ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Volume LVIII GIROLAMO SERRA MEMORIE PER LA STORIA DI GENOVA DAGLI ULTIMI ANNI DEL SECOLO XVIII ALLA FINE DELL’ANNO 1814 pubblicate a cura di Pietro Nurra \ XM GENOVA NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA PALAZZO ROSSO MCMXXX mam ' GIROLAMO SERRA NELLA VECCHIAIA CIRCA IL TEMPO IN CUI SCRISSE LE « MEMORIE » MEMORIE PER LA STORIA DI GENOVA DAGLI ULTIMI ANNI DEL SECOLO XVIII ALLA FINE DELL’ANNO 1814 ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Volume LVII1 GIROLAMO SERRA MEMORIE PER LA STORIA DI GENOVA DAGLI ULTIMI ANNI DEL SECOLO XVIII ALLA FINE DELL’ANNO 1814 pubblicate a cura di Pietro Nurra GENOVA NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATTATA PALAZZO ROSSO MCMXXX Ciascun autore degli scritti pubblicati negli Atti della Società Ligure di Storia Patria è unico garante delle produzioni e opinioni esposte in essi scritti. Proprietà letteraria riservata Scuola Tipografica « Don Bosco » - Genova-Sampierdarena Hanno contribuito alle spese di stampa di questo volume i seguenti Enti e Soci, ai quali la Società Ligure di Storia Patria rinnova qui pubblicamente i suoi ringraziamenti: Società di assicurazioni Lloyd Italico, Oceanus, Ermes, Equità con L. 500 Società Italo-Americana pel petrolio ...... » » 1000 Banco de Italia y Rio de la Plata...... >► » 200 Conte Dott. Francesco Puccio....... » » 500 March. Orso Serra ......... » » 500 » » 500 Istituto Italiano di Credito Marittimo ..... » » 300 Navigazione Generale Italiana....... » » 500 Rotary Club ....... • » » 500 PREFAZIONE Le « Memorie storiche » di Girolamo Serra, per la prima volta ora pubblicate, dovevano, secondo il primitivo disegno del loro Autore, essere costituite da tre parti : Storia di Genova dalla Rivoluzione Francese sino al 1797 — Storia di Genova sino al 1805 — Storia di Genova nell’anno 1814. Che tali manoscritti esistessero, qual più qual meno inoltrato, lo si sapeva sin dal 1837, ma il Belgrano, che ne fa cenno (1), li cercava ancora inutilmente nel 1859, ed ormai venivano considerati perduti dagli studiosi. Le ricerche da me eseguite nella Biblioteca dei Marchesi Serra ebbero un successo insperato : vennero alla luce, frammisti a lettere e manoscritti inediti di varia importanza, le due parti che trattano della Storia di Genova dalla Rivoluzione Francese sino al 1797, e poi la Storia di Genova nell’anno 1814. Dobbiamo concludere che manchi ancora una parte, cioè quella che tratta della Storia di Genova sino al 1805? Sembrerebbe di no. Il Serra cominciò a scrivere molto tardi, a 75 anni, le sue « Memorie storiche », e delle due parti che ci sono rimaste, soltanto una, la prima, in due redazioni, minuta e copia, ci è giunta nella sua forma definitiva; la terza mostra propositi evidenti di una ulteriore revisione. La parte mancante, cioè la seconda, avrebbe dovuto tracciare la Storia di Genova (1) Belgrano, Della vita e delle opere del marchese Girolamo Serra; Genova, Tip. Sordomuti, 1859, pag. 77. — X — durante la Repubblica democratica. Ma, dato l’indirizzo impresso dallo Scrittore alle altre due parti, cioè : di «. Memorie » sulla l scorta di appunti di carattere personale, consistenti in note che egli scriveva all’ uscir di Consiglio, ed in documenti preziosi che nessun altro certamente possedeva, dubitiamo che sia stata scritta. Sopratutto per la seguente ragione : — L’attività ed il ruolo politico di Girolamo Serra non hanno, nella Repubblica democratica ligure, l’importanza che ebbero, sia durante la Rivoluzione Francese, sia durante l’effimera Repubblica genovese del 1814. È bene mettere in rilievo, a questo proposito, che le « Memorie storiche » del Serra appaiono ispirate dal desiderio di giustificare e spiegare l’opera politica personale dell’Autore, più che da quello di scrivere una vera Storia. Esse hanno perciò un carattere unilaterale che non sfuggirà certamente agli studiosi, e rappresentano un contributo, notevolissimo senza dubbio, ma ben lontano da una sintesi, su di un periodo della Storia genovese che attende ancora oggi di essere meglio chiarito. Contemporaneo degli avvenimenti che descrive, il Serra giudica dal suo punto di vista, che è quello di un patrizio intelligente e colto, ma genovese, e soltanto genovese. L’indipendenza della sua Repubblica è la passione costante, inalterabile che lo muove; fuori della cerchia degli Apennini e del Mar Ligure egli non vede l’Italia, ma solo delle forze politiche le quali, col resto delle Nazioni Europee, possono rappresentare un aiuto od mi pericolo per la sua Genova. Quando la Repubblica Ligure tramonta per sempre, anch’egli tramonta ; ma non dimentica : nel ’21, quando accadono i noti torbidi, pensa ancora di riaprire in via diplomatica la questione dell’indipendenza di Genova dal Piemonte. L’uomo è tutto qui. * * * Scritte in forma classica, con serietà di sentimenti e di espressioni, le « Memorie » del Serra rappresentano un gioiello letterario più che un documento storico. Poco, infatti, esse aggiungono alla cronaca degli avvenimenti quqJe per altre fonti si conosceva, — XI — poco in confronto di quello che avrebbero potuto dire sugli straordinari eventi, e sulle formidabili personalità di quell’epoca. Forse il dignitoso riserbo e Varistocratico carattere dello Scrittore trattennero più volte la sua penna, forse troppo vicino alla scena ed attore egli stesso, il Serra non vide, non intuì l’importanza ed il profondo significato dell’opera sua. Piccolo Stato fra colossi in armi, la Repubblica di Genova, alla fine del XVIII secolo, compiva dei veri prodigi di abilità diplomatica per mantenersi indipendente e neutrale di fronte alle pressioni delle Potenze coalizzate da una parte, e della Francia rivoluzionaria dalValtra. In questa epica lotta Girolamo Serra ed il partito dei neutralisti si cuoprono di gloria; difendendo l’indipendenza della Repubblica cooperano a salvare la Francia, opponendosi all’Austria, impediscono che essa si rafforzi e si estenda in Italia. Noi oggi siamo in grado di illuminare questa parte della Storia ligure valendoci di importanti documenti inediti contenuti in una Collezione manoscritta della Biblioteca Universitaria, e di oltre un centinaio di rapporti inediti dell’incaricato d’Affari della Russia, Lisakewich, rapporti che l’Università di Genova ha potuto, con gravi sacrifici, ottenere in copia dall’Archivio di Stato di Mosca. Tale studio, che mi propongo di presentare quanto prima alla Società Ligure di Storia Patria, darà una chiara idea della importanza dell’azione politica di Genova durante il periodo più brillante della vita di Girolamo Serra. Purtroppo manca sempre quella parte delle « Memorie » del Serra, che ci avrebbe potuto dare interessanti ragguagli sulla vita genovese prima che la Liguria venisse aggregata all’impero Napoleonico. Gli Annali del Clavarino sono una ben misera cronaca in confronto all’enorme importanza di un ciclo storico nel quale, oltre alla trasformazione delle classi sociali, si maturarono le speranze ed i propositi dei primi Unitari Italiani. E Genova fu uno dei primi e più attivi centri di quel manipolo di precursori del Risorgimento Italiano, che rappresentano l’avanguardia della audace schiera dei cospiratori mazziniani. — xn — Ma, sebbene incomplete, le « Memorie » del Serra sono sempre uno spiraglio di luce per quegli anni così scarsi di documenti e di ricordi. Sopratutto la figura di quegli che fu l’ultimo Presidente della gloriosa Repubblica di San Giorgio, ne esce ingrandita e nobilitata, degna in tutto di una maggior considerazione da parte dei propri concittadini. E diamo senz’altro la parola al nostro Autore, dopo aver espresso pubblicamente le più vive grazie alla famiglia dei Marchesi Ademaro e Maria Serra, che favorirono, con intelligente larghezza, le nostre ricerche ed i nostri studi fra le carte ed i ricordi dei loro gloriosi antenati. Pietro Nurra GIROLAMO SERRA MEMORIE PER LA STORIA. DI GENOVA DAGLI ULTIMI ANNI DEL SECOLO XVIII ALLA FINE DELL’ANNO 1814 Nessun popolo si è veduto meno da’ suoi Maggiori degenerare, del Genovese. Cablo Botta, Slor. d’It., To. I, 48 INTRODUZIONE Un forestiere di gran dignità e di profonda erudizione ornato mi disse un giorno, maravigliarsi che nessun Genovese avesse ancora descritti gli ultimi avvenimenti di Genova. E fa possibile, esclamava quel generoso, che voi altri i quali aveste per lo passato tanti Annalisti contemporanei, voi spettatori e vittime di un politico misfatto, non vi curiate, pria che la morte vi colga, di rammemorarne tutte le circostanze a istruzione de’ posteri e confusione de’ maligni? Ancor pochi anni, e nessun potrà di veduta certificare que’ fatti in cui si conobbe, che rimaneva pur qualche soffio alla vostra boccheggiante libertà, e non degeneraste da’ fortissimi avi vostri. Era questo un guanto gittato con magnanima cortesia al Presidente dell’estinta Repubblica; ond’io lo raccolsi. E possessore di molti documenti preziosi che nessun altro certamente possiede, deliberai di prendere questa nuova fatica, dividendola in tre parti. La prima appoggiata alle note che io scriveva ogni dì alVuscir di Consiglio, esporrà alcuni fatti anteriori alla convenzione di Montebello nel 1797; la seconda sarà un rapido sunto delle nostre vicende fino alla riunione coll’impero di Napoleone, e la terza conterrà una relazione minuta delle cose operate da quel breve Governo ripri- 4 — stinato dal Generale Bentink e abbattuto dal Congresso di Vienna. Per quesVultima parte ho in mie mani la corrispondenza de’ nostri Ministri alle Corti, e il registro delle deliberazioni segrete con le sottoscrizioni autografe de’ Senatori. A questi autentici documenti frammetterò i transunti di veridiche opere straniere. La Storia del Congresso di Vienna non fu scritta dal Sig. di Flassan con l’aurea rettitudine che guidò la sua pernia scrivendo la Storia della diplomazia francese, e però la rifiuto; ma userò principalmente la raccolta del Consigliere Schoell, le memorie di un uomo di Stato, e la storia imparziale di Carlo Botta. Troverai qui, o Lettore, non istrepitose azioni, non rettorici ornamenti, ma l’interesse del nudo vero e delVeterna lotta fra il diritto e l’oppressione. Così estinta non fosse quella porzione di celeste fuoco che mi fu data in nascendo e scintillò qualche fiata, così nella stessa guisa che languenti il corpo fiaccato da settanta-cinque anni, non fosse oggimai languente il mio spirito, diseredato da ogni speranza! 0 tu, verso la quale il buon Padre mio m’istillò tanto amore sin da fanciullo, a cui dedicai invariabilmente cure, opere, affetti, terra di gloria e di sventure, ricevi quest’ultima tacita offerta, e prega indi pace al supremo Bene per la seconda mia vita. PARTE PRIMA CONTENENTE ALCUNI FATTI ANTERIORI ALLA CONVENZIONE DI MONTEBELLO NEL 1797 A intelligenza de’ Lettori meno informati giova premettere come l’aristocrazia genovese, secondo le leggi fondamentali del .1576, si divideva in tre Collegj, o come oggi si dice imitando i Francesi, in tre Corpi. 1° - I Serenissimi Collegi aventi un Capo biennale con titolo di Doge, e venti Senatori pur biennali, più tutti gli Ex-Dogi a vita. 2° - Il Minor Consiglio di dugento Nobili forniti di congruo patrimonio secondo la generica espressione della legge. 3° - Il Consiglio Grande composto di quegli stessi dugento e di tanti altri Nobili quanti i trenta Probi uomini, Nobili ancb’essi, ed eletti altresì dal Minor Consiglio, n’eleggevano o confermavano ogni anno. Per esser Doge si richiedeva l’età di 50 anni almeno, di 40 per Senatore, di 27 per quelli del Minor Consiglio, di 22 per lo Maggiore; le quali cose serbavano i vantaggi e temperavano gl’inconvenienti della nobiltà ereditaria mediante l’età, il censo, e l’elezione. Ai Serenissimi Collegj competeva gran parte di quell’autorità che dicesi oggi Potere esecutivo, al Minor Consiglio il discutere e deliberare materie gravi di Stato, al Consiglio Grande, oltre all’elezione di più magistrati, l’approvazione delle leggi pecuniarie e derogatorie alla Costituzione. I Serenissimi assisi in un rialto semicircolare al cui vertice era il Doge sotto baldacchino in trono, avevano la presidenza d’ambo i Consigli, i quali nè discutere nè deliberare cosa alcuna potevano, che proposta non fosse da quelli. Ne’ conflitti di giurisdizione tra loro s’interponeva l’autorità moderatrice e — 8 censoria di cinque Sindacatori Supremi, Magistrato deputato a dichiarare le materie gravi di Stato, e a sindacare qualunque Corpo, Magistrato o personaggio in uffizio, non escluso il Doge. Le materie gravi di Stato si dovevano « dare a pensare », cioè proporsi in una sessione del Minor Consiglio, discutere e deliberare in un’altra; vi si richiedevano per radunanze solenni e per le materie gravi 130 Consiglieri presenti almeno, e quattro quinte parti de’ voti per l’approvazione. Ma intorno alle leggi costitutive non più; veniamo alla storia. Dopo la sua liberazione dall’armi austriache e sarde nel 1746, il più glorioso fatto d’armi del XVIII secolo, e dopo la celebre pace di Acquisgrana nel 1748, Genova avrebbe goduta una piena e lieta pace senza i tumulti della Corsica. I quali prevalsero tanto, che nell’anno 1768 ella deliberò di cedere quell’isola alla Francia riservandosi un illusorio diritto di riscatto. Il Duca di Choiseuil aveva lungamente ambito d’illustrare il suo ministero con tale acquisto, riputato più facile e più profittevole che in effetto non era. Vi cooperavano i Corsi non solo coH’indomito loro coraggio, ma principalmente con una risoluzione non presa mai nelle antecedenti contese e d’infallibile esito in tanta vicinanza di spiaggia, armando corsari nazionali e forestieri a’ danni del Ligure traffico. Forse ancora, come il Botta afferma, il ricovero dato a’ Gesuiti spagnoli ne’ presidj fedeli dell’isola sulle calde raccomandazioni della Spagna stessa, che in casa propria non li voleva e proteggevali di fuori, indispettì i Corsi non meno che quella setta europea di filosofi che poteva allora più de’ Gesuiti in varie Corti. Ma principalmente diede il crollo alla bilancia un decreto di Giuseppe II, novello e borioso imperador di Germania, col quale richiamava in vigore alcune rancide pretensioni dell’impero su diversi paesi del Genovesato, mosso in parte dalla Comunità di S. Remo nella riviera occidentale a lui ricorrente come a supremo Signore per intollerabili violazioni de’ suoi privilegj. Stolta, che non vedeva quant’era più facile difenderli da un governo di molti che da un solo padrone; da tenue e divisa forza che da una grandissima. Minacciata la Repubblica dell’indignazione di Cesare se non riconosceva il suo eminente dominio, si volse alla Francia, quest’alleata sua e protettrice invocando contro un im-peradore predestinato a minacciar sempre indarno; e l’accigliato Ministro rispose a voce, che tutto farebbe cedendosi la Corsica, nulla se si negasse. Con tutto ciò, riferita al Minor Consiglio l’ardua domanda, stettero per la negativa 32 Consiglieri, e fra gli altri mio padre di età non ancora senatoria, Stefano Lomellini, Agostino Pinello, due fratelli Brignole, e più sarebbero stati, se il Doge Marcello Durazzo, cosa rarissima ne’ Dogi, non prendea la parola, raccomandando non senza lagrime la ces-sion della Corsica, come l’unica via che salvare potesse il rimanente. La qual cosa non ismosse già la costanza de’ 32, ma fu cagione che sebbene più voti mancavano al numero fermo di 104, pure i Signori Supremi Sindicatori con tre voti sopra cinque decisero non essere tanta deliberazione una cosa grave, perocché non vera e assoluta alienazione si proponeva dell’isola ma quasi un deposito e un vantaggioso contratto per recuperarla più sicuramente che mai in avvenire. Tanto è diffìcile, quando le assemblee numerose discutono grandi interessi, che lo scudo della legge basti a coprire la minorità. Così un atto illegale ma pure irrevocabile fece rinunzia dell’ultimo avanzo prezioso di tante isole e colonie possedute anticamente da’ Genovesi! Che il Doge servisse a vili e indegni motivi, nessuno il sospettò, nè sospettarlo potea. Cadde più veramente il sospetto sopra alquanti che si videro poscia in qualche maggiore agiatezza, sebbene per traffico o per appalti di non vietate gabelle potessero pervenirvi. Veramente la Francia era usata a comprar voti e aderenze nelle Corti regali e ne’ grandi Stati, come la Storia diplomatica del Signor Flassan dimostra a grande infamia dell’onestà di quegli uomini che dovrebbero più delle ricchezze e della vita apprezzarla (1). (1) V. a tale proposito Lìhistoire scerete de la Cour de Berlin par le comte de Mirabeau. — 10 — Ma di pensioni, di regali dati a’ genovesi Patrizj essa non parla; nulla ne trapelò quando la prima assemblea di Fi-ancia pubblicò varie carte segrete di Corte; nulla ne accennarono mai i Deputati Corsi, quantunque ancor caldi d’astio e livore. Speriamo adunque, anzi gloriamoci, che siccome l’aere di Genova suol essere puro d’ogni miasma, così fossero pure dell’oro straniero le coscienze de’ suoi Ottimati. E invero a discolpa di chi tenne l’opinione men generosa, convien riconoscere, che l’eroica resistenza opposta da’ Corsi a un tal potentato come la Francia innanzi di sottomettersi, prova quanto malagevole per non dire impossibile sarebbe riuscito alla Repubblica, non che di soggiogarli, ma di conservare la città di Bastia con altre piazze fedeli e affezionate dell’isola, come i 32 volevano. E le pretensioni di Giuseppe II sopite, il ravvivato commercio, l’alleggerite gabelle parvero far chiaro, che non rare volte, e più sovente ancora ne’ piccoli Stati l’utile sta da una parte, e il punto d’onore da un’altra. Dalla cessione della Corsica in poi corsero tempi tranquilli. Nella guerra del 1756 fra la Francia e l’Inghilterra