta al convento di S. Andrea in particolare , le diligenze non potevano essere maggiori. In una visita straordinaria fatta al monastero nel novembre del 1659 dai canonici lateranensi, a cui era soggetto, si trovo una finestra che dava in una casa, e sotto il monastero si rinvenne una condotta d’ acqua che dava accesso al convento. I visitatori ordinarono che 1’ una e 1’ altra si (i) R. Arch. di Stato. Monialium Ved. progetto del 1671 e ordini relativi. - I4i - chiudessero e furono obbediti (i). E gli ufficiali delle monache per loro conto in questa occasione ed in altre, direttamente e indirettamente, d’accordo col Vicario arci-vescovile, o da soli, fecero il possibile per assicurare la clausura di S. Andrea. Ma 1’ opera loro né per questo monastero, nè per gli altri, raggiunse pienamente lo scopo desiderato. 1 monachini trovarono spesso il modo di vincere gli ostacoli materiali opposti alla loro entrata, come sapevano vincere gli ostacoli morali, e giunsero così molte volte presso le monache. Queste, come si è veduto, li aiutavano efficacemente, ed anzi parecchie di esse trovarono anche il modo di lasciare il monastero e di recarsi altrove a respirare aria più libera. Come potessero giungere a tanto, e da chi fossero aiutate, lo vedremo nel seguente capitolo. (i) R. Arch. di Stato. Monialium —\—. Lettera del Doge e dei Governatori al Residente genovese a Roma, perchè tratti col Papa anche di inconvenienti morali avvenuti a S. Andrea e a S. Nicolosio per colpa del Vicario arcivescovile e di altri religiosi. Ne riparleremo. CAPO SETTIMO. Monache fuggitive. La mattina del 25 settembre 1638 il monastero delle Convertite veniva messo a soqquadro dalla scoperta d’ un fatto avvenuto durante la notte. La madre Priora del convento, mentre la mattina presto si recava in coro a recitare 1' officio, incontrò la sacrestana, la quale le disse « che non poteva entrare in sacristia, perchè la porta era serrata di dentro ». Cercate invano le chiavi, la Superiora face chiamare il chiapusso (magnano), che apri con forza la porta. Insospettita poi del caso tanto straordinario , mandò la Vicaria per il monastero, e da lei seppe che mancavano suor Brigida Pastorino e suor Maria Lucrezia Macaggi (1). Infatti le due suore nella notte avevano lasciato il convento, aiutate da Giovanni Paolo Avanzino e da Girolamo Fogliazzo sarto in Scurreria, e forse col passivo assentimento di suor Benedetta Costa compagna di camera a suor Pastorino, e di suor'Geltrude De Rossi compagna della Macaggi. E curioso sentire come la De Rossi confessa d’essersi accorta che 1’ amica era fuggita. « Questa mattina (dice essa) mentre mi vestiva, é venuta a trovarmi Maria Benedetta e mi ha detto : dove (1) R. Arch. di Stato. Monialium . Interrogatorio della madre Priora delle Convertite, 25 settembre 1638. - 143 - è Maria Eufrasia mia compagna? Et io ho riguardato nel suo letto, et non l’ho veduta, credendomi che fosse in guardiola a recitare il rosario, havendomi essa detto che questa notte doveva levarsi a dire due rosarii all’aria con Maria Brigida, per guadagnare nel giuoco del seminario » (i). Come sia fuggita essa non sa: ricorda che lei e l’altra pubblicamente dicevano di non voler morire in monastero; e crede poi che l’amica fuggendo le abbia portate via un migliaio di lire fra doppie e scudi d’ argento , che sono sparite dal suo forziere (2). A sentire suor Benedetta Costa, che dormiva insieme con suor Brigida Pastorino, questa s’ è alzata la notte dicendo « che haveva doglie, et non é più tornata a letto », dove essa ha ripreso il suo sonno rotto solo dalla sveglia mattutina. Anche a lei la compagna ha portato via denaro: al preciso non sa dire quanto, ma « saranno da più a meno doppie 18 » (3). In sostanza le monache delle Convertite, Superiore e (1) Per chi non fosse pratico di cose genovesi, riportiamo per il gioco del seminario questi due passi dell’ARGiROFFi, Memorie di Genova, Ms. nella Biblioteca della R. Università. Egli, a pag. 27, dice : « Era in questi tempi (princ. del sec. XVII) proibito dalle leggi il fare scommesse e giocare sopra le operazioni de’ senatori; ma poi, nel 1616, fu istituito e permesso detto gioco per anni 10, poi prorogato e detto il seminario, vera rovina dei poveri ». E a pag. 29. « Proibite erano le scommesse per il seminario: fu detto gioco di nuovo introdotto con assegnare l’appalto a Giulio Torre, et impiegarne la rendita per la nuova strada che va da S. Domenico a S. Stefano, detta perciò da detto appaltatore strada Giulia ». (2) R. Arch. di Stato. Monialium, l. cit. Interrogatorio di suor Geltrude De Rossi, 25 settembre 1638. (3) R. Arch. di Stato, 1. cit. Interrogatorio di suor Benedetta Costa, 25 settembre 1638. - 144 - soggette, dicono solo dell’ amicizia delle fuggite col-1’Avanzino e col Fogliazzo, e dell’intenzione ch’esse avevano di lasciare il monastero. E probabile che qualcuna ne sapesse di più, ma certo al Vicario arcivescovile non dissero altro. Però questi e gli Ufficiali delle monache non contentandosene fecero altre indagini, del risultato, delle quali brevemente renderemo conto. Gerolamo Fogliazzo, uomo sulla quarantina, aveva la sua bottega da sarto in Scurreria, e si occupava anche della vendita e compra di vestiti. Nella sua bottega capitava Giovanni Paolo Avanzini negoziante, uomo d’una trentina d’ anni, e che pei suoi affari soleva spesso recarsi in Lombardia. L’ uno e 1’ altro, o da soli o accompagnati, si recavano alle Convertite, trattando il primo con suor Eufrasia Macaggi ed il secondo con suor Brigida Pastorino. Fra i due uomini s’ era stretta amicizia, e quindi, quando avvenne la fuga delle monache , la voce pubblica li accusò con insistenza; e, sebbene l’Avanzino fosse partito da Genova fin dal 20 settembre, nel processo si ritenne che prima di partire concertasse coll’ amico la fuga delle monache. La parte principale spettò al Fogliazzo: egli, i giorni precedenti al 24 settembre, fu assiduo più del solito al monastero, e vide le monache colle quali fuggì (1). Il 24 poi si recò al palazzo Spinola a S. Matteo e pregò il suo amico Giovanni Maria Cornerio, vecchio (1) R. Arch. di Stato, l. cit. Interrogatorio di Veronica Zamboni, servente deile Convertite, i ottobre 1638. - i4> - di circa 86 anni e portiere del palazzo, di tenergli per poche ore un fagotto di panni neri, che al mattino successivo per tempo avrebbe presi per portarli a Sestri Levante (i). Fissò poi per mezzo del suo amico Bartolomeo Ze-noglio un gozzo, che a data ora dovesse imbarcare tre persone alla Foce (del Bisagno) per condurle ad One-glia (2) ; e due lettighe che dovevano portare due preti dal palazzo Spinola al luogo d’imbarco. Messo tutto in ordine, si recò al monastero verso le nove ore di notte, prese le due monache, calate forse da una finestra (3), e si recò frettoloso con esse al palazzo Spinola. Il vecchio portiere, destato dai colpi battuti dal Fogliazzo nella porta, si levò senza lume, e, riconosciuto l’amico, accettò il consiglio di lui, e « per non prendere freddo » tornossene a letto, aspettando che l’altro prendesse le sue robe e poi lo richiamasse a chiudere, come difatti avvenne (4). Il buon vecchio, che non aveva neppure acceso il lume, niente vide ; ma il Fogliazzo , che sulla piazza dell’ Ospedale era stato veduto con due monache, usci dal palazzo con due preti, li fece salire sulle lettighe, che frattanto eran giunte, secondo gli (1) R. Arch. di Stato, 1. cit. Interrogatorio di Giovanni Maria Cornerio, 30 settembre 1638. (2) R. Arch. di Stato, /. cit. Interrogatorio di Bartolomeo Zenoglio, 26 settembre 1638. (3) R. Arch. di Stato, I. cit. Interrogatorio di un infermiere dell’ Ospedale degl’incurabili, posto presso S. Brigida, 25 settembre 1638. (4) R. Arch. di Stato, l. cit. Interrogatorio di G. Maria Cornerio, portiere dello Spinola, 30 settembre 1638. Atti Soc. Lig. St. Patria Voi. XXVII. io — 146 — accordi, e s’avviò verso la Foce (1). Alla porta d’Arco si fermarono alquanto, perchè era chiusa, ed appena aperta, senza trovare opposizioni, proseguirono sino alla marina. Qui dovettero trattenersi un poco, perché il gozzo non era ancora in ordine, ma tuttavia allo spuntar dell’alba i lettighieri già tornavano in città, e il Fo-gliazzo ormai imbarcato coi finti preti, dava l’ordine di vogare, non verso Oneglia, ma verso Sestri di Levante. Il viaggio si compì presto senza notevoli incidenti, e noi ne lasceremo la descrizione al marinaio Andrea De Martino, che nel suo interrogatorio parlò con molta chiarezza (2). « L’ultimo viaggio che io ho fatto è stato che sabbato (25 settembre) prossimo passato, nel levare del sole, partii dalla Foce di questa città sopra un gozzo di capitan Dodino con Paulino come patrone, et Giovan Battista Bartolla e Meneghino fratelli Andora suoi cognati, e quali in mia compagnia servirono per marinaio, et andammo a drittura a Sestri di Levante, dove portammo un huomo che non conosco. Però è di statura honesta, grasso, bianco di pelame, li occhi che tirano al bianco, di mostrelletti rassegni, di età, a parer mio, d’ anni trentacinque, con un poco di cavelleti alli polsi. E doi altri vestiti da prete, quali però alla chiera parevano più presto donne che huomini, quali doi ha-vevano capelli longhi fino quasi a mezza masia con un cagnoreto, 0 sia berrò. Che però tengo fossero donne, non solo al vederle in chiera, ma anco al sentirle • (1) R. Arch. di Stato, 1. cit. Interrogatorio di Nicolosio Salario, uno dei quattro lettighieri, 27 settembre 1638 (2) R. Arch. di Stato, 1. cit. Interrogatorio del marinaio Andrea De Martino, 27 settembre 1638. — 147 — pailare, e tutte due erano di età, che se fossero stati huo-mini, haverebbero havuto barba in faccia. Ht una di esse maggior di età haveva la pelle un poco rugata, 1’ altra più giovane era bruneta, e con denti brutti. E non sentii che tra loro si nominassero : però, mentre a poppa stava cichiorando, tra di loro sentii nominare Giovanni Battista, con dire : Oh Giovanni Battista ! Ma perché vogavo non potei veder chi di loro parlasse, nè fusse chiamato. Erano dette due, come stimo, donne vestite di nero con ferriolo, con sotena con maniche: una haveva capello nero, e 1’ altra di color come di cenere, o sia fratesco : una haveva calzete avinate, e 1’ altra più rosegne, con ligami pur di colore, con pizzetti d’oro tutte due. Quali tre persone s’ erano imbarcate alla Foce, dove detti doi vestiti da prete erano venuti in carrega (lettiga) state portate da camalli (facchini), uno de’ quali si chiama Bachiocio. Et quando fummo sopra Nervi l'huomo su-detto tirò fuori di sopra la popa una paneretta con coperchio e chiavetta, e 1’ apri e tirò fuora certe fogazette come pastizetti inzuccarati, e domandò a detti doi vestiti da prete se ne volevano, et risposero che non ne volevano, et esso replicò che vi era del zucaro rosato. Et esse domandorno se ci era acqua, et noi risposimo che non ne havevamo, come pur era vero. E quella più vecchia cominciò a temere e continuò fino a Sestri vomitando collere, non havendo robba in corpo da vomitare. Detto huomo mangiò di dette zugarrette con un poco di pane, et a noi marinari ne diede una di dette zugarrette per uno. Arrivammo a Sestri a diciotto hore sonate, sbarcammo dette persone in terra con detta paneretta, un fangotino, in quale erano cose bianche et — 148 — una valige di corio col pelo, et una meza spada di queste larghe alla francese, che haveva detto huomo. Il quale poi ne chiamò e calammo in terra, e ne pagò compiendo il nostro fino a ventisette lire , perché il patrone haveva havuto certo che a conto, e poi se li-centiammo da loro lasciandoli ivi nella spiaggia, dove si erano acostate donne e figlioli (fanciulli). Et io col patrone andai a comprarmi della carne, e non vidi più dette persone, seben assai presto ritornammo al gozzo, col quale ritornammo alla Foce, dove gionsemo al-l’Ave Maria di notte » (1). Ecco pertanto le buone monache a Sestri Levante. Il Fogliazzo all’ amico, che per lui fissò il gozzo, aveva parlato di Oneglia, la Superiora delle Convertite supponeva che fossero andate « a Bogliasco, dove Giovan Paolo Avanzino ha delle ville » ; 1’ abile guida invece, dopo aver tutto preparato per la fuga ed imbrogliate le cose in modo da non far trovare per qualche tempo le traccie delle fuggitive, le conduceva a Sestri di Levante, donde era facile lasciare presto la Terra di S. Giorgio. Che cosa avvenisse delle monache non sappiamo, e forse quanto noi ne seppero l’Arcivescovo, che se ne occupò personalmente, e 1’ Ufficio dei monasteri. È probabile peraltro, che, guadagnato il suolo straniero, si godessero in pace la libertà che tanto agognavano. (1) Lo stesso marinaio, espressamente interrogato, disse che a la valige era greve di peso, come un cantaro ». Qui certo v’ erano i denari. — E quanto alla direzione del viaggio, Io stesso marinaro rispose che egli ed i compagni niente ne sapevano, e che « saliti sopra i preti coll’ uomo, questi, a richiesta del patrone, rispose, che voleva andare a Sestri Levante ». — 149 — Il Fogliazzo non si fece più rivedere a Genova. Gli si fecero intimazioni sopra intimazioni, perché comparisse a scolparsi dinanzi al Vicario arcivescovile, ma egli non si mosse. Cosicché circa un anno più tardi, e precisamente il 12 settembre 1633, fu condannato in contumacia alla pena della galera in perpetuo, con espressa condizione, che, non presentandosi il condannato entro quindici giorni, la sentenza sarebbe passata in rem iniudicatam (1). Né si dileguarono i sospetti concepiti contro Giovan Paolo Avanzino. Quantunque i parenti e specialmente la madre e la moglie lo difendessero con grande amore, insistendo nel dire che 1' ultima volta era stato a Genova il 20 settembre 1638, cioè quattro giorni prima della fuga (2), e, sebbene resultasse che il 28 dello stesso mese, cioè quattro giorni dopo, era già a Parma (3), fu ritenuto che avesse aiutato il Fogliazzo e le monache. Quindi venne condannato a sei anni di relegazione nel-l’isola di Sicilia, con grave detrimento de’ suoi negozii, che aveva specialmente nell’ Italia superiore (4). Poco dopo peraltro l’arcivescovo cardinale Stefano Durazzo, cedendo alla preghiera della vecchia Vittoria Avanzino madre di Paolo, destinava a questo per luogo di relegazione 1’ alta Italia, perché potesse attendere ai propri affari (5). (1) R. Arch. di Stato, 1. cit. Sentenza del 12 settembre 1633, sottoscritta da Augusto Magliano vicario arcivescovile, dai testimoni ecc. (2) R. Arch. di Stato, 1. cit. Deposizione di testimoni a favore dell’Avanzino, 23 febbraio 1639. (3) R. Arch. di Stato, l. cit. Dichiarazione degli Anziani della città di Parma, 31 ottobre 1638. (4) R. Arch. di Stato, l. cit. Sentenza del 12 settembre 1639. (5) R. Arch. di Stato, 1. cit. Deliberazione arcivescovile del 16 ottobre 1639. — 150 — Il cardinale Durazzo sospettò pure, e con buon fondamento, che le fuggitive avessero avuto ausiliari in monastero fra le consorelle; e desiderando assicurarsene, fin dal 2 novembre 1638 affidò l’incarico di farne indagini al reverendo Giovanni Battista Pechineto rettore di S. Salvatore (1). A che cosa approdassero le ricerche del Pechineto non sappiamo: temiamo però che avranno fruttato nuove diligenze per assicurare la clausura alle Convertite e negli altri monasteri, senza ottenere al solito nulla di serio. Nel 1643 erano monache alle Convertite suor Felice Maddalena Magis, suor Emanuela Cornice, e suor Candida Cravasco strette fra loro in amicizia, e non molto contente di starsene nel monastero. Una di esse, suor Candida, era stata costretta per forza (2) a prendervi il velo, e non si era mai adattata a quella vita, per se stessa già molto pesante a chi non avesse vocazione, pesantissima allora per il disordine abituale di quel convento (3). Contese frequenti, pettegolezzi per cose più o meno leggiere, gelosie, rilassatezza nei costumi, non potuta o non voluta frenare dalle Superiore, mutavano il monastero in un luogo di risse e di disordini, ed alle moti) R. Arch. di Stato. Monialium cit. Decreto arcivescovile del 2 novembre 1638. (2) R. Arch. di Stato. Monialium—^—. Interrogatorio di suor Candida Cornice, 9 ottobre 1643. (3) Il 18 ottobre 1643 la madre Priora suor Agata Isola, la Vicaria e « insieme tutte quelle monache vecchie che sono state madri, » scrivendo all’Ufficio delle monache invocano energici provvedimenti, non riuscendo esse ad emendare « li costumi del monastero ». R. Arch di Stato. Monialium—-—. Lettera del 18 ottobre 1643. - I5i - nache più ardite, ed a quelle che avessero denari e aderenze , pareva facile il poter far tutto. Molte monache si lagnavano ad alta voce di queste condizioni, sprezzavano a loro capriccio regole e Superiore, ed apertamente manifestavano l’intenzione di fuggire quandochessia il monastero, eh’ era loro divenuto insopportabile (i). Suor Felice Maddalena, suor Candida e suor Emanuella prendevano a quelle chiacchere parte vivissima, ed avevano il coraggio di fare ciò che altre forse appena dicevano per ira momentanea o per vanteria. Tenevano fuor di convento qualche amico, come un certo Simone merciaro che si recava spesso al convento sotto colore di vendere, ed il farmacista dell’ Ospedale, non che qualche altro giovane, e le rinchiuse forse immaginavano che essi potenti fossero, e che volessero aiutarle in una iuga audace (2). Insieme colle loro compagne si lagnavano sempre della vita a cui erano costrette, e dicevano di volersene quanto prima fuggire. Qualche monaca l’esortava alla rassegnazione (3), le Superiore, dicono loro, cercavano richiamarle dolcemente al dovere invitandole ad aver pazienza, come tante altre « che negavano la sua volontà », e non bastando le dolci esortazioni, ricorrevano alle penitenze, le quali per altro più che mai irritavano le monache, che « cridavano per il monastero di volersene andare, e piuttosto di ammazzarsi, che stare in monasterio » (4). (1) R. Arch. di Stato, l. cit. Interrogatorio di suor Angela Cherubina Saladina monaca alle Convertite, e di suor Agata Isola priora, 9 ottobre 1643. (2) R. Arch. di Stato, l. cit. Interrogatorio della vicaria suor Bianca Maria Rossana, 7 ottobre 1643. (3) Id. I. cit. Interrogatorio di S. Angela Caterina Saladina, 9 ottobre 1643. (4) R. Arch. di Stato, l. cit. Interrogatorio di S. Agata Isola priora, 9 ottobre 1643. - 152 — Con tali discorsi e con siffatte penitenze, le cose si aggravarono, e le tre amiche adocchiata una finestra con ferriata mobile, che dal dormitorio dava sulla strada pubblica, apertamente dissero di volersene servire per la fuga. Il lunedi 5 ottobre 1643 vi fu al monastero una visita del cardinale Arcivescovo, a cui certo furono scoperti i disegni delle tre monache, le quali temendo che, come la Superiora le minacciava, potessero essere messe in carcere, decisero di fuggirsene la sera stessa. Si recarono, dicono esse, dalla Priora, le chiesero « se il caso loro era disperato », ed alla risposta affermativa, le dissero che sarebbero subito partite. Difatti baciarono la Superiora, se n’andarono nel dormitorio (1), misero insieme un fagotto di biancheria, si travestirono alla meglio, ed a sera inoltrata, attaccarono al davanzale della finestra prefissa una scala di corda, che suor Emanuella aveva comprata da Simone, e discesero sulla strada. Sembra che per la fuga, certo anticipata, non avessero avuto il tempo di prendere cogli amici gli ultimi accordi, ma pare ancora che il Simone ne sapesse qualcosa. Scese in istrada si trovarono imbrogliate, tanto più che suor Emanuella caduta nella discesa, non poteva più camminare. Ed ora sentiamo da suor Felice Maddalena Magis come la rimediarono (2). (1) R. Arch. di Stato, l. cit. Interrogatorio di suor Felice Maddalena Magis, sostanzialmente confermato dalle due compagne, ma negato dalla Superiora, 9 ottobre 164$. Si può restare in dubbio, ma certo non si capisce come la Superiora sapendo della fuga imminente non riuscisse ad impedirla. (2) R. Arch. di Stato, /. cit. Interrogatorio di suor Felice Maddalena Magis, 9 ot' tobre 1643. “ 153 - « Irovammo poi ivi un huomo di bassa conditione, da me non conosciuto, quale chiamammo, e lo pregammo per amor di Dio ad aiuttarci a portare 1’ amalata. Però non gli dissemo che fussemo monache, et esso ne aiuttò a reger detta suor Emanuella da una parte, et io la regevo dall’altra, et andammo fino a casa della signora Geronima Di Negro, conosciuta da detta suor Maria Candida. Et essendo andata innanti suor Maria Candida, trovammo che ella haveva già fatto aprire la porta, e che vi era un vecchietto, il quale era in camicia, perché s’era levato di letto per aprire, e nel letto di detto vecchietto si pose detta suor Emanuella, in una stanza a piano del portico. E detta suor Maria Candida et io ci fermammo in essa, et il vecchietto si fermò ivi con noi, e gli dissemo che eravamo monache di questo monastero, e gli narrammo come havevamo fatto a fuggire. Et a quello che ci haveva accompagnato alla detta casa, gli diedi da principio, quando lo trovammo, un fangotto di cose bianche, che havevo, perché lo portasse, et poi non mi sovenne di farmelo restituire, se ben all’ endomani ritornò a detta casa e portò non so che da mangiare a detta suor Maria Candida. Et stetemo in detta casa tutto quel giorno del martedì, sendo venuto alle venti hore il bargello, qual si fermò con noi, et alla sera fummo recondotte qui nel monasterio di ordine di monsignor Vicario, qual venne in detta casa a tal effetto, e dopo qui fummo di suo ordine poste in prigione suor Candida et io ». Tale il racconto di suor Felice, che in complesso si può accettare. Solo si avverta alla circostanza di quel bra-v’uomo che, secondo lei, incontrano per caso, e che si presta per portare la ferita in una casa vicina apparte- — 154 — nente a persona amica di suor Candida, e si noti 1 estrema gentilezza di lui che il giorno appresso tornava pei ìecare nutrimento. Può darsi che il denaro a questo 1 inducesse, quantunque gravi punizioni si dovesse aspettare in una scoperta ormai sicura, ma può anche darsi che quell uomo non fosse altro che l’amico Simone avvertito all ultim oia. Ma la fuga non riuscì; pare che l’averla anticipata impedisse, come sopra si accennava, di compiere i pie-parativi; è certo che la caduta di suor Emanuella impedì d’approfittare della notte per mettersi in salvo. Fattosi il processo per opera del Vicario arcivescovile e dell’ Ufficio delle monache, il 17 novembre 1643 le tre monache son condannate a starsene murate in caiceie ad arbitrio dei Magistrati, senza pregiudizio del processo, che doveva continuare contro i complici eventuali (1). Un anno appresso peraltro, forse considerando le condizioni generali del monastero e la sventatezza delle tre monache, il Vicario e l’Ufficio dei monasteri alleggerivano e quasi annullavano la grave punizione, ed assegnavano alle poverette come carcere tutto il monastero, privando e però dell’ uso della grata, sotto minaccia dell antica pena in caso di contravvenzione (2). Quanto ai correi sembra che i magistrati, quantunque noi dicano espressamente, avessero verso il Simone gli stessi sospetti di noi, e difatti il 14 novembre 1643 lo fanno arrestare. Egli certo temeva molto, il che conferma i nostri dubbi, ed il suo genero Giovanni Maria Arringhi, (1) R. Arch. di Stato, l. cit. Sentenza del 17 novembre 1643:.....sa^vo *ure procedendi contra alios quosvis correos punibiles declaravit dictas tres moniales muro in carcerem claudi ibi destimndorum (sic) ad arbitrium magistratorum. (2) Id. I cit. Sentenza del 20 decembre 1644. - J55 - dà addosso ai birri che lo portavano in carcere, e lo fa scappare (i). Né la Priora del monastero si ebbe lodi: dalle fuggitive era accusata di connivenza, dal complesso degli avvenimenti appare per lo meno debole e indecisa, ed il Vicario arcivescovile cogli Ufficiali delle monache la sospendono dall’officio ad. beneplacitum (2). Rumore ben più grande lo fece sul finire del secolo la fuga di suor Costanza Gentile, monaca a S. Leonardo. Non sappiamo per qual ragione, verso la metà di febbraio del 1699 la suora usciva dal monastero, ed in compagnia della madre e di un fratello lasciava la città, risaliva la Polcevera e giungeva a Voltaggio. Il Vicario arcivescovile, il Magistrato delle monache, il Senato stesso si commuovono del fatto, tanto più grave, in quanto che la Gentile apparteneva ad insigne e riputatissimo casato. Il Podestà di Voltaggio ferma la fuggittiva « nell’osteria della Corona tenuta da Nicoletta vedova di Girolamo Rocchino », ed aspetta gli ordini del Governo per rimandarla a Genova (3). Giunge frattanto il notaro Antonio Oliva, commissario di Clemente Doria patrizio genovese, feudatario di Montaldeo, ed il Podestà, fidandosi di lui, lo lascia insieme con alcune guardie a custodia della monaca, che se ne stava chiusa nell’osteria facendo dire di essere indisposta (4). (1) R. Arch. di Stato, 1. cit. Contro l’Arringhi e compagni si fa processo, ma al caso nostro non ci pare che interessi. (2) R. Arch. di Stato, 1. cit. Decreto del 23 novembre 1643. (3) R. Arch. di Stato. Monialium Relazione di Filippo Del Canto podestà di Voltaggio al Senato, 16 febbraio 1699. (4) Id. /. cit. Relazione scritta cit. e relazione orale fatta dallo stesso Del Canto chiamato a tal fine in Genova il 19 febbraio 1699. - 156 — Frattanto Clemente Doria, che si trovava in Voltaggio all’osteria del Guadagno, seppe dal Podestà le cose accadute, conobbe anche gli ordini giunti dal Senato il 13 febbraio per ricondurre la monaca a Genova, e dando segni di approvazione, rispose a bene, bene » (1). Invece, avuto un colloquio con suor Gentile si lasciò commuovere (egli dice) dalle preghiere di lei, che chiedeva di esseie ricondotta a Genova non prigioniera, ma in modo decoroso, e di essere trattata con riguardo al suo ritorno, la condusse a Montaldeo, dove sperava di poterla indurre a tornarsene nel monastero, « con prometterle e dal Senato e da monsignor Arcivescovo generoso compatimento al o • r trascorso » (2). Per questo egli non aveva neppure in ormato il Podestà, che venne a conoscere solo più tardi la partenza della monaca per Montaldeo, insieme colle guardie e col notaro Oliva (3). Però, continua il Doria, la Gentile sfuggita al Podestà, non volle trattenersi in Voltaggio, né tornare a Genova, ma minacciando di uccidersi, se non si lasciava par tire, uscì da Montaldeo. Il Doria, per generosità d a-nimo, non potendo « soffrire un simile spettacolo in propria casa, e derogare alle leggi dell’ hospitalità » (4)» la lascia partire, ma poco dopo spedisce persona « in Alessandria al signor conte Giovanni Guasco, accio ne procuri colà 1’ arresto », e lui stesso si prepara a (1) R. Arch. di Stato, 1. e rei. cit. (2) R. Arch. di Stato, l. cit. Lett. di Clemente Doria al serenissimo Senato, 15 feb braio 1699. (3) R. Arch. di Stato, 1. cit. Relazione cit. del podestà Dal Canto. (4) R. Arch. di Stato, 1. cit. Lettera cit. di Clemente Doria al Senato. 17 braio 1699, ^a Montaldeo. - 157 - partire allo stesso fine verso Milano per la via di Tortona (i). Quindi, per intromissione del Doria, la Gentile sfugge al Podestà di Voltaggio, che l’avrebbe ricondotta a Genova, se ne va a Montaldeo, e di qui parte per uscire dal territorio della Repubblica. Il Doria fa di tutto per convincere il Senato della rettitudine delle sue intenzioni, ma i fatti accaduti ne costringono a crederci poco. E meno ancora ci credettero i senatori, i quali invece prestarono più fede ad un biglietto anonimo, che chiama « fole e spasimi di zerbino le cose che racconta Clemente Doria » (2) ; cosicché ordinarono un regolare processo contro di lui, e giunsero perfino a chiamare responsabile della condotta del figlio il padre suo, il magnifico Ambrogio, che trovavasi allora in Genova. Due commissarii scelti dai Serenissimi Collegi (3) si occupano con zelo della faccenda, respingono le scuse portate dal giovane Doria, biasimano e dichiarano colpevole il notaro Oliva suo commissario, e condannano entrambi alla relegazione per tre anni, il primo nel ducato di Parma, il secondo in Sardegna (4). Neanche il vecchio Doria se la cava troppo bene : sospettandosi che fosse d’accordo col figlio, é messo prima in carcere, poi liberato, riceve il 6 marzo come * (1) R. Arch. di Stato, 1. cit. Lett. cit. di Clemente Doria. (2) R, Arch. di Stato, l. cit. Denunzia letta ai Serenissimi Collegi, il 20 febbraio 1699. (3) R. Arch. di Stato, /. cit. Con deliberazione del 27 febbraio 1699, i Serenissimi Collegi delegano la causa dei fatti di Voltaggio ad Agostino Franzone e a Bendinello Negrone, coll’assistenza del notaro Giovanni Francesco Tavarone. (4) R. Arch. di Stato, l. cit. Relazione dei commissarii ai Serenissimi Collegi, 25 giugno 1699. — i)8 — prigione la propria casa, e venti giorni più tardi la città tutta entro il recinto delle vecchie mura (i). Il Podestà invece fu dichiarato innocente, e riconosciuto vittima di Clemente Doria e del suo commissario. La monaca partita da Montaldeo, malgrado le belle cose che il Doria aveva riferite al Senato sulle diligenze da lui fatte per farla di nuovo arrestare, continuò non molestata il suo cammino, e usci libera e lieta dal dominio genovese (2). Così tutte le premure dell’Arcivescovo e della Repubblica andarono a vuoto. Invano furono mandati soldati per la Polcevera ed oltre i Giovi, invano si ordinò che occorrendo si suonassero le campane a martello per riprendere la fuggitiva, che per concessione arcivescovile poteva essere arrestata anche in luogo sacro (3): essa riuscì a lasciare il territorio della Serenissima, specialmente per l’aiuto efficace d’un giovane patrizio genovese. E noi ormai lascieremo le monache fuggite. Abbiamo al solito parlato delle cose più caratteristiche, ed anche questo capitolo ci ha presentato un nuovo aspetto della vita monacale. Ci ha mostrato i dissensi, le contese, il malessere morale, che si rivela non solo nella fuga di poche monache, ma nelle condizioni generali dei monasteri, che tali fughe spiegano e talora giustificano. (1) Id. Deliberazioni dei due commissarii riferite al Senato il 6 ed il 26 marzo 1699. (2) Id. Rapporto al Senato del 27 febbraio 1699. (3) Ved. nel R. Arch. di Stato, 1. cit. i provvedimenti presi dal Senato e gli accordi coll’Arcivescovo, 17-20 febbraio 1699. - 159 - CAPO OTTAVO. Monache bisbetiche. Fanciulle altere uscite da potenti famiglie portavano nel monastero la fierezza di loro casato, e cercavano imporsi col nome e colle parentele. Donne nevrotiche si trovavano a disagio in convento, e sulle compagne slogavano l’ammalato animo loro. Altre, vittime di educazione viziata, strepitavano se tutti i loro capricci non venivano soddisfatti, e mettevano sossopra il monastero con volgari scenate, che rattristavano le buone ed irritavano le perverse. Ambizione insodisfatta, animo ammalato turbavano la pace dei monasteri, impensierivano le Superiore, e provocavano ordini dall’autorità ecclesiastica e dalla civile. Se il lettore cortese vorrà contentarsene, gli presenteremo due di queste monache, che per la loro stranezza misero molte volte in subbuglio i monasteri che le accoglievano. Suor Benedetta Arcangela Pallavicino monaca a S. Nicolosio, pretendeva avere nel monastero il primato. Le regole non eran fatte per lei, gli ordini delle Superiore non la riguardavano: essa in tutto agiva a suo capriccio, sia nei rapporti cogli estranei, sia nelle relazioni colle compagne. Quindi lamenti di queste, ispezioni di Superiori e penitenze imposte, ma non osservate, e — i6o — perfino calunnie, a cui le compagne offese dalla sua pie-potenza talvolta ricorrevano per rovinarla (0- Desiderosa di ottenere gli ufficii più elevati del monastero, non guardava troppo sottilmente ai mezzi pui di riuscire: creava partiti, faceva sorda guerra alle pnn-cipali, ed irrequieta passava la vita scontenta di sé, delle compagne, di tutti e di tutto. Or si presenta grande elettrice, perchè all ufficio 1 priora si chiami monaca, a lei devota, la quale pei rico noscenza e per paura le lasci piena libertà di farete disfare a suo capriccio, non mancando al bisogno t lodarla della sua condotta (2). Tal altra ama esporsi anche alla vista degli estranei dritta sopra una sua tei razza assai bassa o appoggiata al davanzale d una fine^ stra, priva come altre del monastero di ferriate, ed a^e ammonizioni di qualche compagna o superiora, nspo con « minacciar di veleno » (3). In quest’ occasione 1 Senato ordina invano che la finestra sia chiusa e la a lavicino imprigionata; la Superiora non fa eseguile g ordini ricevuti, lascia che lei potente per se stessa e per aderenze al difuori, che mantiene per mezzo di biglietti, si ritiri « in una camera ben cortegiata con le sue lite amiche e complici, le quali insieme con la suddetta si burlano d’ogni cosa, perchè si confidano tanto nel favor della Madre che non temono minaccie, nè altro » (4r (1) R. Arch. di Stato. Monialium—— e 2. ,specialmente denuncia 13 79 1380 1 r Senato il 7 gennaio 1626, e l’altra scritta da S. Nicolao il 16 decembre 1 (2) R. Arch. di Stato. I. cit. Denunzia letta ai Serenissimi Collegi il Sl0r settembre 1633. (3) R. Arch. di Stato, l. cit. Lettera ai Serenissimi Collegi, scritta da suor gela Maria \assalto vicaria di S. Nicolosio, 23 settembre 1633. (4) R- Arch. di Stato. Monialium cit. Denunzia del 4 ottobre 1633- — i6i — Per riuscire a qualcosa fu necessario ordinare che a tutte le finestre del convento fossero messe le ferriate, comprendendovi cosi anche quella della Pallavicino. Le monache protestarono di non voler « esser tutte trattate ad una maniera » (i). In seguito a che si risparmiano alcune finestre, ma se ne chiudono altre (2), e si provvede perché la terrazza di suor Pallavicino venga aggiustata in modo che sia impedita la vista al difuori. Deve però intervenire monsignore Arcivescovo, che insieme coll’ Ufficio delle monache usa una certa indulgenza verso la Pallavicino (3). Ne era dessa meritevole? Da quanto se ne dice nelle denunzie fatte contro di lei, e da ciò che risulta dai provvedimenti, che si presero, essa appare assai più maleducata che cattiva. Sembra una di quelle donne male avvezze, nate in famiglie cospicue per nobiltà e per ricchezza, nelle quali i bambini vengono tirati su con idee di primato, di comando, di autorità illimitata, col concetto che tutti debbano cedere dinanzi a loro, e che non debba esistere per essi cosa illecita od impossibile. Si aggiunga una certa alterezza di indole, la cedevolezza di alcune compagne, che vieppiù confermavano nella Pallavicino le idee apprese in casa, la debolezza colpevole della Priora, e capiremo le stranezze a . cui ella si dava. I Superiori ecclesiastici e laici certo conoscevano bene la bisbetica monaca, ed in cuor loro dovevan chiamarsi contenti, che non facesse qualcosa di peggio. (1) R. Arch. di Stato. 1. cit. Denunzia del 29 ottobre 1633. (2) R. Arch. di Stato. 1. cit. Lett. della Vicaria di S. Nicolao al magnifico Sambuceto ufficiale delle monache, 29 ottobre 1638. ^3) R, Arch. di Stato. I. cit. Altra lettera c. s. 15 novembre 1633. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXVII. >' — IÓ2 — Più tardi suor Arcangeli Pallavicino prese seco per educarla una figlia di Cristofaro Fornari (i); e fossero le cure che la fanciulla richiedeva, o fosse la compagnia di essa, o gli anni che passavano, suor Pallavicino divenne più trattabile e perdette quell’irrequietezza, o peggio, che tanto disturbava le sue compagne; sicché la stessa vicaria suor Maria Vassallo nel 1639 scriveva al magnifico Sambuceto, ufficiale delle monache, che il monastero era tranquillo (2). La mattina del 9 settembre 1633 suor Anna Felice Lo-mellino, monaca in S. Tomaso, usci « dal monastero senza alcuna licenza, e fattasi portare in segetta chiusa dilettamente in Palazzo arcivescovile ai piedi di monsignoi illu strissimo e reverendissimo signor Giulio Vincenzo Gentile arcivescovo di Genova, espose a S. S. Ill.ma e R-m h‘iver essa ciò risoluto, per non poter più vivere in quel monastero, e perchè sieno sentite le sue ragioni ». L Aruve scovo la « minacciò di carcere e di altri castighi »; ma non essendo riuscito a persuaderla, né a costringerla a tornare al suo monastero, la fece portare nel convento di S. Chiaia in Carignano, dove in principio ella si adattò a restare (3)- Per castigo e per prudenza le fu imposto d’ uscir dalla cella assegnatale, solo nei dì festivi per la messa (4)5 ma ben presto si ritenne miglior cosa ordinarle di restarsene sempre in cella (5). (1) R. Arch. di Stato. Monialium ——. Relazione alla Giunta dei monasteri, 1382 17 novembre 1638. (2) li. Arch. di Stato. I. cit. Lettera di S. Maria Vassallo vicaria di S. Nicolao al magnifico Sambuceto, 23 giugno 1639. (3) R- Arch. di Stato l. cit. Decreto arcivescovile del 9 settembre 1633' (4) R. Arch. di Stato. /. cit. Decr. arciv. del 10 settembre 163 3■ (5) Id. I. cit. Decr. arciv. del 12 settembre 1633. — 163 — La Lomellino non rimase a lungo tranquilla a S. Chiara; usciva a suo capriccio dalla cella, motteggiava le monache e 1’ educande « con indecenti parole », scandalizzando le une e le altre, ed impensierendo le famiglie di esse; tanto che alcuni padri richiamarono dal convento le figlie che vi tenevano come novizie, o come educande, ed altri minacciavano di fare lo stesso. Stre-pitaron le monache, cercarono invano di ridurre al dovere 1’ ospite sgradita, e pregarono insistentemente 1’ Ufficio delle monache perché provvedesse al decoro ed alla quiete del loro monastero. E 1’Ufficio in un’adunanza del 22 maggio 1634 dichiarava la Lomellino incorreggibile, riconosceva di non poterla più lasciare a S. Chiara, nè ricondurla a S. Tomaso , ed ammetteva che il rimedio più efficace sarebbe stato il porla in carcere. Però a S. Chiara non vi era carcere adatta, né, se vi fosse stata, sarebbero riusciti a chiudervela, « se non colla violenza dei ministri », la qual cosa poco conveniva in un monastero. Quindi si reputava miglior cosa condurre la monaca irrequieta presso le magnifiche Caterina e Olivetta Lomellino « cognata e sorella respettivamente di detta suor Anna Felice Lomellino », le quali avrebbero dovuto giurare di farle osservare la loro casa come luogo di stretta clausura (1). Rifiutano esse l’ospitalità alla loro congiunta, ed allora il medesimo Ufficio delle monache la fa condurre « nel Conservatorio di Nostra Signora del Refuggio in Carbonara, ordinando che le sia assegnato per loco (1) R. Arch. di Stato. I. cit. Deliberazione presa dall’Ufficio delle monache, 22 maggio 1694. — 164 — clausurale il piano nobile destinato per le figlie del medesimo Conservatorio » (1). Ma neppure di questo si contentò la Lomellino : usci pochi giorni dopo dalle camere assegnatele, vagando a suo talento per le altre stanze del Conservatorio, e girando il bosco, malgrado le ammonizioni e i divieti dei Superiori (2). Che fare? L’Ufficio delle monache, il 6 luglio, si studia invano di trovar un altro luogo più sicuro, il 6 agosto le fa intimazione solenne di non uscire dalle stanze assegnatele (3), e pochi giorni appresso, vedendo che la Lomellino non se la dava per intesa, delibera, che se essa non si ridurrà al dovere « e non si contenterà di tenere le stanze assegnatele, come veio luogo di clausura, possino l’illustrissimi signori Protettori di detto Officio dei poveri (amministratore del Conservatorio di Carbonara), come detto illustrissimo e reverendissimo Magistrato delle monache li richiede, far che essa reverenda suor Anna Felice si trattenghi solamente nella camera osia stanza statale in detto Conservatorio assignata per sua habitatione, anche sotto chiave » (4)- Suor Lomellino si sarà calmata ? Le carte che la riguardano non ne dicono altro, e noi non vogliamo azzardare facili ipotesi, che ogni lettore può ben fare da sé. Lasciamo anzi subito di parlare di monache, che di- (1) R. Arch. di Stato. 1. cit. Ordine dell’Ufficio delle monache di condurre suor Anna Felice Lomellino al Conservatorio di Carbonara, 27 maggio 1694. (2) R. Arch. di Stato. I. cit. Deliberazione della Giunta delle monache, 6 lu-glio 1694. (>) Arch. di Stato. 1. cit. Deliberazione c. s. del 6 agosto 1696. (4) R- Arch. di Stato. 1. cit. Deliberazione dell’Ufficio delle monache, 31 agosto 1654. - iéj - cemmo bisbetiche per non dirle peggio, paghi di aver con due esempi mostrato con quali rimedi si solevano curare certe infelici, che più per colpa di natura, o di cattiva educazione, tribolavano i monasteri genovesi. Di altre non trattiamo, sicuri che dalla breve storia di queste i lettori avranno indovinato qualcosa anche intorno a bizze, a puntighi, ad ambizioni insodisfatte, a basse vendette, ad intrighi d’ogni genere, che si capiscono facilmente senza bisogno di lunga trattazione, e che del resto anche altrove toccammo (i). CAPO NONO. Chierici monachini. Cominciata la seconda parte di questo lavoro col parlar di chiese, la finiremo trattando di chierici che di esse in particolar modo si prendono cura. Ne parve utile entrare in chiesa prima che in monastero, perchè ritenemmo di poter meglio intendere il contegno dai laici tenuto verso i monasteri, cui si attribuiva un carattere sacro, conoscendo prima come essi trattassero quei luoghi che in modo speciale alle cose sacre venivano destinati. Ci pare ora non inutile vedere come si comportarono verso i monasteri i chierici, (i) Ved. specialmente cap. Ili, Spassi di convento. — 166 — specialmente quelli tra essi, che per ragione di ufficio avevano rapporti più frequenti e più facile con monasteri e con monache, perchè in questa maniera, già conoscendo la condotta dei laici, in generale non molto buona, potremo giudicarli meglio, se ci assicureremo della condotta dei chierici, ai quali dovevano non poco guardare i laici specialmente in cose di monache. Nel 1629 alcune monache di S. Leonardo si lagnano coll’ Ufficio dei monasteri, perche i cappellani si « accostino a parlare alle monache colle quali ritengono amicitia secretissima, ma a segno che tutto il giorno e da tutte 1’ hore, sotto pretesto di varii servitii e negotii, stanno attaccati alle ferriate del monastero con ragionamenti secretissimi con la monaca loro particolare amica, non curando l’offesa di Dio, né le scomuniche o sospensioni che vi sono. E nemmeno i scandali grandissimi che danno a tutti pubblicamente, tanto dentro quanto fuori del monastero, con danno anco grandissimo del monastero per li continui presenti, che dette monache fanno a detti preti loro amati » (1). Gli ufficiali delle monache ascoltano i lamenti delle denunziatrici, e, riconoscendo la gravità del male, decidono di parlarne all Arcivescovo « acciò vogli provedere, perché non vadano alle grate » (2). E nel 1632 furono sorpresi « alquanti preti et altri secholari, che stavano fachiendo cademia apresso lo curio de la chiesa di S. Nicolosio. Poi erano alquante monache (1) R. Arch. di Stato. Scritture di materie giurisdizionali . Denunzia letta all’ Ufficio delle monache il 27 maggio 1629. (2) R. Arch. di Srato, /. cit. Deliberazione presa dall’ Ufficio delle monache il 27 maggio 1629. — 167 — a la ferata, et li deti preti stavano burlando le dete monache » (1). E prete Francesco di Moneglia non si contentava di vagheggiar le monache in parlatorio 0 dalla strada, ma nel febbraio del 1637 fece fare una serenata sotto le finestre del monastero di S. Brigida (2). Nel 1634 il reverendo vice curato della chiesa di S. Andrea, appartenente all’annesso monastero, veniva licenziato per ordine del Magistrato delle monache, e dovette andarsene, malgrado la difesa che ne fece l’abba-dessa Paola Giovanna Fornari, la quale non potè ottenere neppure di farlo restare ancora per un paio di mesi (3). E licenziato fu anche prete Francesco Forcherò, cappellano delle monache di S. Bartolomeo; ma esso non dimenticò le sue bene amate, anzi volle continuare a vagheggiarle recandosi alla finestra d’una casa sul Carmine (4), e talvolta persino nel parlatorio (5). Prete Carlo Ogero, non contento di starsene nel parlatorio di S. Nicolosio con « certe suore giovanette, dando scandolo grandissimo, vi guida una mano di giovinastri suoi compagni, che per essere insolenti fanno (1) R. Arch. di Stato. Materie giurisdi{ionali Relazione all’Ufficio delle monache fra le carte del 1632. (2) R. Arch. di Stato. Monialium —. Relazione 8 marzo 1637. Per preti che dimostrano affetto a monache per mezzo della musica, ved. cap IV. Monache e musica. (3) R. Ardi, di Stato, l. cit. Lettera dell’abbadessa di S. Andrea all’Ufficio delle monache, e deliberazione di questo, 7 marzo 1634 (4) Id. Monialium . Relazione del 10 giugno 1641. (5) Id. Protectorum Officii S. Inquisitionis . Relazione del 7 agosto 1651. — 168 - strepiti et insolenze insopportabili » (i). Questo prete era cappellano alle monache di S. Leonardo, ma pare che preferisse quelle di S. Nicolosio, meritandosi ammonizioni invero non molto efficaci (2). Un Ogero peggiorato era prete Giuseppe Clavarino, che dava la caccia a tutte le donne che gli piacevano, dimostrando però una speciale predilezione per le monache. Nella casa di sua abitazione posta presso il convento di S. Brigida, al quale anzi apparteneva, conveniva lamico suo prete Carneggia con parecchi secolari, e bene spesso durante la notte tutti