Genova era rimasta neutrale, e tale rimase in quella che intorno al 1771 riarse per l’indipendenza delle inglesi colonie in America. Nessuno la violentò, nessuno ne mosse querele, perchè il suo commercio era utile a tutti. Quanto veniva da’ possedimenti spagnoli e portoghesi nel Nuovo Mondo, tutto, anticipandosi da’ ricchi mercatanti una gran parte del prezzo, accumulavasi in questo piccolissimo angolo dell’antico, per diffondersi quindi, sopra i pinchi delle riviere, nell’Adriatico mare, in Sicilia, in Napoli, in Roma e fino in Francia. Marsiglia a cagion della guerra declinava ogni dì; Livorno, sempre povero di capitali, s’impoveriva ancor più di quanto gli inglesi ne ritraevano per impiegarlo in munizioni navali. Genova era il Portofranco del Mediterraneo. Prosperavano come i mercatanti, i capitalisti, potendo a frutto maggiore collocare il loro danaro ne’ pubblici fondi d’Inghilterra e di Francia costrette a far nuovi debiti e per la stessa ragione a pagarne un maggiore interesse; pretendesi che - - — 11 — quindici milioni circa di franchi introitassero l’anno da’ soli imprestiti Francesi. Nel medesimo tempo il prezzo de’ terreni e delle case era grandemente cresciuto nel Genovesato, la popolazione similmente; e il credito del Banco di S. Giorgio, crollante e mal sicuro nelle guerre del 1745 e della Corsica, era talmente risalito che i Luoghi o azioni valsenti originalmente lire 100, si vendevano a 230 e più. E redimendosi, oggi dicono ammortizzandosi, ogni anno qualche parte del debito pubblico, si abolivano alcune gabelle ed altre si moderavano. Nel che forse si errava, benché piacevole fosse l’errore (1), dovendosi più utilmente convertire il soprappiù in una maggiore estinzione di debiti, che ascendevano ancora tra Luoghi di S. Giorgio e della Camera a quattro milioni di lire Genovesi l’anno, li quali con due milioni al più di annuali spese costituivano l’entrata della Repubblica a sei milioni di lire equivalenti a cinque di franchi. Laonde, se a seicento mil’anime si valutava la popolazione, una testa per l’altra veniva a pagare dieci lire l’anno; oggi ne paga 21 almeno. Di pie Fondazioni abbondava lo Stato non che la città capitale; e qui con poche eccezioni i ricchi si tenevano per divino precetto a dare in usi pii il decimo almeno delle rendite loro; ond’è fama che una Casa delle più ricche, ma non di quelle che si credevano più generose, spendesse in limo-sine e altri usi pii annualmente quaranta mila lire. Il patrizio Niccolò Grillo Cattaneo, uomo d’ingegno e religiosissimo, stato 30 anni circa uno de’ 12 protettori ossia amministratore dell’Ospe-dal grande, mi disse un anno innanzi alla sua morte, che quel luogo pio incassava ogni anno a’ suoi tempi poco più poco meno di dugento mila lire per pii legati, e limosine in gran parte segrete, al qual effetto si disponevano ne’ giorni solenni in diverse pai ti dell edifizio bacini e cassette, ove una mano confidente al (1) Il medesimo errore commisero al parer mio gli Inglesi abolendo Ylncome-tax subito dopo la pace del 1814. Se non che sovente gli uomini di Stato veggono l’errore, ma schifarlo non possono. .=— 12 — vero limosiniere lasciava cadere alquanti biglietti di S. Giorgio, specie di cedole immediatamente pagabili dal tesoriere. Una volta, poco innanzi alla rivoluzione, trovossi in una cassetta un biglietto di cinquanta mila lire. Crederesti tu, o Lettore, con tutto ciò, che il Governo fosse universalmente amato ? Membri noi del Governo, noi lo credevamo; ma mi trasse d’inganno una Signora forestiera di molto spirito. Ella aveva nome principessa di Castelforte, nata napoletana, e maritata a un Siciliano di famiglia Massa originaria di Finale. Amante essa di conversare con persone di ceto diverso, e stata più mesi a Genova in relazione con Nobili, avvocati e negozianti, mi disse a Monpellieri l’anno 1791, che seia rivoluzione francese un dì penetrasse in Italia, avrei veduto molti inchini convertirsi in dileggi, e il secondo ceto essere fra noi il peggio disposto. Aveva onninamente ragione. Quel ceto che da noi si chiamava il second’Ordine, o l’Ordine non ascritto, era composto di notari, avvocati, mercatanti, oltre a pochi possidenti agiati, ma non iscritti al libro della Nobiltà, al Libro d’oro. I notaj, da pochi in fuori, non avevano animo ostile, ben conoscendo che la maggior parte delle cariche secondarie, le sole veramente lucrose, si conferivano ad essi, dovendo essere notaro o iniziato a diventarlo chiunque negli uffizj della Repubblica o di S. Giorgio teneva la penna e riceveva salario. Gli avvocati all’opposto, quantunque riveriti e stimati assai e pagati a esuberanza, e ciò ch’è notabile, quantunque ignari il più dell’alta universale Giurisprudenza, avevano a dispetto la Nobiltà come quella che poco s’intendeva delle forensi quistioni, tutto che dalle leggi e da periodiche elezioni posta a deciderle. In oltre, sentendo che nell’assemblea costituente di Francia primeggiavano gli avvocati, speravano anch’essi una simile preminenza, se una simile revoluzione mutasse gli ordini patrj. I mercantanti poi, classe numerosa, ricca, e collegata per interessi e parentele col rimanente della popolazione, invidiavano l’autorità de’ Nobili, e nel medesimo tempo in questi ultimi tempi — 13 — ricusavano l’ascrizione al Libro d’oro conceduta anzi vagheggiata con certi patti dalle leggi fondamentali, per non incorrere in spese di rappresentanza, in fastidiose sedute ed in una inferiorità di opinione, più molesta ancora della legale. La plebe infine amava veramente coloro cui servendo coll’opera e con l’industria o implorandone la carità, campava la vita; ma voltabile è la plebe ne’ suoi amori, credula al male. Ribaldi eran puniti o repressi ? speravano perdono e licenza mutandosi lo Stato; artigiani mancavano di lavoro, poveri oziosi non ricevevano limosina a piacimento ? e gli uni e gli altri non dubitavano di miglior condizione in altro ordin di cose. In certi tempi di cecità, di frenesia, d’ingratitudine, vipere havvi le quali sotto l’erba lussureggiante non vedi; imprudente tu la recidi, e un morso micidiale ti avventano. Così nella Città Capitale. Nella Riviera orientale, benché più gravata di tasse, per esservi più possidenti nobili e più impiegati, era maggiore affezione, salvo la Spezia i cui principali abitanti credevano sotto altro Governo vedere il loro bel golfo pieno zeppo di navi e di merci. Nell’occidentale all’opposto, benché da Savona in giù non ci fossero se non pochissime tasse per rispetto all’antiche convenzioni, non catasto, non gabelle di grano, di vino, d’olio; benché floridissimo vi fosse il commercio e la navigazione, era opinion generale delle popolazioni marittime, che maggiori sarebbero uniti al Piemonte; e portavasi odio e disprezzo dalle potenti famiglie a’ Giusdicenti annuali che il Governo sceglieva fra la povera nobiltà i più onesti i meno ignoranti che si conoscessero, ma tuttavolta invisi e a torto o a ragione accusati sovente di corruzione. Che fossero molte volte a torto accusati questo il dimostra ad evidenza, che le Comunità di montagna non se ne dolevano; anzi che alcune di esse, use ad avere Giusdicenti popolani, supplicarono per averne de’ Nobili e gli ottennero con esultanza. S. Remo tumultuò una volta poco avanti il ricorso a Giuseppe II; ma repressa con danno e perdita di privilegj, poscia abbandonata dall’imperatore per mediazione di Francia, si stette, se non contenta, quieta; e vera cosa si è che in nessun — listato piccolo o glande, fu la calma maggiore, l’ubbedienza più pronta, la fedeltà più cospicua che in ambe due le Riviere nella seconda metà del diciottesimo secolo fino agli estremi momenti dell’aristocrazia. S. Remo stesso ne diede un nobilissimo esempio. Le relazioni co’ Potentati stranieri erano amichevoli; ossequio verso di tutti, ma più verso la Francia come vicina, alleata efficace nell’ultima guerra, argine alle non estinte ragioni dell’impero, e alla sempre viva ambizione del Governo piemontese, il quale non avendo potuto acquistare il Marchesato di Finale come aveva sperato aderendo agli Austrìaci e agl’inglesi nel trattato di Worms e nella guerra successiva del 1746, moveva pretensioni, com’erede di un’antica contessa di Tenda, sul piccolo distretto di Pornassio come l’unico passo ne’ genovesi dominj, il quale dividendo il Piemonte dal principato di Oneglia da lui pur dipendente, intersecava le sue comunicazioni al mare, che nel Contado di Nizza il nevoso colle di Tenda rendeva impraticabili l’inverno. Ognuno giudicava che il passo di Pornassio sarebbe stato per lui ciò che per noi la Bocchetta, e che il porto disegnato al Lido di Oneglia, attraendo per via di dazj a sè tutto il traffico delle pianure circompadane, avrebbe disertato quello di Genova. Trattavasi quest’ardua questione da parecchi anni legalmente, ministerialmente, e quasi a mano armata, essendosi dall’una parte e dall’altra mandato qualche corpo di gente a presidiare i propri confini e minacciare gli altrui. Durarono le negoziazioni e le apparenze ostili non solamente fino all’ingresso de’ Francesi in ponente, ma fino a gli ultimi aneliti di ambidue gli Stati; e fu la contesa di un piccolo distretto, o piuttosto il gran disegno ch’ella velava, cagione, che fra i Governi italiani cui il Ministero sardo propose di collegarsi contro i pericoli della sovrastante rivoluzione in Italia, esso non comprese mai quello di Genova; fu pure cagione che molti Governanti della Repubblica erano più inclinati al nuovo Ordinamento di Francia, che non sarebbero stati, se un vicino sicuro e amorevole in vece di un ambizioso e ostile avessero avuto. — 15 — Impedire a qualunque prezzo il libero accesso del mare a’ Piemontesi, trovare qualunque si fosse un appoggio contro le superiori lor forze, quest’era il desiderio, la mira di tutti que’ Nobili cui l’età robusta, i paterni esempi, le storiche memorie o la costanza dell’animo rendevano più saldi; e gli altri benché in più numero temperavano con ogni arte quell’impeto, ma non osavano resistergli interamente. Imprudente pareva il Governo piemontese nell’inquietare uno Stato intermedio tra la Francia e lui in tempi cotanto pericolosi, solo per acquistare un passo di incerto vantaggio, per non proseguir come prima a valersi del libero transito, che il porto franco di Genova gli guarentiva con ispesa molto minore della formazione di un porto in un lido aperto a tutte le procelle del mare. Egli stesso dovette pentirsene, quando invece di signoreggiare sul mare ligustico fu cacciato dall’armi francesi in Sardegna; ma un caso impensato, straordinario alla fin fine lo ha assoluto, anzi gli ha dato ragione. I gran Potentati, quelli che in mano tenevano le bilancie europee, non sembravano più avveduti, come quelli che persistevano nell’antica lizza di gelosie, di pretensioni reciproche; solleciti di ogni cosa fuor che della sola che veramente importava. In guisa che i due primi anni della Rivoluzione francese, come due atti d’interminabile tragedia, si chiusero, stando i forestieri ad osservare in platea. Fra codesti spettatori il principale per dignità, per forze terrestri e fama di virile sapienza era Leopoldo, fratello di Giuseppe II imperatore Germanico, che profondo nelle scienze politiche, ma nelle operazioni mal destro, n’era morto di stento e crepacuore sull’entrare dell’anno 1790. Leopoldo più conciliante e pieghevole, benché avesse introdotte con felicità e fermezza grandissime riforme in Toscana, seppe accortamente sedare i dissapori bollenti nelle vaste numerose provincie della monarchia Austriaca; ma conosciute con attivo spionaggio le sette segrete serpeggianti in tutta la Germania, confessò sospirando all’antico suo segretario privato in Toscana, il quale a me lo ridisse, che proseguendo i Settarj a fare proseliti, non avrebbero fra pochi — 16 — anni lasciato nessun Monarca in Trono; ma contro le spettazioni avvenne, che la rivoluzione della Francia frenò i progressi delle Sette in Germania. Le principali erano allora due, de1 Franchi-muratori e degl’illuminati. La prima, più antica di tutte, avente per fine ostensibile la beneficenza, numerava fra’ suoi iniziati Federigo e Giuseppe II; l’altra vantandosi di far regnare ovunque la ragione, il buon senso e i lumi, giurava daprima di non volere nel grembo suo verun principe; ma poscia vi ammise due principi di Sassonia-Gota, il P. Ferdinando di Brunswick, quel di Neuwied, e al parere di molti anche il prelato coadjutore del-l’Elettor maguntino. Arrogi a’ Franchi-muratori e agl’illuminati, come rampolli giovani e ardenti sotto a’ loro tronchi annosi, i Rosa-croci e i Teodofi o visionar], che per mezzo della fantasmagoria allora mal nota facevano apparire spettri, e rivelare alla curiosità di creduli ambiziosi, di teste vuote e coronate, i segreti del futuro. Coll’apprensione di questi morbi occulti cospiravano a disanimare Leopoldo la gelosia della Russia che ingrandivasi a danno della Turchia, la nuova costituzione della smembrata Polonia, le vaste mire e le incertezze della Prussia, la dichiarazione che l’Inghilterra faceva di voler essere neutrale, confermandola per mezzo del D. Dorset suo ambasciatore a Parigi, le divisioni degli Emigrati in tre fazioni diverse, del Re prigioniero in trono, del Conte di Provenza propenso alle forme costituzionali, del Conte d’Artois focosissimo campione dell’antica Monarchia; finalmente gli impulsi di un’indole pacifica, e probabilmente ancora una indomita tendenza alla dissolutezza; per modo che dopo molte memorie, molti congressi, molte minacce e promesse Leopoldo morì l’anno 1792 a dì 29 di febbraio, avendo gittato una pioggia di razzi, e nè pur un sassolino contro la rivoluzione. Francesco II era d’animo più pacifico ancora, più riflessivo e religioso che il padre. Ma il nuovo regno, l’età di 24 anni, e una smoderata diffidenza del proprio sentimento, comune ad altri principi di quell’età, non gli permisero di moderare, come avrebbe — 17 — fatto Leopoldo, l’ire senili del C. Kaunitz principale Ministro fin da’ giorni di Maria Teresa, il quale in una memoria indiretta all’ambasciadore francese a Vienna il 18 di marzo si avventurò a trattare la fazione rivoluzionaria predominante in Francia, come ben meritava, ma non come comporta la prudenza degli uffizj diplomatici. Luigi XVI, costretto dall’insultata fazione, denunziò guerra all’Austria la notte del 20 aprile. L’ardor bellicoso di Kaunitz era alimentato in parte dalla potente e fortunata imperadrice di Russia Caterina II e in parte dalle rassodate disposizioni del Monarca prussiano Federico Guglielmo II, il quale alli 7 febbrajo aveva sottoscritto una lega coH’Austria avente per base la conservazione e garanzia del Corpo germanico, e che non ostante la morte inopinata del Principe con cui l’aveva conchiusa, ragunava un esercito e destinava a comandarlo il Duca di Brunswich, l’allievo più riputato e l’amico dell’immortal Federigo. Un alleato molto meno potente, ma pure di grande importanza per coprire gli Stati austriaci in Italia, ei sapeva di avere nel Re di Sardegna Vittorio Amedeo III, il quale aveva ricusato di ricevere a Torino il Signor Semonville già Ministro francese a Genova, sì perch’era creduto un fervido agente di revoluzioni, sì ancora perchè incaricato di trattare il passo libero del Moncenisio e la cessione della Savoja e di Nizza da compensarsi sulle future conquiste nel Milanese. Un demente e non altri avrebbe potuto accondiscendere a simili proposizioni. Accennati i nemici della Revoluzione francese fino alla state dell’anno 1792, mi resterebbe a mostrare, che cosa fosse questa medesima Revoluzione; ma, chi de’ contemporanei o de’ posteri non la conosce? Pure un breve transunto spargerà maggior luce sugli avvenimenti della mia Patria. A chi le terrene cose considera si fa tosto palese, non esservi effetto senza causa, e tutto il passato ne’ più notabili mutamenti di Stato essere causa dell’avvenire. Imperò sostener si potrebbe, che l’introduzione del Calvinismo in Francia, le guerre della Lega con Enrico IV, l’editto di Nantes, la revocazione di quello dopo lunghi anni di esecuzione, le dispute de’ 3 — 18 — Giansenisti co’ Gesuiti imprudentemente derisi nelle lettere provinciali di Pascal, la troppa lunga e tribolata vecchiezza di Luigi XIV, le turpitudini della Reggenza, la meretrice che in nome di Luigi XV disponeva delle dignità e degli eserciti in Francia, ne furono più o meno lontane cagioni. Ma le vicine, le certe, l’efficaci, a parer mio, furono in prima le opere de’ cosi detti filosofi francesi del secolo XVIII, altri come Montesquieu, il primogenito di tutti, non il peggiore, in lode della costituzione inglese, altri come il Voltaire, il più letto e seducente, in odio più o meno coperto della Religione, altri come Rousseau, il più onesto, sensibile ed eloquente in atto di adorazione verso l’anarchia popolare, i già nominati con Diderot, Elvezio, La Salle, Beaumarchais ad offesa del buon costume e di tutti gli oggetti infino allora ri-spettabili e rispettati; secondariamente i vizj sistematici, il lusso sfrenato, l’incredulità de’ Grandi, ciechi zimbelli de’ loro segreti nemici e apparenti adulatori i filosofi; terzo le gare tra i Nobili di spada millantatori di miglior nascita, e i Parlamentarj avidi di maggior potere; l’autorità censoria conferita due volte a un Ginevrino banchiere, la cui onestà era illusa dall’amor proprio; i soccorsi dati alle Colonie americane inglesi, in guerra contro la Madre patria, le profusioni di Maria Antonietta di Francia, e un conversare più libero e familiare che da Regina; finalmente le vacillazioni di Luigi XVI, religioso, culto, economo principe, ma debolissimo d’animo e sgarbatissimo di corpo (1). Non è meraviglia pertanto, se uno sbilancio di 50 milioni trovossi tra le spese e le pubbliche entrate, se questo difetto, per tanta e sì operosa popolazione, leggiere, fu pubblicato a suon di tromba, esagerato, interpretato in cento guise sinistre; se non si vollero i facili e ordinarj rimedi, e se con voce simile a quella dell’Angelo che chiamerà l’estinte generazioni al Giudizio, tutta la Francia gridò, Stati generali e non altro; se i disusati, inconcludenti, indefiniti, torbidi Stati del tempo antico si fusero in (1) Quindi l’irriverente soprannome di Bue. Avez-vous vu le boeuf, si domandavano l’uno all’altro alla caccia certi cortigiani che l’avevano perduto di vista. — 10 — una massa ardente chiamata l’Assemblea nazionale, ove la parte lungamente avvilita ottenne più numero di componenti, più simpatia di passioni; vide l’occasione di vendicarsi, e la colse. Il venti di giugno dell’anno 1789 fu il primo giorno che l’Assemblea nazionale si costituì nella gran sala del gioco alla palla, come se il luogo stesso indicasse i colpi impetuosi che ne toccherebbero a tutte le parti della monarchia, e l’incertezza dell’ultima vittoria. Giustissime riforme neiramministrazione, alto rispetto alle prerogative del Trono, alle proprietà, alle opinioni ella ostentava; riforme, costituzione, concordia e pace tutti gridavano; ma un mese non varcato ancora dalla prima sessione, il dì 14 di luglio, la plebe, agitata da’ suoi capi, corse alla Bastiglia, cittadella di Parigi destinata a rinchiudere senz’antecedente processo uomini di qualità parte viziosi, parte invisi alla Corte, vi pose l’assedio, vi penetrò, n’atterrò le mura, e truci-donne contro la fede data l’innocente Governatore. Da quel giorno in poi il genio del male compresse, snaturò ogni tendenza al bene; una truppa di treccone e pescivendole invase la reai residenza di Versailles; fu prodigio che quelle furie infami non isbra-nassero la Regina. Condotta col debole marito a Parigi, vi rimasero ambedue come in prigione, macchinarono di fuggire, e riusciva loro a meraviglia nel giugno del 1791, se presso a’confini, a la posta di Varennes il malaccorto Principe non si affacciava alla portiera della sua carrozza per chiedere da bere. Ravvisato dal maestro di posta, arrestato e ricondotto per forza ma senza violenza nè insulti a Parigi, dovè accettare la costituzione decretata dall’Assemblea, che lasciavagli un’ombra di autorità e un peso immenso di doveri. Erano intanto usciti dal regno e continuavano a uscirne i Principi del sangue, i Nobili perseguitati e quelli ancora che non soffrivano persecuzioni, spinti da uno sragionevole punto di onore a seguitare più le vane speranze di trionfale ritorno che l’inviolabil dovere di non abbandonare neppur per momenti la monarchia e il Monarca pericolante. Con questi primi Nobili, con altri meno illustri, o men ricchi, e poscia con parlamentarj, avvocati, letterati, negozianti, e artisti eziandio di mano in mano — 20 — proscritti o minacciati per imprudenti discorsi o sospette adeienze o invidiata prosperità, formossi oltre Reno la piccola, discorde, improvvida, ma bellicosa e magnanima armata del Pi incipe di Condè. Accennai di sopra la risoluzione presa la notte de’ 20 aprile 1792. Onde può dirsi che la guerra più sanguinosa de’ tempi antichi e de’ moderni fu dichiarata dal Re più pacifico che avesse mai la Francia. Ma esso la fece per timor di peggio e non senza lacrime; l’Assemblea comprovolla con tripudio e ferocia. Ostavano alla continuazione delle trattative diplomatiche e della pace gli anzidetti emigrati con minaccie e millanterie imprudenti, la lega che già mentovai delle principali Potenze germaniche, le ambiziose promesse e l’animo vasto del Generale Dumouriez Ministro delle relazioni esteriori, l’incendio rivoluzionario cui era scarso alimento tutta quanta la Francia, e le mutate opinioni dell’Assemblea Legislativa, specie di transizione e di intermezzo Ira la Costituente, che pubblicata l’opera sua, erasi sciolta, e la Convenzione destinata a non isciogliersi, se non dopo torrenti d’umano sangue. La prima delle Potenze belligeranti che indirizzò al Governo di Genova una dichiarazione di minaccia e sospetto fu l’Austria. Consapevole questa dell'incarico dato a Semonville e rifiutato dal Ee Sardo, il che rassicurava i suoi Stati dalla parte dell’Alpi sabaudiche, temette non i Francesi intendessero ad aprirsi il passo in Lombardia per mezzo dell Alpi marittime e della Riviera occidentale. Il Ministro dunque della Repubblica a Vienna fu chiamato a conferenza in Corte. Il Vice Cancelliere di Stato C. Filippo Cobenzl gli dichiarò a nome dell’imperatore, che se la Repubblica lasciasse por piede nel suo territorio a’ Francesi, esclusa verrebbe dal Consorzio delle Potenze alleate e trattata come nimica. Non prevedeva, così dicendo, l’Austria che indi a non molto i Francesi avrebbero messo piede in Vienna stessa. Ma è antico costume de’ Governi potenti il domandare a’ deboli l'impossibile, com’è necessità di questi il prometterlo; laonde il Governo di Genova promise una neutralità — 21 — armata, la pubblicò con solenne editto, e n’ebbe da tutte le Corti non solo approvazione ma lode. Mentitegli se ne compiaceva, i suoi vicini si vantavano di nulla curarsi, che i Francesi risentiti si fossero del rifiuto dato e del passo inibito al Semonville; e di genti e d’artiglieria coprivano i loro confini. La guerra fu lor dichiarata a’ 15 di settembre del 1792 proponendola lo stesso ardimentoso Ministro che aveva consigliata quella dell’Austria, non in nome del Re come la prima, ma in quello del Consiglio esecutivo di Francia; questa diversità era notabile e merita però spiegazione. Non avevano giovato all’infelice Luigi le sue compiacenze, non Pavere approvata contro la sua coscienza la Costituzione civile del Clero, non accettato l’Atto Costituzionale, non dichiarata la guerra all’Austria. Pretendevano i Giacobini esistere in Corte mantellato dalla Regina un Comitato austriaco, corrompitore della Guardia reale che la Costituzione aveva al Re conceduta, autore di tutti que’ disordini onde i principj della guerra contro dell’Austria ne’ Paesi Bassi avevano disonorato l’armi Francesi, istigatore de’ movimenti nimici e consigliere di un proclama, veramente incauto ed oltraggioso, che il Duca di Brunswich generalissimo dell’esercito prussiano aveva pubblicato in procinto di entrare in Fi-ancia. Fu dunque licenziata la Guardia; e poscia a’ 20 di giugno 1792 una turba mala in arme e in arnese de’ sobborghi più riottosi e più poveri di Parigi, allo spuntare dell’alba occupò la piazza del Carrousel dinanzi al reale palagio delle Tuillerie, poi difilò nella sala delPAssemblea Nazionale, e salita le scale regie, costrinse il Monarca a mettersi in capo la berretta rossa, insegna favorita de’ Giacobini e a mostrarsi così violentato e malconcio a una finestra. Uno di que’ cenciosi, mosso a momentanea pietà, si appressò e gli disse di non tremare, che attentar non volevano alla sua persona. Senti, rispose, prendendogli la mano, e sopra il suo petto passandola, e’ non mi palpita; le quali generose parole, e la vista di tanta sventura in tanta grandezza fecero sì, che la turba partissi senz’altro osare, conoscendo i suoi segreti istigatori che bisognava tramare ancor qualche giorno per fare di più. Siami lecito il rammemorare, che trovandomi io allora a Parigi, sebbene già preparata ogni cosa per ritornarmene a Genova, e passeggiando, com’era mio costume, di buon mattino, vidi la turba armata e vociferante avviarsi alla reai residenza; e preso da raccapriccio e orrore, mandai tosto al M.co Cristoforo Spinola Ministro della Repubblica e affezionatissimo a i Borboni, il seguente viglietto, di cui serbo presso di me la copia brutta in francese. « Come vedete, mio caro cugino, mi trovo ancora a Parigi, la malattia di un servitore avendomi ritenuto sul punto di partire. Sono passato testé presso alle Tuillerie; e vi ho inteso che le picche del sobborgo di S. Antonio minacciavano il castello (così usano i Francesi chiamare il palazzo del Re). Le porte vi sono chiuse, la guardia aumentata. Se voi giudicate che un braccio di più, il braccio di un forestiere possa riuscire accetto al Re, voi siete autorizzato ad offerire il mio. Sarei lietissimo di ritardare alcuni giorni il mio viaggio per vegliare qualche notte alla difesa di un uomo da bene contro degl’insensati e malvagi. Se la proposta che faccio, vi sembra inopportuna, se non l’approvate, compiacetevi di non parlarne a veruno. Yò a desinare a Marly; aspetterò una risposta questa mattina fino a due ore, e ritornerò questa sera a casa verso le ore 9 !/2 ». Ecco la risposta del Ministro recata in italiano dall’originale francese esistente fra le mie carte. « Sono commosso, mio caro cugino, di tutta la parte che voi prendete all’infelice destino del più degno dei Re. Oso ancor sperare che la gente onesta saprà disintrigarlo (le tirer d’embarras) in questa spaventevole crisi. Tutto il mondo corre a soccorrerlo (che illusione!). Quanto a noi, non penso che dobbiamo ingerircene. Sono abbastanza note le mie intenzioni. Farò valere a tempo e luogo il vostro zelo. Addio, io vi abbraccio. Questo mercoledì 20 giugno ». Un premio di zelo io non cercava, bensì l’occasione di segnalarmi a costo della mia vita con una buona azione. Partii due giorni dopo. Avvedutisi i Giacobini che il tumulto del 20 di Giugno non aveva fruttato gli sperati disordini, perchè la plebe di Parigi è naturalmente buona, chiamarono da varie parti del regno, e da Marsiglia principalmente, i loro compagni e satelliti, coll’ajuto de’ quali posero alli dieci di agosto l’assedio alia residenza reale. Presentito si era alla Corte quel nuovo attentato, ma non si credea destinato che per uno o due giorni dopo; non mancavano generali, ma insorse una cieca contesa di precedenza fra i due maggiori in grado; la soldatesca, e sopra tutto i reggimenti svizzeri erano disposti a combattere fino all’ultimo sangue; ma gli ordini ogni quarto d’ora mutati, la Regina mal consigliata, il Re irresoluto, e sempre volendo il contrario di quanto voleva dianzi, raffreddavano l’ardor militare, e rendevano ogni difesa impossibile. Cominciando la vanguardia de’ rivoltosi a entrare nella piazza interna del castello, Luigi colla moglie e i figliuoli rifuggirono nell’attigua Sala de’ Legislatori; di là fu mandato prima ostaggio, poi come reo alla prigione del Tempio, diseredato della corona costituzionale, processato alla fine, e l’anno seguente alli 21 di gennaio decapitato. Un’Assemblea detta legislativa regnava, quando l’infelice Principe venne assediato, e un’altra, la sanguinaria e portentosa Convenzione, quando fu dannato a morte. Sotto la prima il potere esecutivo (diam nuovi nomi a nuove idee) era in mano del Consiglio esecutivo mentovato di sopra; e sotto la seconda cadde in balia del Comitato di salute pubblica, dittatura o tirannia di undici Convenzionali, il cui arbitro e capo per riempiere di prigioni e di patiboli la Francia fu poscia il fanatico Robespierre, per combattere contro l’Europa il modesto Carnot. Al trono Sardo in settembre del 1792 Anseime generale francese aveva già tolta la Contea di Nizza, e Montesquieu la Savoia, mostrando i Capi dell’esercito ch’era loro a fronte tanta pochezza d’animo, come scrive il Botta, quanta vanità avevano — 24 — mostrata innanzi. La conquista del generale Anseime fu spalleggiata da undici navi di fila e più fregate sotto il governo del Controammiraglio Truguet, uno de’ pochi antichi ufiziali di mare che emigrati non erano. Egli andò poi sopra Oneglia, parte della Liguria soggetta al Re Sardo, e a sacco e a fuoco la mise per varj colpi di mitraglia tratti contro una sua lancia inoffensiva. Alli 31 di ottobre entrò nel porto di Genova con sole tre navi di fila, dicendo voler rispettare la legge della Repubblica, che a più di tre colla stessa bandiera proibiva l’ingresso. Cominciarono col mese di novembre le domande francesi. Presentatosi il Controammiraglio al Doge, per la prima volta chiese, che non si acconsentisse il passo a Corpi di gente nemiche di Fi anc ia. Nel dì seguente il Ministro Naillac aggiunse la domanda di cinque milioni di franchi in prestito; poco dopo un Belleville, tanto furioso Giacobino, quanto Naillac moderato costituzionale, balestrato da Parigi in Italia con particolari istruzioni, mosse pretensioni sopra le fortezze di Savona e di Gavi, ne pago di ciò voleva anche il passo per le terre della Repubblica, a effetto di assaltare dal lato più debole Saorgio, forte situato sull’erta via che dalla Contea di Nizza va in Piemonte, e forte sì fatto quantunque piccolo, che per la prima volta i fuggitivi di Nizza vi ripigliarono ardire, e si difesero costantemente. Unanimi i Collegj Serenissimi ed il Minor Consiglio oppongono a tutto la proclamata neutralità, e alte lodi ne fanno i Ministri di Torino e di Vienna. Ad ogni modo il grano rincara per timor di plebaglia o voci di monopolisti, che le rifiutate domande partoriranno guerra nel Genovesato. Ora il grano caro attrae sempre il cattivo, tanto che il giorno dieci del mese di dicembre, quel giorno di gloriosa e dolce ricordanza che il Governo soleva festeggiare solennemente in una chiesa del soprastante poggio di Oregina, le numerose treccone del borgo di Prè gittarono diverse pagnotte in verso i Senatori quasi dicendo: ecco il muffato e scarso pane eli e abbiamo! L’animosa e popolata valle di Pol-cevera ne fece pure lamento, e simili ricorsi, si ebbero, quantunque più rispettosi, dall’altre terre. Ma riparossi con fermo e — 25 — dolce contegno, con piccoli e opportuni sussidi di grano per conto pubblico, con prestiti di niuno o minimo interesse che ricche e patrizie famiglie anticiparono alle più bisognose o meglio affette comunità. Il che represse, non estirpò la mala semenza. Così ebbe fine il 1792, arridendo il più delle volte fortuna alle speranze della Revoluzione francese. Non così dopo il regicidio. L’Inghilterra negò allora di riconoscere il nuovo Governo di Francia, repubblicano in nome, e ferocemente tirannico in effetto; quindi ruppe la neutralità infìno allora tenuta, congedando il giovine Ministro Chauvelin col suo consigliere Carlo Maurizio Talleyrand ex vescovo di Autun; e ordì la prima coalizione con la Russia, l’Austria, la Prussia, la Spagna, la Sardegna, e varj Stati minori dell’Italia e della Germania, promettendo larghi sussidi ai men danarosi o più renitenti. La convenzione col Re di Sardegna, sottoscritta il 23 di aprile 1793, fu presa in considerazione nella Camera de’ Comuni l’anno seguente il 31 di gennajo, e non ostante la veemente opposizione di Fox, difesa da Pitt e da Canning venne approvata con molte voci. Ivi l’una Potenza si obbligava di somministrare all’altra annualmente per tutta la guerra dugento mila lire sterline, e a non conchiudere pace se 11011 si restituivano a quella tutti li Stati avanti e nella guerra perduti; quella all’incontro sol prometteva di rimanere ferma e leale ne’ comuni interessi e nella lega colla Gran Brettagna. Verso i Genovesi, i più esposti di tutti all’armi di Francia, usar non si vollero promesse di garanzia e di sussidi, ma minacce e terrore. A tale effetto il Governo inglese mandò a Genova, nel mese di giugno, in qualità di Ministro il Sig. Dracke, uomo impetuoso, e inesperto ancora delle forme diplomatiche. Avendo egli annodata una segreta corrispondenza in Marsiglia, città insorta con Bordò, Aix e Lione, contro la Convenzione nazionale, tenne modo che da quel porto facesse vela per Genova, con lettere de’ suoi confidenti e con inglesi passaporti, una tartana francese. Al suo arrivare il dì 2 di settembre, non ammessa ancora a libera pratica le lancie della « Modesta » — 26 — fregata francese, in porto rimasta dopo la partenza del Contrammiraglio Truguet, l’investirono, la menarono a forza dietro la poppa di quella; e prese le lettere quante ve n’erano, e tutte portatele al loro nuovo Ministro Tilly, cacciano in ferri il Capitano. Amare querele di Dracke al Governo, rimostranze di questo a Tilly per la violazione delle regole di sanità, e la forza usata in porto neutrale. Il quale non nega la violazione, e ne promette soddisfacimento, ma ricusa acremente di restituire le lettere, allegando competere ogni dove a’ legni da guerra una piena giurisdizione sopra i mercantili della stessa bandiera; non che le lettere, ma l’impetrato passavanti essere stato delitto di lesa nazione. Un’armata inglese comandata da Lord Hood, e una Spagnola agli ordini del Contrammiraglio Langara erano poco avanti entrate di conserva nel Mediterraneo. Dracke fa loro sapere l’occorso, e a’ dì 27 di settembre annuncia alla Repubblica l’imminente loro venuta con intenzione di indurla alla lega europea contro i regicidi; se ricuserà, la tratteranno in modo se non ostile, incomodissimo almeno; se accetterà, se non permetterà che i negozianti Genovesi mandino grano in Francia, avrà commercio più esteso che mai, e potrà ripromettersi ogni bene. Ma donde e perchè questa pericolosa alternativa, risponde a lui il Governo, se pochi mesi avanti, tutti a una voce, lodarono l’imparziale suo contegno, tutti approvarono la sua neutralità? — I tempi sono cambiati, replicava il Ministro al Senatore Giovan Carlo Pallavicini, destinato straordinariamente a trattar seco lui. Fra tali pratiche venne il dì sei di ottobre, e un Comandante inglese diè fondo nel porto con sei grosse navi di fila e alcuni brulotti. Tosto due navi han messa in mezzo la « Modesta, » e costrettala a rendersi tanto più facilmente quanto gli ufì-ziali di essa erano più discordi fra loro. Altri s’impadroniscono di un legno mercantile vicino ad uscire di quarantina; la gente si salva a nuoto in terra; altri finalmente van contro a un legno neutrale ch’entrava allora allora in porto, ma non trovandosi