insieme scendevano in istrada, e con suoni, canti e schiamazzi d’ogni sorta disturbavano le monache. Di giorno poi dalla finestra di casa le vagheggiavano e « facevano loro dei segni » (3). E prete Paolo Geronimo Prato era frequentatore assiduo ai parlatori del monastero di S. Sebastiano di Pavia, dove aveva l’ufficio di cappellano, e più ancora si recava al convento di S. Nicolosio. Qui il 30 agosto del 1659, approfittando della rottura d’una grata, v’ introduceva « la mano e 1’ agiustava con quella d’ una monaca » (4)-E peggio ancora faceva prete Giovanni Battista Caffa-rena, che nel parlatorio di S. Leonardo fu un giorno sorpreso a commettere su se stesso atti indecenti « in presenza della monaca », per la quale soleva recarsi al monastero con grande frequenza (5). (1) R. Arch. di Stato. Prot. S. Off. — —. Denunzia del 22 agosto 1652. (2) Id. 1. cit. Relazione del 7 agosto 1651. (3) R. Arch. di Stato. Monialium. - ^ . Denunzia letta il 26 giugno 1656. (4) R. Arch. di Stato. Monialium —~ . Relazione letta il 26 settembre 1659. I305 (5) Id- ^ Relazione letta il 4 decembre 1667. — 169 — I preti poi semplici frequentatori di parlatorii sono in numero pressoché infinito. Ogni tanto giungono contro di loro denunzie straordinarie e relazioni ordinarie, a cui seguono per parte dell’Ufficio delle monache ammonizioni dirette, ed inviti all’Arcivescovo perché provveda efficacemente. Ad esempio, il 9 luglio 1655, il Magistrato delle monache mandava il segretario a dolersi col Cardinale Arcivescovo, perché « la instanza fatta a monsignor Vicario, che facci ordinare ad alcuni preti che non si accostino a monasteri di monache », non avesse a nulla approdato. Il Cardinale Arcivescovo prometteva di provvedere con ogni premura (1). Non farà meraviglia il sentire talvolta che qualche Vicario provava debolezze per monache, anch’esso talora si dilettava a trattare con loro, e che quindi era indulgente verso i preti monachini e verso le monache che si lasciavano vagheggiare. Forse di tal genere era il Vicario di cui lamentavasi 1’ Ufficio delle monache nel 165$, certo di siffatte debolezze soffriva il Vicario del 1660, di cui fortemente dolevansi il Doge e i Governatori in una lettera che scrissero il 17 settembre 1660 al loro Residente in Roma, perché ne informasse il Cardinale Arcivescovo che allora trovavasi in quella città. La lettera ricorda le cure che il Governo ha sempre avute per le monache, e la necessità di essere in questo aiutato dall’Arcivescovo, 0 dal suo Vicario. Ma ora nulla si può fare, perchè « detto Vicario va frequentando i monasteri, particolarmente quelli di S. Andrea e di S. (1) R. Arch. di Stato. Monialium -]_i—. Deliberazione dell’ Ufficio delle monache, 9 luglio 1655, e relazione del segretario, del io dello stesso mese. — 170 — Nicolosio, et entrando in essi riceve dalle monache molte cortesie, et anche regalli, che egli ricambia..... Onde, in luogo di contenerle nell’osservanza della loro regola, aderisce alle loro sodisfationi ». Quindi gli ordini dati recentemente dai Visitatori latera-nensi per migliorare la disciplina del monastero ed assicurare la clausura, non si eseguiscono, e le monache anzi spe rano di farli revocare dalla S. Congregazione. Cosi preti, frati e secolari continuano a frequentare il monastero, si scambiano « lettere piene di concetti amorosi, e da parte di un secolare si sono commesse anche gravi disonestà » (i). L’ Arcivescovo si adopera presso la Congregazione, perché gli ordini siano osservati, e con opportune pio visioni mette al posto il Vicario, obbligandolo ad operare d’ accordo colla Repubblica e col Generale dei Lateranensi per il bene morale del monastero di S. Andrea. Pei ra0 giungere questo scopo occorsero peraltro lunghe tratta tive, che mostrano le ragioni poco nobili che spingevano il Vicario e le monache alla resistenza (2). (1) R. Arch. di Stato. Monialium -. Lettera del Doge e dei Governatori a Giovanni Pietro Spinola, Residente genovese in Roma, 17 settembre 1660 guito a denunzie e relazioni, i Visitatori dell’ordine dei lateranensi, a cui sp la protezione del monastero di S. Andrea, avevano ordinato che si chiudess condotto d’ acqua ed una finestra per cui si poteva entrare nel monastero, e c ^ provvedesse ad « una cameretta nella quale si sa che era avvenuta gra\e o ^ di Dio », ed avevano inoltre disposto perchè cessassero le visite pericolose molti facevano al convento. Le monache spalleggiate dal Vicario non avevan eseguita la maggior parte di quelli ordini, ed anzi erano ricorse alla S. Congr gazione per farli revocare, ritenendoli offensivi pel proprio onore. Di qui la citata lettera del Governo al Residente genovese in Roma e le trattative successive. (2) Ved. nel R. Arch. di Stato l. cit. le lettere di Giovanni Pietro Spinola al Doge e ai Governatori, 2, 9, 23, 30 ottobre 1660, e le deliberazioni dei Serenissimi Collegi e dell’Ufficio delle monache, 17 settembre — primi di novembre 1660. - I7I - Di altri preti non parliamo, che per tutto il secolo e per il seguente imitarono quelli che imparammo a conoscere (i), e passiamo subito ai frati, che lasciarono pure qualcosa a desiderare pei loro rapporti colle monache. Si odano di pochi fra essi le cose più caratteristiche. Suor Anna Maria, abbadessa di S. Marta, il 6 marzo 1636 prega 1’Ufficio delle monache di far allontanare dal suo monastero « tre frati di S. Catterina, e specialmente don Arcangelo di Genova, eh’è il più scandaloso per i racconti delle sue sconvenienti avventure, « come quella che haveva una donna a suo beneplacito, e che questa donna era restata gravida, e che lui dopo cinque in sei mesi 1’ haveva fatta disperdere » (2). Nel 1652 due frati dell’Annunziata, il padre Passano ed il padre Francesco da Genova, che solevano confessare in S. Nicolosio, ricevono l’ordine dall’Ufficio delle monache « di non accostarsi più al detto monastero di S. Nicolosio », con minaccia di denunzia ai loro Superiori e di provvedimenti anche più gravi (3). Ma levati di mezzo due, ne restavano, 0 ne venivano altri. Cinque anni più tardi si alzano forti lamenti, perché alcuni confratelli di essi se ne « stanno sera e mattina nelli parlatorii delle monache di santo Nicolosio, non (1) Ved. nel R. Arch. di Stato numerose denunzie e relazioni entro le fil^e Monialium e all’anno 1721, in cui, ai 19 di maggio, prete Giovanni Francesco De Bernardi, cappellano alle Convertite, era rimproverato della troppa famigliarità con qualcuna di queste monache. (2) R. Ardi, di Stato. Monialium Lettera dell’abbadessa di S. Andrea all’Ufficio delle monache, 6 marzo 1636. (3) R. Arch. di Stato. Monialium -j-i—. Ordine dell’Ufficio delle monache, 12 gennaio 1652, notificato dal cancelliere il giorno seguente. — 172 — havendovi da fare niente.....e specialmente prima e dopo la messa si fermano a far l’amore » (1). Quindi 1 Ufficio delle monache invita « il padre ministro dell Annunciata del Guastato a mandare a dir messa al monastero di S. Nicolosio padri vecchi, astenendosi dal mandar padri giovani al detto monastero, con dar nota di quei padri che haverà a tal effetto destinato, e col mutar la vicenda più spesso che sia possibile » (2). Il 16 maggio 1661 Giovanni Battista Centurione per incarico del Senato, invita il padre Provinciale^ dei minori osservanti « a non mandare nei monasteri di S. Chiara d’Albaro e di S. Nicolosio padri giovani, ma di età e di virtù, con prohibirli di trattenervisi a desinare e a cenare » (3). E ciò, perchè si era saputo, che a detti monasteri frequentano con eccessiva assiduità « alcuni padri minori osservanti giovani, e che spesso vi pranzino, e talvolta vi si fermino di notte e vi cenino » (4)-E l’anno stesso nel monastero di S. Andrea frequen tano « due padri di S. Domenico, che hanno discorsi do^ mestici e poco honesti con qualche monache, mandandosi lettere di concetti amorosi, e sono passati tanto avanti che sono venuti a toccamenti dishonesti » (5)- ^ Que sto accadeva proprio il 1660, in cui la Repubblica do levasi di parecchi frati domenicani, che frequentavano (1) R. Arch. di Stato. 1. cit. Denunzia del I febbraio 1657. (2) R. Arch. di Stato. I. cit. Deliberazione dell’Ufficio delle monache, 1 e ' braio 1647. , (3) R. Arch. di Stato. Monialium Nota del segretario dei Serenissimi 0 - legi, 16 maggio 1661. (4) R. Arch. di Stato. I. cit. Rapporto della Giunta dei monasteri al Serenissi Senato, e proposta relativa accolta come sopra, 9 maggio 1661. (5) R. Arch. di Stato. Monialium Denunzia del 17 settembre 1660. - i73 - S. Andrea (i), e doveva trattare lungamente per l’opposizione che il Vicario arcivescovile e le monache di S. Andrea facevano alle riforme ordinate in questo monastero, come sopra s’é già veduto. Né in quest’ anno i domenicani erano i soli che tenessero relazioni poco oneste in S. Andrea; accuse simili erano fatte anche ai cassinesi di S. Caterina, con grave disdoro di tutte le monache da essi visitate. Riguardo a che il io ottobre 1660 giungeva all’ Ufficio dei monasteri una lettera anonima, che ci sembra assai maliziosa, nella quale dicendosi di voler difendere tante monache, che « sono state e sono tuttavia in ogni modestia, virtù e semplicità », osservasi che il cattivo nome al monastero proviene da « qualche leggierezza di suor Anna Maria Saoli dell’eccellentissimo Giulio, che ha havuto qualche amicitia con il padre monaco di S. Catterina, che l’anno passato, fu preso in S. Giovanni. È però vero che non vi é stato altro che qualche dimestichezza di parlare e biglietti forse non del tutto decenti ». Continuasi osservando che per riguardo ai parenti la Saoli rimane impunita, mentre si fanno ispezioni e si usano rigori eccessivi contro tutte le monache, che ne sono grandemente irritate (2). La denunzia sembra d’una nemica personale della Saoli, ma conferma e non distrugge quanto sopra abbiam detto sulle tristi condizioni morali di S. Andrea e sulle dannose ingerenze di frati in questo monastero (3). (1) R. Arch. di Stato. 1. cit. Lettera del Doge e dei Governatori al Residente genovese in Roma, 17 settembre 1660. (2) R. Arch. di Stato. I. cit. Denunzia 1 ottobre 1660. (3) Il Magistrato delle monache, fatte intorno ad essa le opportune indagini, il 1 ottobre 1660 riferiva al Senato che a torto «si getta tutta la colpa su questa - 17 4 — Non si creda peraltro che alcuni preti e frati nocessero ai monasteri soltanto nella fama, pei rapporti più o meno amorosi che avevano con monache; alcuni di essi, specie i confessori, nocevano anche nei materiali interessi, ricevendo parecchi doni, tantoché l’Ufficio delle monache, deplorando 1’ abuso dei regali, osservava che « 1 esser confessore di monache, é poco meno desiderato che Tesser vescovo: tanto utile se ne caccia » (0- Ed ora ci pare che basti, giacché tirando avanti non riusciremmo che all’ inutile lavoro di nominare altri frati di ogni ordine, rei delle stesse colpe. Il lettore assennato veda per suo conto se dai chierici potevano i secolari trarre ammaestramento, nei loro rapporti colle monache. Si guardi però dal credere che tutti i chierici fossero intinti della stessa pece di quelli da noi conosciuti ; ricordi anzi che parecchi non potevano essere più zelanti dell’ onor delle monache, e fra questi ponga pure tutti gli Arcivescovi della città, e quasi tutti i loro Vicarii, ma ricordi ancora quanto perniciose sieno le cattive azioni commesse da persone, che, per loro ufficio, son più guardate, specialmente se queste cattive azioni si ripetono con troppo frequenza, come appunto avveniva in Genova nel secolo XVII, per opera dei numerosi chierici che frequentavano i monasteri. monaca, di cui si conoscono le scritture prese al monaco imprigionato, bensì ad altre, et in qualche numero». Ved. R. Arch. 1. cit. (i) R. Arch. di Stato. 1. cit. Relazione dell’Ufficio delle monache al Senato, 16 ottobre 1660. Ved. anche in questo lavoro il cap. Ili, Spassi di monasteio. CONCLUSIONE È ormai tempo di raccoglier le vele dopo un viaggio piuttosto lungo intorno ai monasteri genovesi, che si volevano riguardare come isole sacre alla religione ed alla virtù. È innegabile, che, specie in certi tempi, i monasteri furono circondati di grande rispetto, ed anche se ne mostrarono meritevoli, esercitando la beneficenza e venendo ogni tanto in aiuto alle persone, che, rimaste al secolo, in esso e per esso lottavano. Ma coll’andare del tempo le condizioni d> essi peggiorarono, e, che noi si sappia, nessuno é sorto a difendere le monache genovesi del secolo XV, e neppure le loro consorelle che vissero nel secolo seguente. Noi lungi del proposito di mostrar con piacere le brutture che si riscontravano nei monasteri genovesi del Cinquecento, dovemmo però rilevare della vita monacale lati poco belli, appunto perchè di essa si conoscesse la parte forse meno nota ed in genere trascurata dagli annalisti dei singoli monasteri, tutti preoccupati di narrare miracoli ed opere di pietà. Di codesti annalisti noi giovare non ci potemmo di troppo, e la parte, diremo così, più umana della vita de’ conventi, da essi spregiata e taciuta, dovemmo toglierla da altre fonti : fonti in genere - 176 — rimaste per lungo ignorate nel R. Archivio di Stato in Genova. La vita delle monache genovesi del Cinquecento, di quel Cinquecento che pur deve ad esse anche qualche insigne beneficio, non fu in genere molto edificante. I monasteri genovesi avevano cattive tradizioni, le monache, ammaestrate dalle lor consorelle del Quattrocento, ne avevano appreso l’amore a libertà sconfinata, il desiderio di godimenti d’ogni genere. Il tempo, in cui vivevano, malgrado tante apparenze di religiosità, sentiva poco quella religione che solleva lo spirito ed abborre da male azioni, e tutto giustificava, tutto permetteva, chiamando spesso semplice leggerezza, e talora anche bontà egregia, ciò che in lingua povera poteva dirsi prova d’una vera mancanza di senso morale. La condotta delle monache dal malfare non distolte, ma ad opere cattive quasi trascinate dalle idee e dalla vita dei tempi, dava poco nell’occhio nei primi del secolo, quando, tranne qualche ecclesiastico di rara bontà, o qualche governante eccezionale, nessuno voleva accorgersene. Col passar degli anni peraltro Chiesa e Stato pensarono ai monasteri, ed efficacemente vollero provvedere al loro benessere morale e materiale. Si strinsero i freni per impulso venuto da Trento e da Roma, per un cetto generale miglioramento dei costumi, e sopratutto per la coscienza di gravi pericoli che si credevano imminenti, e che si attribuivano alla deficienza di profondo sentimento religioso ed al conseguente dilagamento d’immoralità d’ ogni genere. Ordini precisi e severi si fanno per rialzare la religione, per combattere l’immoralità dovunque si annidasse: nelle - i77 ~ famiglie, nelle chiese, nei monasteri, nella pubblica piazza, ed esagerando un sistema, invero non nuovo, perchè talora seguito anche molti anni prima, si credette di rimediare a tutto, facendo leggi che regolassero la vita in ogni sua manifestazione. Di alcune di tali leggi ci occupammo in questo lavoro ed altrove, degli ordini speciali riguardanti i monasteri in questo studio ampiamente parlammo ; dell’ efficacia di essi, ci fu dato trattare più volte. Ma per questi decreti i monasteri nel secolo XVII giunsero forse alla perfezione? No davvero. Nel Mille seicento vi fu solo un miglioramento, che del resto fa riscontro ad altro simile avvenuto pei costumi in genere, e che anzi a questo pensando, agevolmente si spiega. Però abusi, e gravissimi abusi si ebbero anche in questo secolo: genitori egoisti e snaturati seguitarono a sagrificare inesperte fanciulle, le regole severe sulle monacazioni furon offese a vantaggio di potenti per ingordigia di beni puramente materiali, e la vita dei monasteri, che avrebbe dovuto essere quieta e santa, fu spesso agitatissima e perversa. Il monastero accolse di rado donne di indole propriamente malvagia, ma spesso ingoiò fanciulle che natura aveva fatto per la famiglia e per la società, rinchiuse spesso povere nevrotiche che invano si vollero curare con rimedi spirituali o con penitenze brutali, e che invece sarebbero forse guarite, o almeno migliorate, con un poco d’aria libera, colle cure materne o con quelle di persone gentili ed amorose. Che meraviglia pertanto se nei monasteri accaddero inconvenienti, e gravi inconvenienti, anche nel secolo XVII? Atti Soc. Lio. St. Patri*. Voi. XXVII. u — 178 — Che meraviglia se audaci monachini d’ogni grado e d’ogni età trovarono ascolto nei monasteri ? La cosa non poteva andare diversamente. Noi cercammo di mettere innanzi al lettore tutti gli elementi che ci fu dato trovare per tessere la vita delle monache: nulla tacemmo, nulla esagerammo, ma sempre fummo guidati del desiderio vivissimo di conoscere il vero e di mostrarlo agli altri. Ed essendo stato questo lo scopo unico che ci siamo proposti, non abbiamo altro da dire: al lettore colto lasciamo il giudizio sul-1’ opera nostra; a tutti gli uomini conoscitori della vita e non sordi agli affetti del cuore, affidiamo il giudizio sulle monache. Da parte nostra terminiamo questo Studio lieti di aver molte cose conosciute intorno a tante donne d’ogni grado e d’ogni condizione, chiuse in tanti monasteri; e confessiamo sinceramente, che nel corso del nostro lavoro più volte abbiam provato grande amarezza scoprendo fra esse tante infelici condannate ad una vita che lor natura respingeva, nell’ esaminare ordini severi di superiori ecclesiastici e laici, tutti intenti a togliere a quelle poverette non solo l’occasioni di riprovevoli mancanze, ma perfino i conforti più puri ed innocenti, spingendole cosi ad aguzzare il cervello nella ricerca dei mezzi più adatti ad eludere la loro vigilanza e a disobbedire ai loro decreti. Siffatta amarezza invero non ci ha impedito di condannare quelle monache che nel chiostro mostravano cattivi costumi, che in società ed in famiglia non avrebbero certo cambiati ; ma é pur vero che abbiam sempre provato un sentimento vivissimo di profonda pietà per le monache in generale, e sentimento ben - 179 — diverso per la società, che non sempre in buona fede condannava tante infelici a duro martirio, e per colmo chiedeva ad esse dei veri miracoli, senza pensare quid valeant humeri quid ferre recusent. DOCUMENTI I. Verbale della solenne adunanza tenuta dai dodici Anziani e da altri magistrati genovesi il 25 marzo 1459 (R- Arch. di Stato. Diversorum -^j-> a. 1459-60). De moribus corrigendis. Die iovis XV Martii. Illustrissimus et clarissimus princeps dominus Iohamnes dux Calabriae ac Lothoringiae rex, regius in Ianua locumtenens et magnificum Consilium duodecim Antianorum, etc. Qui i nomi dei 12, poi il titolo delle altre magistrature coi nomi degl’ intervenuti. E quindi : Considerantes quedam esse in Ianuense civitate vitia: ideo graviora et in conspectu divinae maiestatis ut creditur detestabiliora: quo vetustiora sunt et comuni quadam omnium patientia velut leviora tolerantur: de quibus Ianuensis populus sepe admonitus, sepe sanctorum predicatorum vocibus obiurgatus, nondum videtur tamen his flagitiis frenum ac modum adhibuisse. Qualia esse dicuntur publice et que in omnium oculis versantur quotidiane fornicationes ancillarum, odia ad principantes ac ipsorum etiam mutua inter se civium. Et preter hec petulans audacia et impudentia monacharum totam per urbem assidue discurrentium et parum continenter parumque religiose viventium. Et cupientes quantum in se est his peccatis occurrere, et Deum sibi propitium ac placabilem reddere, omni iure ac via, quibus melius potuere, creaverunt et constituerunt — 184 — spectatos ac prestantes viros Petrum de Montenigro, Helianum Spinulam quondam Carrotii, Ludovicum de Francis de Burgaro et Babi-lanum Grimaldum quondam Tome censores morum ad compescenda eiusmodi peccata. Si affidano a costoro pieni poteri, ma poi si osserva: Preterea quia monacharum cohibitio ad spiritualem pertinere iurisdictionem videtur, addiderunt ipsi Magistratui tres venerabiles sacerdotes dominum Dominicum Folietam vicarium archiepiscopalem, dominum patrem fratrum predicatorum sancte Marie Castelli, et dominum patrem sancti Theodori..., quorum consilio et opera Magistratus ipse utatur semper cumque voluerit, presertim in negociis ad monachas et ad sedanda civium odia pertinentibus. Statuerunt preterea quod nemo ipsorum civium recusare possit munus hoc, sub pena ducatorum centum. II. Verbale dell’adunanza tenuta dagli Anziani e da altri magistrati genovesi il 10 gennaio 1468. s9 Contra monicdes et pro legatione mittenda ad Pontificem (R. Arch. di Stato. Diversorum ^ > a. 1466-68). Convocatis ad conspectum magnifici et illustrissimi domini ducalis in Ianua Vicegubernatoris, magnificique Consilii dominorum Antiano-rum, spectabilibus officiis balie, monete, sanctique Georgii, moderato rum cabellarum, et illicitorum contractuum; a quo, propositione facta, quam ignominiosum sit diutius pati tantam monialium civitatis in vivendo licentiam: que usque adhuc nullis legibus aut modis coherceri potuit. Ita ut demum crescentibus malis et pubblico civitatis dedecore necessarium sit ad apostolice sedis auctoritatem confugere, et ab ea remedium postulandum. Et cum litere parum proficere posse viderentur, laudare se legatum vel legatos mittendum: qui rei huic remedium inquirant et maxime ubi alia civitati negotia etiam incombunt, digna ut legatio ad Summum Pontificem destinetur. Cum unusquisque ex convocatis interrogatus esset suam - i8j - sententiam dicere, omnes, paucis admodum exceptis, facinore huius-modi, et propter animam et propter rem improbato, mittendam legationem censuerunt unum vel duos, prout ipse magnificus et illustrissimus dominus ducalis in Ianua Vicegubernator, magnifi-cumque Consilium dominorum Antianorum una cum ipso Officio illicitorum contractuum decreverit, quibus in re hac onnimodam potestatem ac arbitrium contulerunt, celeritatem in mittendo probantes. E due giorni dopo venne fatta l’elezione dell’ambasciatore, della quale qui riportiamo il verbale. Electio Legati ad Summum Pontificem. In observationem deliberationis pridem facte de mittendo oratorem ad Summum Pontificem, primum statuerunt solam ellectionem cuius viri ad hanc legationem sufficere, exindeque decreverunt huiusmodi ellectionem sub calculis fieri debere. Quisque qui fuerit ellectus teneatur acceptare sub pena aureorum ducentorum applicata Officio sanitatis, nec possit absolvi ab hoc onere, nisi sub tribus ex quartis partibus calculorum. Moxque pluribus nominatis et sub calculis excussis, cum vir nobilis Ambroxius Spinula quondam Ambroxii sub calculis albis quatuordecem, que erant due tertie partes approbatus extitisset, illum ad hanc legationem eligerunt atque in legatum creaverunt cum comitiva equorum (sic) duodecim ipso comprehenso. Cum pro sumptibus dicte legationis numerari statuerunt aureos trecentos, de quibus reddat rationem. III. Deliberazione degli Anziani e di altri magistrati genovesi riguardo a provvedimenti per la disciplina monastica. Verbale del 50 aprile 1472 (R. Arch. di Stato. Diversorum - 98 , a. 1471-74). Pro reformatione status monialium. Die ultimo Aprillis. Convocatis ad conspectum magnifici ac prestantissimi domini ducalis in Ianua Vicegubernatoris, magnificique Consilii dominorum — x 86 — Antianorum spectabile Officio monete, aliisque civibus ellectis numero fere centum propositioneque fccta per hec verba. Segnoi, la casua de la convocatium vestra è a requesta de questo spectabile Officio più giorni fa ellecto a instare che se refoi masse lo stao e lo viver de queste nostre moneghe de Zenoa, lo qua se elio bexognava e bezogna ognun de noi lo intende: nè di questo bexogna particularmente dirne altro. Questo Officio cum ogni soli-citudine sua et cum grande soa laude intendando che lo remedio bexognava provedere per la via de Nostro Signore lo Papa, cerchò per un de li nostri ambassà obtenere boia de commissione larga in questa materia a trei venerabili religiosi foresteri. Tamen per levare via ogni scrupolo, li que demum avendo per ogni via che a elli fosse possibile cum questi quatro citem temptao, se cum bona vo-luntà de queste moneghe la coxa poisse recevere qualche bona reformativa, non avendo de poi morti giorni possuo fare fruto, non manchi per overa d’altri, come per renitentia de alchune de loro, perchè pur ghe ne de quelle chi starean patiente ale coxe honeste. Demum revisto le reformative facte altra volta in questa materia, et examinao la importantia de la coxa e lo remedio lo quale ella bexognava, ano posto termine in lo vivere loro quello che a loro è parsuo debito e honesto e chi convenisse a tanto caso. Quello che de poi questo alchuno de loro ano facto et dicto palaxemente in desprexio de li religiosi e altri non se dixe. perchè ognium de noi n’è ben informado, e serva pur manchamento nostro a recitarlo. In fin ano mandao a Roma e cum multa instantia e onore etiam cum lo nome de alcuni altri nostri preti e prelati ano obtegnuo che questa causa è comissa in Rota, et facto citare a Roma l’Officio de li nostri citem et etiam li delegati. A questo Officio non è parsuo procedere più oltra senza notitia e consegio vestro, come è debito. Licet sia vergognoza coxa dovere cauzare a Roma cum le moneghe e preti per tale caxion, pur se paresse necessario de farlo per honore de Deo et de la nostra terra et de lo nostro sangue, non se porea fare alchuna provision senza la forma de mandare qualche persona a lo Papa, non per litigare, ma per darghe ad intendere quanto questa coxa importa a lo honore de Deo et lo so e de la soa patria, e a darghe notitia de quello che s’è facto, et — 187 — poi lassiarlo in so arbitrio. 