francesi, come credevano, non le dan noja. Tilly corre a palazzo e domanda al Segretario di Stato, destinato per legge a conferir co’ Ministri, se la Repubblica vendicherà l’oltraggio; se impedirà agl’inglesi di trar seco l’ingiusta preda; da questa risoluzione, e pronta e decisiva, dipende la pace o la guerra. Non di meno usò più prudenza ne’ concetti, più moderazione nelle parole, che non avea riputazione. Il simile fece Robespierre il giovane nel suo rapporto alla Convenzione, e la Convenzione stessa in un suo proclama, pensando forse che più vendicativi mostrandosi, indurrebbero la Repubblica a cacciarsi disperatamente nella Coalizione. Appena uscito Tilly dalla conferenza col segretario di Stato, entra l’inglese e insiste che Genova fra 24 ore al più tardi cacci via il Giacobino co’ suoi aderenti, e congiungasi a’ coalizzati; se rifiutasse sarebbe strettamente bloccata. Dolendosi il Segretario dell’occupata « Modesta » e degli altri attentati, risponde tanto e più meritare l’insolenza francese. Erasi licenziato appena, che sopraggiunge al Segretario una nota del cavaliere Nomis Ministro Sardo in Genova, il quale offre le truppe del suo Sovrano a difesa del Genovesato, e delle differenze interminabili intorno a Pornassio e ad altri luoghi confinanti si rimette all’arbitrio del suo possente alleato, il Re d’Inghilterra. Entrano in questo mezzo nel porto e danno fondo presso alle Inglesi sei navi di linea spagnole. D. Gioachino Moreno lor comandante, senza por tempo in mezzo, intima per bocca del proprio inviato la consegna di tutti i grani già caricati o compri per qualunque porto della Francia revoluzionaria, libero restando l’acquisto e l’egresso per quelli che Farmi de’ coalizzati avevano già conquistati o conquisterebbero di poi. Nessuna intimazione era più ingiuriosa di questa alla libertà del commercio, a’ doveri della neutralità e alla ragion delle genti, e nessun Comandante, nessun negoziatore inglese spingeva tant’oltre quanto cotesto Spagnolo l’acerbità degli atti e delle frasi; con tutto ciò si comprendeva agevolmente voler egli nascondere con l’alterigia de’ modi la sua dependenza verso l’altro Ammiraglio. Laonde tenendolo a bada con ossequiose ma evasive risposte, elesse il Governo a conferire — 28 — con l’inglese i due patrizi Franco Grimaldi e Niccolò Grillo Cattaneo, l’uno più eloquente, e come quello che avea militato nella guerra del 1746 più vecchio ad un tempo e più animoso; l’altro di fresca età, di vivace ingegno e pratico della lingua inglese. Dissero quanto seppero ambedue della neutralità a tutti promessa indistintamente, da tutti approvata; ma non giovava se non a protrarre il termine assegnato. Fieramente adirato il Comandante britanno mandò due navi di fila nel golfo della Spezia a impadronirsi di una fregata francese ivi rimasta per non avventurarsi in alto mare con forze superiori, e oltre a questo dichiarò che tutta la costiera di Genova era bloccata; che ogni legno mercantile vicino ad approdarvi sarebbe predato o costretto a scaricare in Livorno. E nel medesimo tempo il Ministro Dracke interpose la mediazione del Ministro Gherardini in Torino a effetto di ottenere in Milano un corpo di 4000 austriaci. Nè lo dissimulava, e per guadagnarsi il favore de’ mercatanti e della plebe andava magnificando i prosperi successi della Coalizione. Nelle Fiandre infatti il Principe di Coburgo aveva sconfitto i Francesi ad Al-tenhoven, quindi a Nervinda, e poi a Farmars. Dumouriez, romanzesco generale di Francia, aveva abbandonato l’esercito e la patria, La Fayette antico capo della Guardia Nazionale, era carcerato in Olmutz; Valencienne e Magonza espugnate, l’Alsazia invasa. Per mare quant’inglesi ammiragli, tante vittorie, e ciò che valeva infinitamente per le cose d’Italia, la città di Tolone inorridita delle atrocità commesse dalla Convenzione e dai suoi satelliti, si era data volontariamente con tutta l’armata navale, i magazzini e le fortezze al fortunato Lord Hood. Tal che nel suo bel porto invece della bandiera francese sventolavano da’ 28 di agosto in poi non solo le inglesi, ma le spagnole, le napoli-tane, le sarde; e nel cerchio delle sue mura comandava in qualità di Generalissimo l’irlandese Ohara. Come puossi osservare a fronte di tante minaccie, di tante forze riunite e vittoriose la mal promessa neutralità? I pericoli estremi fanno sempre eccezione, e conforme alla celebre iscrizione del nostro Magistrato Supremo: la salute del — 29 — popolo dev’essere la suprema legge. Dunque si cacci via Tilly, si aderisca senza più alla Coalizione. Così peroravano i più vecchi patrizj e i più sensibili al male presente, nelle diuturne e cotidiane adunanze del Minor Consiglio. Gli altri amplificavano la data fede, le ricevute ingiurie, l’incostanza de’ bellici avvenimenti, il recente editto della Convenzione che ogni francese era soldato, che tutto il popolo in massa, un popolo bellicoso di 24 milioni d’uomini dovesse accorrere armato alla frontiera. Veramente ella ha perduto Tolone, ma sono ancora in sua potestà le frontiere della Savoja e di Nizza confinanti al Genovesato; e non sì tosto la Coalizione sarà qui abbracciata, che da Nizza e da Monaco irromperanno i Francesi nella riviera di ponente, e metteranno a sacco e fuoco le popolazioni fedeli, in iscompiglio e insurrezione le sempre inquiete e male affette. Nè l’una nè l’altra sentenza avevano ancora ottenuto il numero legale de’ voti. Due volte al giorno il campanone della gran Torre ducale chiamava con lunghi e solenni tocchi i pensierosi Consiglieri a palagio; il popolo in gran numero nella piazza che vi conduce, tutto fiso agli atti e attento al bisbiglio di chi entrava; la piazza di Banchi costernata, Tilly ritirato e solingo in una casa remota tra il mare e il Ponte di Carignano, Dracke presso al Console della sua nazione in frequenti colloquj con gli Ammiragli e co’ Ministri e Consoli delle potenze coalizzate; nel porto le squadre apparecchiate a modo d’imminente battaglia co’ tremendi brulotti in fronte; alla Darsena, alla Lanterna, a i due moli, batterie Genovesi scarse d’uomini e di munizioni. Erano più giorni trascorsi in tali sospensioni di cose, e non potea più durare. Congregato alli 21 di ottobre in sulla sera il Minor Consiglio, quasi per ultimo esperimento e decisione, un Consigliere di non molta età, udita la voce del Segretario di Stato che per ordine de’ Serenissimi Collegi l’invitava a ragionare, sorse secondo il costume dalla panca ove con altri sedeva, e brevemente esposte le due opinioni, disse: inclinare alla Coalizione per quella gran ragione della suprema legge che allegata si era nelle prece- — 30 — denti sessioni, purché veramente la salute del popolo se ne ottenesse con quella maggiore probabilità ch’é compatibile con l'incertezza degli umani eventi. E otterrebbesi a suo parere quanto bastava, se, cosa non ancora proposta nè richiesta benché imprescindibile, la Repubblica fosse sicura dichiarandosi contro la Francia, de’ sussidi e della garanzia dell’Inghilterra, in una parola se promesso le fosse ciò che era stato al vicino Piemonte. Senza un simile accordo è manifesto che abbandonata sarebbe a se stessa nella guerra, e sacrificata nella pace. Divideva per tanto il suo ragionamento in due punti: mezzi di difesa per impiegarvi i richiesti sussidj e anche per prevenirli; mezzi diplomatici per conseguirli. Intorno al primo punto consigliò più vigilanza, più fornimenti alle batterie del porto, argini e sbarre alle gole delle Alpi e dell’Apennino, eccitamenti a repristinare e accrescere quelle compagnie volontarie di cittadini che formate si erano e segnalate nella liberazione del 1746. Venendo quindi al secondo punto, consigliò di far conoscere al Ministro britannico la risoluzione di trattar seco lui sulle basi convenute con la Sardegna, purché ne’ poteri a lui compartiti si comprendesse la facoltà di trattarne; altrimenti si ultimerebbe la pratica direttamente in Londra per mezzo di un Ministro straordinario già stato a Parigi in qualità d’inviato, già da più mesi trasferito a Londra per non essere accetto a chi governava al presente in Francia; questo Ministro era il M.se Cristoforo Spinola. Finch’egli non conchiudesse l’accordo, non s’intimasse a Tilly la partenza, non si trasferisse la « Modesta » altrove e uscissero fuora i brulotti. Mentre l’Oratore arringava, non avresti udito un zitto fra dugento circa persone nella gran sala adunate e molti sorgendo a gara da’ seggi Senatorj e dalle panche, gli facevano corona e plauso d’intorno. Fu approvato con gran frequenza di voti il proposto, e commesso ai Deputati Grimaldi e Cattaneo di conferirne con Dracke. Il quale schiettamente dichiarò, non avere la richiesta plenipotenza; ma non essere però necessaria, e molto meno trattative lontane per via di un negoziatore non accreditato e non ricevuto ancora. Trovarsi oggi mai il Serenissimo Governo — 31 — sulla buona via; facesse un passo di più e si abbandonasse senz’altri indugi, senza riserve alla ben nota magnanimità delle Potenze coalizzate e della Gran Bretagna specialmente. Fra questi e altretali ragionamenti, — riferirò qui quello che a me stesso tre anni addietro ripetè il Cattaneo — fra questi ragionamenti sopraggiunge un ufiziale della squadra, e gli dice essere in pronto le lance destinate ad approdare presso l’abitazione di Tilly, e a levarlo via; non altro aspettarsi che un cenno dell’ultime sue intenzioni. Inteso ciò appena il Cattaneo, ragguagliavane in pretto genovese il vecchio Collega; questi accostasi a Dracke, tutt’ora parlante colPufiziale, e con tanta facondia, con tale commozione e vivacità rimostra l’ingiustizia del progetto, la violazione dell’ospitalità e del pubblico diritto, che il Ministro si piega e revoca il già dato consenso. Acconsente altresì, e non avrebbe potuto impedirlo, che si accrediti il nuovo Ministro a Londra, e che d’ogni cosa s’informi il barone Thugut, primo ministro austriaco, per mezzo dell’inviato residente in Vienna. Mentre i corrieri s’avviano a quella gran Capitale, diffondesi in Italia la nuova della pendente risoluzione de’ Genovesi; Torino procede con meno acrimonia di prima, il Plenipotenziario, Conte Wiltzek, e il barone Stein, Comandante generale in Lombardia, ricusano i domandati rinforzi in Liguria, qualora la Repubblica non conceda volontariamente il passo; e vengono lettere alli 5 novembre dal nostro Ministro inlspagna, Paolo Celesia, di non grande nascita ma di grandissimo ingegno, il quale scrive esser certo che l’Ammiraglio spagnuolo non ebbe ordine alcuno di commettere ostilità; e che Mylord S. Helen ambasciatore britannico a Madrid gli disse, il Governo genovese essere in libertà di aderire o no alla Coalizione, nè lord Hood avere interpretate a dovere le istruzioni del suo Ministero, che trattative voleva non violenza. Lettere pure si hanno il dì 15 dal nostro Ministro Balbi, il quale dipinge il baron di Thugut in contraddizione seco medesimo, ora dicendo dover la Repubblica strigarsi come può con l’Inghilterra, or consigliando di anteporre alla sua protezione quella dell’Austria; nascere intanto gravi dissapori fra le Corti coalizzate, e principalmente fra quelle di Vienna e di Berlino. Oltre a questo i dispacci del notaio Massuccone, antico segretario di Spinola a Parigi e poscia incaricato d’affari, portano che la Convenzione sconfisse gl’insorgenti della andea, e che il suo esercito alle frontiere del Nord ebbe prosperi incontri. Altr’onde si sa come Lione acerba nimica de' Convenzionali, dopo animosissima difesa ha dovuto arrendersi, e l’esercito che l’assediava si è a gran passi incamminato verso Tolone a rinforzo di quello ch’era già accampato in sulle alture d’intorno. Cresceva ne’ Francesi l’ardire con la speranza; mancavano a proporzione ne’ Coalizzati; e già Dracke co’ due Ammiragli avevano sgomberato da Genova traendo dietro a sè la « Modesta ». Quante \ icende in men di due mesi, quanti pericoli si erano ormai superati! Immensi vantaggi aveva partoriti la fermezza da un lato, la condiscendenza dall’altro, e il benefizio del tempo con sospensiva condizione ottenuto. Alli 13 del mese di dicembre il Corriere spedito già a Londra ritorna con la risposta di Lord Grenville: mandi la Repubblica due Commessali a Tolone, i quali si concerteranno coll alto Commessario Inglese a cui si spediscono speciali poteri, e istruzioni per le cose già fatte e quelle da farsi intorno alla lega e alle cautele desiderate da’ Genovesi. Partiti appena i lor Commessarj, dovrà cessare quel blocco che da tanto tempo gli angustia, e che m caso diverso si farebbe sempre più stretto e rigoroso. Cosi scriveva lo Spinola per incarico del Ministro britannico, che aveva ricevute le sue credenziali. Ora la lontananza delle due squadre dava animo ed agio a riflettere maturamente e ad aspettare, senza timore di palle incendiarie, più sicure e recenti informazioni. Ed ecco nuova 7 giorni dopo, che i Francesi sono rientrati alli 18 dicembre in Tolone. I Coalizzati disperando resistei e, hanno incendiato 15 navi di fila e sei fregate, Lord Hood ha rapito 7 legni fra navi grosse e fregate, il Comandante sardo la fregata « Alceste », i Napoletani il brigantino « Imbroglio », gh — 33 — Spagnuoli la piccola « Aurora », tutti minuzzoli, che il dente superbo del prepotente Ammiraglio ha conceduto a’ suoi deboli alleati. Sopra le stesse prede e sull’armate straniere, che frettolose salpavano, rifuggiti si sono tremando e fremendo dodici mila Tolonesi, nimici dichiarati irreconciliabili della Convenzione. Il pronto abbandono di una piazza e di un porto così importante, l’evacuazione spontanea dell’eminente fortezza La-malgue, l’incendio di tanti legni disarmati, che dilatarsi poteva senza rimedio alla città, il rapimento degli altri, la disperazione, la fuga e l’incerta ventura di tante famiglie già benestanti davano molto a pensare sopra il pericolo delle vicine Riviere del Genovesato e della Capitale stessa, quando l’inferocita Convenzione avviasse a questa volta l’esercito vittorioso a Tolone. Se non che il fatto medesimo che più colpiva le immaginazioni, rendeva la quistione più semplice all’intelletto, e più facile la risposta all’Inghilterra. Onde il Consiglio deliberò di rispondere che non potendo più ragunarsi l’offertogli Congresso a Tolone, desiderava di proseguire le trattative non più con uffiziali di mare o secondarj Agenti, ma direttamente a Londra co’ principali Ministri di S. M. per mezzo di quello stesso Patrizio che il Re non ha guari, per loro consiglio e personale bontà, aveva ricevuto graziosamente. Queste cose furono scritte a dì 2 di gennaio dell’anno 1794. Si respirava intanto, ma per brevi momenti, imperciocché nelle guerre delle grandi Nazioni le piccole sono il più travagliate a guisa di palle che un giocatore rimanda all’avversario, percotendole ognuno scambievolmente. La Convenzione che infino allora aveva contenuto il suo sdegno contro della Repubblica, sentendo ormai riconquistato Tolone e l’esercito non che in libertà, in bisogno quasi di trasferirsi altrove per trovar pane e danaro, passò ad un atto più violento ancora, più contrario al Jus delle Nazioni che il rapimento della « Modesta », facendo improvvisamente arrestare l’incaricato d’affari Massuccone, sotto il ridicolo pretesto che ricevuti egli avesse trenta milioni di franchi per eccitare una sedizione in Parigi. Il buon uomo ne impazzò. Fu liberato poco 3 — 34 — di poi scusandosi il mostruoso fatto qual rappresaglia della rapita « Modesta », e la Repubblica deputò in sua vece con titolo di Ministro l'avvocato Boccardo, sull’opinione che un Governo Revoluzionario e demagogo ricuserebbe di ricevere o riceverebbe male un Patrizio. Parrà che i Genovesi risentissero poco il caso del loro Incaricato. Ma dove e a chi rivolgersi? All’Austria no, le cui soldatesche erano anco lontane, e il cui principale Ministro, come poi fece con gli Svizzeri e i Veneziani, non voleva mai nulla promettere, nulla assicurare; all’Inghilterra forse o vero alla Spagna? Ma le violenze loro erano presenti a ciascuno, e minacciavano ancora. La proposizione di trattare a Londra non era stata accettata. Senza che come in Piemonte, così in Genova cominciavano agitazioni interne, e uomini di buona fede inorpellati da malvagi e astuti, sognavano di migliorare lo Stato politico e civile, scuotendone i puntelli indeboliti che il sorreggevano da lunga età. — Non è tempo, dicevasi loro, quando l’armi forestiere sono alle porte, d'introdurre riforme, ancorché utili e salutari in altri tempi. — Ma l’occasione passata, rispondevano essi, gli stessi nocchieri spingeranno la nave negli stessi scogli che conosciamo. — Avevano in qualche parte ragione; in ogni modo chi vuole turbare l’ordine pubblico senza un’estrema e manifesta necessità ha sempre un gran torto, e mai non godrà giorni sereni. Una ragione di maggior forza ancora persuadeva a dissimulare l’oltraggio. Scriveva replicatamente il M.co Vincenzo Spinola, Commissario generale in Ponente e Governatore a San Remo, che la risoluzione di entrare in quella Riviera per indi assalire Raus e Saorgio, forti inespugnabili dagli altri lati, era pubblica in Nizza. I movimenti militari il comprovavano, e in fatti il dì sei di aprile 1794 fu il giorno che sul territorio genovese comparvero per la prima volta le bandiere tricolori. Accorse lo Spinola a Ventimiglia, la più occidentale città dello Stato, e protestò in iscritto secondo le sue instruzioni, della violata neutralità. Ma il Generale Massena senza mostrarne sdegno o — 35 — disprezzo, proseguì il suo movimento. Era l’esercito in numero di sedici mila uomini, tutti agguerriti, fanatici della promessa libertà, e tutti altresì squallidi e smunti per le durate fatiche e la mancanza di vettovaglie. Si chiusero da