0 se pareso bastare lo scrivere, o te-gnere altra via per remedio de tanto caxo etiam lo porea arecor-dare a chi paresse de farlo come se sia. Qualche spexa ghe beso-gnerea, siche voi sei convochao per questo, acioche intexo tuto e ben considerao tuto, voi pezer lo vostro conseglio de quello che ve pare da fare in questa materia. Post alios qui suam sententiam dixerant, clarus legum doctor dominus Luchas de Grimaldis assurgens in hunc modum loquutus est. Inter multa in hanc rem commemorata placere sibi potestatem et curam relinquendam esse spectato Officio pridie ad hec negotia instituto. Quod scribere possit, quas literas velit Summo Pontifici ad exonerationem civitatis, quo pro caritate in Deum, pro honore patrio, pro salute animarum omnium adnixa et rei huic providere. Et demum relinquat onus rei Summo Pontifici et conscientie sue sine ullo litigio, quod nullo modo liceat ipsi Officio suscipere. Sed si ipsi Officio videbitur, solum possit cum literis virum mittere qui eas in manibus Summi Pontificis reddat. Cum quibus etiam literis possit ipsum Officium, si videbitur, alligare reformationes super mo-nialibus factas et omnes alias scripturas, que ipsi videbitur pro iustificatione reigeste. Quibus omnibus redditis in manu Summi Pontificis, et exposito ei si quid videbitur illis exponendum in hac materia , qui missus fuerit, revertatur sine ulla alia cause huius prosequutione, nec in lite neque extra litem. In quibus omnibus liceat ipsi Officio posse impendere usque ad summam florinorum centum solvendorum per viam camere aut Officium monete, prout commodius fieri poterit. IV. Breve di Clemente VII all’ Arcivescovo di Genova ed al Priore di S. Teodoro sulla riforma dei monasteri, 21 gennaio 1529 (Bibl. della R. Università, f. 2 del ms. Institutio Officii Misericordiae et Magistratus monialium Genuae). Venerabilis frater et dilecte fili, salutem et apostolicam benedictionem. Nuper dilecti filii, Dominium civitatis ianuensis nobis - i88 - exponi fecerunt, quod licet, alias cum raoniales monasteriorum monialium civitatis, et districtus ianuensis totaliter in lascivam vitam declinassent, in grave eorum salutis dispendium, et perversum totius civitatis exemplum, ipsi Dominio dictae civitatis pro reformatione monialium monasteriorum praedictorum, apostolicas a praedecessoribus nostris in forma brevis, tum Archiepiscopo ianuensi, seu eius Vicario in spiritualibus generali, et Priori monasterii sancti Theodori extra muros Ianuae et eorum cuilibet directas, per quas eidem Archiepiscopo, seu Vicario et Priori huiusmodi monasteria reformandi, et illorum moniales corrigendi, ac alia in huiusmodi reformatione necessaria, cum consilio tamen, auxilio et favore trium, vel quatuor civium a Senatu et Dominio dictae civitatis ianuensis eligendorum, facienda, facultas concessa extitit. Obtinuerunt ac vigore litterarum, brevi huiusmodi, monasteria praedicta, non sine magno labore et pluribus expensis reformata ad statum regularem, clausuram et reformationem reducta fuerint, et illorum moniales praefatae per multos annos in odore bonae famae perseveraverint, nihilominus a certis diebus citra aliquod ipsorum monasteriorum, moniales forsam ex maiori frequentia, et familiaritate cum clericis, religiosis ac saecularibus personis, regularem observantiam aliqualiter relaxare caepe-runt, in grave aliorum monasteriorum et civitatis predictae periculum. Quare pro parte Dominii praefati nobis humiliter supplicatum fuit, quatenus, ne deteriora eveniant, in praemissis opportune de benignitate apostolica providere dignaremur. Nos igitur huiusmodi supplicationibus inclinati discretioni vestrae per praesente committimus, et mandamus et vos vel alter vestrum cum consilio, auxilio et favore trium vel quatuor civium per dictum Dominium eligendorum, pro regulandis huiusmodi monasteriis, ob confirmationem clausurarum et regularis observantiae alias impositae contra quoscumque haud laicos quam clericos, ac religiosos exemptos et non exemptos cuiuscumque dignitatis, seu conditionis existant, et quacumque etiam episcopali dignitate praefulgeant, procedatis. Nos enim vobis quoscumque citandos, citandi, et quibus, ac quoties inhibendum fuerit, inhibendi, necnon omnes et singulos supradictos, qui in delictis, et excessibus huiusmodi monasteriorum, ac personas in ipsis existentes tangent, culpabiles reperti fuerint, — 189 — necnon qui se directe, vel indirecte in relaxando regularem observantiam in monasteriis huiusmodi, intromittant, aut personis in praefatis monasteriis existentibus, quominus regulariter, et obser-vabiliter vivant, auxilium, consilium et favorem dederint corrigendi, multandi, carcerandi, et alias poenas imponendi, ac alia in praemissis, et circa ea necessaria, seu quomodolibet opportuna faciendi, exe-quendi plenam, et liberam facultatem, et auctoritatem concedimus per praesentes, nonobstantibus praemissis, ac constitutionibus, et ordinationibus apostolicis, necnon dictorum monasteriorum, etiam iuramento, confirmatione apostolica, vel quavis firmitate alia roboratis, statutis et consuetudinibus, privilegiis quoque et induitis apostolicis etiam mare magnum nuncupatis, ac exemptionibus conservatoriis et litteris in contrarium forsam quomodolibet concessis, et approbatis, quibus omnibus illorum tenore praesentibus sufficienter expressis habentes, illis alias in suo robore mansuris, hac vice dumtaxat harum serie specialiter, et expresse derogamus, caeterisque contrariis quibuscumque. Datum Bononiae sub anulo Piscatoris, die 21 1529, pontificatus nostri anno sexto. Evangelista C. J. de Ribera. A tergo: Venerabili fratri Archiepiscopo ianuensi, sive eius in spiritualibus Vicario generali, et dilecto filio Priori ecclesiae Sancti Theodori ianuensis, vel eorum alteri. V. Breve di Paolo HI a Marco Cattaneo vicario arcivescovile in Genova per la riforma dei monasteri, i gennaio 1558 (Blbl. della R. Univ. Imlit. cit. Copia nel R. Arch. di Stato. Sala 74, u. 255. Fogliazzo del notaro Bernardo Usodimare-Granello, notaro della Curia arcivescovile di Genova). Venerabilis frater salutem et apostolicam benedictionem. Exponi nobis nuper fecerunt dilecti filii nobiles viri Dux et Gubernatores Reipublicae genuensis, quod licet alias felicis recordationis Innocen- — 190 — tius Papa Vili praedecessor noster dilectorum filiorum comunitatis et nonnullorum ad id deputatorum civium ianuensium supplicationibus inclinatus, certis tunc expressis iudicibus, dederet in mandatis, quatenus ipsi, vel alter eorum, quod de caetero in monasteriis monialium quorumcumque etiam exceptorum ordinum in civitate ianuensi eiusque suburbiis et locis circumstantibus consistentibus, et clausura claustrali carentibus, nullae moniales de novo reciperentur, et decedentibus monasteriorum eorumdem monialibus professis vel non professis earum bona quae tempore receptionum suarum dictis monasteriis consulerant, remanerent, et applicarentur monasteriis ipsis respective, et si aliquae monasteriorum huiusmodi moniales ad aliqua alia monasteria de caetero transirent, tantum pro eorum substentatione et collatis per eas monasteriis de quibus transissent bonis tribuerentur annuatim, quantum percipere consuevissent in eis de quibus transirent .... (Seguono prescrizioni di carattere civile per questi passaggi e per provvedere a monasteri scarsi di monache). Quindi si aggiunge: .....Nos igitur regularem disciplinam in quibuslibet monasteriis vigere et firmiter observari sinceris desiderantes affectibus eorumdem Ducis et Gubernatorum in hac parte supplicationibus inclinati, tibi per praesentes committimus et mandamus, ut iuxta formam literarum praedictarum quibus et ad infrascripta extendimus omnia et singula monasteria quorumcumque etiam exemptorum ordinum civitatis et suburbiorum et Dominii huiusmodi auctoritate nostra visites, et in eis errata corrigas, ac deformata reformes, necnon monasteria ipsa debita clausura munias et ne laici aut aliae tam saeculares quam ecclesiasticae ac religiosae personae etiam ad ipsarum monialium confessiones audiendas deputati ad illa suspectum accessum habeant provideas, ac omnia et singula alia quae ad Dei cultum, et ipsius regularis disciplinae observantiam ac religionis decorem pertinere videbuntur, statuas et ordines. Necnon omnes et singulas tam ipsorum monasteriorum monialium et personas, quam quoscumque alios cuiuscumque dignitatis, gradus, status, ordinis et praeminentiis existent; quorumcumque ipsorum monasteriorum statutorum et ordinationem transgressores, et contra illa aut alia quovismodo in praemissis tam intus dicti monasterii, quam - i9i - extra ea delinquentibus iuxta sacrorum canonum dispositionem. Caeteraque in praemissis necessaria et opportuna facias et exe-quaris super quibus tibi plenam et liberam auctoritate apostolica tenore praesentium facultatem concedimus; non obstantibus constitutionibus et ordinationibus apostolicis, et monasteriorum et ordinum praedictorum et iuramento confirmatione apostolica vel quavis firmitate alia roboratis, statutis et consuetudinibus, privilegiis quoque et induitis et litteris apostolicis, etiam mare magnum de bulla aurea, aut alias quomodolibet nuncupatas eisdem monasteriis et ordinibus super quibuscumque tenoribus et formis et cum quibusvis clausulis etc. etc. Romae ... die prima Ianuari 1538. VI. Breve di Paolo III a Marco Cattaneo vicario arcivescovile in Genova per la riforma dei monasteri, 6 gennaio 1538 (Copia nel R. Arch. di Stato, sala 74 n. 255. Fogliazzo del no-taro Bernardo Usodimare-Granello, notaro della Curia arcivescovile di Genova). Venerabilis frater etc. Dudum prò parte dilectorum filiorum Ducis et Gubernatorum Reipublicae ianuensis nobis expositum, quod monasteria monialium civitatis et Dominii ianuensis a regulari observantia et debita clausura non parum declinabant. Eorumdem Ducis et Gubernatorum in ea parte supplicationibus inclinati, per alias nostras in forma brevis literas tibi comittimus et mandamus, ut dicta monasteria visitares ac in melius reformares, et nonnulla alia tunc expressa pro opportuna directione dictorum monasteriorum, faceres, prout in dictis literis plenius continetur. Cum sicut Dux et Gubernatores nobis nuper exponi fecerunt, nonnulla postmodum scandala in nonnullis ex eisdem monasteriis culpa et defectu eorum monasteriorum regiminibus praesidentium orta fuerint, quae opportuna reformatione et severa correctione indigere noscuntur, pro parte eorumdem Ducis et Gubernatorum nobis fuit humiliter supplicatum, ut etiam circa haec opportuna providere de benignitate apostolica — 192 — dignaremur. Nos igitur scandalis omnibus iis, praesertim quae a religiosis personis, quae aliis exemplo esse debent procedunt, occurrere cupientes, huiusmodi supplicationibus inclinati, tibi per praesentes comittimus et mandamus quatenus ultra tibi per dictas litteras commissa etiam circa scandala, ut perfertur orta, prout tibi videbitur, et secundum Deum expedire cognoveris, servata alias dictarum litterarum forma provideas. Nos tibi super praemissis quodque contradictores quoslibet et rebelles per censuras ecclesiasticas, et alias de quibus tibi videbitur poenas compescere, ipsisque censuras etiam iteratis vicibus agravare interdictum ecclesiasticum opponere, om-niaque et singula alia in praemissis et circa ea necessaria seu quomodolibet opportuna facere possis et valeas plenam per presentes concedimus facultatem mandantes etc. Romae .... die vi Ianuari 1538. VII. Decreto col quale il Vicario arcivescovile in Genova toglie ai Lateranensi di S. Teodoro la cura d’alcuni monasteri di monache, 26 gennaio 1538 (Copia nella Bibl. della R. Uni-vejsifcà, t. IV, p. 110 del ms. degli Annali ecclesiastici della Liguria dello Schiaffino). Il decreto è molto lungo specie per formole e frequenti richiami: crediamo quindi utile riportarne solo i brani più importanti. Il Vicario comincia col ricordare i brevi pontificii del i e 6 gennaio, aggiunge di agire d’accordo cogli Ufficiali delle monache: Vincenzo Sauli, Agostino Pinello, e Martino Giustiniani di Mon-giardino, col consenso dei quali « ex dignis respectibus et rationalibus causis eius animum moventibus et pro scandalis evitandis, habitis informationibus opportunis, fuerunt suspensi religiosi venerandi ordinis canonicorum regularium Sancti Augustini monasterii Sancti Theodori de Fassolo extra muros Ianuae a cura, regimine et administratione monasteriorum monialium Sanctae Mariae de Gratiis, et Sancti Andreae de Porta, ac Sancti Bartholomei de Olivella ianuensibus, quibus praeerant et praeesse solebant, et pro debito officii — 193 - ipsius reverendi domini Vicarii cum consilio semper praefatorum dominorum Officialium relationem, statum et conditionem diversorum monasteriorum et maxime praedictorum diligenter perquisivi, et de eorum statu fuit bene informatus, et cognito quod bonum, utile et necessarium sit provvidendum etc. », notificò l’ordine e le lettere pontificie alle monache perchè obbedissero, « et eligere deberent alterum ex duobus regiminibus eisdem pro pondere, aut regimine dictorum monasteriorum, monasterii et abbatiae Sanctae Ca-therinae ianuensis ordinis Sancti Benedicti Congregationis cassinensis, aut vero regimine fratrum monasterii Sanctae Mariae de Castello ianuensis ordinis Praedicatorum observantiae ad hoc, ne praefatae moniales sine regimine remanerent, et non possent earum debitis confessionibus et aliis spiritualibus consolationibus consulere, et quia praefatae dominae priorissae, et moniales dictorum monasteriorum infra tempus et terminum eisdem, ut praemittitur assignatum, non curaverunt nec curant praefatis his litteris apostolicis etc. Volens ipse reverendissimus dominus Archiepiscopus . . . providere ... in primis praefatos venerandos et religiosos canonicos regulares Sancti Augustini dicti monasterii Sancti Theodori de Fassolo extra muros Januae, ac aliorum monasteriorum dicti ordinis a regimine, cura et administratione dictorum trium monasteriorum monialium Sanctae Mariae de Gratiis, Sanctae Andreae de Porta, et Sancti Bartholomei de Olivella ianuensibus et a quolibet eorum quibus praeerant et praesse consueverant, tenore praesentium amovit et amotos esse decrevit, statuit et ordinavit, ita quod de caetero circa regimen et curam eorumdem monasteriorum, nec alicuius eorum se intromittere, nec religiosos per ipsum dominum comissarium et executorem aposto-licum eorum loco ad curam, regimen et administrationem dictorum monasteriorum respective et infra deputandos, quominus regimen et eorum huiusmodi suscipere et regere possint quomodolibet impedire audeant, vel praesumant sub excomunicationis latae sententiae poena contra eos singulariter in singulos ex nunc prout ex tunc, unica pro terna canonica monitione praemissa, si contrafecerint prolata, et quam incurrant ipso facto in causam contrafactionis ut supra. Et successive ut praefatis tribus monasteriis praedictis.... provisum remaneat.... deputant et assignant.... ut infra, videlicet Atti Soc. Ug. St. Pìtru Voi. XXVII. >3 - i94 - dictae dominae priorissae et monialibus tam praesentibus quam luturis dicti monasterii Sanctae Maria de Gratiis venerabiles religiosos, dominum abbatem et monacos monasterii Sanctae Catlierinae ianuensis ordinis Sancti Benedicti Congregationis cassinense, et dictis dominae priorissae, seu abbatissae et monialibus dicti monasterii Sancti Andrene de Porta, venerabiles et religiosos priorem et tiatres monasterii Sanctae Mariae de Castello ordinis Praedicatoium de observantia, ac dictis priorissae et monialibus dicti monasterii Sancti Bartholomei de Olivella venerabiles et religiosos guardianum et fratres Sanctae Mariae Annunciatae ordinis minorum de observantia .... Statuit et decernit ut praefatae dominae priorissae et moniales dictorum monasteriorum .... sub eadem excomunica-tionis poena, de qua supra, non audeant, nec praesumant de caeteio admittere praelatos dominos canonicos regulares ad earum ìegimen, seu administrationem, nec etiam in earum confessores accipere, nec cum eisdem aliqualiter verbo vel scriptis per se se, vel interpositas personas praticare etc.....Mandavit etc.....Presentibus testibus reverendo domino Antonio Carrega canonico ecclesiae maioris Ianuae, et Antonio de Pinellis quondam Dominici cive Ianuae ad praemissa vocatis et rogatis. Bernardinus Usudimaris Granellus notarus. VIII. Breve di Paolo 111 riguardo ai dissensi sorti tra il Vicario arcivescovile di Genova ed alcuni monasteri di monache, 4 luglio 1558 (Ann, eccl. cit. t. IV, p. 120). Comincia col ricordare gli ordini fatti in materia di monache da Innocenzo Vili in poi, e quindi riguardo al recente decreto del Vicario arcivescovile dice: .....Nos informati quod inter moniales dictorum monasteriorum moderandorum dictae civitatis et dioecesis in spiritualibus Vicarium generalem superioribus mensibus graves discordiae et dis- - 195 — sentiones exortae sunt, ita ut ipsae moniales de eo non confidant, volentes ut ipsae moniales quieto animo Deo omnipotenti quem obtulerunt facultatem exhibere possint, quod fateri non valerent si sub suspectae personae cura manerent, eidem Paternitati tuae per praesentes committimus et mandamus, ut si ipsorum monasteriorum alteri sis demandaturus, eam non dicto moderno Vicario, sed alteri demandes, ipsasque moniales ad accipiendum in confessorem alieni ordinis regularis professorem invitas non cogas, sed eis idoneos praesbiteros saeculares in confessorem deputes. Nos enim quidquid contra tenorem praesentium etiam praedictum modernum Vicarium forsan fieri contigerit irritum et inane decernimus, non obstantibus constitutionibus et ordinationibus apostolicis, ac dictae congregationis etiam iuramento confirmatione apostolica vel quavis firmitate alia roboratis, statutis et consuetudinibus caeterisque contrariis quibuscumque etc. IX. Breve di Giulio III per la ^istituzione d’uno stabile Magistrato delle monache, 4 settembre 1551 (Bibl. della R. Un. Istituito Off. Mis. et Mag. monialium, f. 3). Lasciamo la parte narrativa di quanto avevano fatto altri pontefici e i governanti genovesi a pro’ della disciplina monacale, e veniamo alla parte nuova. .....Cum autem Dux et Gubernatores praedicti quorum maxime interest, quosque pia urget sollicitudo, ut suae virgines Deo dicatae Christo Jesu sponso suo sine macula famulentur, attendentes per difficile fore, quin, vel culpa superiorum, moniales, tametsi per temporum intervalla reformatae, spiritu grassante maligno, a recto tramite aliquando exorbitent, velut iam apud nonnullos ex praedictis, multa inconcessa conspiciuntur, ac proinde tumescente ex tempore veneno praesenti salutis antidoto illi opus esse et venerabilis fratris nostri Archiepiscopi ianuensis, seu eius in spiritualibus Vicarii generalis nominibus nobis humiliter supplicari fecerint, quatenus mo- — 196 — nasteriorum eorumdem ac monialium, et aliarum personarum in eis pro tempore existentium felici statui et salubri directioni consulere, aliasque in praemissis opportune providere, de benignitate apostolica dignaremur. Nos igitur huiusmodi supplicationibus inclinati, praefato, et pro tempore existenti Archiepiscopo ianuensi, seu eius Vicario in spiritualibus generali, aut alteri antistiti, vel personae in dignitate ecclesiastica constituto, quem seu quam Dux et Gubernatores praedicti duxerint, pro tempore eligendum, seu eligendam, et ad eorum vota similiter una cum auxilio, consilio, favore et praesentia trium vel quatuor civium, ab eisdem Duce et Gubernatoribus pro tempore deputandorum, quoties eis opportunum videbitur, ad omnia et singula quorumvis et sanctae clarac civitatis, et dioecesis, ac iurisdictionis