principio le officine e botteghe, e si facea solitudine ovunque udivansi i tamburi di quella gente sì temuta e sì misera; ma veggendola poi raccolta, ritenuta e quasi tanto modesta che parevano non giacobini, ma monaci e frati, la confidenza tosto rinacque, e accorrevano le genti al loro passaggio, com’erano usate di accorrere alle processioni. Lo stesso Massena, tanto accusato di rapacità nelle susseguenti campagne, quanto lodato mai sempre per intrepidezza, fu visto in una locanda del Porto Maurizio contentarsi per tutta cena di cacio e pane, e la vanguardia di lui, entrando in Oneglia, città nimica, rispettò le cose sacre e si astenne eziandio dalle private. Nè men valorosi che continenti, presero dopo aspre fatiche il forte di Saorgio, non solo, ma il ricco borgo di Ormea, e poscia il fortificato Colle di Tenda, sommo apice dell’Alpi marittime; tanto che i Piemontesi perduta ogni comunicazione al mare, ogni cresta di monte, si ritirarono all’opposta parte mediterranea che guarda il Tanaro e il Po. Nell’udire questi successi l’Ammiraglio Hood fieramente incolpandone l’ostinata neutralità genovese, non la tardanza de’ soccorsi austriaci, e la ritrosia del proprio Governo, si accinse ad un blocco più barbaro che mai; e dovendo dal ligustico mare allontanarsi, lasciowi a guardia uno stuolo di legni velieri e vigilanti. Nè ciò bastando, siccome gl’inglesi avevano cacciati i Francesi dalla Corsica e postovi per regio Luogotenente e Generale il celebre Paoli, antico capitale nimico de’ Genovesi, i legni corsi facevano a gara con gl’inglesi per impedire gli arrivi delle vettovaglie indispensabili alla Liguria; inseguiti da’ nostri, si riparavano sotto la bandiera britannica. Questo stancò la pazienza de’ Ser.mi Collegi, non favorevoli certo per naturai propensione alla Francia revoluzionaria, tanto che pubblicarono un coraggioso decreto, che sarebbono col cannone respinti da’ porti della Liguria que’ legni qualunque che ingiustamente bloccandoli, — 36 — e affamando, quanto era da loro, le innocenti popolazioni, non dubitavano però di entrarvi a lor piacimento per riparo dalle procelle o per rinfresco. E siccome il golfo della Spezia era il loro ricetto di preferenza, così fu decretato di mandarvi un Comandante in capo con titolo nazionale di Commissario Generale, e con istraordinaria podestà. Fu scelto l’autore delle presenti memorie ch’era già Colonnello de’ Cacciatori, uno di que’ Corpi volontari i quali levati nuovamente si erano a tutela dell’ordine pubblico e della Capitale. Rimesse le antiche batterie in istato, aggiuntene due altre a Maralunga, e alla punta di S. Bartolomeo, ove quel bellissimo golfo più si restrigne, e imitati, forse per la prima volta in Europa, sulle colline e torri di quello i segnali marittimi, a guisa di ordini muti, per chiamare soccorsi, cominciare ostilità, dirigere artiglierie e simili, (1) nacque occasione di far palese l’imparzialità de’ pubblici decreti, e la propria. Una delle navi bloccanti il mare ligustico, armata di 64 cannoni, presentossi in fuori dell’isola Palmaria tutta disposta ad entrare nel Golfo. Una fumata l’ammonì di non farlo, ma proseguendo a far vela si vide tante palle dalle contrapposte batterie cadérsi d’intorno, che virando di bordo si allontanò. Poco di poi un corsaro francese assoldò marinai segretamente nel golfo, il che le leggi di neutralità vietavano, ma non fu lasciato partire, le miccie accese e toltogli il timone finché non ebbe tutti dimessi i nativi del golfo. Ad un proclama di Paoli che ingiungeva a’ suoi corsari di abbruciare quante prede facessero, non si rispose; ma il Ministro britannico ebbe l’onoratezza di biasimarlo, e d’ingiungere che non si trasgredissero le buone usanze e le leggi de’ popoli cristiani e culti. L’adunanza del Minor Consiglio tenuta il dì 14 di luglio 1794 è memorabile per essere stata la prima, in che si pronun- (1) Havvene ancora una copia trascritta dal Sig. Commendatore Marcello Staglieno, figlio del comandante del Forte di S. Maria, giovanissimo allora e di grand’aspettazione, oggidì Consigliere di Stato. <1 — 31 — zio il nome del Generale Bonaparte, quel nome che doveva indi a poco, di sé, delle incredibili sue avventure nella prospera e nell’avversa fortuna empiere il Mondo. Scriveva a dì undici il M.co Vincenzo Spinola, che il rappresentante Ricord (soleva la Convenzione mandare suoi Rappresentanti quasi censori e giudici de’ Generali) che il rappresentante Ricord si era abboccato seco lui in S. Remo avendo seco il Generale Bonaparte. Questi era un giovane di nazione Corso, di grandissima aspettazione, che più. di tutti aveva cooperato all’inopinato racquisto di Tolone, e che non solo per questo ma per qualità straordinarie e anche per non so che di riservato e di fiero era in somma stima appresso tutto l’esercito, benché semplice e nuovo Generale di artiglieria. Checché dissimulasse, noi credeva propenso a’ Genovesi. Ora ambedue, il Rappresentante e il Generale, si erano seco lui dolsi delle persecuzioni che soffrivano in Genova gli amici della Francia, onde per queste o per altre ragioni assai, il Governo invece di imparziale neutralità mostrava una evidente propensione a’ Coalizzati. E rispondendo lo Spinola essere le inclinazioni libere in Genova, inqui-rirsi soltanto i discorsi e le azioni gravemente sospette, Bonaparte lo interruppe con dire: Bene sta che giustifichiate il vostro Governo, ma pur dovreste sapere, che sospetto gli siete anche voi. Poi trascorrendo di uno ad altro proposito: Non è più tempo, aggiunse, di starsene isolati e sperar di camparsela per via di sottigliezze; la vostra Repubblica oppressa con mostruose violenze e acerbissimo blocco da’ Coalizzati, non puote uscirne che in questi due modi: o collegarsi colla Danimarca e la Svezia per difendere i vilipesi diritti de’ Neutrali, o meglio far causa comune con la Repubblica Francese, protettrice validissima della Vostra. — Le prime trattative di Bonaparte co’ forestieri sono degnissime di attenzione, e questa fu, s’io non erro, la prima di esse. Si lesse in Consiglio quale Spinola la riferì, e trovandomi io alla Spezia, un amico mio di illibata delicatezza la trascrisse sullo stesso quaderno, ch’io lo aveva pregato di con- tinuare. Altronde lo stile di Napoleone vi spicca a chiare note, e il cenno dato sulle Potenze neutrali del Nord è cosa tutta da lui. Sembrami quasi inutile il dire che il rappresentante Ricord procurava con gli atti di moderare la foga del giovane Guerriero, e chiudeva la conferenza restringendosi alla domanda di una esatta neutralità. Probabilmente ei giudicava non potersi domandare di più in un tempo che risoluti gli Austriaci ad ajutare con grand’efficacia il pericolante Piemonte, siepe e cortina de’ lor dominj in Italia, avevano conchiuso il trattato di Valencienne col Re di Sardegna, e avviato un forte esercito alle provincie di Alessandria e di Acqui. Ciò risaputo i Francesi s’inoltrarono a Finale, i loro nemici a Dego su le falde de’ monti che menano a Savona. Si avvicinarono per combattere; si disgiunsero dopo incerta battaglia; i Francesi occuparono Dego, ma poco di poi l’abbandonarono ritirandosi verso Savona. Dubitando il Governatore Orazio Doria di qualche violenza, fece chiudere le porte della città. Strepitavano quelli al di fuori fracidi d’acqua e di loto, stanchi dall’aspro cammino, e feriti non pochi; sopra tutti fremeva Napoleone Bonaparte generale di artiglieria sotto il generalissimo Du Morbion. Certo è per altro che avrebbero trovato alloggio senza entrare in città negli aperti sobborghi, e alquanto più lungi a Vado, ma rifiniti non potevano, o non volevano maliziosi. Dopo lungo aspettare qualcheduno, se ufiziale o di toga non so, trovò le chiavi mal custodite e aprì: i soldati entrano a calca e a furore; chi cacciasi nelle botteghe, chi sale nel palazzo pretorio disarmandone la piccola guardia dispersa. Un ufiziale con sciabola nuda in pugno cerca a nome il Governatore. Questi che per avventura non era nè un Orazio Coclite romano, nè un antico Doria genovese, si era non so dove nascosto; ritiratosi quindi nella fortezza, il Commissario Cattaneo e il Comandante Domenico Spinola lo indussero a cercare un ricovero più lontano. Calmata intanto la furia e l’appetito francese, Du Morbion si ritrasse a Vado e vi occupò due fortini difesi da poche guardie. Le rimostranze che il Governo ne fece a Parigi, giunsero a — 39 —* un tempo con un avvenimento di tale importanza che non lasciò pur leggerle. Il Capo del Comitato di Salute pubblica, lo spaventaglio di tutti i potentati stranieri e di tutte le oneste famiglie di Francia, Massimiliano Robespierre, ebbro de’ suoi atroci successi, era caduto da qualche tempo in un politico letargo. Destossene più agitato che mai, domandò le teste di parecchi colleghi nella Convenzione e nel Comitato, essi alll’incontro la sua. L’ora del gastigo era venuta. Il sangue di lui e de’ suoi stretti amici inondò quel palco, donde un virtuoso Monarca e due adorabili principesse erano volate al cielo. Questa gran catastrofe seguì ai nove di termidoro, secondo il calendario Re-voluzionario, alli 27 di luglio 1794 secondo il comune. Sperossene in tutta l’Europa un ordine più moderato di cose; ma questa istessa speranza quantunque ragionevole e in parte avverata, riuscì più dannosa che il passato timore. A Genova in luogo del giacobino Tilly succedette Ministro di Francia il cittadino Villars. Era costui un membro, com’essi dicono, dell’Instituto, collaboratore del nuovo dizionario Francese, e tanto o diffuso o distratto, che lungamente incaricato della lettera L, non aveva anco esaurite tutte le voci dotate di quella iniziale. Nel rimanente era uomo, come sogliono essere i letterati, puntiglioso ma di moderati principj, di belle maniere secondate da bella presenza, e dato a nuovi sistemi per calculo o timidezza, non per inclinazione. Accaddero altrove circa il medesimo tempo altre mutazioni di maggior momento. Prese il comando delle forze britanniche nel Mediterraneo l’ammiraglio Hotham che ruppe di poi una squadra francese sulle alture di Noli (1). Al prode Du Morbion, oppresso dall’età e dalle fatiche, sottentrò Kellerman che aveva mietuti in Alsazia e in Savoia alcuni allori favoriti dalle circostanze locali; e all’Austriaco Conte Wallis il Generale Devins salito dagl’infimi gradi della milizia ai più elevati, ma vecchio e non però indurato contro gli strali d’amore. Devins poco badando (1) 13 e 14 marzo 1795. alle proteste della neutralità genovese, che i nemici dell’Austria avevano violata i primi, si aprì con grossa gente il varco a Savona e posevi il suo quartier generale. Così il teatro della guerra fu trasferito nello sterile Genovesato. Questa ben nota sterilità fu cagione probabilmente, che l’Austria desiderosa di alimentare il suo esercito co’ grani marittimi che arrivare sogliono a Genova in gran copia e a giusti prezzi quando è libero il traffico, ottenne dall’Inghilterra l’insperata sospensione del blocco. La benevolenza o l’avversion de’ Potentati ha sempre men forza che il loro interesse. Revocati il blocco e il conseguente divieto, io rassegnai il comando del Golfo. Verso la fine di giugno 1795 Devins pagò la tratta fattagli dall’Ammiraglio Hotham mediante una sanguinosa vittoria, dopo la quale il generale Kellerman si ritrasse in grand’ordine dalla linea di Vado, S. Giacomo e Melogno, presso Savona, a quella del Borghetto presso Albenga, cioè trenta circa miglia indietro. Quantunque il Governatore Doria fosse ritornato a Savona, parve nondimeno opportuno di accreditare un Deputato straordinario presso il vincitore, e fu il M.co Stefano Rivarola, stato già Ministro in Russia. Avevano ambedue molto da fare; perocché pretendendo i Tedeschi ragion di dominio sopra tutto il territorio neutrale ritolto a’ loro nemici, esercitavano tutti gli atti di sovranità che stimavano di lor convenienza. Ponevano presidio ne’ fortini di Vado, davano a’ naviganti distrittuali delle patenti in corso contro i Francesi, impedivano ogni traffico di là dalle linee loro, e ciò che più era, cominciavano ad innalzare ridotti e scavare approcci dalla parte più debole della fortezza di Savona, scusando questo fatto manifestamente ostile co’ gravi sospetti in che tenevano di Giacobini e marci Francesi, il Commissario Cattaneo e il Comandante Domenico Spinola, accagionandoli che nella ritirata sopra Savona e nella battaglia di Vado, avevano lasciato il Capo battaglione Dupuy, inseguito da forza maggiore, ricoverarsi colla sua gente ne’ fossi della fortezza senza obbligarlo coll’artiglieria a sloggiare; sì ancora perchè — 41 — avevano scoperta o secondo Devins inventata una congiura di dargli in mano la piazza. Il Doria, dunque, e il Rivarola alternavano senza riposo rimostranze, scuse, memorie, visite; ch’è un pesante e increscevole ministero, ma pur non lascia di essere giovevole quand’anche non sembra tale. Accoglievali il Generale cortesemente, come quelli che si sapevano inclinati alla parte austriaca, e ch’erano forse più solleciti di vezzeggiarlo che contraddirgli; il che per altro non intendo di affermare, e affermandolo ancora, non condannerei. Per colpa sua o del Consiglio Aulico che pretendeva alla distanza di centinaja di miglia regolare i Generali, Devins, nulla valendosi della vittoria, lasciò i Francesi ripigliar animo e forza ne’ lor postamenti; egli stesso cadde ammalato, e trasferitosi a Novi, troppo lontano dal combattuto paese, abbandonò il comando al Generale Wallis. Mutossi egualmente d’altra parte il Comandante Generale, e Scherer, già sperimentato nelle guerre di Germania e di Spagna, fece quello che gli Austriaci avrebbero dovuto lungamente fare, assalendo i nemici prima che lasciarsi assalire. La vittoria di Loano ottenuta li 22 di novembre cacciò nuovamente i Tedeschi e i Piemontesi di là da’ monti. I vincitori 'racquistarono tutta quanta la Riviera di ponente, ma non serbarono la temperanza e la modestia di prima. Come la fortuna fu varia quest’anno ne’ militari successi, così niente meno ne’ politici; e piegò finalmente dall’istessa parte. Quantunque dagli Inglesi ottenesse una larga annuità in danaro mediante il trattato delli 19 aprile 1794, la Prussia incostante sottoscrisse il 5 aprile del 1795 a Basilea la pace sua colla Francia, e non che la Sassonia e il Principato d’Assia-Cassel, ma l’Elettorato di Annover tutto che sottoposto alla Casa Regnante d’Inghilterra, seguitarono gli esempi della Prussia. Il Gran Duca di Toscana, principe Austriaco, gli avea prevenuti li 3 febbrajo, e imitolli anch’essa alli 22 di luglio la Spagna. Quest’antica nemica della Revoluzione francese, che non pativa neutrali, le cui navi da guerra avevano due anni addietro minacciato ferro e fuoco a Genova, in pena della sua neutralità, 42 — le propose allora di chiudere i suoi porti agl’inglesi, di lasciarsi da lei guidare nella nuova via in che si era posta, e di voler esser sotto la sua direzione il primo anello di una lega Gallo ispana, più potente e più felice ancora di quella, che gli aveva congiunti cinquantanni addietro. Queste cose uniformemente scrivevano da Madrid il Celesia per insinuazione del primo Ministro, e da Basilea l’Assereto per consiglio di D. Domingo Yriarte plenipotenziario nella pace de’ cinque aprile. All’Yriarte era commesso di proporre simili cose alla Corte di Torino, d’ingiungerle alla piccola Corte di Parma; e la vanità di D. Emanuele Godoi, fatto Primo Ministro dall’imbecille Carlo IV, poi Duca d’Alcudia, Principe della pace e arbitro del sangue spagnuolo, compia-cevasi, come il moscerin della favola, nell’immaginazione di far voltare il carro della fortuna a suo piacimento. Non era anco estinta in alcune Case principali di Genova l’antica affezione e riverenza al nome Spagnuolo; ma quello che le precedenti minaccie non avevano potuto fare, queste inopinate proposte lo fecero; ognuno conobbe che un qualche calcio potrebbe riceversi dal tracotante favorito, bene nessuno. È da notare, che quando la Eepubblica vide a Basilea fermarsi due paci di tanto momento, e i Plenipotenziarj tratte-nervisi ancora, mandowi a residenza l’incaricato d’affari a Torino Sig.r Giuseppe Assereto, e alla Corte piemontese deputò il Sig.r Franco Bonelli, educati ambedue nelle Segreterie del Governo, e degnissimi di qualunque grado eminente, più caldo d’animo il primo e di aspetto più signorile il secondo. Intanto la Convenzione di Francia aveva deposto il suo scettro di piombo; e a lei succedeva (28 ottobre 1795), giusta una nuova legge intitolata la Costituzione dell’anno terzo, una Eepubblica popolare, ove l’autorità di far leggi era commessa a due numerosi e separati Consigli, e il potere di esecuzione a un Direttorio o Magistrato di Cinque, numero troppo grande in tanta elevatezza per mantenere unione, e troppo piccolo per voler libertà. Sogliono i Potenti di fresca data peccare d’orgoglio. Laonde il Direttorio, circondato da pompa più che regale, — 43 — fece chiamare a se, verso la metà di gennajo 1796, il piccolo Ministro Boccardo. La prima udienza tutta versò in rimestare le offese già digerite dal Comitato di Salute pubblica, cioè la « Modesta » indifesa, la neutralità trasgredita, gli Austriaci corteggiati quando vincitori, e compatiti quando vinti. Vi si aggiunse in fine il rimprovero di un colpo di mitraglia che una batteria di mare aveva sparato contro un Corsaro francese vicino a predare un legno sardo poco lungi dal lido. Il tiro provava la vicinanza. L’ultimo dì di gennajo Boccardo fu nuovamente chiamato al Lucemburgo palagio de’ Direttori. Tutti i Pentarchi, tutti i Ministri erano presenti. Uno di loro disse che ogni passata offesa, ogni sospetto si porrebbe in oblio sì veramente, che la Repubblica Genovese, la quale fìn’ora giocava a parole, dimostrasse