ianuensis monialium monasteria, et alia regularia loca etiam exempta accedendi, illorum necnon praesidentes et moniales, ac personas earum visitandi tunc in capite, quam in membris reformandi, et corrigendi, et ad regularem statum et debitam clausuram, et alia suorum ordinum instituta, iuxta professionem per eas factam reducendi. Et tam circa eosdem, quam quoscumque clericos, et laicos saeculares et regulares, et exemptos cuiuscumque dignitatis, status, gradus et praeminentiae existentes, etiam per viam inquisitionis, investigationis vel denunciationis, aut alios procedendi et inquirendi, ac quoscumque ex eisdem, qui dictas moniales, ab observatione eorumdem institutorum quoquo modo subtraxerint, vel alias in praemissis culpabiles fuerint, seu eis auxilium, consilium vel favorem dederint, et generaliter contradictores quoslibet, et rebelles, et per censuras ecclesiasticas, ac pecuniarias, necnon beneficiorum, et officiorum privatorias et alias benevisas poenas eo ipso incurrendas, ac carcerationum et auxilii brachii saecularis invocationem aliaque opportuna iuris, et facti remedia, quacumque appellatione remota puniendi et corrigendi ipsas censuras, et poenas etiam iteratis vicibus agravandi, caeteraque in praemissis, et circa ea necessaria, et opportuna, ac alias iuxta litterarum Clementis praedecessoris, huiusmodi continentiam et tenorem faciendi, et exe-quendi plenam et liberam facultatem, et auctoritatem, apostolica auctoritate tenorem praesentium concedimus, et elargimur non obstantibus praemissis, et piae memoriae Bonifacii papae octavi - 197 - etiam piaedecessoris nostri, de una, et in concilio generali edita de duabus dictio dummodo ultra tres dictas aliquis auctoritate praesentium ad iudicium non trahatur, et aliis apostolicis, ac in provincialibus et synodalibus conciliis editis generalibus, vel specialibus constitutionibus et ordinationibus ac monasteriorum et ordinum piaedictorum iuramentó, confirmatione apostolica, vel quavis firmitate alia roboratis statutis et consuetudinibus. Necnon privilegiis, induitis, exemptionibus conservatoriis et litteris apostolicis etiam maie magnum et bullam auream nuncupatis, eisdem monasteriis et ordinibus, et eorum superioribus et personis per quoscumque lomanos pontifices praedecessores nostros, aenos et Sedem aposto-licam sub quibuscumque tenoribus, et formis, ac cum quibusvis etiam derogatoriorum derogatoriis, aliisque efficacioribus efficacis-simis et insolitis clausulis irritantibus et aliis decretis etiam motu proprio et ex certa scientia, ac aliis in contrarium quomodolibet concessis, confirmatis et iteratis vicibus innovatis, quibus omnibus etiam si pro illorum sufficienti derogatione de illis eorumque totis tenoribus specialis, specifica, expressa, et individua, et de verbo ad verbum, non autem per clausulas generales idem importantes, mentio, seu quaevis expressio habendi, aut aliqua alia exquisita forma ad hoc servanda loret, tenores huiusmodi praesentibus pro sufficienter expressis habentes, illis alios in suo robore permansuris, hac vice duntaxat specialiter et expresse derogamus, contrariis quibuscumque, aut si aliquibus communiter vel divisim ab apostolica Sede sit indultum, quod interdici, suspendi, vel excommunicari, aut extra vel ultra, contra loca ad iudicium trahi non possint, per litteras aposto-licas non faventes plenam ac expressam, ac de verbo ad verbum de induito huiusmodi mentionem Datum Romae, die 4 septembris 1551. — 198 — X. Decreto della Repubblica per regolare l'elezione del Magistrato delle monache, 14 gennaio 1556 (Biblioteca del R. Arch. di Stato. Liber decretorum 1550-1563, f. 187'' del ms.). 1556 die 14 Januarii. Illustrissimus dominus Dux, et magnifici domini Gubernatores excellentissimae Reipublicae genuensis, cum Officium monialium sit summae necessarium, et maxime importandae in civitate ubi tot monialium coenobia reperiuntur variarum regularum, in quibus possunt aliquando aliquae inesse imperfectiones, et volentes quod Officium ipsum sit semper idem, et semper instructum in cura praedicta, omni meliori modo. Se se ad calculos absolventes, praesenti decreto deinceps duraturo, sanxerunt, et ordinaverunt, quod singulo quoque anno in diebus ultimis, quando cetera eliguntur officia civitatis, eligatur unus ad dictum Officium loco illius, qui in dicta cura fuerit vetustior, et seu prior ellectus, et in moderno officio ellegerunt, et elligunt N. Benedictum Centurionem quondam Lu ciani, loco Baptistae Salvaighi de Magnasco habita ratione, quod in hac cura iuniores debeant prius ab Officio exire et sic, transacta commutatione modernorum Officialium, de cetero quilibet ellectus in dicta cura per triennium remanebit. XI. Decreto del Governo, con cui si concede il braccio secolare per 1’ esecuzione degli ordiui dati dal Magistrato delle monache, 19 agosto 1575 (Bibl. del R. Arch. di Stato. Lib. V decretorum, f. 30 del ms.). 19 Augusti ijjj. Dux et Gubernatores Reipublicae genuensis. Cum maiores- nostri inter alia pietatis et religionis studia totis semper viribus intende- - 199 - rint, operamque dederint ut sanctimoniales virgines candide et immaculate preservarentur, et earum monasteria vere pietatis chri-stianae essent habitacula, et ob id variis temporibus super visitatione, reformatione et regimine earumdem nonnulla impetraverint rescripta et privilegia ab apostolica Sede ad eam rem facientia, et inter alios felicis memorie Iulius tertius pontifex maximus ad prece." nostras concesserit reverendissimo Archiepiscopo huius civitatis, aut eius Vicario vel alteri antistiti, aut in dignitate ecclesiastica constituto, quem nos pro tempore duxissemus eligendum, ut accedente auxilio, favore et presentia trium vel quatuor civium a nobis pariter eligendorum, posset moniales civitatis et Dominii nostri et illarum monasteria et loca visitare, et tum quo ad capita, tum quo ad membra reformare, et adversus quoscumque clericos etiam regulares et exemptos procedere, qui aliquid impedimenti vel molestiae huic sancto desiderio inferrent, ut fusius per literas desuper concessas apparet, et licet munus hoc pie semper et cum summa diligentia tractatum fuerit a delectis per nos pro tempore, quos monialium Magistratus solemus appellare, et nunc a reverendissimo Cypriano Palavicino moderno archiepiscopo, magnificis Nicolao Sauli, Antonio Auria, et Raphaele Vivaldo etiam a nobis delectis tractetur, et posthac a successoribus eorum per nos eligendis eodem modo tractandum fore sperandum sit, ut nihil ulterius desiderari possit. Attamen ad feliciorem rei gubernationem, harum nostrarum literarum vigore, beneplacito nostro durare valiturum, concedimus eidem, et pro tempore per nos eligendo, monialium Magistratui authoritatem exercendi iurisdictionem quae ad eos, stante nostra electione, competit, ex privilegiis et rescriptis supradictis, et per ministros magistratuum nostrorum secularium exequendi quae mandaverit, et propterea iniungimus cuicumque magistratui civitatis et Dominii nostri, ut prefato monialium Magistratui omne auxilium prestent, ita ut que decreverint in hiis, que ad eius munus spectant, exeeutioni demandentur, non derogando tamen aliis facultatibus hactenus, per nos concessis dicto Magistratui, quia sic decrevimus re ad calculos de more deducta. Datum Genue 1573, die xvim augusti. » — 200 — XII. Decreto del Governo con cui si affidano al Magistrato delle monache tutte le cause anche civili 4 \ che possono riguardarle, 27 ottobre 1583 (R. Arch. di Stato. Politicorum >• Osservando che ob dictarum monialium paupertatem eorum iura destrui et indefensa remanere, .....Ideo omni meliori modo per autoritatem ac iurisdictionem conferunt et concedunt reverendissimo Archiepiscopo prò tempore existenti in presenti civitate Ianue, una cum magnificis OfEtialibus et seu Protectoribus monialium, qui modo existunt et in posterum elligendis per Dominationes Suas Serenissimas cognoscendi, decidendi et sine debito terminandi ac indicata per eos exequendi summarie, simpliciter et de plano, sine strepitu et figura iudicii, ac sola facti veritate inspecta, sine remedio oppositionis nullitatis, reclamationis et recursus, quascumque lites, causas et controversias et differentias , quacumque occasione vertentes et que verti possunt cum quacumque persona, comuni, corpore, collegio et universitate, nulla penitus exclusa, etiam quacumque dignitate fungente et tam in agendo quam in deffendendo active et passive et quocumque modo, ubi possit tractari de interesse dictarum monialium, sive earum monasterio cum rerum et bonorum et tam in civilibus quam in criminalibus, respectu eorum et tantum que concernunt dictas moniales et earum monasteria. XIII. Bolla con cui Gregorio XIII toglie ogni dubbio che potesse sorgere sul valore del Magistrato delle monache dopo il Concilio Tridentino, e affida al Magistrato stesso ogni causa che queste riguardasse, 7 luglio 1583 (Insiti, off. cit. cons. nella Bibl. della R. Un., f. 6). Precede la parte narrativa di ciò che si era fatto in passato pel Magistrato delle monache, e quindi: ..... Prout haec ex fide dignorum et praesertim venerabilis fratris Episcopi novariensis in toto Dominio ianuensi visitatoris generalis — 201 — a nobis deputati relationibus intelleximus, et a nonnullis nunc dubitari contingat litteras praedictas, ac iurisdictionem et auctoritatem illarum vigore civibus praedictis concessam per decreta Concilii Tridentini, et constitutiones apostolicas a nobis et praedecessoribus nostris promulgatas ac alias forsam abrogatas et sublatas esse, pro parte Ducis et Gubernatorum praedictorum nobis fuit humiliter supplicatum, quatenus in praemissis providere de benignitate apostolica dignaremur. Nos igitur ne contingat moniales variis visitationibus inquietari, sed ut tranquilla mente, divinis beneplacitis, et regulari disciplinae vacari possint, provideri volentes ac confici Duceni et Gubernatores pro eorum pietate et religione, prout hactenus fecisse accepimus, non deputaturos huic muneri, nisi viros, religione et virtuce praestantes, aetateque matura, huiusmodi supplicationibus inclinati protectoribus monialium huiusmodi nunc existentibus, et ab eisdem Duce et Gubernatoribus pro tempore deputandis, quoties opportunum fuerit ad omnia et singula quorumvis, et sanctae clarae civitatis, et dioecesis ianuensis ordinum monialium monasteria, et earumdem regularia loca etiam exempta, cum praesentia tamen moderni, et pro tempore existentis Archiepiscopi ianuensis quem in omnibus, ipsorum protectorum caput, esse volumus et constituimus, seu eius in spiritualibus Vicarii generalis, aede eorumdem Archiepiscopi vel Vicarii expressa et speciali, quoties opus fuerit licentia duntaxat accedendi, et visitationis per eorumdem archiepiscopum vel eius vicarium faciendae interessendi quibus singulis, cum interventu et consensu dictorum Protectorum et Gubernatorum facultates concedimus omnes, et quascumque moniales etiam quomodo libet exemptas tam in capite, quam in membris reformandi et corrigendi, et ad regularem statum et debitam clausuram, ac alia suorum ordinum instituta, iuxta professionem per eas factam reducendi. Necnon praefatis Protectoribus, seu Gubernatoribus quascumque lites, causas, ac molestias super dictae civitatis et dioecesis monialium rebus, et bonis mobilibus, et immobilibus in Dominio ianuensi existentibus, iuribus, actionibus et privilegiis quibuscumque, et alias quacumque occasione, vel causa tam per ipsos, quam contra eos per quoscumque quavis praerogativa, auctoritate et dignitate fulgentes tam active quam passive ubicumque movendas summarie, simpliciter et de — 202 — plane sine strepitu et figura iudicii audiendi, cognoscendi, decidendi et sine debito, omni appellatione et recursu remotis, ita ut sententiae per dictos Protectores ferendae omnino ab ipsis Protectoiibus exequutioni demandentur, necnon.dicto Archiepiscopo, sive ems in spiritualibus Vicario generali cum consilio et consensu dictorum protectorum tam contra easdem moniales, quam quoscumque clericos, et laicos saeculares et regulares etiam exemptos cuiuscumque dignitatis, status, gradus et praeminentiae existentes, etiam per viam inquisitionis, investigationis, vel denunciationis, aut alias procedendi, et inquirendi, ac quoscumque ex eisdem qui dictas moniales ab osservatione eorumdem institutorum quoquomodo subtraxerint, vel alias in praemissis culpabiles fuerint, seu eis auxilium, consilium vel favorem dederint, aut alios molestatores, inquietatores, et contradictores quoslibet, et rebelles etiam per censuras ecclesiasticas, ac pecuniarias, necnon dignitatum, beneficiorum et officiorum pn-vatorias, et alias benevisas poenas eo ipso incurrendas, ac carcera-tionem, et auxilii brachii saecularis invocationem, aliaque opportuna iuris et facti remedia, quacumque appellatione remota, compescendi, puniendi et corrigendi ipsas censuras, et poenas etiam iteratis vicibus aggravandi, caeteraque in praemissis et circa ea necessaria, et opportuna faciendi et exequendi plenam et liberam facultatem et auctoritatem, apostolica auctoritate tenore praesentium concedimus et elargimur, non obstantibus ete..... Datum Romae.....die 5 iulii 1583. XIV. Bolla di Gregorio XIII che toglie qualunque privilegio prima esistente per ngresso nei monasteri. 5 marzo 1585 (Inst. uff. cit. f. y, ms. Bibi. R. Un.). .....Virginum ac mulierum civitatis et dioecesi ianuensis quae, relicto saeculo, Dei se obsequio dedicarunt, quieti consulere dignum est, et ea submovere quae earum tranquillas mentes perturbare, et a pio, ac religioso proposito avocare noscuntur. Quare supplicationibus — 203 — dilectorum filiorum nobilis viri Ducis et Gubernatorum Reipublicae ianuensis nobis humiliter porrectis inclinati, omnia et quaecumque privilegia,, facultates, licentias et indulta impediendi septa monasteriorum, seu domorum quarumcunque monialium seu mulierum civitatis et dioecesis praedictarum sub regulari observantia in comuni degentium quorumvis ordinum etiam mendicantium, quibuscumque mulieribus cuiusvis gradus, ordinis et conditionis quacumque dignitate et nobilitate fulgentibus etiam ducissis, comitissis et marchio-nissis sub quibuscumque tenoribus, et formis, clausulis et decretis a romanis Pontificibus praedecessoribus nostris, aut nobis ipsis vel alias apostolica auctoritate quomodolibet etiam motu proprio et ex quavis causa concessa, quorum tenores ac si ad verbum inserentur praesentibus haberi volumus pro expressis, auctoritate praesentium revocamus, et annullamus, ac cassa, irrita et inania decernimus, districte prohibentes praedictis a quibuscumque aliis huiusmodi privilegia, facultates, licentias et indulta habentibus, nec illorum praetextu, aut alias quovis modo dicta monasteria, domos, et loca regularia ingredi. Necnon abbatissis, priorissis et conventibus illorum nunc et pro tempore existentibus, nequam praedictarum introducere aut admittere audeant quoquomodo, quae secus fecerint, eas omnes excommunicationes aliasque censuras et poenas ecclesiasticas quae per apostolicas sanctiones, ac Concilii Tridentini decreta irrogantur, decernimus eo ipso incurrisse, quarum absolutionem nobis et apo-stolicae Sedi, excepto mortis articulo, in perpetuum reservamus. Illis tamen virginibus, seu mulieribus, quae animo suscipiendi habitum, et emittendi professionem regularem, aut etiam educationis causa monasteria, et domos hujusmodi de consensu inibi residentium, ingredi cupiunt, dummodo interim clausuram servent, et semel egressis eo amplius quae ad ipsum habitum suscipiendum reverti non liceat facultatem nolumus derogare, nonobstantibus etc..... Datum Romae .... die v Martii 1585. — 204 ' XV. Biglietto scritto ad Antonio Sperato, nel 1674 (R. Arch. di Stato, Monialium ^ ). Crudelissimo signore, Ch’ io sia di sentimento diverso da quello li discorsi di presenza, mai si troverà che poi Vostra Signoria mi trovi con dopiezza. Mi consolo, se ne sia acorto in tempo, acciò non resti gabato alchuno; nè faccio tali profetioni. Per quello gli parlai di quel tenore Sua Signoria sa, perchè purtroppo mi spiace le Arnioni: non sono però mai stata conosciuta per tale (patienza). Mi spiace sentire che abbi dato il suo cuore in poter d’una tiranna: se lo facci restituire, perchè saria peccato, mentre Vosrra Signoria, come credo, sii in libertà di poterlo di nuovo impiegarlo in meglio, e con persona di più merito che non sono io : non vorrei che la sua simplicità li fosse di suo pregiudicio, perchè ne averei dispiacere assai. Vorei poter avere quel che Vostra Signoria mi dice, di poter parlare con le persone e non vi esser presente, perchè non mi appassionerei forsi tanto. Veramente mi confesso d’aver poca memoria, ma non però, di potermi scordare le mie obligationi con la persona di Vostra Signoria havendomi fatte tante gratie e favori. Le terrò a memoria, sin che averò spirito, come è mio debito. La prego onorarmi de’ suoi comandi, de’ quali vivo sitibonda, benché indegna serva. Addio, crudele più di me assai, assai. XVI. Biglietto scritto dallo Sperato a donna Paola Vittoria, nel 1674 (R. Arch. di Stato , Monialium -J-). 15S6 1 Mia Signora. Se necessità fanno cognioscere gl’ effetti di parole, benché non sono in tanta necessità, per ogni conto dal puocco se — 20J — ne cava il molto, sono già cinque giorni me ritrovo in segreto senza haver cognita la causa, nè posso parlare, nè scrivere con cento spie, adesso non sapendo il fine. Questo nulla pesami, solo haver Domenico mio servitore retenuto in corpo di guardia per voler sapere che io sono, e Baldassare con ordine che non vadi a casa a dormire, che però prego adoprarsi che detto Domenico sia escar-cerato, stante non ha delitto; cosi parimente che le sia tolto il precetto a Baldassare che possi andare a casa a dormire. Di me non le dirò nulla, non havendo appresso la sua persona nessun merito. Basta; ho conosciuto che le cause non corrispondono alli effetti. Le mando questa e scrivo con un legnio, e per inchiostro limatura di ferro, e dò il fine non havendo meco carta. Altro non dicove: solo che, se si presto non morerò, ne vedremo. Altro non voglio che facci star di buono animo a Baldassare e Domenico e non le facci strapazare. Ho finito il chiostro (inchiostro), adio. I LA MORTE DI IACOPO BONFADIO PER M. ROSI el fare ricerche intorno alla Riforma religiosa in Liguria dovetti naturalmente occuparmi degli Annali del Bonfadio e del Bonfadio stesso, e, forse per l’impressione opere nelle quali il valente scrittore veniva rappresentato come eretico (i), sospettai pur io della ortodossia di sue credenze religiose, ed ebbi il dubbio che a bella posta tacesse degli eretici genovesi anche perchè alla Riforma « forse egli stesso inclinava » (2). Coni’ è naturale, e come fin d’allora sperava, ho voluto levarmi ogni dubbio, ed ho quindi studiato tutto quello che poteva giovare per giungere al vero, facendo (1) E. Gelesia, Iacopo Bonfadio, nella Rivista contemporanea, p. 61, Torino 1859. (2) La Riforma Religiosa in Liguria e l’eretico umbro Bartolomeo Bartoccio, in Atti della fycietà Ligure di Storia Patria, voi. XXIV, fase. 2, p. 563 in nota. lasciatami da Atti Soc. Lig. St. Patru. Voi. XXVII. '4 — 210 — a tal fine e con una certa fortuna nuove ricerche archivistiche in Genova e facendone fare da altri in Roma, pur troppo però con risultato negativo (i). Iacopo Bonfadio veniva a Genova nel 15 44 e non nel 1545, come si crede comunemente, ed era incaricato d’insegnare la rettorica e di scrivere gli Annali della Repubblica per l’annuo compenso di lire 595 (2). Era allora il suo nome già benevolmente ripetuto come quello di un letterato davvero egregio, e non farà quindi meraviglia né l’invito della Repubblica, né l’accoglienza dei cittadini, che accorsero in buon numero alle erudite lezioni. Così ben presto la rinomanza che già godeva presso il Governo e presso i privati come pubblico scrittore degli Annali cittadini si accrebbe di non poco, ed il (1) Avendo dovuto la Repubblica genovese trattare colla Curia Romana a proposito della condanna di I. Bonfadio, come più innanzi vedremo, sperai che se ne conservasse qualche traccia nell’ Archivio segreto Vaticano. L’ amico d.r E. Strac ciati gentilmente soddisfacendo al mio desiderio, faceva fare le opportune ricerche. (2) Già l’illustre L. T. Belgrano curando l’edizione degli Annali di I. Bonfadio tradotti dal Paschetti (Genova, Canepa 1870) nella nota 3, p. 4' delle « Notizie sulla vita di I. Bonfadio tratta dalla Storia della Letteratura italiana di G. Tiraboschi », ricordando il duplice incarico affidato in Genova al Bonfadio, aggiungeva: « Aveva per tali uffici assegnato l’annuo stipendio di lire 595, come si riconosce dai cartolarli delle spese della Repubblica. Cosi, per esempio, in quello del 1547 .(f- *76) sotto la data dell’ 8 febbraio si legge; Iacohis Bonfadius habens curam scribendi Annales Reipublicae et lector publicus .... pfo salario mensium sex finitorum ultima ianuarii etc. lib. 397, sol. 10 ». Come è naturale numerose altre note simili confermano il fatto, che cioè il Bonfadio avesse l’assegno di lire 595 perii duplice ufficio. # Generalmente si ritiene ch’egli venisse a Genova nel 1545: invece dalla nota di un assegno pagatogli sopra il suo stipendio il 10 marzo 1545, e che leggiamo nel cartolario delle spese della Repubblica di questo anno (f. 182), si può dedurre eh egli fosse chiamato al servizio di essa fin dal 1 novembre 1544. Ecco le parole del cartolario : lacobus Bonfadius hdbens curam scribendi Annales Reipublicae et iector publicus . . . pro salario infrascripto prima novembris . . . lib» CLXX. — 211 — Bonfadio riconosciuto ormai qual valente maestro, e quale elegante annalista, venne tosto circondato da cari amici, tra i quali ricordiamo il patrizio Giovanni Battista Grimaldi, che molto fece per lui nel giorno della sventura. Per alcuni anni non risulta ch’egli in Genova demeritasse in alcun modo alla buona stima che godeva, e fino al marzo del 1550 esercitò il duplice suo ufficio (1), anzi alla fine dello stesso mese era dal Cardinal D’Oria indicato al Doge ed ai Governatori come il più adatto a scrivere una lettera ufficiale al Pontefice (2). Però certo non molto più tardi dovette essere per colpa di sodomia messo in carcere (3). E qui rimase fino alla (1) Il giorno 8 marzo 1550 gli fu pagato il solito assegno a tutto il febbraio precedente. Si legge infatti al f. 162 del Cartolario delle spese della Repubblica di quell’anno, questa nota: 8 marzo, Iacobus Bonfadius habens curam etc. . . . pro eius salario mensium trium finitorum ultima februarii, lib. CXXXXVIII, sol XVI. (2) II 29 marzo 1550 il Cardinal D’Oria, lagnandosi col Doge e coi Governatori che avessero mandata una risposta assai male scritta al breve con cui Giulio III annunziava la sua esaltazione al papato, aggiunge che li ha voluti avvisare, « ac-ciochè possino quest’ altra, che sono per mandare per li Signori Imbasciatori, far scrivere al Bonfadio, il quale potrà (s’io non m’inganno) con la sua buona dottrina supplire alla debolezza della già scritta» (R. Arch. di Stato in Genova, Senato, Litterarum, n. 32). (3) Il giorno in cui venne incarcerato aveva indosso L. 34 ehe naturalmente gli furono sequestrate. Fcco come si esprime in proposito il Cartulario delle spese della Repubblica per l’anno 1550 a c. 162 con nota da riferirsi al 1 gennaio 1551. Iacobus Bonfadius in die II Ianuarii itfi prò partita de libris _jf , . . quia sunt pecunie reperte in eius personam tempore quo fuit incarcerata prò crimine sodomitico. 