co’ fatti la sua amicizia e devozione verso la Francia. Staccasse dall’immense ricchezze nel suo grembo accumulate un trenta milioni di lire necessarj all’imminente campagna d’Italia; e acquisterebbe alla prossima pace Oneglia, Loano, e i feudi imperiali. Schermissi il Ministro come seppe il meglio, ma dovè promettere di spedirne per espresso l’avviso. LTn altro n’ebbe il Villars, e venne a palagio esponendo che altri accetterebbe quello che i Genovesi ricusassero, l’esercito affamato farebbe d’ogni erba fascio, e l’avveduto Piemonte entrerebbe con generale consentimento al possesso di quanto bramava da lunghissimi anni, un facile e largo passo al mare. La risposta che diede il Governo fu quella che avea già dato il Boccardo; obbligo di neutralità dopo tante dichiarazioni; povertà del pubblico erario; libertà de’ privati in disporre del loro contante, profitti esagerati del traffico, perdite non calcolate; ferma speranza nella giustizia e bontà della Francia, e nella disciplina de’ suoi eserciti vittoriosi. Il buon Villars pareva persuaso; ma sostituito gli venne Cacaut già Ministro a Napoli; e Cacaut ristrinse la domanda a cinque milioni. Sapevasi ogni cosa a Torino e a Milano, talché ne partirono pubblici Agenti con incarico d’inanimire il Governo — 44 — a un costante rifiuto; e fu dato. Chi avrebbe mai preveduto che un siffatto rifiuto, tanto conforme a i proclamati principj, tanto desiderato dagli Austro-sardi e lodato da loro, sarebbe cagione della conquista d’Italia? Il provetto Scherer, autore di un costosissimo progetto per quell’impresa, non volle senza i richiesti danari e apparecchi tentarla, e il Direttorio che la voleva ad ogni modo, quantunque nulla ottenesse da Genova, nulla potesse mandar dalla Francia afflitta oltre a’ passati disordini da una gran carestia, elesse pur ben volentieri in sua vece il giovane General Bonaparte già chiaro a Tolone, già vincitore di due contrarie sommosse in Parigi, già pratico de’ luoghi e degli uomini della Liguria e dell’esercito, il quale domandava non fortezze alle spalle, non danari, nè forniture, ma solo un’autorità suprema e indipendente da chicchessia. Voce ne arrivò che la novella sua Sposa gli procacciasse il favore del licenzioso Direttore Barras; ma i Corsi non comprano gradi a costo dell’onore, e Giuseppina Tascher vedova di Beauharnais aveva a quell’ora più grazia e leggiadria che gioventù e bellezza. Napoleone Bonaparte fa sempre sensibile tra per carattere e per vanità alle grazie condite co’ modi del sobborgo San Germano, Barras airineontro, provenzale di nascita, e visconte di titolo, n’era già annoiato. Ciò che sarebbe riuscito a Scherer co’ cinque milioni de’ Genovesi, si può soltanto conghietturare dalla sua indolenza dopo il fatto di Loano; quello all’incontro che Bonaparte farebbe, si cominciò a pronosticare fino dal suo primo proclama all’esercito sul fine del mese di marzo. « Soldati » — disse loro — « aveste fin qui penuria di tutto, di vestiti, di scarpe, perfino di pane; la Francia oppressa da una gran carestia non può mandarvene; Genova non vuole; ebbene seguitemi! via da questi sterili monti! Varcateli meco animosamente: io vi condurrò in una bellissima e immensa pianura. Non resisteranno i Coalizzati al coraggio francese, al mio colpo d’occhio; e le più fertili provincie del mondo, le più ricche città vi daranno tutto quanto vi manca, e molto più ancora ». — 45 — L’esercito ch’egli animava così all’occupazione dell’Italia era di 30.000 uomini, pari in numero per una strana combinazione a quello che Alessandro il Macedone condusse alla conquista dell’Asia (1). Il Generale Beaulieu, successore del malaticcio e scoraggiato Devins, non ne aveva quanti già i Persiani, ma pure secondo alcuni scrittori gli Austriaci sotto gl’immediati suoi ordini sommavano a 45.000, e i Piemontesi sotto il comando immediato di Colli milanese erano 25.000; altri all’incontro riducono l’intero numero a quarantotto mila combattenti, e sembrami più verosimile. Montenotte sopra una schiena di monte, che domina il Santuario di Savona, Millesimo, e Dego furono i luoghi aspri e difficili, ove i confederati vennero assaliti, rotti e separati gli uni dagli altri; gli Austriaci ripassarono il Po; i Piemontesi toccarono un’altra batosta a Mondovì, e il mese di aprile anzi due sole settimane bastarono a tanto. Non tacerò come l’incaricato Bonelli predisse in certa guisa l’evento, scrivendo verso il fine di marzo, essere gli Austriaci male in ordine e incompleti, i Piemontesi disponibili in battaglia non più di sedici mila. Dopo la ritirata di Mondovì, il Ministero di Torino, quello stesso che tante volte aveva esortata, rampognata, angustiata la vicina Repubblica, persuase al Re Vittorio Amedeo Terzo di abbandonare la lega; e tosto ottenne un armistizio da Bonaparte a Cherasco cedendogli Cuneo, Tortona, Ceva, e il passo del Po sopra Valenza. Nel medesimo tempo mandò due Commissarj a Genova per un accordo difìnitivo col Ministro Fay-poult successore di Cacaut; e costui protestandosi di non averne mandato, corsero i Commissarj a Parigi, e vi sottoscrissero alli quindici di maggio una pace, che oltre alla perpetua rinuncia della Contea di Nizza e della Savoia consentiva in parte ad atterrare, ed in parte metteva in deposito presso a’ Francesi tutte le fortezze del Piemonte, salvo la Cittadella di Torino, con questa condizione di più, gravida di future querele e pretensioni, (1) L’esercito francese, quando Napoleone ne prese il comando, aveva 25.000 fanti, 2.500 cavalli, 2.500 artiglieri. V.: Salvando, Repertorio di utili cognizioni, T. VII, 172. — 46 — di dover pagare le taglie militari, prestar viveri e fieni secondo il bisogno. Da Torino l’incaricato Bonelli, da Parigi il Ministro Boccardo danno contezza dell’accaduto, e il secondo soggiunge di averne già toccato con mani gli effetti nelle sue trattative col Direttorio, il quale sul bel principio di Aprile, rinnovate le istanze per un sussidio in danaro, avevagli additata la carta dell’Italia, dicendogli: — Non tardate a sovvenirci e quanto costì chiederete, vi si darà; è tempo che Genova risorga all’antica grandezza. — Ma non così al presente; sono brevi l’udienze, l’ac-coglienze sostenute; e come esso Ministro aveva scritto in tempo, che simile occasione d'ingrandimento non si troverebbe mai più, così oggi mai poteva affermare, che sì bella occasione era irrevocabilmente perduta. Profonda fu l’impressione che questo Dispaccio produsse nella maggior parte de’ Consiglieri; tanto che parve ai Serenissimi Collegj di non doverla trascurare; e fecero leggere una scrittura contenente, che la Repubblica godeva da lungo tempo quella moderata felicità la quale appagar debbe il pubblico e il privato; non essere un soverchio ingrandimento adattato alla sua Costituzione; stare il futuro impenetrabile negli arcani della Provvidenza, ma comunque ei sia per riuscire, almeno non si potrà mai accusare la Repubblica di avere cooperato con imprudenti sussidj alla rovina de’ suoi vicini, e alla conquista dell’Italia. Aver ella conservata mediante una costante e armata neutralità, non che la città Capitale, ma tutte le chiavi principali dello Stato, il Castello di Yentimiglia, il forte di S. Remo, la cittadella di Savona, e la rocca di Gavi, e conservarle ancora; mentre una contraria politica le fa perder tutte a un principe tanto più potente; doversi adunque invece di spargere al vento querele e voti, consolarsi più tosto nella considerazione, che se l’orizzonte oggi s’annebbia, superate si sono maggiori procelle, e mantenuta al nome Genovese l’antica fama di lealtà e d’onore. Vero essere che Nizza in mano de’ Francesi diventerà fiorente, che privo il Piemonte di quella comunicazione al mare, moverà terra e cielo per far porto in Oneglia; ma avvenga che — 47 — può, il porto di Genova sarà sempre dopo Marsiglia la scala più viva e frequentata del Mediterraneo. Non erano gli animi ancor confortati da queste ingegnose riflessioni, forse più ingegnose che vere, quando Boccardo risci isse aver risaputo, che il Direttorio voleva intromettersi qual mediatore intorno alle differenze lungamente agitate fra la Repubblica e il Piemonte. Accettare la mediazione nella prima caldezza del recente trattato sembrava pericoloso, e molto più ancoia il ricusarla. Ma gli andirivieni del Direttorio davano meno a pensare, che i giganteschi progressi del suo Generale, e la militar dittatura ch’egli assumeva in Italia. V olte le spalle al debellato Piemonte, aveva passato il Po a Piacenza, vinto nuovamente Beaulieu, venduta la sua amicizia al Duca di Parma per lo prezzo di un milione e mezzo di franchi, al Duca di Modena per sei milioni; dato quindi a’ Milanesi un nazionale governo col peso di venti milioni da ripartirsi sull’intero ducato, occupava Brescia, Verona, e la fortezza di Peschiera sopra i Veneziani che addormentati si erano in una inerme neutralità; toglieva Bologna e Ferrara a Pio e per una tregua, non pace, quello altre volte sì coraggioso e magnanimo papa gli prometteva 21 milioni di franchi con molti quadri, statue e manoscritti, e cedeva non che le perdute legazioni, ma Faenza ancora e la Cittadella d’Ancona con tutte le sue munizioni. In tanti successi militari e politici, in tanta lontananza dal primo teatro delle sue gesta, l’avventuroso guerriero serbava amaro dispetto contro il Governo di Genova che in niuna occasione avesse giovato alle sue imprese (1), dove tanti altri Stati Italiani, appena veduto il lampo delle sue armi, abbandonavano ogni rispetto di neutralità, di parentela, di alleanza, ogni cura del pubblico e del privato avere. Nec spes dignitatis erat, nec cura peculii. (1) Da Genova credo che s’abbia a cavarne 15 milioni, scriveva al Direttorio il 29 aprile. (Memoires d’un homme d’etat, II[, 336). Laddove un mese e un giorno addietro (28 m.) consiglia vagli di non voler trarne danaro per non inasprire un Governo di più genio e più forza dotato che non si credeva. — 48 — Oltre alle proprie passioni lo stimolavano quelle, fosse ambizione, avarizia, o timore, del Ministro Faypoult residente in Genova, stimolato lui stesso da’ proprj aderenti, e forse ancor dalla moglie, la quale abbigliandosi o piuttosto nudandosi le grosse braccia fino alle spalle, come usavano allora le patriote in Parigi, era sdegnata di aver poche imitatrici, e quelle poche disapprovate. In questo mezzo un’esca a cotanto combustibile si presentò, e fu la seguente. Solevano da qualche tempo i soldati coscritti delle provincie meridionali di Francia trasferirsi all’esercito d'Italia passando per l’Appennino di Genova, ove all’intorno erano feudi e castella appartenenti in gran parte a’ Nobili genovesi, ma sotto il dominio imperiale o sardo. Ora avvenne più volte, che nel passaggio e negli alloggi, in vece di ristoro, que’ poveri giovani soffrirono ingiurie, strapazzi, ferite, e la morte ancora. Nella Fraschetta principalmente, boschiva pianura del territorio di Alessandria, molto sangue si sparse. Ivi nessun Genovese avea domicilio nè possessioni; ma i loro nemici malignamente notavano che i confini di Novi, l’ultime falde dell’Appennino e il castello di Acquata, nido di prezzolati aristocrati e feudo di uno Spinola, n’erano poco lontani. Giudicandone senza passione, non si poteva presumere che tutti que’ giovani viandanti, caldi ancora la mente degli inni e delle imprecazioni rivoluzionarie contro i paesi monarchici ed aristocratici, fossero sempre modesti e temperanti in Italia, non accatta-brighe, non provocatori talvolta, non licenziosi; e nemmeno era da credere che prorompessero tante volte in eccessi quante gli ospiti loro, contrabbandieri non pochi e sbanditi da’ proprj Governi, dicevano; ma il Ministro Faypoult fece un fascio di tutto pretendendo essere questa una congiura più lenta ma nulla meno tremenda degli antichi vespri siciliani, per logorare a mano a mano l’esercito d’Italia privandolo della gioventù destinata a rifornirlo. I nemici del nome francese e della libertà, i feudatarj dell’Austria e del Piemonte essere i consiglieri, ma il motor principale non essere altri che l’incaricato degli affari d’Austria in Genova, il vecchio e scaltro Girola. — 49 — Nacque quest’uomo nelle rive occidentali del Lago Maggiore, venne, come moltissimi de’ suoi paesani, a Genova per cercarvi fortuna, e sposovvi una vedova mediocremente agiata; e ufficioso veiso i viaggiatori austriaci di qualità, ottenne prima l’agenzia de’ tabacchi pel Milanese, poscia del sale, e finalmente credenziali e titolo diplomatico. Io lo conobbi molto innanzi lo scoppio della rivoluzione francese. La sua aperta fisionomia, le sue cortesi e rispettose maniere, la probità intemerata che sempre rifulse in tutti i suoi atti precedenti, non disgiunta da una lieve tinta di ridicolo, che spesso si appicca a chi sale in dignità, senza crescere in potere, tutto mi persuade e dimostra, che ei non diede mai ordini nè consigli di sangue o d’altre iniquità; nemico sicuramente della rivoluzione e affezionatissimo all’Austria, avrà tutto al più con discorsi veementi, con lettere e dispacci riscaldati i suoi partigiani, avvisati i Generali e Ministri del suo Principe. Ma tant’è; Faypoult gli dichiarò una guerra a morte, e talmente inasprì contro di lui Bonaparte, che alli 17 di giugno mandò a Genova uno de’ suoi ajutanti con ordine di presentare al Governo adunato una sua lettera, e di aggiungervi qualche militare orazione, domandando senza meno l’arresto o l’espulsione del Ministro Austriaco, l’esemplare gastigo e la revocazione del Governatore di Novi, minacciando orrenda vendetta se più cadesse una stilla di sangue francese nel Genovesato, e offerendo il presidio di due mila soldati per sicurezza della strada e degli alberghi. L’aiutante si chiamava Murat, giovine di bellissima e marziale presenza, se per sembrare più bello e più guerriero non avesse ecceduto nel caricato e teatrale. Il Segretario di Stato riceve da lui la lettera, il Doge su la seggia dorata e i Senatori in cerchio sedenti affisano in lui gli sguardi e tendono l’orecchie inquiete; ma l’insolita pompa, l’alto silenzio gli turbano la mente; poche interrotte voci gli escono di bocca; è confuso, frettoloso esce di sala. Sarebbe inverosimile il fatto, se le memorie di Bourienne, più veridiche che molti non vorrebbono, non facesser fede che Murat nella prima campagna d'Italia mancava di quell’ardore impetuoso, di quell’impavida fronte, onde fu poi sì famoso alla testa della cavalleria francese. — 50 — Senza che bene spesso accade, che l’uomo usato al fischio delle palle, si smarrisca al cospetto di una pacifica e maestosa assemblea, tanto sono diversi i generi del coraggio. Dopo una posata deliberazione i Serenissimi Collegj risposero, che rivocavano il Governatore benché a giudizio loro imparziale, che mandavano essi stessi un nerbo di gente a sicurezza de’ viandanti, e che alla richiesta espulsione sarebbero indifferenti e pronti ancora, qualora eseguir si potesse senza offendere, 11011 che la neutralità, il diritto delle genti. E per mitigare colui che 11011 tollerava facilmente contraddizioni nè indugi, gli deputarono il M.co Francesco Cattaneo giovane d’ingenuo candore e di fede illibata, ma non avverso per sistema a’ Francesi, e conoscente non so come di Saliceti. Quest’altro còrso era Commissario del potere esecutivo presso il Generale in capo, carica una volta superiore a quella de’ Generali stessi, ma il vincitor dell’Italia ne aveva fatto un’ombra ed una mostra vana dell’antico potere. Cattaneo andò di botto a Bologna, ove Napoleone poco innanzi aveva inebbriati gli animi proclamandone l’antica indipendenza; ma già n’era partito alla volta di Livorno, avido di predarvi, benché porto neutrale, tutte le merci appartenenti agli Inglesi, di collocarvi francese presidio, e di spiccarne uno stuolo di Còrsi a sé confidenti che racqui-stassero, com’eseguirono con pari bravura e felicità, quella patria Isola, ove la Signoria britannica era già tanto aborrita, quanto la genovese un giorno. Intervenne a Cattaneo in Livorno lo stesso disappunto che in Bologna, e ripassando per questa città abboc-cossi con D. Giuseppe Nicolò Azara ambasciadore presso la S. Sede. Sembrava in quegli ardui momenti, che il lusinghiero e bonario Spagnolo tenesse ambo le chiavi dell’animo di Bonaparte, il quale cionondimeno, poiché tratto n’ebbe quanto voleva, usogli se non dispregio, certo un’altera noncuranza. L’abboccamento parve sincero. Azara mostrò gran rammarico dell’armistizio fatto dal Papa sotto la sua mediazione, le condizioni del quale eccedevano di gran lunga le forze di Eoma; ma non si era altrimenti potuto moderare l’impetuoso torrente. Non sarà di- versa la sorte del vostro governo. — Ma la neutralità, ma la costanza usata verso i Coalizzati non ostante le passate loro vittorie e la minacciosa presenza delle flotte loro? — Tutto questo è come niente. Udiste l’occupazione di Livorno, tutto che la Toscana fosse neutrale, anzi parziale da qualche tempo a’ Francesi? Ebbene; contate da quella quindici giorni ancora, e siate certi che dopo quel termine dodici mila francesi dalla Toscana e altrettanti dalla Provenza verranno ad unirsi sotto le mura di Genova per imporvi le Leggi che il Generale in capo avrà in piacere. Ottima cosa è che andiate a raggiungerlo ove che sia; ma non è meno importante di spedire al Direttorio con amplissima facoltà un Ministro di più polso che non è il Boccardo. Trovavasi per avventura in Bologna il Commissario Saliceti, ed egli presente o no all’abboccamento, ch’io noi ricordo, confermò pienamente l’avviso di Azara, e suggerì inoltre la scelta del M.co Vincenzo Spinola, il cui leale e generoso procedere nella Riviera di Ponente gli aveva conciliata la stima di tutti i Francesi. Cattaneo così consigliato ne scrisse per espresso al Governo, e solamente a Milano raggiunse Napoleone, le cui accoglienze furono cortesi, le risposte evasive; vero è per altro che il minacciato accampamento sotto le mura di Genova non ebbe effetto. A Genova fu seguitato con numero grande di voti il consiglio di Azara e di Saliceti, quantunque l’autore di queste memorie mettesse in dubbio l’avvedutezza del primo, la sincerità del secondo; e fu lo Spinola eletto Ministro plenipotenziario a Parigi, lasciandovi ancora il Boccardo, non ostante che il suddetto patrizio consigliasse più volte o di non dare compagno e superiore all’antico Ministro, o di rivo-carlo dal Ministero. Convien però dire che, informato il Bonaparte di cotale missione, sospese o fece a Faypoult sospendere ulteriori minaccie. Spinola trovossi a Parigi giusta l’anzianità il quarto di un elettissimo drappello di Ministri e Nobili Italiani; i primi tre erano il Nob. Alvisa Querini per Venezia, il Conte Prospero Balbo per la Sardegna, e D. Neri Corsini per la Toscana, a’ quali si aggiunse poscia il quinto per Napoli, e fu il Principe — 52 — Belmonte Pignatelli. Tutti vivevano in grande agitazione e turbamento per la pretensione del Direttorio, che 1 Italia intera chiudesse i suoi porti agl’inglesi. Il Ministro delle Relazioni esteriori La Croix ne parlò tosto allo Spinola, e veggendo che esso tergiversava mostrandone i manifesti inconvenienti ebbe a dire: Il faut que nous nous expliquions ensemble une bonne fois pour toutes; ma precedette la solenne udienza del dì 20 termidoro. Introdotto il nuovo Ministro alla presenza dé’ boriosi Pentarchi, toccò apertamente gli atti cortesi e generosi tenuti verso i Francesi; ma il presidente La Reveilliere Lepaux gli rispose con'espressioni non tanto gentili e grate, quante Saliceti e anche Faypoult avevano dato a sperare. A quest’arida cerimonia tenne dietro la conferenza promessa o minacciata piuttosto dal tracotante La Croix, e pose queste basi: I. La tollerata manpresa della « Modesta » imperdonabile senza l’ammenda di quattordici milioni. — II. Abbruciamelo di tutti i processi instituit! contro gli amatori della Francia e de’ suoi principj politici. — III. Disposizioni penali o divieto almeno da’ pubblici ufìzj verso coloro che le sono o saranno nimici. — IV. Cessione del Golfo della Spezia o di quello di Vado sino a guerra finita. V. Chiusura di tutti i porti a tutti i legni Inglesi. A dì nove settembre si ricevette il dispaccio che conteneva l’antidetta barbarica capitolazione. Agli undici strepito improvviso di artiglieria, voci di popolo vaghe, ansiose, contradditorie; e poco dopo giunge al Governo un rapporto del Comandante della Lanterna di Genova che narra, come alcune lance o palischermi inglesi protetti da una nave da guerra e da una fregata testé uscite dal porto sull’albeggiare, hanno afferrato al lido di S. Pier d’Arena e predatovi non ostante il fuoco vivo di una piccola batteria, una tartana francese carica di polvere sulfurea; le batterie più vicine della Lanterna, le più lontane del Molo vecchio e di Carignano spararono ma senza, effetto; gli Inglesi si allargarono in alto mare con la preda. Compiegasi biglietto del Commissario Ordinatore francese al Comandante della Lanterna, contenente aspre querele sulla tardanza e inefficacia delle bat- terie. Egli si discolpa con la sicurezza e fiducia ispiratagli dalla parola di onore che i Comandanti delle navi e delle lancie gli avevano data innanzi alla loro partenza di non commettere ostilità se non dopo 24 ore, e lungi dal tiro delle batterie. Faypoult indirizza una calda domanda che si confischino a prò della Francia i legni inglesi nel porto, e d’ora innanzi sia vietato ogni accesso, ogni ricovero all’ostile bandiera. Al Console inglese si portano doglianze, ch’egli ribatte querelandosi dell’attentato benché impotente contro delle regie lance, a null’altro intese, che a ripigliarne un’altra rapita da certi lor marinai colpevoli di tradimento e diserzione. Non potendola cogliere perch’era già in secco e assaliti da una grandine di palle s’impadronirono della pericolosa tartana che l’Ammiraglio Nelson farà restituire,, ricevuta che abbia una condegna soddisfazione. Non è ancor letta la nota inglese, che sopraggiunge un rapporto dell’Ufiziale di guardia al Ponte Reale. Quest’ampio scalo che con altri minori si chiama ponte da’ Genovesi, è quello ove i palischermi forestieri sogliono afferrare, e i marinari, raccomandato il canape a un anello di ferro, vanno su e in giù a diporto. Ora l’Ufiziale della compagnia volontaria de’ Merciaj deputata in quel dì a guernire la porta d’onde s’entra in città, riferiva che un marinaro di una lancia francese essendo venuto a parole con un inglese a proposito del fatto surriferito, vicino alla sentinella, avea questa intimato che si acquetassero. Irritato il francese, aveva tratto fuora una pistola e sparatala contro senz’alcun effetto. Allora la guardia fece fuoco, e l’insolente marinaro cadde a terra mortalmente ferito. Scrive all’incontro Faypoult non essere questo un militare risentimento, ma un vile assassinio commesso da un Corpo i cui sentimenti a favor degli Inglesi sono ben noti. Ne seguirà uno scempio, se in ammenda del fatto, gl’inglesi non vengono esclusi da tutti i porti della Repubblica, e quelli che già vi dimorano arrestati e disarmati non sono, come più e più volte e sempre inutilmente ha domandato. Non trovando altra via a placarlo, ragguagliati oltre a ciò che il Piemonte non contento alla pace, sta nego- ziando una Lega, accondiscendono alla confisca non già, ma sì al sequestro de’ legni mercantili inglesi e al divieto per quelli da guerra. Essendo la materia gravissima, il Minore Consiglio discute in altra adunanza, e conferma il decreto con voti favorevoli 121 e contrari 39. Era questo, dopo il rotto equilibrio, un primo passo da insuperabile necessità sospinto. Il M.co Vincenzo Spinola fece il secondo, sottoscrivendo il dì nove di ottobre una convenzione in parola segreta, in effetto divolgatissima, secondo la quale il divieto de’ porti agli Inglesi si prolungava sino alla pace marittima; ne’ luoghi importanti della Liguria, ove non fosse Genovese presidio, potevano collocar guarnigione i Francesi; questi promettevano di difendere Genova se la Gran Brettagna le intimasse guerra, di conservare nella loro integrità i suoi dominj a norma degli antici trattati, farli liberi e sicuri da qualunque pretensione del Germanico impero, agevolarle la pace colle reggenze barbaresche, entrar mediatori delle sue differenze colla Sardegna, e per tante prove di benevolenza e d’amicizia la Repubblica lor pagherebbe in brevissimi termini quattro milioni di franchi, due in dono e due in prestito, da restituirsi alla pace generale; annullerebbe inoltre i procèssi fatti ai suoi cittadini e suggetti per opinioni, parole o scritti politici; e i Patrizi per somiglianti cagioni esclusi dal maggiore e minore Consiglio, ve li ammetterebbe di nuovo nelle forme prescritte dalle leggi fondamentali. Lunga opposizione in più conferenze fece lo Spinola a simile accordo; ne ottenne diverse modificazioni; e finalmente prese la penna e segnò. Le strette di cuore che egli soffrì in quel punto e lungamente appresso, non si possono esprimere; perocch’egli aveva una mente così perspicace da vedere il più delle volte bene, e un animo così delicato che sempre temeva di aver veduto male. — Non ho fatto quello ch’era mio desiderio e speranza; ma veramente non ho potuto far più — così egli scriveva alli 19 di ottobre; e l’affermativa dell’uomo dabbene contribuì non poco alla ratifica dell’atto, quantunque nell’originale — 55 — consegnato dal Direttorio non si leggesse la promessa di garanzia secondo gli antichi trattati. La ratifica fu dunque condizionale; ma un esemplare più corretto non riparò mai all’omissione; appena appena una nota diplomatica ne fè parola. Ciò non ostante il trattato fu tenuto per valido; però che quando le assemblee deliberanti vanno un tratto per la china non c’è modo di trattenerle. Gli animi più avversi alle cose francesi erano i più corrivi a conchiuderlo e farlo osservare, avendo forse bisogno di sperare qualche cosa in un viluppo di avvenimenti che davano tutto a temere. E di vero, fuori della Germania che l’Arciduca Carlo aveva liberata con mirabil valore e senno da cencinquantamila Francesi comandati in parte da Jourdan e in parte da Moreau, niente accadeva nel continente europeo che non cooperasse alla grandezza e prepotenza francese. Spiccatasi la Prussia da’ contratti legami favoriva indirettamente la Francia per acquistare più stati e più influenza; il Principe della Pace sottoscriveva l’accordo di S. Ildefonso che avvolgeva la Spagna in una guerra inevitabilmente funesta con l’Inghilterra, e in un’empia coalizione contro il Portogallo; l’Inghilterra, perduta la Corsica, richiamava le sue squadre dal Mediterraneo, per opporle nell’Oceano a una temuta invasione in Irlanda; e nel medesimo tempo quasi segretamente a Basilea per mezzo di Wickham, poi apertamente con l’imbasciata di Lord Malmesbury a Parigi, palesava il desiderio, fìnto o sincero di convenirsi; l’Austria già dubitava e prima il Conte Collowrath Ministro di Stato, poi anche il barone Thugut Ministro degli Affari esteri, inclinavano a mutar politica; soltanto la ratteneva l’alleanza o il timore piuttosto di Caterina II imperadrice di Russia, nimicissima della rivoluzione, e dopo i soggiogati Polacchi prontissima a combatterla, quando seppesi a un tratto ch’era passata di vita, lasciando sulla sua tavola una minuta di convenzione coll’Inghilterra giusta la quale essa obbligavasi a spingere sul teatro della guerra sessanta mila Russi. Ma essa era ancora in vita al tempo della convenzione di Genova; Alvinzy generale — 56 — ungherese, guidava cinquanta mila uomini al soccorso di Mantova, ove il Maresciallo Wurmser si era rinchiuso dopo una seconda sconfitta a Castiglione; Napoli e Roma sembravano pentiti de’ loro armistizi; al Re Vittorio Amedeo III consunto dai dispiaceri (16 ottobre) era succeduto Carlo Emanuele IV cognato dell’infelicissimo Luigi XVI, e non si conoscevano ancora le sue segrete disposizioni. Tutto ciò fu cagione, che a quatti o milioni si riducessero i dieci e i quindici richiesti da prima; che non s’insistesse sulla somma de’ feudi imperiali, e appresso che rinnovati secondo la legge annuale i Consiglj della Repubblica, e non ammessivi per mancanza di voti i Patrizj sospetti d inclinazione alle novità francesi, si tollerasse. Dotati di quella prudenza che manca sovente ne’ buoni, Faypoult e Bonaparte così scrivevano: « Il Ministro al Generale al dì 7 di ottobre. « Avemmo de’ rovesci in Germania e l’effetto morale di quelli in Italia equivale a una effettiva diminuzione di forze---- Oserei consigliarvi, Cittadin Generale, di non tentare verun mutamento politico in Genova. Se voi perseverate in tentai lo, avrete a fare due assedj ad un tempo, quello di Mantova e l’altro niente meno malagevole di Genova ». Il dì seguente Bonaparte al Direttorio: « Credete a me, cittadini Direttori, non potremo prendere Mantova prima del mese di febbrajo vegnente; laonde la nostra posizione in Italia è sempre incerta: e il nostro sistema politico è difettoso. Credo pertanto che la pace con Napoli ci sia indispensabile, e un’alleanza con Genova e conia Corte di Torino necessaria». Tale fu la fine dell’anno 1796, che vide un giovane Còrso sollevato a un’altezza di gloria non mai più superata, e vide gli Stati Italiani, piccoli e grandi, precipitati in fondo d’ogni miseria e in giusta apprensione di mali maggiori. Un raggio di consolazione balenò col nuovo anno; perocché il barone d’Alvinzy, prode ungherese, conduceva un nuovo esercito austriaco contro le schiere vittoriose sì, ma spossate e sminuite di Francia, confidando di passare su i loro cadaveri alla liberazione di Mantova e di Wurmser. — 57 — Non già che di gran beni si potessero aspettare dall’Austria sempre a cavallo sull’eredità degli Ottoni e di Carlo Magno; ma facevano come que’ malati cronici i quali non potendo più reggere dal dolore sopra di un lato, sospirano il momento di essere voltati dall’altro, benché sicuri di pari tormento. L’effimera speranza si dileguò rattamente. Valoroso l’Alvinzy, ma credulo e forse tradito dal Capo del suo Stato maggiore, mal corrispose a’ primi sorrisi della fortuna; talché perdute le celebri e contrastate giornate d’Arcole e Rivoli, dovè ricondurre gli avanzi della sua gente dietro l’Alpi noriche e tirolesi. Mantova e Wurmser si arrenderono alli 2 di febbrajo. L’Arciduca Carlo, il vincitore di Jourdan e di Moreau, il liberatore della Germania, sperò di rinvigorire l’esercito due volte sconfitto in Italia. Vana speranza! Bonaparte cacciollo da luogo a luogo, dal Friuli nel Carnio, nella Carinzia, in Stiria, e fino in Austria. Un armistizio di sei giorni gli fu conceduto a Judemburg; e poco lontano da Vienna, nel borgo di Leoben, Bonaparte per Francia, e il Marchese del Gallo am-basciadore di Napoli col Generale conte Meerfeld per l’Austria a dì 18 di aprile sottoscrissero gli articoli preliminari di pace che rimasero lungamente segreti. Questa non era l’intenzione del Direttorio. Avendo con grandissimo sforzo riparate le perdite degli eserciti del Reno e di Sambra e Mosa, mantenuto al comando del primo Moreau la cui ritirata era riuscita più ammirabile di una vittoria, e collocato alla testa dell’altro il giovane Hoche, generale per ogni titolo superiore a Jourdan, ei non dubitava che si darebbono fra breve tempo la mano col trionfante esercito d’Italia, immensa piena da rovesciare ogni argine e far barcollare qualunque trono. Il piano strategico non poteva concepirsi più vasto; il politico era, se il militare pienamente riuscisse, di rimuovere l’Austria dal Reno, dal mare e dall’Italia; se non riuscisse che in parte, restituirle la Lombardia per avere d’accordo il Belgio e la frontiera del Reno; lasciare in pace i Veneziani, emuli naturali per situazione degli Austriaci, non approvare la lega offensiva e difensiva col Piemonte governato da Re, non dare garanzie 58 — a Genova aristocràtica, arbitro restando e signore dell’uno e dell’altra. Non era dunque il Direttorio sì stolto, come ne ha fama perchè fu disgraziato. Bonaparte all’incontro voleva la gloria di far da. sè solo la pace continentale e di fondare in Italia una nuova repubblica con Milano per capitale, non curando di cedere per compenso all’Austria le provincie migliori della Terraferma veneta, e se occorresse, simile in qualche guisa all’incendiario del tempio di Efeso, sacrificando anche Venezia; voleva in oltre far approvare a’ Consigli la lega da lui convenuta col Ee di Sardegna, tenendo gran conto di un Corpo ausiliario di dieci mila uomini promessigli in caso di nuova guerra; inclinava finalmente a spogliar Genova del Golfo della Spezia per donarlo alla nuova repubblica cisalpina, e probabilmente ancora a togliere qualche parte del litorale a Ponente per accrescerne il nuovo dipartimento di Nizza, o tenere in fede il nuovo alleato. Non era veramente possibile di sospettare in un giovane guerriero di tanto valore tanta doppiezza. La sua forza morale era così gigantesca che il piano del Generale prevalse nelle principali sue parti a quello del suo Governo; il sollecito autore de’ preliminari fu autorizzato a trattare la pace diffinitiva; il pieghevole Clarke più buralista che bellicoso, ch’era da Parigi partito con tale incarico, dovè stargli sotto; Hoche e Moreau veggendosi tolta dinanzi la messe ricca e gloriosa che non potevano altrimenti perdere, ne mormorarono invano; la lega col Piemonte a dispetto de’ suoi revoluzionari venne ratificata, gli Austriaci occuparono senza opposizione le province di là dal Mincio; la Repubblica cisalpina surse, e Venezia tradita cadde senza far cosa che consolasse i suoi amici della sua caduta. Anzi, le lagrime del Doge Manin che andava l’ultimo dì esclamando: « questa notte non saremo più sicuri in letto »; l’in-comprensibile credulità di parecchi graduati Gentiluomini nelle promesse del Segretario francese Villetard; le vigliacche proteste di chi aveva in custodia lagune inaccessibili a un esercito di terra, accelerarono la pubblica rovina senza immediata violenza, senza popolare ribellione, senza garanzia nè accordo veruno con — 59 — tutte e (lue o una sola almeno delle potenze pacificate, non ostante i saggi avvisi del N. H. Grimani ambasciadore a Vienna, che penetrava l’arcane pratiche del Ministro Thugut con Bonaparte. Videsi dunque, oh rammarico! oh scorno! un governo indipendente da XII secoli con volontario decreto cedere il luogo a una Municipalità, il cui titolo subordinato era già una tacita rinunzia alla dignità sovrana. Or che sarà di Genova? si domandava in tutta l’Italia. Ad ogni scadenza, a qualunque richiesta del Ministro Faypoult, essa pagava le promesse rate sopra i due primi milioni, supplendo al povero e impoverito erario con un imprestito coattivo proporzionato alla pigione o al valor delle case, quelle al di sotto di dugento lire esenti. Già più non restava che l’ultimo quartale, e il procedere del Ministro mutava colore. Se qualche genovese, e i giovani più favoriti dalla natura erano allora del numero, palesavano negli atti o ne’ sollazzi qualche inclinazione agli Austriaci, Faypoult si lagnava degli Inquisitori di Stato come sovvertitori della pubblica opinione; se altri si mostravano non amatori di Francia, ma sì delle massime Robesperriane in Francia stesse abborrite, trovavano protezione in casa dell’inviato; per il che fu eletto Vice-Console di Francia alla Spezia un Federici, che aveva posto il nome di Robespierre al proprio figliuolo; fu data la mappa tricolore e il titolo di farmacista della Nazione ad un certo Morando