11 giorno della carcerazione il Bonfadio era certo corto a denari, perchè le 34 che gli si trovarono indosso dovettero essere quelle stesse, che gli aveva imprestate Leonardo Grimaldi « eodem die quo fuit captus ». Il Grimaldi come creditore potette dirsi ben fortunato, perchè nell’ anno successivo, e precisamente il 21 aprile, gli furono restituiti i suoi denari. — 212 — morte, che sarebbe avvenuta per condanna pubblica il 19 luglio dello stesso anno, e di qui poco prima di morire scrisse all’ amico G. B. Grimaldi una celebre lettera tante volte pubblicata, nella quale parla del dispiacere che prova perché la condanna gli pare eccessiva, e specialmente perchè questa non gli permette di mostrare la propria riconoscenza verso gli amici, che si sono adoperati in suo favore (1). La data del 19 luglio era creduta generalmente giusta ancora prima che il Mazzucchelli pubblicasse una nota scritta nel libro dei giustiziati, conservato lo scorso secolo presso la Compagnia della Misericordia in Genova, ed ora, a quanto sembra, perduto. Eccola testualmente: 1550, die 19 iulii, Iàcobus Bonfadius de contatti Brixiae decapitatus fuit in carceribus et postea combustus (2). Il dotto editore prova cosi la certezza della data, e, spiegando le parole della nota, dice di ritenere che il Bonfadio fosse condannato ad essere abbruciato vivo, e che G. B. Grimaldi, cui é diretta 1’ ultima lettera bon-fadiana sopra citata, insieme con altri autorevoli amici ottenesse che la sentenza venisse poi eseguita con minore vergogna e dolore dell’ infelice. Peraltro il documento, che sembra sì chiaro, non persuade affatto Prospero Viani, il quale ritiene che la sentenza di morte non fosse in alcun modo eseguita, e L ordine di questa restituzione è notato nel Cartulario delle spese della Repubblica per l’anno 1551, e fu già pubblicato nell’ed. cit. degli Annali di I. Bonfadio tradotti dal Paschetti, p. 9, n. 1. (1) Lettere familiari di Iacopo Bonfadio, p. 81, Brescia 1746. (2) Mazzucchelli, Scrittori d'Italia, parte II, t. II, p. 814, Brescia 1762. — 213 — pensa che il Bonfadio morisse nelle carceri il 20 giugno 1561 (1) Egli, a sostegno della sua tesi, pubblica quaranta stanze e quattro altre poesie tutte ascetiche trovate nella Biblioteca Civico-Beriana genovese, in un codice che ha in fine questa nota: sub die 20 iunii 1561 defunctus in carceribus (2). Secondo il Viani autentiche sono queste poesie e tutte composte in carcere, e sicura é la data del codice. Inoltre sempre in carcere avrebbe tre volte rifatta la lettera celebre (1) Prospero Viani, Della morie di Giacomo Bonfadio, a p. 245 delle Lettere filologiche e critiche, Bologna 1874. (2) I versi attributi al Bonfadio e pubblicati dal Viani nell’op. cit. occupano nella Biblioteca Civico-Beriana parecchi fogli (151-184) d’una miscellanea, che sembra appartenuta ad Ottaviano Canevari, il nome del quale si legge sulla copertina del volume. Molto si potrebbe dire per dimostrare che queste poesie non possono essere del Bonfadio. Anzitutto si noti che solo il sonetto a G. Cristo porta il nome del Bonfadio in questa frase « A Cristo sonetto del Bonfadio ». Questo sonetto è seguito dalla nota: sub die 20 iunii 1561, defunctus in carceribus , e preceduto dagli altri versi attribuiti al medesimo scrittore, quantunque non portino nessuna indicazione di esso. Veramente ne sembra che, giacché il Viani aveva regalati al Bonfadio tanti versi, che senza nome d’autore trovò in un codice prima d’ un sonetto che ha il nome dell’ illustre annalista, avrebbe potuto per la stessa ragione regalargli anche tutti gli altri, e non sono pochi, che si trovano nel medesimo codice prima di quelli da lui pubblicati. Si osservi poi che l’illustre editore stesso si accorge che valgono pochino, ed in nota alle quaranta stanze (p. 271 dell’ed. cit.) avverte: « Queste quaranta stanze hanno importanza storica, non poetica ». Quindi un valente scrittore come il Bonfadio giunto alla pienezza della sua vita intellettuale, dopo avere scritto anche in volgare e prose e poesie pregevoli, si ridusse a comporre simili versi privi d’ogni valore poetico? Ma si dirà, e difatti il Viani lo dice (p. 276), il Bonfadio era in prigione ed almeno le quaranta stanze le scrisse prima di morire coll’ animo turbato, e quindi non poteva fare gran che di buono. Noi non risponderemo che fra tanti, non solo Boezio scrisse in carcere un libro immortale , ma lo stesso Bonfadio compose nel carcere, pur poco prima di morire, la lettera celebre al Grimaldi, la quale per pregi letterarii non è certo — 214 — al Grimaldi, il che, a dire dello stesso critico, é prova dell’ottenuta grazia, non potendo far tanto un moribondo (i). Nè basta: « fino dal 1749 (aggiunge il Viani) inferiore alle altre che di lui ci rimangono; ci rallegreremo piuttosto con chi ha tanta buona volontà da attribuire al nostro autore delle stanze come questa: £ 1’ arbor vittorioso e trionfale Poiché piantato in me vedesti avere Della tua santa fede ed immortale, Non mutando proposto al buon volere, Promettendomi eterna ed immortale Vita mi premunisti dal temere Le diaboliche e false tentazioni, Non minore don di tutti gli altri doni. E questa stanza, tranne la ripetizione di parole in rima, che, secondo il Viani, « è un altro segno della precipitazione dell’ autore nel comporre e dell’ animo suo concitato affannosamente » (p. 289), è una delle meno cattive. Non ci sappiamo quindi persuadere come mai si sian potute pubblicare tali poesie come cosa del Bonfadio. Nè ragioni di carattere estrinseco ci possono contentare. Ottaviano Canevari, a cui sembra che il ms. appartenesse, visse nel secolo XVI e si occupò (Spotorno, op. cit., Ili, p. 192) di giurisprudenza, ma non è davvero provato che sua fosse la miscellanea in parola, nè che egli ritenesse tali versi del Bonfadio. E quando ancora così fosse, avremmo bisogno di prove maggiori per attribuire a tanto scrittore una simile ingiuria alle Muse, delle quali egli fu sempre riverente sacerdote. Se poi qualcuno volesse sapere come sian venute fuori queste poesie, noi risponderemmo di non essere alieni dal credere, che qualche scrittorello più amico della fama del Bonfadio che delle buone lettere, dopo la morte dell’ annalista le componesse per mostrarne il vivo sentimento religioso, quasi a far capire che uomo cosi pietoso 0 non aveva mai commesso il delitto appostogli, 0 che prima di morire se n’ era sinceramente pentito. Badiamo però è questa semplice ipotesi, e noi ci contentiamo solo di dire che apocrife sono le poesie in parola e d’altro non ne cale. Ricordiamo che anche E. Celesia le ritenne apocrife e vi trovò odore fratesco. Ved. il suo scritto I. Bonfadio, a p. 61 della Rivista contemporanea, 1859 Torino. (1) Fra le Lettere, inedite di dotti italiani del secolo XVI tratte dagli autografi della Biblioteca Ambrosiana da Antonio Ceruti, custode dei cataloghi della medesima, Milano 1867, ve ne sono due che il Bonfadio avrebbe scritte di carcere al Grimaldi lo stesso giorno in cui gli scriveva l’altra già molte volte pubblicata. Il Viani non sa capacitarsi come il Bonfadio in un medesimo giorno mutasse e rifacesse - 215 - il marchese Lorenzo De Mari genovese faceva sapere al conte Giammaria Mazzucchelli queste notizie : Le bombe hanno arse infinite scritture, e i trasporti ne hanno smarrite. Il processo del Bonfadio non é in Archivio, e nè pure altra scrittura, fuori degli Annali. Vi è chi pretende che la sentenza di morte non sia stata eseguita » (i). E tre volte una lettera. « Nè (aggiunge a p. 218) l’animo d’un moribondo può farlo, nè forse la giustizia, stabilita l’ora dell’esecuzione, facilmente consentirglielo». Cosicché per lui significa che gli fu fatta grazia, e che poi la Repubblica, per suo interesse, fece uscire soltanto 1’ ultima dizione della lettera. Colla prima di queste lettere (p. 20 della cit. ed. Ceruti) il Bonfadio si rivolge a « cordialissimo e ver amico », gli dà del tu dimostrandogli il più vivo affetto, dicendogli fra altro: « Te solo ho trovato amico vivendo, ed a te solo scrivo morendo ». Espone la sua fede nell’ immortalità, si raccomanda di non difendere la sua fama contro gli uomini, « essendo loro e noi e la memoria di chi fu, 0 sarà, dal tempo devorata ». Non si*cura della sepoltura. Pregherà per 1’ amico, da cui pare aspettasse preghiere. È datata: « Nella carcer di Genova l’ultimo dì della mia vita. Iacopo Bonfadio ». In una nota l’editore dice decapitato il Bonfadio in carcere il 19 luglio 1550. In un’ altra avverte : « Questa lettera fu già stampata anche in Piacenza nel 1773, ma con molte varianti: qui è riprodotta dall’autografo ». Colla seconda (p. 21, ed. cit.) il Bonfadio si rivolge al magnifico signor Giambattista, cui dà del lei. Manifesta il dolore di morire senza mostrarsi grato a chi aveva cercato di salvarlo, e specialmente al Grimaldi. Si rassegna alla sua sorte e raccomanderà a Dio gli amici. « A mona Marietta priego ogni contentezza, et gli raccomando quanto posso Fadino mio nipote ». Vuol essere seppellito a S. Lorenzo, e si raccomanda alle preghiere degli amici. È senza data, ma si capisce degli ultimi momenti, ed è firmata « Giacomo Bonfadio ». Queste lettere, a dire il vero, dato che siano del Bonfadio, ed in questo caso non sappiamo come la Repubblica, che voleva in pubblico solo la terza forma notissima, le lasciasse uscire, non ci pare che dimostrino proprio nulla, nè ci sembra in tesi generale punto strano che un condannato a morte muti tre volte la forma d’una sua lettera: peraltfo, finché non sia provato che il Bonfadio proprio il facesse, riteniamo più naturale il credere che qualcuno stimasse utile esercizio ricavare due altre lettere da quella celebre già da molto tempo pubblicata e letta. (1) P. Viani, op. cit., p. 254. — 216 — continua per suo conto : « La tradizione che lo sfortunato Bonfadio non fosse giustiziato se non in effigie l’intesi pur io colà più d’una volta da persone colte, attempate, dabbene, come udita dagli avi loro e trasmessa di generazione in generazione » (i). E con queste ragioni il Viani riusciva a far nascere dubbi sulla data della morte di Bonfadio anche nell’ animo di qualche illustre letterato contemporaneo (2), e pretendeva di togliere ogni valore alla nota del libro de’ giustiziati, sforzandosi di credere privi d’importanza altri documenti che sostanzialmente confermano la nota medesima. Eppure questi ci sembrano chiari. Ricordiamoli. Nel 1865 il Bernabò-Brea pubblicava il brano d’una lettera, nella quale, il 1 febbraio 15 51, monsignor Lomel-lini da Roma riferiva al Doge ed ai Governatori di aver saputo dal Cardinal Crescenzio che il Papa « restava grandemente scandalizzato di quella Signoria, poiché in poco tempo li era stato fatto richiamo di tre o quattro casi essorbitanti, connumerando il primo del Bonfadio, il quale, ancorché allegassi esser prete, senza darli tempo a provar questo, 1’ havevano fatto morire » (3). E nel Supplemento alle notizie della tipografìa ligure il Giuliani e il Belgrano pubblicavano il 1869 lo « Inventario de li libri ritrovati in una capsia quali erano del quondam messer Giacomo Bonfadio », togliendolo dal (1) P. Viani, op. cit., p. 255. (2) D Ancona e Bacci. Manuale della Letteratura italiana, voi. Ili, p. 185. Firenze 1893. (3) Bernabò-Brea, Appunti sui documenti della congiura dei Fieschi, p. 8, Genova 1865. — 217 ~ R. Archivio di Stato genovese, Foglialo 24 Finanze , degli anni 1550-51 (1). E lo stesso benemerito- Belgrano, nella citata edizione degli annali del Bonfadio (2), a p. 9, n. 1, il 1870 riportava queste parole tolte dal Cartulario delle spese della Repubblica per l’anno 1551, sotto il giorno 15 aprile: • Calega bonorum mobilium quondam Iacobi Bonfadii venditorum in publica callcga, ex qua curam habuit Ioseph Centurionus de Illice, pro processu dictorum bonorum etc. lib. 121, sol. 12. Quindi a noi sembra che riguardo alla data della morte del Bonfadio sia facile cacciar ogni dubbio, malgrado le poesie e le lettere che si vorrebbero regalare all’ illustre annalista, poesie e lettere sulle quali Prospero Viani fondava sostanzialmente le sue affermazioni. Invece assai difficile è determinare per quali motivi il Bonfadio venisse condannato al rogo. È questo per noi di capitale importanza, anche perchè dovrà dimostrarci se egli fosse reo di eresia. Le leggi genovesi punivano col rogo il sortilegio, 1’ eresia ed il vizio infame. Della prima colpa nessuno accusò mai il Bonfadio; per le altre due gli scrittori sono divisi. Il Mazzucchelli, e con lui altri che lo seguono, ammette sì che 1’ annalista fosse reo di vizio infame, ma ritiene ancora che alcuni « dalla sincerità della sua penna inaspriti si saranno mossi a suscitargli contro dalla (1) Atti della Società Ligure di Storia Patria, voi. IX, p. 390. (2) Annali di I. Bonfadio, tradotti dal Paschetti, Genova 1870. — 2l8 — giustizia per 1’ altra sua colpa quel rigor di sentenza » (i). Il Tiraboschi per venire a conclusioni da molti accettate (2) scruta le testimonianze degli scrittori e presta maggior fede al Manuzio, al De Thou e soprattutto a Girolamo Cardano, che dice il Bonfadio condannato ob pucnles concubitus, che non ad altri, che, senza addurre prove convincenti, lo vorrebbero perito per opera di falsi accusatori offesi dal Bonfadio ne’ suoi Annali. E dimostrato che, tranne i Fieschi, in Genova ormai abbattuti, nessuna famiglia poteva lagnarsi di lui, e che anzi molti 1 a-vrebbero difeso per le lodi ad essi date, esamina la celebre lettera scritta di carcere dal Bonfadio a G. B. Grimaldi, e fermatosi sulla frase: « Mi pesa il morire, perche mi pare di non meritar tanto », conclude : « Or se il Bonfadio fosse stato innocente del fatto appostogli e consapevole a sé stesso della sua innocenza, avrebb egli scritto solo che gli pareva di non meritar tanto? Non avrebb' egli protestato, e non era anche tenuto a ciò fare per difesa del suo buon nome, di non essersi mai macchiato di'tal delitto? Tutte ragioni ben ponderate, mi sembra, che non ci lascino luogo a dubitare, che il Bonfadio non fosse veramente da una rea passione condotto al tragico fine, eh’ ei fece ». Lo Spotorno, dopo avere vagliate le opinioni emesse fino al primo quarto di questo secolo, intorno alle cause della condanna del Bonfadio, finisce accettando l'opinione (1) Mazzucchelli , Scrittori d’Italia, t. II, p. III, pag. 814, Brescia 1762. (2) Tjraboschi, Storia della Letteratura Italiana, t. VII, p. Ili, p. 1004 e segg. Modena 1792. — 219 — del rimboschi « che l’infelice Bonfadio fu vittima di una infame passione, che a tenore delle leggi si volea punire col fuoco » (i). Il Celesia crede il Bonfadio eretico, ma per giustificare la sua opinione non sa addurre altri fatti che l’amicizia fra il Bonfadio, il Carnesecchi ed il Valdes, ed alcuni passi di lettere, in cui egli dice male dei frati e special-mente dei Teatini, conchiudendo con piena sicurezza che il Bonfadio fosse condannato a causa d’eresia, e che la sua morte « avvenisse in segreto per opera della corte di Roma e de’ suoi officiali » (2). Il benemerito Belgrano, curando l’edizione degli Annali del Bonfadio tradotti dal Paschetti, valevasi per le notizie intorno alla vita dell’ autore di quanto ne scriveva il Tiraboschi, ma vi aggiungeva del proprio parecchie note per completare lo scritto tiraboschiano. Neppure esso ha dubbi sulla reità del Bonfadio, e ritiene (1) Spotorno, Storia letteraria della Liguria, Genova 1825, Epoca terza, p. 8. (2) E. Celesia, Congiura del conte G. L. Fiescln, p. 303, Genova 1864. Cinque anni prima che pubblicasse quest’ opera, lo stesso Celesia si era occupato della morte del Bonfadio in un articolo inserito nella Rivista Contemporanea di Torino, del 1859, tomo XIX. In questo articolo, da noi già ripetutamente citato, egli esamina i passi dell’ opere del Bonfadio, in cui questi dice male di chierici, ricorda le amicìzie eh’ ebbe con uomini apertamente eretici, o come tali sospettati, gli odii che aveva destati nella parte fieschina coi suoi scritti, e lo dichiara senz’ altro eretico. Di qui l’accusa e la condanna, alla quale « non fu estranea la corte di Roma, che studiosa della fazione dei Fieschi, vendicò ad un tempo chi ne infamò la memoria e chi seguiva le proscritte dottrine » (p. 74). E secondo lui la Corte di Roma fece in segreto il processo, « essendo in arbitrio degli Inquisitori di compilarlo colla maggior segretezza e senza partecipazione della podestà laica, la quale era tenuta ad eseguirne ciecamente i comandi. Ciò inoltre chiarisce come i D’Oria, che pur s’arrogavano un’autorità sconfinata nei negozii della Repubblica, non abbiano potuto sottrarre il Bonfadio alla pena serbata ai novatori ». — 220 — che alla condanna nessuna parte prendesse la Curia romana, accettando così l’opinione del Tiraboschi che essa fosse dovuta soltanto a colpa di sodomia (i). Prospero Viani ritiene vera quest’ accusa e verosimile 1’ altra d’ eresia. « Io mi penso (egli scrive) che lo sventurato facesse violenza al figliuolo d’alcun primario cittadino, nobile e potente, e che 1’ imputazione di eresia fosse più per aggravamento di colpa e di condanna, che per verità dimostrata » (2). Il Bettoni pure riconosce colpevole il Bonfadio, accettando le conclusioni del Viani al cui lavoro di continuo ricorre (3). Quindi gli scrittori tutti da noi qui citati, che per giunta rappresentano l’opinione di tanti altri che sarebbe superfluo riportare in questo luogo, ritengono che il Bonfadio fosse reo di vizio infame, e che la condanna sua fosse soltanto aggravata 0 da ira di famiglie non contente de’ suoi Annali, 0 da colpa di eresia. 11 solo Celesia attribuisce la condanna ad eresia, e la fa dare dall’ autorità ecclesiastica, ammettendo solo che Tira politica facesse più gravemente pesar la mano sul-l’infelice annalista. In genere gli scrittori che ritengono il Bonfadio reo di sodomia riportano il celebre carme di Paolo Manuzio (1) Annali delie cose dei Genovesi di Iacopo Bonfadio, volgari^ati dal Pa-schetti .... per cura di L. T. Belgrano, Genova, Canepa 1870, p. 4 e segg. (2) Fra le Lettere filologiche e critiche di Prospero Viani, Bologna 1874, ved. lo scritto Della morte di Giacomo Bonfadio, p. 245. (3) Béttoni , Storia della riviera -di Salò, Brescia 1880, voi. II. P- 200 e segg. — 221 — ad cos qui pro salute Bonfadii laborarunt (i), ed insistono sui versi : Lapsus erat miser in culpam Bonfadius: index Detulerat patribus : ner inani teste probarat. Quod facerent legum cuslodes ? Legibus uti Coguntur: dignum est. Servantur legibus urbes. Si valgono poi della lettera non meno celebre, che di carcere scriveva a G. B. Grimaldi l’ultimo giorno di sua vita, nella quale lettera si leggono le parole: « Mi pesa il morire perché mi pare di non meritar tanto » (2), ed insistono sugli scritti sincroni esaminati con tanta cura specie dal Tiraboschi, come sopra vedemmo (3). E davvero ci sembra che non abbiano torto. D’ eresia, secondo gli scrittori medesimi, sarebbe reo, perché amico di eretici e sparlatore di frati, e pel Viani poi anche perchè in quaranta stanze, ch’egli avrebbe scritto in carcere, « fa professione di sviscerato ortodosso : la qualcosa in tale circostanza presuppone e persuade 1’ accusa » (4). Ora se la semplice amicizia con eretici, (1) È pubblicato diverse volte per intero ed in parte poi riportato da tutti gli scrittori che s’occuparono del Bonfadio. Noi abbiamo sott’occhio la ristampa fattane dal Viani nell’op. cit., p. 309. (2) Questa lettera è stata pur tante volte stampata in tutto od in parte quasi quanto il carme del Manuzio. Noi abbiam sott’occhio 1’ edizione bresciana del 1746. (3) Non sarà forse inutile riportare qui le esplicite parole che si trovano nei Sette Libri de’ Cataloghi (del Landò), Venezia 1552, indicatemi dalla dotta cortesia del comm. Salvatore Bongi. Eccole testualmente, p. 343 : « Iacomo Bonfadio della riviera di Garda, poeta et oratore, terminò col fuoco la vita sua, mentre fama si giva acquistando ». E a p. 402 : « Iacomo Bonfadio poeta eccellente et oratore elegante, accusato da’ Genovesi di haver contro natura operato, fu alli di passati arso con grande dispiacere dei studiosi ». (4) Ved. in proposito quanto dicemmo in questo scritto medesimo a p. 213, n. 2. — 222 — e sia pure 1’ aver lodato il Valdes in tempi in cui non era stimata gran colpa e per cose che non hanno che far nulla colla religione, ci pare che non provi gran che (i). Se poi volessimo chiamare eretici tutti quei che sparlarono di preti o di frati, dovremmo conchiudere che la nostra letteratura non ebbe mai cattolici. Qualora le stanze fossero del Bonfadio, il che a noi non pare, il lettore veda se possa mai seguirsi il Viani nelle sue congetture. Quei che dicono aggravata la pena da famiglie mal contente dell’ annalista, alludono specialmente ai Fieschi, di cui egli dice assai male. Ma già lo Spotorno facilmente dimostrò che i Fieschi nulla avrebbero potuto fargli, perché essi allora niente contavano, né egli poteva essersi tirato addosso 1’ odio delle due fazioni nobili del portico vecchio e del portico nuovo, perché in ambedue aveva amici e protettori (2). Quanto al Celesia, che riteneva il Bonfadio solo reo di eresia e condannato per opera della Curia Romana e de’ suoi ufficiali, ricorderemo che fin dal 1865, un anno dopo la pubblicazione della Congiura del conte G.L. Fieschi, rispondeva l’avv. Bernabò-Brea, che la Curia Romana non (1) La lettera che dà uno degli argomenti principali per dimostrare 1’ eresia del Bonfadio sarebbe diretta da Verona a Camillo Olivo. Eccone il passo famoso: « Oh messer Camillo infelice, dunque vi siete fatto chietino ? Mi diceva già un mio compagno in Roma che preti e frati erano predoni e fraudi. Di quelli l’audacia, di questi 1’ astuzia, che disunite, benché nuociono, pur non nuocion molto. Or sono comparsi questi corpi misti dell’ una e dell’ altra ; chi se gli abbia fabbricati, sasselo chi tanto fa ». Ha la data del 22 settembre 1541 e si legge nell’ed. cit. a p. 25. (2) Op. e 1. cit. — 223 ~ vi aveva presa parte alcuna, e riportava il brano della lettera del Lomellini sopra citata (i), scritta dopo la morte del Bonfadio, e che dimostra piuttosto come il Pontefice anzi si lagnasse, perchè al Bonfadio il tribunale governativo non lasciò neanche il tempo di provare d’ essere chierico, nel qual caso avrebbe dovuto essere giudicato dal Tribunale ecclesiastico (2). Ed oggi possiam dire che non fu questo il solo lamento mosso dalla Corte Romana a tale proposito. Il 19 luglio 1550 il pontefice Giulio III moveva severe lagnanze al Doge ed ai Governatori di Genova, perché avevano arrestato Iacopo-Bonfadio clericus Brixiensis, sub pretextu nonnullorum pretensorum criminum per eum ut dicitur in ista civitate commissorum. Nega al Governo tale diritto, e chiede che il Bonfadio sia consegnato all’Arcivescovo od al suo Vicario, ut superinde iusticia libere ministrari possit (3). (1) Leggasi in questo medesimo scritto a p. 216. (2) Probabilmente nessuno a Genova sapeva che il Bonfadio fosse chierico, e forse credevasi che tale or si chiamasse per iscusa: sembra però che almeno gli ordini minori, i quali erano necessari per aspirare a benefizii ecclesiastici, gli avesse avuti. Odasi infatti come scrive da Padova a Francesco Della Torre prima di venire a Genova: « Monsignor di Verona è gran signore, e so che spesso ha benefici in poter suo che vacano, parlo di benefici minuti, che i grandi spettano a persone di gran merito; e sebbene in conferirli non si muove punto per affezione umana, nientedimeno, ad intercessione della casa di Vostra Signoria Illustrissima, che non è senza volontà di Dio, ne ha sempre fatte molte grazie ». La lettera è senza data e si legge nell’ ed. cit. a p. 52. (3) Il chiar. B. Fontana pubblica il breve pontificio sotto il n. L, fra i documenti uniti al secondo volume della sua opera Renata di Francia duchessa di Ferrara, Roma 1893. Lo toglie dall’ Arch. seg. Vaticano: Iulii III, Brev. min. a. MDL, toni. II, brev. 774, n. 57. Naturalmente quando fu scritta questa lettera non era ancora giunta a Roma la notizia della morte di Bonfadio avvenuta il giorno stesso. Ala neppur qui nessuna allusione alla supposta eresia. Siamo sicuri che se di questa vi fosse stato il minimo sospetto, la Curia Romana se ne sarebbe valsa subito come argomento efficacissimo per sottrarre il Bonfadio al tribunale laico. Dappertutto, ed in Genova, non meno che altrove, i sospetti d’eresìa venivano gelosamente spiati, e l’Inquisitore « dell’eretica pravità » era tut-t’ occhi per impedire che altri s’intromettesse nei giudizi d’eresia che a lui spettavano (i). E cosi senza lagnanze avrebbe lasciato sfuggirsi un pesce grosso come il Bonfadio, e non avrebbe levato alcun lamento, o levatolo non sarebbe riuscito a farne giunger 1’ eco alla Curia Romana, che pur tanto si commoveva pel solo pensiero che il Bonfadio potesse esser chierico? Quindi noi per la semplice amicizia che il Bonfadio ebbe specialmente col Carnesecchi prima che quale eretico venisse condannato, e col Valdes che mori senza essere uscito dal seno della Chiesa cattolica, o per le parole aspre che l’annalista usa talora contro i chierici, non possiamo nutrire quei sospetti d’eresia che non ebbe il vigilante inquisitore genovese, che non ebbe la Curia Romana, la quale ne avrebbe volentieri profittato per far trionfare le sue pretese giurisdizionali. E per la stessa ragione riteniamo che la condanna non fosse dovuta ad accusa di sortilegio, di cui la Curia Romana avrebbe certamente parlato come spettante al foro ecclesiastico, accusa del resto, alla quale non pensò mai nessuno, come sopra si accennava. (i) Si vedano numerosi esempi nel nostro Studio cit., La Riforma religiosa in Liguria ecc., negli Atti delia Soc. Lig. di St. P., voi. XXIV, fase. 2. — 225 — 11 Papa invece seguitò a lagnarsi per 1’ unico motivo addotto nel suo breve del 19 luglio 1550. Difatti monsignor Giovanni Battista Lomellino, il 1 febbraio 1551, scriveva la nota lettera già citata, colla quale riferiva che la morte del Bonfadio aveva scandalizzato il Papa, appunto perchè a Genova si era fatto morire l’accusato senza / lasciargli tempo di provare d’esser chierico (1). La Repubblica naturalmente mandò le sue difese al Lomellino, che il 19 marzo seguente prometteva al Doge ed ai Governatori di parlarne a lungo coi cardinali, e dava in sostanza le migliori speranze sull’ esito della controversia, ritenendo egli che ormai fosse cosa « non solo digesta, ma scordata » (2). E non si ingannava: occupatosi tosto della faccenda, poteva quattro giorni appresso annunziare che tutto ormai era finito, e che il Pontefice aveva detto al Cardinal Mo-rone che « havevan fatto benissimo a fare esseguir quanto feceno i> (3). Taluno però potrebbe dire: Ebbene 1’accusa fatta al Bonfadio non potendo essere né di sortilegio, nè di (1) Bernabò -Brea, Op. e loc. cit., e questo Studio, p. 216. (2) R. Arch. diStato in Genova, Lettere ai Senato, n. 35. Il cardinale Giovanni Battista Lomellino al Doge ed ai Governatori, 19 marzo 15 51. In questa parlando delle premure che farà presso i cardinali che dovranno consigliare il Papa in questo affare, dice.....» si dirà a Loro Signorie Reverendissime quel tanto che intorno a quel fatto bisognerà a longo, ancorché giudichi sia materia non sol digesta , ma scordata ». (3) R. Arch. di Stato in Genova, Lettere al Senato, n 35. Il Cardinal Lomellino al Doge ed ai Governatori, 23 marzo 15 51. Ecco il brano importante pel caso nostro « .... Poi toccò (il Papa) con esso reverendissimo cardinale (Morone) il seguito del Bonfadio, et disse Sua Beatitudine che quelle havevan fatto benissimo a fare esseguir quanto feceno ». Atti Soc. Lig. St. Patri*. Voi. XXVII. i$ — 226 — eresia, sarà benissimo di vizio infame, terza ed ultima colpa che solevasi in Genova punire col rogo. Ma chi ne dice che 1’ annalista fosse veramente reo, o che piuttosto venisse condannato per opera di falsi accusatori, come di fatti fu da altri affermato ? Risponderemo col Muratori (i) che chi sa di essere innocente (e qui ormai sappiamo che l’innocenza non poteva esser d’ altro che di sodomia), non scriverebbe come scrisse il Bonfadio a G. B. Grimaldi: « Mi pesa il morire, perchè mi pare di non meritar tanto ». Ripeteremo collo Spotorno (2) che di nemici che potessero accusarlo vi erano allora soltanto i seguaci dei Fieschi, ormai troppo deboli per solo tentarlo, ed aggiungeremo sulla scorta dei nuovi documenti, diremo cosi pontificii, che, se vi fosse stato ragionevole sospetto di ingiusta accusa, per mezzo degli, amici dell’ annalista o dell’autorità ecclesiastica genovese sarebbe giunto a Roma, come vi giunse la notizia del carattere di chierico che il Bonfadio si attribuiva. Certo di questo il Papa si sarebbe valso contro la Repubblica, alfine di chiamarla più che mai in colpa anche per dare maggior forza alle sue lagnanze, e si sarebbe guardato dal dire come disse al Cardinal Morone « che havevan fatto benissimo a far esseguir quanto feceno » (3). Escludiamo quindi che la condanna del Bonfadio fosse ingiusta, ritornando cosi ai celebri versi del Manuzio: Lapsus erat miser in culpam Bonfadius: index Detulerat patribus, nec inani teste probaràt : (1) Muratori, Storia .della lett. ital., I. cit. (3) Spotorno, Storia lett. della Liguria, l. cit. (4) Lett. cit. del card. Lomellino, 23 marzo 1551. — 227 — Riteniamo più esatto che la condanna venisse solo da provata accusa di sodomia, eh’ era sufficiente per condurre al rogo senza bisogno di cause aggravanti politiche o religiose, o di qualsiasi altra natura, tutte aggravanti che si potrebbero ammettere solo quando fossero provate. E quanto alla data della morte ripetiamo che le osservazioni del Vianifondate sostanzialmente su scritti apocrifi, non hanno alcun valore per le cose già dette, e che quindi il Bonfadio fu decapitato in carcere il 19 luglio 1550, dopo ch’egli ebbe ottenuto, in grazia degli autorevoli amici, che venisse abbruciato soltanto il cadavere. UN GENEALOGISTA DEI PRINCIPI CYBO * DEL SOCIO GIOVANNI SFORZA a famiglia genovese de’ Cvbo comincia soltanto a figurare nella storia con Giambattista, che il 24 agosto del 1484 cinse la tiara, pigliando il nome d’Innocenzo Vili. Sarebbe certo tornata nell’ oscurità se, per opera di lui, non si fosse imparentata co’ Medici ; occasione e ragione della futura grandezza. Ai Medici deve la porpora Innocenzo, il giovane, corto d’ingegno e scostumato, che nacque da Franceschetto, bastardo d’Innocenzo Vili; ai Medici 1’ aver Lorenzo, altro figlio di Franceschetto, tolto per moglie Ricciarda Malaspina, che nella casa de’ Cybo portò la signoria di Massa e Carrara e così le dette luogo tra le regnanti d’Italia. 11 primo de’ Cybo sulla cui testa passò la corona marchionale dei Malaspina, divenuta poi principesca nel 1568, ducale nel 1664, fu Alberico, figlio appunto di — 23 2 — Riceiarda; che, nato a Genova il 28 febbraio del 15 32> le succedette nel giugno del 1553, e morì di novanta-quattro anni il 18 gennaio 1623. Il Campori, e con ragione, ebbe a giudicarlo « solerte cultore dei buoni » studi, di vasta intelligenza e assai men noto di quanto » meriterebbonsi i fatti suoi, perchè in troppo breve » àmbito circoscritti » (1); non senza soggiungere: « ad esaltare 1’ antichità e la grandezza della sua casata » spendeva grosse somme ed era affaccendatissimo nel » carteggio con letterati e genealogisti, per mantenerli » devoti e riverenti alla memoria dei suoi antenati » (2). Le quali parole hanno una piena conferma in quello che scriveva fin dal 1581 un contemporaneo d’ Alberico, il genovese fr. Innocenzo Cybo-Ghisi. « Raccoglieva » (é il Cybo-Ghisi che parla) « con diligenza mirabile da tutte » le parti scritture, istrumenti, lettere, privileggi, patenti, » historie e tutto ciò che potea dei suoi antichi appor-» tar memoria alcuna, et autenticandole con tanta solertia » e in Genova et in Napoli et in Roma, onde non » possono negarsi 0 tragiversarsi; tutto però non pur » con fatica, ma con spesa infinita » (3). De’ molti uomini di lettere coi quali Alberico tenne carteggio, sempre avendo per soggetto e per mira la storia della propria casa, quello che più d’ ogni altro godè la sua fiducia e la sua confidenza fu il congiunto Francesco (1) Campori G. Documenti per la vita di Uberto Foglietta; negli Atti e memorie delle RR. Deputazioni .di storia patria per le Provincie Modenesi e Parmensi; V, 201. (2) Campori G. Lettere di scrittori italiani del secolo X FI, stampate la prima volta, Bologna, Romagnoli, 1877, p. 368. (3) Cybo-Ghisi I, Dialogo della Nobiltà dell’ Illustriss. Famiglia Cybo, Genova, 1581, p. 82. - 233 - Maria Cybo di Genova. Gli storiografi letterari della vecchia e gloriosa Repubblica toccano di lui quasi di sfuggita. « Huomo di belle lettere e versato nell’ istorie » e che « si dilettava anche della poesia », e che « sopra-» visse fin all’anno 1575 », e che « ha scritto diverse cose, » ma con incertezza trasmesse a noi la notitia »; ecco quanto si ricava dalla biografia che ne dettò l’ab. Michele Giustiniani, il più diffuso di tutti (1). Per buona fortuna Francesco Maria parla a lungo di sé nelle sue lettere ad Alberico, e da ciò che dice si può ricostruirne la vita, fino a qui avvolta nel buio e quasi affatto ignorata. Nella più vecchia di queste lettere si legge : De’ miei fratelli non resta vivo alcuno, salvo il R.do messer Niccolò, quale si trova in grado ecclesiastico in sacris, il che li serva di risposta di quello mi ricerca, Noi due fratelli, che restiamo vivi, siafino stati prima in Roma et poi a Bologna a studio. Et poiché sino a qui (secondo che tutte le cose del mondo si vanno permutando di uno in altro sangue) pare che l’antiqua stirpe di Daniele Cibo si vadi extinguendo, non mancherò di darli notitia come il marito di madonna Pellegrina, mia sorella, quale fu gentilhuomo di Monferrato, et li suoi maggiori vissero sempre de’ beni feudali, nato di madre di casa Carretta, et quale anchora ottenne dal presente Imperatore (cosa concessa a pochissimi) la nobiltà di Spagna, ancora che al principio non pensando abitare a Genova per non esser mercadante in terra altrui, essendo li soi maggiori sempre stati e vissuti da veri gentil homini, mai volesse comportare essere aggregato (per parlare al modo di Genova) in alcuna di queste XXVIII casate diputate da questo Stato al governo, finalmente per le rovine di Monferrato, persuaso da Mons. R.m°, fu contento essere adottato in la casa nostra; et cosi ad instantia di S. S. R.ma et di tutti li (1) Giustiniani M. Gli scrittori liguri. In Roma, 1667; pag. 240 e seg. — 234 - nobili Cibo, quale allora erono in la città, fu dall’111.Signoiia fatta detta adottione; però facendo essa descrivere la genealogia, essendo nei nipoti nati per madre ultima della casa et non discendendo da padre ignobile (come sono molti aggregati in qualsivogli di dette XXVIII casate, del che molto si dogliono tutti gli vecchi nobili) mi farà gratia ordinare ne sia fatta memoria. Li nomi delli quali sono : Fabrizio, Camillo et Emilio, figlioli di messer Jacopo, mio cognato. Appresso, perchè nè il R.mo messer Niccolò, mio fratello, ne io tampoco gustamo molto del modo di vivere di questa città, se a caso costì in Lunigiana occorresse che mai si vendesse alcuno castello, che non excedesse il valore di diecemillia scudi, la prego darmene subito avviso, poiché, atteso le rovine di Piamonte et Monferrato et di tutta la Lombardia, non è contrada alcuna dove più volentieri si ritirassimo, maxime per stare sotto 1’ ombra sua. Già doi volte si siamo allontanati da questo vivere mercantile (come pure bisogna fare qui ad ognuno) et sempre una extrema malignità di fortuna ci ha risospinti a nostro malgrado in questa città; et la prima volta fu alla creatione di papa Innocentio, quale, non obstante che mio avo fusse morto et mio padre havesse solo anni sey et il fratello circa dodici, volse S. Santità che andassero in Roma, et facendo studiare mio zio, disegnò fare mio padre Signore di Santo Arcangelo, nobile castello in Romagna, et ne li concesse fra tanto il governo libero (come si usa dalli Papi ancora oggi de molti castelli, quali lassono godere liberamente alli R.'m et altri) acciochè con le entrate sue si sostenessi onorevolmente sino a tanto che fussi in età da potere più comodamente eseguire il suo disegno; del che credo haverne ancora il Breve papale in casa, abenchè il governo fosse posto in testa del fratello, per la sua tenera età. Et mi ricordo in Bologna veder venire de quelli del castello per visitare mio padre quasi come loro antiquo Signore. Però, essendo seguita la morte del Papa, con succedere la rovina quasi di tutta l’Italia, sia per la passata del Re Carlo ottavo di Francia, sia per la scelerata ambizione di papa Alexandro sesto et del Duca Valentino, suo figlio, si ritornarono ambidui, insieme con l’111.™0 - 235 - Sig.' Francesco, suo avo, alla patria. Dipoi, essendo assunto al papato Leone X, volse detto 111.™0 Signore che mio zio et mio padre si trasferissero ancora essi in Roma; et questa fu la seconda volta che si partirono con tutta la famiglia di questa città ; et ab-benchè la disgrazia nostra ci privasse assai presto di un tanto nostro dolcissimo Signore, quale insieme colla IIl.ma Sig.ra Maddalena, sua valorosa consorte, ci rimirava tutti con bollissimo occhio, quasi da •figliuoli, come si può ricordare l’IH.ma Sig.ra Contessa di Caiazzo (se vive) che in le stanzie di Belvedere, dóve alloggiava S. S. 111.“% voleva che almeno tutte le feste andassimo tutti di brigata, raccogliendoci con amorevolezza paterna, nientedimeno perseverassimo in Roma sotto l’ombra de’ suoi Ill.mi Sig.ri, nostri Signori e benefattori, sino a tanto che l’universale rovina di quella città, fori d’ogni nostra opinione, ci respinse in questa arena et scogli, dai quali di bona voglia ci allontaneressimo, offerendosi commoda occasione. In un’ altra sua lettera (in quella che gli scrisse Di Genova, alii XFI1I di febraro del MDLVII1) seguita a parlare di se stesso così : Ringratio sommamente V. S. 111.™ della cortese affettione mi dimostra, facendomi instantia venghi costi; et in vero a me seria gratissimo, maxime per fare riverenza alla Ill,ma S.ra Marchese ( i), della quale (oltra essere consorte del mio valoroso Signore) per relatione de infinite persone, et particolarmente di una mia zia, ne ho inteso degnissime lode ; et quale mia zia è madonna Nicoletta Vivalda, sorella della bona memoria di messer Giuliano Saivago et della madre de mia moglie; quale mia zia, havendo altre volte accompagnato alli Bagni di Lucca suo fratello sopradetto, con esso lui fu a visitare la 111.™ Sig.ra Marchese et restò inamorata della sua molto virtù. Ma poiché veramente una extrema violentia del cielo, cossi havendo ordinato el primo motore ab eterno, dippoi (i) La prima moglie di Alberico, Elisabetta Della Rovere, figlia di Francesco Maria Duca d’ Urbino. — 236 — infinite tempeste, quali come una catena de fastidii hanno longo tempo travagliato la vita mia, et non solo fora d’ ogni mia opinione, ma anchora totalmente contra ogni mio proponimento (che indarno, come ha dimostrato lo effetto, mi ero sempre affaticato pei st.ue lontano dal matrimoniale giogo) mi ha condotto in questo stato maritale (come a suo tempo li diedi aviso, abenchè non mi facesse degno di sua risposta, nel che 1’Ul.ma S.ra Duchessa di Carnei ino, la memoria della quale sera sempre viva et santa appi esso di me, et altri Ul.mi et R.™ Signori pur mi favorirono) io mi trovo preso del casto amore della mia carissima consorte, che a me sarebbe impossibile poter stare doi giorni senza vederla. O sommo et podeioso Dio, chi mal si seria imaginato che una giovanetta dovesse haveie il totale imperio di me ? havendo sempre per lo adrieto dimostrato 1’ animo (sia detto senza superbia) inchinatissimo alle cose celesti. In fine non è possibile dare novi ordini al mondo. Iddio ha cossi ordinato, nè si può contra la sua divina potentia ricalcitrare; laonde quella mi harà per iscuso se io in questa parte non la posso obbedire, protestandoli che se mi condannerà a torto, che mi ne appellarò alla Ul.ma S.ra Marchese, quale, come clementissima, non credo sia per condennarmi cossi precipitosamente. Dal carteggio di Francesco Maria con Alberico seguiterò a spigolare qualche altro brano che meglio ne mostri la natura. Gli scriveva di Genova, alii VIII1 di febraro del 1558. Li mando l’opera di Hortensio Landò, nella quale fa memoria, con espressa bugia, della felice memoria di papa Innocentio ottavo, notando, di mia mano, il loco, con il comento che meritava la sua malignità et negligentia; et parimente li mando il compendio delle Istorie del Regno di Napoli, corrette dal Ruscelli, con nota al principio del libro, dove al presente si trova.......Et poiché V. S. Ill.raa dimostra generosamente havere animo di fare scrivere le cose della Casa.....a mio giudicio bisogneria dare principio dalla vita del Papa, del quale, oltre le cose scritte et quelle - 237 ~ che si potranno cavare da tutti quelli che hanno fatto memoria delle vite delli Pontefici, et sopra ogni altra cosa inserendovi tutte le istorie de quelli tempi per farla più grata et pigliando da tutti il meglio come fa 1’ ape per comporre il mele, selli potria dire che in S. Santità veramente si adempì la profetia di lui fatta dall’abate Gioacchino (del quale al tempo del sacco di Roma, perchè vi era predetto molto chiaramente, fu stampato in Roma uno libro, con diverse figure de’ Papi, et tra quelle una con doi pavoni alli piedi, antiquo cimiero della casa nostra, con queste parole : tandem bona gratia simonia cessabit), poiché non solo pervenne al papato canonicamente et con universale consenso del Collegio, ma in tanti anni di suo pontificato mai fece cardinali per danaro, nè meno vendè simoniacamente li gradi ecclesiastici; et per tenere il Collegio in la debita autorità fece solo (per quanto mi sia stato detto) quattro cardinali, l’uno de’ quali fu papa Leone X, l’altro il R.m0 Benvemìto suo parente, il terzo Mons. Antoniotto Pallavicino Cardinale di S. Praxede, tutti doi persone morigerate et degne di tale grado, il quarto fu Sanseverino figliuolo del Conte Roberto, Capitano in quelli tempi et stato Generale della Chiesa; et quale Papa amò assai la patria, et come si comprende in parte dalle Istorie del Nebbio, per li bestiali umori di quel tempo non potette dimostrarli il suo bon animo come harìa desiderato, pur li concesse de molti privilegi (de’ quali ho visto alcuni) et donò alla chiesa maggiore uno pretioso et bellissimo vaso de gioia d’agatha, quale si dice esser quello dove fu messo il capo di S.'° Gio. Battista appresentato ad Herodiade; et tenne tutta la Corte con il Stato, della Chiesa et città di Roma in un aureo secolo (in quanto per lui si potette), governando con grande clementia verso l’universale ; et alli tristi incorreggibili con la severità della giustitia ponendo spavento, tra’ quali dicono furono certi gentil huomini del Buffalo, romani, che essendo insopportabili a tutta Roma, di poi di esserli stato di molte volte perdonato, mediante 1’ Arcivescovo di Arli (quale, essendo vecchio et homo di gran valore, molto adoperò nelli governi temporali), allora Governatore di Roma, ne fece fare giustitia. Et questo è quanto ora mi sovviene delle cose del Papa......Scrivendo è sopravvenuto — 238 — un gentilhuomo amico mio, quale dilettandosi di lettere et havendo saputo molto prima il mio desiderio d’investigare le cose antique di casa nostra, mi ha data speranza certa di mostrarmi una cronica, nella quale dice che si fa honorata memoria di uno valoroso capitano di casa Cibo, chiamato Arante, del che in vero mai più hebbi notitia. Procurare), ancora con importunità, mi osservi la promessa, et di quello trovarò li farò parte. Quale amico mio mi ha ancora affermato che le quattro colonne di porfido, sopra le quale riposa P arca dove si conserva il corpo di S. Gio. Battista, furono mandate da Roma dal nostro papa Innocenzo. Nove giorni dopo, cioè alii XVIII di feb retro del MDLV1II, tornava a scrivergli: A questi giorni passati.......li mandai 1’ opera del Col- lenutio, corretta dal Ruscelli et quella del Landò .... Se alchuno scriverà le historie di Genova delli anni passati (che io lo sappi) li ne darò aviso; et poi che vedo in lei questo animo generoso di havere desiderio che le cose antique della casa siano ridotte a memoria delli tempi nostri, conforme alla verità, et questi scrittori la più parte hanno una perversa usanza, che tutti vanno appresso a quanto ne trovano scritto dal primo, et de qui è dipeso che quasi tutti quelli che hanno fatto memoria di papa Innocentio, seguendo la inetta authorità del supplemento, hanno scritto pazie ; non mancherò de dirgli (parlando con supportat'iòne) che seria bene informarsi per via di Roma et di Milano se vi è alchuno quale, ad imitatione del Giovio, scriva le historie delli tempi nostri, poiché lei sa vi serà che dire di alchuna cosa importantissima pertinente alla casa, che quando non fusse scritta con li debiti modi darla a tutti grandissimo carrico. Io, vivendo Giacobo Bonfadio, quale scriveva le historie de’ nostri tempi di Genova, ne parlai a longo con lui, et mi haveva promesso scriverla di sorte in le sue historie, nelle quali di nicissità bisognava farne memoria, che non haressimo cagione dolersi di lui. Ho inteso che doi cittadini mercadanti per loro spatio (abenchè non siano litterati) scrivono le historie de’ - 239 - nostri tempi della patria. Parlerò a tutti doi, et se haranno cominciato tanto alto, procurarò con bel modo scrivano di tale forma che non habbiamo da dolersi di loro. Io non osarei ricercare la III."11 Signoria che mi lassasse andare ricercando le scritture della Can-celleiia, perchè ne sono troppo gelosi, et li cancellieri medesimi per loio proprio interesse sono in simili cose difficultosissimi. Altre volte da me stesso volsi entrare in simile prattica; però mi fu detto da ditersi amici mei et parenti (che è pur notorio la più parte sono de’ più honorati nobili della città) che non ne harei honore. Quello che in questo si potria fare, a mio'giudicio, seria promettere qualche beveraggio ad alchuno sottoscrivano delli cancellieri, quale secondo che li avanzasse tempo et ne havesse occasione et com-modita ricercasse queste memorie. Li scrissi con 1’ altra mia come mi era stata promessa una historia nella quale si faceva honorata memoria di Ar.unte Cibo, valoroso capitano, quale finalmente con grande importunità ho ottenuto di vedere. L’opera è di Bartholomeo Facio De gestis Regis Alphonsi, scritta a mano; et non ostante siano impresse altre sue operè, pur questa non si trova a stampa, et Dio sa se vi n’ è altra copia; quale come humanista, che di Pietro fanno Petreio et di Giovanni, Giovio et simili castrónarie, abenchè habbi pervertito il vero nome dell’ Ill.m0 S.0r Arano, padre del Papa, chiamandolo Arunte et convertendo Cibo in Cibonio (il che li perdono, poiché tutti hanno questa tacca, et il Giovio anchora ha transmutato Cibo in Ciboo, et solo il Bembo ha lassato il vero cognome nelle Historie Venetiane) mi è stato oltramodo carissimo, essendo questo el primo historico quale habbi veduto che facci memoria de questo homo valoroso, anchora che quello che scrive siano solo doi parole......Con giusta ragione V. S. 111.ma haria causa di ricercare, se alchuno scrivesse le historie del Regno de quelli tempi (come si vanta voler fare il Ruscelli) et con la sua authorità, et promessa di honesto guiderdone, astringerlo a fare honorata memoria di questo valoroso homo; poiché, oltra la sua grandissima prudentia, mediante la quale hebbe tanti segnalati officii appresso gente extranea, si comprende per quelle pochissime parole del Faccio che fusse anchora homo nell’affar dell’armi virtuoso — 240 — Io ho visto molte historie de diversi Re di Spagna, delli Visconti di Milano et alchune toccante a casa Pica della Mirandola et alti e assai, tutte ripiene di cose tanto favolose che mi meraviglio della impudentia de quelli scrittori. Voglio dire a mio proposito che se V. S. 111.ma ricercarà che sia fatto honorata memoria di suo ai cavolo, quando bene nè a Napoli, nè qui, nè altrove non si trovasse più di quello che fino a qui si sa, non doverà parere strano ad alchuno, sapendo bene come questi historici spesso prete®iscano cose assai di maggiore importantia, et intanto sono alle volte trascurati, che se si leggono le medesime historie, scritte da diveisi authori, non paiono quelle istesse. Mi è venuto alle orecchie che quello napoletano, che sta in casa di uno mio cugino, compone l’opera della vita del Re Alfonso. Voglio saperne la verità, et, cossi essendo, stringerlo che facci honorata memoria dell 111."0 S.or Arano, con prometterli V. S. 111.™ li ne sentirà segnalata gratitudine; del che penso pur non sia per inanellare. Penso pure che, al suo solito, V. S. Ill.raa mi farà instantia li mandi 1 opera del Faccio; ma non è mia, nè tampoco in mia mano sino a qui; et perchè 1’ opera è molto alta, et si stenterà a trovare persona sufficiente a transcriverla, et sarà senza fallo cosa longa et costosa ; se quella la vole (che certo lo laudo; et sarei d’opinione la facessi poi imprimere, con farli uno prohemio et nel proprio loco dove fa detta memoria metterli come una apostilla quale maggiormente dichiarasse la verità della historia) è di bisogno ordini a Don Giulio che paghi el scrittore, che io usarò ogni arte acciò si ne trovi alchunò sufficiente, et 1’ amico mio sia contento lassarla transcrivere. Così poi scriveva di novo il 22 novembre dell’ anno stesso : Il libro del Faccio procuro diligentemente acciò si fornisca. Mi ha promesso che farà il possibile acciò si habbi innanzi le feste di Natale. Vero è che, anchora modestamente lo solleciti et bravi, non voglio però esserli al tutto importuno, perchè non possi dire che per fargliene troppo fretta non habbi bene servito. Mi è stato - 24I - carissimo lo ha ver inteso la nova amicitia guadagnata de quelli Signori 1 oinacelli, quali sono chiaro fanno il scacchiero per loro insegna come noi Cibo; et poiché Bonifacio nono papa fu creato del 1389 et già li Tomacelli erano cognosciuti per nobili napoletani, et essi medesimi confessano sono venuti da Genova, et si vede per le historie genovesi che sono sempre stati li Cibo connumerati fi a li antiqui nobili della città di Genova; il che fra li altri lochi manifestamente é scritto nel libro terzo a carte 82, dove facendosi memoria delli otto signori nobili, creati l’anno del 1241, vi è fra quelli connumerato Lanfranco Cibo, si comprende da questo l’extrenia ignorantia et malignità de quelli quali temerariamente hanno scritto el contrario. Penso bene che questo sia proceduto da questo nome delle quattro casate cioè Spinoli, Doria, Flischi et Grimald:, quali, si copie scrive il Nebbio, al libro terzo a carte 98, dove parla delle cose 1 anno 1264, per conto delle partialità della città facendosi capi delle fattioni, presero alchuna principalità sopra li altri nobili; il che se bene il Nebbio non lo scrivesse, si vede chiaramente che questo cioè non procede perchè siano più antichi et illustri degli altri nobili, perchè si sa chiarissimo che li Catanei sono più antiqui delli Doria, etliPeueri, hoggidi chiamati Gentili, sono più antichi de tutte le sopradette quattro casate. È anchor notorio che li Marrocelli, de quali resta anchor le reliquie, sono antiquissimi et hanno havuto già grande stato de vassalli; et li Lomellini el simile, havendo signoreggiato longo tempo Vintimiglia ; li discendenti de’ quali signori sono hoggidi in Sicilia gran baroni, et si chiamono de Vintimiglia, facendo l’arme Lomelina. Et certo seria malignità extrema chi volesse dire questi non esser nobili come le dette quattro case; come seria anchora cosa ridicola dire che li Frangepani, baroni romani antiquissimi et molto più che li Orsini et Colonnesi, Savelli et Conti, a’ quali dal vulgo ignorante è data la principalità delle quattro casate di Roma, fussero inferiori di nobiltà a qualsivoglia di dette casate; se bene queste quattro, per essersi più intromesse ’.n le partialità et essere state più copiose de’ beni della fortuna, come facilmente aviene a questi tali quali si usurpano il suo et quel d’altri, sono cossi reputate dalli ignoranti. Et questa, Signor Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXVII. *6 — 242 — mio, credo che sia la vera cagione perchè quel fra tu zzo authore del Supplemento delle croniche et li altri, che poi hanno seguito el suo errore, hanno scritto che papa Innocentio fu di mediocre famiglia, quantunque honorata, volendo, per quello che io penso, la loro inettia inferire che per non esser la nostra casata connumerata fra quelle quattro non si deve riputare cossi illustre come loro, abenchè si veda chiaro che in li historici, quali sono homini come li altri et molti di essi più atti ad essere guatati da cocina che a scrivere historie, cosa che richiede gravissimo giudicio, faticosissima diligentia et ornatissima eloquentia, con esser rimosso da ogni amore et odio, po’ in loro assai la passione, come, tra li altri, si vede chiaro in quel veramente brodaiolo frate Onofrio da Verona, che non si è vergognato de dire che papa Bonifacio nono Tomacello nacque di mediocre famiglia; che se questo goffo si fusse informato da napoletani (come anchora ogni ragion voleva se informasse delli Cybo da’ genovesi) haria trovato come sempre sono stati baroni et casa di seggio, che cossi chiamono in Napoli le casate nobili, contando cinque seggi, 0 vogliamo dire logge, di essi nobili; quale preeminentia è tanto stimata in Napoli, che vi sono de molti grandi baroni anchora ornati de dignità ducale, come era il Duca di Fer-randina de stirpe castriotta, quale haveva già signoreggiato la maggiore parte dell’ Epiro, che non vi sono ascritti, et consequentemente non li haria bategiati per popolari con la sua fratesca trascuragine. Et poi, per altra parte, scrive che papa Giulio terzo di Monte Savino, castello ignobile della diocesi d’ Arezzo, era nato de stirpe nobile. Et per fare cognoscere afatto la sua sfacciata adulatione, lui medesimo scrive detto papa descende con tutti li soi da questo castello. Et cossi, havendo risposto molto abondantemente alla sua, potrei far fine, se non mi paresse prima di avertire quella come ho trovato che papa Paolo terzo, havendo fatto intoxicare la propria madre et un suo nipote (per impatronirsi più presto della loro robba) a tempo de Innocenzio ottavo fu meritamente ditenuto prigione longo tempo per il manifesto sospetto che si haveva di questa sceleratezza, et forsi che per questo, gionto poi al papato (per fare una brutta vendetta) perseguitò casa Cibo tanto iniquamente. - 243 - Fiancesco Maria volse gli occhi anche sul suo concittadino Uberto Foglietta, che viveva allora alla Corte del Duca di Savoia, essendo stato bandito dalla patria pei aver dipinto troppo ab vivo le prepotenze e gli abusi de Nobili vecchi ne’ suoi due libri Della Repubblica di Genova. Voleva a suon di moneta farne un panegirista de Cybo, e a questo effetto scriveva ad Alberico il 2 agosto del 1566: « se questo homo fosse di più giudizio, » ha un bellissimo stile; e perché non so come sia » pagato dal Duca, ed é poverissimo, se V. S. 111."'1 » lo potesse havere appresso di sé in sua Corte non mi » dispiaceva : quantunque sia bandito di questa città per » una sua castroneria presso i nobili ». La cosa non ebbe effetto, e ne ignoro la cagione : tra il Foglietta e Alberico vi fu però carteggio, e sempre lo tenne in conto e gli si mostrò cortese e cordiale. In un’ altra lettera di Francesco Maria ad Alberico, scritta Di Genova, alii X di febraio 1570, si legge : Già ho posto in nota tutti quelli authori de’ quali ha dato notitia il Ceccarelli, et li voglio cercare con ogni diligentia, prima in questa citta (il che per altre occupationi non ho potuto fare fino a questa hora) poi, bisognando, darò commissione a Vinezia, Milano et Lione et altri lochi di stampe per ritrovarli, et m’ingegnarò sodisfare al suo desio; chè, quando più non si trovasse, poi non sono cose fantasticate da noi, et infiniti Ul.mi Sig.ri et altissimi Re non hanno maggior certezza de’ soi predecessori. Parlai con messer Traicino, et fu bene non lo vedessi prima, poiché li mostrai 1’ origine della famiglia iuxta la nova adnotatione mandata, et parve restasse assai soddisfatto; et io ho cercato et per lo avenire cercarò guadagnarmi il suo bono animo, di già divotissiino a V. Ecc.za Mi ha detto - 244 - poco bene di quel di Napoli (i) et di Pisa; et havendo visto la lettera scritta a Napoli, me ne ha domandato instantemente copia, quale li darò, se quella non mi comanda il contrario. Mi scordai dirle l’altra volta che il pittore ha errato in scrivere il motto francese, anima del corpo del nostro cimiero, si come li chiama el Giovio, perchè scrisse haute et voi dire ìeaulte, cioè per scriverlo integramente : leavlth passe tovt. A trascrivere tutte le lettere di Francesco Maria ad Alberico ci sarebbe da empirne un volume. 11 saggio, che ne ho dato, mi sembra che basti. Anche quelle di Alberico a Francesco Maria son numerose. Non moveva foglia senza di lui, divenuto il genealogista e lo storico della famiglia, il suo fido consigliere in latto di cose araldiche. Ne sia prova la seguente : Molto mag.co parente honorando. Intorno a l’opra del frate Montaldo dovemo bavere obligo alla sua volontà et affettione che mostra alla casa, e dolersi, nel resto, che quel suggetto non fusse et più dotto et più risvegliato, perchè tanto meglio bavrebbe eseguito il suo grato animo e dato a noi sodisfatione et chiarezza di quello ch’era a maggior loro notitia in quei giorni, che non può essere hoggi alla nostra. Et perchè in quanto alla croce donata, ancorché questo importi poco, non so come possi havere fatto un errore tale d havere equivocato il tempo et la persona, et che non fusse emendata dall’ istesso Papa, da che ogni ragione vuole ch’egli lo sapesse molto bene, oltra che quando fra la creatione di S. S.tà non erano corsi che 63 anni dal tempo ch’ei dice che fu donata al S.re Arano, perchè la sua spedinone di Napoli fu del 1441, 0 poco inanti, nè mi parrebbe cosa difficile che ottenendo dalla S. 111.™-1 di fare cercare (1) I aria di Cammillo Porzio, al quale, per incarico di Alberico, scrisse, a difesa di papa Innocenzo Vili, una lunga lettera, di cui se ne conserva nel R. Archivio di Stato in Massa una copia, di mano stessa di Francesco Maria. - 245 — quei tempi non se ne trovasse il proprio; il che talvolta potrebbe servire a fare che li nuovi Cybo la lasciassero, che per sempre si conoscerebbe la differenza da loro alli vecchi; però me ne rimetto a lei. Nel resto, per aggiungere alle cose inaliti del detto S.rc Arano scritte, et investigate da noi, non vi è cosa che dire, et poco anco di poi, salvo quei particolari che seguirno, della fede grande che mostrò non senza suo grave pericolo; perchè con tutto eh egli havesse ogni ragione, fu il suo abbattimento et caso tale eh a nostri di sarebbe punito aspramente, se però il padrone o generale havesse molta forza et autorità, si come si vede che Renato l’havea pochissima et molta il predetto Arano, che tanto più lo ta grande e degno di memoria. Bene è vero che non vorrei vedere che cosi subito Alfonso gli havesse fatto tanti honoratissimi favori e tante gratie, perchè di facile nell’animo de’ maligni potrebbe cascare dubbio che essendo stata quella mala soddisfatione fra Renato et Arano, eh’ egli havesse tenuto mano al trattato del condutto sotterraneo, di dove entrò Alfonso; et in quanto alla somma delli 600 ducati d’oro che li paia poco, è da avvertire che per donativo in sua vita, oltre all’ ordinaria provigione, che è quanto si vede nella patente che è appresso di me, non è, salvo honorevole dimostratione e tale che neanco hoggi ne sarebbe tenuto se non gratissima memoria. L’altra consideratione fatta, così per hora, parmi che di facile potrebbono i scrittori tassiare Innocentio di ingratitudine, poi che havendo ricevuto il padre così amorevole volontà et pronti effetti et egli proprio creatosi in quella Corte, et ottenuto il cappello quasi per opera et gratia di casa d’Aragona, se li mostrasse poi tanto mimico; se bene si può dire che la causa nascesse da Ferdinando rispetto al censo et altri particulari che scrivono. In oltre parmi, che ancorché non tocchi particulari della nobiltà della casa, che il parlarne così resoluto et in generale venghi a dimostrare che come cosa notoria et chiarissima non era necessario. Piacemi ancora la gita che fece Arano all’Imperatore et le gratie che ne riportò, et la similitudine di quello quatrunvirato, di che pur s’ haverebbe a trovare qualche memoria, sendo la cosa fresca. Che poi il Cardinale Benevento fusse figliuolo di Federico de Mare, cugino al — 246 — Papa, io comincierò a crederlo, se bene forse lo lascierò stare nel-r arbore della casa coni’ è. Et perchè io possa scrivere qualche cosa di più per altra mia, farò fine, col raccomandarmele e ptegarle ogni bene. Di Massa, addì 9 di ottobre 1569. Parente amorevole Alberico Cybo Principe. Tra le opere di Francesco Maria il Giustiniani ricorda anche un Historia della Casa Cybo, « conforme si dice pubicamente ». Che scrivesse una Historia vera e propria della famiglia non credo; quello che fece, postillò e confutò il Simulacro dell’ antichissima e nobilissima Casa Cybo genovese, opera inedita di Alfonso Ciccarelli da Bevagna, che si conserva manoscritta nel R. Archivo di Stato in Massa (1), e che restò ignota a Leone Allacci, che del famoso falsario dette un catalogo delle opere edite e inedite nel suo opuscolo, oggidi rarissimo, intitolato : Animadversio in libros AIphonsi Ciccarelli et auctores ab eo confictos. N'ebbe però contezza Girolamo Tiraboschi e la ricorda a p. 31 e seg. delle sue Riflessioni su gli scrittori genealogici [Padova, nella Stamperia del Seminario, 1789], dove ragiona a lungo del carteggio che Alberico ebbe col Ciccarelli. (1) Un esemplare se ne conserva a Carrara presso gli eredi del compianto canonico Don Pietro Andrei. Cfr. Sforza G. Saggio d’ una bibliografia storica della Lunigiana; I, 69 e seg. INDICE DEL VOLUME VENTISETTESIMO DEGLI ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA (undecimo della seconda serie) Le Monache nella vita genovese dal secolo Xfr al XVII per M. Rosi......../ PARTE PRIMA. LE MONACHE GENOVESI AVANTI IL SEICENTO. Capo I. Le Monache genovesi, lo Stalo e la Chiesa sino alla definitiva costituzione d un permanente Magistrato delle monache. » *7 Capo II. Il Magistrato delle monache La vita monacale dall’ institutione di questo Ufficio alla fine del secolo XVI - . » 34 PARTE SECONDA. LE MONACHE GENOVESI DEL SECOLO XVII. Capo I. Le Chiese . Capo II. Le Monacazioni . • • ■ Capo III. Spassi di convento - Grate e parlatorio - Bambini e monache - Educande -Doni - Pettegoleni » Si *7 » 75 1 to 4^ CO 1 Capo IV. Monache e musica . Pag. 104 Capo V. Monachini fuori di clausura - Messi d'amore » 115 Capo VI. Monachini in clausura. » 129 Capo VII. Monache fuggitive » 142 Capo Vili. Monache bisbetiche . » 159 Capo IX. Chierici monachini » i6j Conclusione . » . . • • • ■ » 175 Documenti . » 181 I. Verbale della solenne adunanza tenuta dai dodici Anziani e da altri magistrati genovesi il 15 rnar^o 1459 (R. Arch. di Stalo. Diversorum a. 1459-60).....*18) II. Verbale dell’adunanza tenuta dagli Anziani e da altri magistrati genovesi il 10 gennaio 1468. Contro moniales et pro legatione mittenda ad Pontificem (R. Arch. di Stato. Diversorum , a. 1466-68) . . . » 184 III. Deliberazione degli Anziani e di altri magistrati genovesi riguardo a provvedimenti per la disciplina monastica. Verbale del 30 aprile 1472 (R. Arch. di Stato. Diversorum , anno x 593 ’ I47I-7A).......» 185 IV. Breve di Clemente VII all'Arcivescovo di Genova I ed al priore di S. Teodoro sulla riforma dei monasteri, 21 gennaio 1529 (Bibl. della R. Università, f. 2. del ms. Institutio Officii Misericordiae et Magistratus monialium Genuae). » 187 V. Breve di Paulo III a Marco Cattaneo vicario arcivescovile in Genova per la forma dei monasteri, 1 gennaio 1538 (Bibl. della R. Univ. Instit. cit. Capia nel R. Arch. di Stato. Sala 74, n. 2J/. Fogliazzo del notaro Bernardo Usodi-mare-Granello, notaro della Curia arcivescovile di Genova)......»189 — 249 — VI. Breve di Paolo III a Marco Cananeo vicario arcivescovile in Genova per la riforma dei monasteri, 6 gennaio ijjS (Copia nel R. Arch. di Sialo, sala 74, n. 25/. Foglialo del notaro Bernardo Usodimare - Granello , notaro della Curia arcivescovile di Genova) . . . Pag. ipi VII. Decreto col quale il Vicario arcivescovile in Ge- nova toglie ai Lateranensi di S. Teodoro la cura d’ alcuni monasteri di monachi, 26 gennaio 153S (Copia nella Bibl. della R. Università, t. IV, p. 110 delms. degli Annali ecclesiastici della Liguria dello Schiaffino) . . » 192 VIII. Breve di Paolo III riguardo ai dissensi sorti tra il vicario arcivescovile di Genova ed alcuni ino nasteri di monache, 4 luglio rjjS (Ann. eccl. cit. t. IV, p. 120) ...... 194 IX. Breve di Giulio III per la institutione d’ uno slabile Magistrato delle monache, 4 settembre 15^1 (Bibl. della R. Un. Istitutio Oft'. Mis. et Mag. monialium, f. j) . . . . » iyj X. Decreto della Repubblica per regolare l’elezione del Magistrato delle monache, 4 gennaio 1559 (Biblioteca del R. Arch. di Stato. Liber decretorum 1530-156),/. rSy' del ms.) . . » iyS XI Decreto del Governo, con cui si concede il braccio secolare per l’esecuzione degli ordini dati dal Magistrato delle monachi , 19 agosto 1573 (Bibl. dd R. Arch. di Stato. Lib. V decretorum,/. 30 dii ms.).....» 1 yS XII. Decreto del Governo con cui si affidano al Magi- strato delle monache tutte h cause anche civili che possono riguardarle, 27 ottobre 15S3 (R. Arch. di Stato. Politicorum ~ S~). . . » 200 16$ 0 / XIII. Bolle con cui Gregorio XIII toglie ogni dubbio che potesse sorgere sul valore dd Magistrato A "V — 2J0 — delle monache dopo il Concilio Tridentino, e affida al Magistrato stesso ogni causa che queste riguardasse, 7 luglio ijSj (Instit. off. cit., cons. nella Bibl. della R. Un. f. 6) . Pa XIV. Bolla di Gregorio XIII che toglie qualunque privilegio prima esistente per l’ingresso nei Monasteri, j inarco ijSj Inst. uff. cit. f. 9, ras. Bibl. R. Un.)......» XV. Biglietto scritto ad Antonio Sperato, nel 1674 (R. Arch. di Stalo, Monialium . . » XVI. Biglietto scritto dallo Speralo a donna Paola Vittoria, nel 1674 (R. Arch. di Stato, Monia- J|um ipr).......» La morie di Iacopo Bonfadio per M. Rosi . . . » Un genealogista dei Principi Cybo del socio Giovanni Sforma........» r j I: . -.,■' P?i ' 'v£ ■■■'■'■■ K- - ■,.' ... - K; J X ' F; j ' S§\l Mi ;r m -,. : ' - ..;■ ........ • . ..... 1 . ■ i ; •.• , •. ' . , -"1 %■ v-."'-■■.-'i'..’ ■ -P ■ ■ .. • ; .; •'. ! • * • *t. > * . . •■■■... : . . ,-• '■ . . -.■■■-• 1 • • C'J ■■■' ' w,