buon chimico e farmacista siccome il Dandolo in Venezia, ma in politica ignorantissimo, la bottega del quale era il ricetto ove leggevasi ad alta voce le gazzette francesi, e con più piacere dell’altre le più veementi; uomini espulsi da Napoli e dalla Lombardia, a’ quali il Magistrato negava la permissione di una lunga dimora, trovavano raccomandazioni, tutela, sussidj, e disubbidivano a man salva; le gazzette stampate a Milano, sparlavano con la sola libertà concessa a’ Milanesi, del governo genovese e degli odiati Patrizj, l’opinione del volgo se ne corrompeva incredibilmente; talché si udirono le lavandaie del Bisagno furiose lagnarsi, quasi lor ne toccasse, di un decreto correzionale sopra l’indecenza del vestire le donne alla moda di — 60 — Francia, nude affatto le braccia e coperte appena la vita da un serico velame; intesi io stesso in pubblica via persone civilmente educate, ma nuove ancora agli eccessi della stampa, pendere incerte fra le accuse stampate a Milano e l’integrità di un illustre e ricco patrizio che morì quasi povero per soccorrere altrui. Scrivevasi a tarda notte su’ cantoni delle case i nomi seducenti di libertà, eguaglianza; s’intonavano alla sfuggita le canzoni revoluzionarie; le mappe nere al cappello come segnale d’imperialità e aristocrazia, si mettevano quasi pubblicamente in dileggio; fischi e minaccie a chi le portava. Con tutti questi indizi di sovversione politica contrastavano mirabilmente il lusso sfoggiato dal mondo donnesco ne’ pubblici passeggi, l’avviamento delle officine, lo splendore delle botteghe, la copia infinita di merci in porto franco; i larghi guadagni della navigazione, le case di negozio, le famiglie di negozianti stranieri qui trasferiti; e le derrate dell’Asia e dell’America per via di Costantinopoli, di Cadice, di Lisbona, di Amsterdam e di Londra qui aspettate o già introdotte senza concorrenza dall’altre piazze nell’Adriatico mare e nel Mediterraneo, perchè Trieste aveva sostenuto un fiero saccheggio dall’ala destra dell’esercito vittorioso; Venezia tutta sossopra non mandava nè riceveva più nulla; i mercatanti inglesi avevano abbandonato Livorno, e Marsiglia rimarginava a gran pena le ferite avute dal terrorismo. Nella piazza di Banchi facevano tutt’ora crocchio i negozianti Marsigliesi emigrati; e nel gran numero si distingueva se non per copia d’affari, certo per circospezione e saviezza ilSig. Clary abitante .sopra un vicolo vicino al Ponte Reale non lontano da Banchi, in compagnia della sempre modesta e virtuosa sorella. Giuseppe Bonaparte suo sposo novello vi era pur dimorato alquanti mesi innanzi di trasferirsi al quartier generale di Milano. Saliceti tornando di Corsica si era qui abboccato con lui, e alla fine del precedente autunno la moglie stessa del generale in capo, lui assente, e a quel che parve non prevenuto, aveva qui fatto un breve soggiorno, corteggiata da patrizi e dame a ciò deputati, quasi regina. Ma la Faypoult, di maniere troppo dissimili — 61 — a quelle sì nobili e graziose della Giuseppina, non sapeva darsene pace, e Napoleone occupato in belliche imprese non l’approvò. Laonde le persone quiete speravano nelle ricevute accoglienze, le sediziose nella gelosia suscitata e nel biasimo; sì che anche da questo lato l’aspetto di Genova in tutto l’inverno non fu diverso da quello che offre un cielo largamente indorato da vivi raggi del sole, al cui lembo orizzontale s’affaccia un gruppo d’atre nubi. È verosimile che quando Bonaparte ebbe negoziato a modo suo la lega col Piemonte e sottoscritti i preliminarj di Leoben, contemporaneamente all’ultime sue minaccie contro Venezia, si determinasse a turbare secondo il suo piano la prosperità e il bel sereno di Genova sovvertendone il Governo; in parte per assicurarsi le spalle e gratificare l’alleato, in parte ancora per conservare il bramato equilibrio, e continuare l’accorto suo gioco di altalena fra i moderati e giacobini. Ma solo conghietture son queste, essendo la corrispondenza di tutto l’inverno su tale particolare smarrita o rimasta segreta. A me disse dopo il caso più volte, che ogni cosa voleva a suo tempo, e che la revoluzione di Genova erasi fatta innanzi tempo contro sua voglia. Facile a credere il meglio, ammiratore de’ grandi guerrieri tanto celebrati da’ classici autori, pascolo e studio della mia gioventù, preoccupato altresì de’ modi graziosi che usava meco, facendo spesso aspettare i suoi Generali per trattenersi a passeggiare sulla terrazza di Montebello insieme, io gli prestava fede. Ma la pubblicazione della sua corrispondenza inedita (1) mi ha ora persuaso con mio sommo rammarico ch’ei m’ingannava, non so per qual fine, o ch’egli cercava d’ingannare se stesso, quando ebbe veduto i plenipotenziarj dell’Austria turbarsi per tal mutazione non profittevole a lei come la veneta; e vide le conferenze per la pace definitiva ch’ei tanto bramava, sospese. Certa cosa è oggigiorno, avere egli accennato a Faypoult (1) Correspoadence inèdite de Napoléon Bonaparte, Paris. C. L. F. Pankoucke. MDCCCXIX. — (32 — il dì 14 di maggio la sua intenzione di suscitare novità in Genova e di smembrarne il dominio; e il dì 16 al Direttorio: « i voti del popolo si dichiarano sempre più in Genova a favore della Democrazia, non passeranno, cred’io, 10 giorni che questo paese farà come Venezia ». Oltre a ciò dispose, che due divisioni Serrurier e Saupet si avvicinassero alla Liguria, e consigliò all’Ammiraglio Brueys, che armava una forte squadra in Tolone, d’indirizzarsi, quanto prima potesse, al porto di Genova. Il Direttorio gli concedette pieni poteri per Genova come già per Venezia, e a quell’ora non poteva negargli nulla. Da quel punto innanzi l’irresoluto Faypoult diede più forti spinte ai suoi patrioti, più gravi molestie al Governo. Questi o da sè sull’esempio de’ modi praticati con Dracke, o per consiglio di chi credea veder molto bene perchè teneva buona tavola, deputò al Ministro perturbatore due Soggetti del Minore Consiglio con incarico di trattar seco e conferire. Ne godè l’animo al Ministro, e a modo di chi vuol farsi de’ meriti senza vantarsene, se n’espresse con Bonaparte così sotto la data del 21 di maggio: « Questa deputazione, per generale che sia, servirà a stendere un filo che meni il Senato e i Consigli alla riforma inevitabile delle loro leggi con quella celerità o tardanza che può a voi convenire, o Generale, senza dare a divedere alcuna influenza per parte nostra ». Passa quindi a riferire la conferenza avuta quella stessa mattina co’ deputati Sig.ri Gian Luca Durazzo e Francesco Cattaneo, già inviato a Bonaparte, e li deride acerbamente per avere logorato quel tempo più che in discorsi di pubblico interesse, in lamentanze scipite delle calunnie vomitate da’ fogli milanesi; ma ridicole non trova le proprie querele intorno alli tridui dal Governo prescritti per ottenere in tanto frangente la protezione divina, temendo non le novene e i tridui concitassero il popolo contro coloro che gli avevano a scherno. Veramente se altro non fu il soggetto della prima conferenza, non può negarsi che per ambe le parti fu molto meschino. Ma la sera dello stesso giorno le spinte date ai Patrioti produssero effetti di maggiore importanza. 0 dubitassero che da successive confe- — 63 renze qualche accordo nascesse contrario alle lor mire, o come ha il Botta, l’incarcerazione di due loro complici, ch’io non ricordo, sembrasse loro il principio d’una severità più estesa, che bisognava ad ogni costo e subito impedire, o fosse fra essi e Faypoult così stabilito, eglino si ragunarono alla sera del 21 in numero di circa dugento in via Novissima al canto della piazza di S. Siro, e rattenute come per gioco le carrozze reduci dalla passeggiata, costrinsero gli attoniti padroni a scenderne; indi tumultuariamente passarono dinanzi a’ cancelli del palagio reale (cotal titolo aveva la residenza del Doge); e finalmente entrarono al teatro vociferando e cantando a tutta gola le canzoni popolari della Francia. Comprendesi appena come potessero far tanto senza che il Governo lo prevedesse prima, o l’impedisse da poi; ma dopo la caduta di Venezia, persuaso che tutto sarìa indarno, egli erasi fatto per disperazione indolente. Uno degl’inquisitori di Stato, uomo venerabile non che per famiglia, per età, aspetto, saviezza e valore già segnalato contro i pirati africani e i coalizzati del 1746, venne a passare com’era usato la sera co’ miei genitori, dei quali era zio, pensoso sì ma rassegnato; e il togato Generale Paolo Pallavicini che, solito a passare l’estate in campagna, aveva desiderato da me il corrente trimestre che a me toccava per turno, dacché i Generali si scambiavano tutti i tre mesi, non diede la notte ordine alcuno e la mattina appresso non venne a palagio che tardi, uomo non vecchio nè timido, ma neghittoso. Ebbevi ancora chi lusingavasi di scoprire in un primo tumulto i nomi tutti e le macchine de’ malcontenti, e di essere sempre a tempo a reprimerli coll’ajuto del popolo affezionato; « ci son caduti i marroni sul fuoco », disse in quel senso con genovese proverbio un Ex-Doge; illusioni simili a quelle che indi a tre mesi renderono vittima anch’essa della prepotenza e dell’inganno la minorità moderata del Governo francese. Ma non riposarono, la notte, non lasciarono fare i rivoltuosi. Distribuirono armi, posti, coccarde tricolori, guadagnarono o avevano già guadagnato due ufìziali a cui toccava il dì vegnente la guardia alle porte del Molo e di S. Tommaso, e avendo complici — 64 — in tutti i Corpi volontarj della città, più ancora ne arrolarono in quello, un dì sì zelante e benemerito de’ Cadetti, composto in gran parte di orefici e sensali. A queste trame alludeva i] vigilante Faypoult scrivendo: ci fu gran movimento tutta la notte. Alle 10 della mattina si scambiarono le guardie alle porte. Or essendo destinati i Cadetti a rilevare il dì 22 la guardia del Pontereale, nel difilare lungo la loggia di Banchi, fanno a’ loro tamburi e musicanti sonare l’aria feroce del « £a ira, Qa ira, les aristocrates à la Lanterne »; ricevuta la consegna delle porte intuonano l’inno marsigliese « Allons Enfants de la patrie, le jour de gioire est arrivè »; — introducono nel Corpo di guardia nuove forze, vi menano in arresto e ostaggio un patrizio che andava per Sottoriva a Palazzo; occupano il lungo e stretto cammino delle ronde che ha nome di muragliette, e staccati i cannoni co’ loro carretti da due piattaforme vicine li dispongono carichi con le micce accese innanzi alla porta lor confidata. Al dato segno lo squadrone volante de’ patrioti, feccia di gioventù, percorre con istrepito grande i più popolati quartieri della città; aperte per amore o per forza le botteghe degli armajuoli, ne rapisce quante spade e fucili vi trova, e fa il simile nelle piccole armerie de’ Corpi volontarj, poste la maggior parte ne’ chiostri de’ conventi, provvede di quelli chiunque si unisce per via e schiamazza con loro; fraternizza, così chiamavano essere altrui maestri di ribellione, fraternizza, dico, co’ sopradetti Comandanti del Molo vecchio, di S. Tommaso, e forse della Darsena; disarma i piccoli presidi delle porte minori, mette in fuga i riscotitori delle gabelle, abbrucia i loro libri a istanza de’ debitori in mora, ne atterra i casolini, e preso al Pontereale uno de’ cannoni trovati presso al cammin delle ronde, quello strascina a forza di braccia sulla salita di Scurreria con intenzione di scaricarlo contro al Reai Palazzo o di intimorirne chi vi risiede. Condottiere di questa gente è un certo Bollo, il quale aveva studiato in Legge, ma più nell’arte di adulare i Grandi per motteggiarli dietro le spalle e poi tradirli. Un mio amico che dilettavasi di udir sue celie al teatro, passando per av- I FRATELLI GIAN CARLO E GIROLAMO SERRA NELL’ADOLESCENZA Da una stampa dell’epoca appartenente al socio march. Onofrio Sauli Scassi — 65 — ventura dov’egli eccitava i cannonieri a far presto, ne tramortì inorridito. A un tempo stesso un’altra orda di patrioti, i più conosciuti per relazioni di società, irrompe in piazza di Banchi, dandosi perciò la mano con la Guardia del Pontereale; ognuno vi sragiona a suo modo; ma l’oratore di piazza è certo Valentino Lodi, uomo non povero, non infetto da vizj domestici, fanatico bensì di novità, ombroso, credulo e di quante lettere basta a gustare il « Monitore », pane o piuttosto veleno in que’ tempi di mezza Europa. Mentre in piazza si sragiona, si arringa, si freme, nella magnifica loggia di Banchi sotto appunto il nobile stemma della Repubblica, sotto la croce vermiglia sorretta dagli alati grifoni e ornata di regai corona, vaga pittura del Tavaroni, ecco procedere e collocarsi in seggio distinto il sudicio speziale Morando, circondato da parecchi aderenti più valevoli in parole che in fatti. Preso a così dire possesso, il vegliardo spedisce in deputazione a casa del Ministro francese due confidenti, Ministri ambedue degli altari, il prete Cuneo ripetitore affettato de’ più melati e ingannevoli giornali francesi, e il lombardo Bernardone Ricolfi che poi si unì a ricca vedova. Qui varca l’umana mente infinite distanze, e senza quasi volerlo ricorda il vescovo di Autun in Francia con l’abate Sieyes oracolo della prima rivoluzione, e col Vescovo Blessense Gregoire, le cui magnanime parole in confessione e difesa del Cristianesimo al cospetto di un’assemblea sanguinaria, mortale nemica di Cristo e de’ suoi Santi, contrap-pesano al parer mio i suoi gravi errori; molto arrischiò per amor della Fede, e molto, spero io, gli sarà perdonato. Quanto a’ deputati suddetti Cuneo e Ricolfi, è inutile il ripetere quello che introdotti a Faypoult gli dissero, e quello che egli rispose; nessuno sarà così straniero alla storia delle rivoluzioni, che da per sè non l’intenda. Tanto l’uno che gli altri fecero la concertata lor parte a meraviglia. Ma dietro a quella scena si preparavano incidenti non preveduti da loro. La maggior parte degli Ufiziali non seguitò il mal’esempio; e segnatamente lo detestarono i Comandanti delle Porte la Pila e della Lanterna, Colonnelli 5 — 66 — Massari e Botero. La guardia svizzera schierassi tra i cancelli e il vasto cortile di Palazzo, avendo in testa il grigione Schrei-ber suo colonnello, uomo d’imperturbabile sangue freddo. Stava col bastone in alto presso al rastello esteriore il svevo barone tenente colonnello Preisberg, tutto fuoco in pel canuto, gridando a gran voce quanto più sentiva romoreggiare nelle strade vicine i ribelli: « Al diavolo tutti questi pirpanti » (1). — Io ricorderò sempre con tenerezza la lieta accoglienza che que’ fedeli militari e i loro camerata mi fecero nel vedermi sano e salvo a’ loro cancelli che in un batter d’occhio mi vennero aperti. Ricordandomi aver io detto a Parigi cinque anni addietro, il dì 20 di giugno, ch’è sempre facile reprimere le commozioni popolari purché non si temano, io chiesi loro dopo i primi saluti: « Il Generale dov’è1? » — « Non è ancor giunto, risposero, e senza fallo i ribelli ingombrano le vie ove ha da passare » —. « Comandino un distaccamento di granatieri, spero ottener facoltà di condurlo ove bisogna ». — Affrettomi su per l’ampie scale marmoree ove innanzi di convocare il Consiglio solevano i Serenissimi Collegj adunarsi e conferire insieme a porte chiuse. Dato ordine a quanto da lor dipendeva, si apriva l’uscio, e il vecchio portiere in gran parrucca e veste alla spagnuola, chiamava dentro i Consiglieri, dicendo ad alta voce con qualche intervallo per mezz’ora: « Vengano, Signori!». Ma l’uscio era chiuso ancora; il portiere taceva. Mentre io sto aspettando e deplorando il tempo che vola, la massa non contaminata del Popolo era rinvenuta dal primo stordimento; le straniere coccarde, le arie e canzoni straniere, la consueta circolazione di opere e derrate impedita, gli atti di forza e autorità esercitati da chi non aveva verun pubblico incarico, niun titolo antecedente alla generai confidenza, nessuno o ben pochi conosciuti per benefizj, parecchi per ingiurie e soprusi, finalmente l’ereditaria affezione della moltitudine che ha in dispetto gli uomini nuovi, e più volentieri ubbidisce a chi ubbidivano i suoi padri, queste e simiglianti cagioni destarono un (1) I Tedeschi pronunciano la lettera B a un dispresso come il P. — 67 — impeto, uno sdegno incredibile in quella classe di popolo principalmente che vive alla giornata, carbonai, legnajuoli, facchini. Nel popoloso quartiere di Portoria vive ancora e viverà, spero in eterno, la memoria del mortajo rattenuto, e delle fugate soldatesche che lo strascinavano e strascinar lo facevano a colpi di bastone. Là insurse nuovamente il popolo; là ritrovossi per avventura venendo dal Pammatone Niccolò Pinelli Cattaneo, e con ragioni accomodate e con borsa d’oro diede esca al fuoco, uomo per nulla popolare, parco a parole, severo così in famiglia come in Magistrato, e tanto imparziale nelle sue politiche opinioni che i fanatici della coalizione lo dicevano francese, i macchinatori della rivoluzione tedesco. La moltitudine di Portoria s’incammina alla piazza ch’è dinnanzi al Palagio, e altresì vi si accalcano i carbonai e facchini dei ponti della legna e degli Spinola. Disarmati dimandano al loro principe armi, pronti a spargere per esso l’ultima stilla del loro sangue. Qual mano, qual’ordine aprì i cancelli, come il svevo barone fu persuaso o costretto a intromettere quel popolo di supplicanti che una volta dentro potevano comandare? Io non lo so, e in simili avvenimenti quello che più si vorrebbe, il più delle volte s’ignora. Lo strepito nell’interiore cortile, il calpestio sulla scala di marmo è grande. Apresi in questo la sala ove sul rialto di legno, che dicevasi trono, i Senatori stavano deliberando. Pavebant magis quam consulebant, scriveva il Bembo de’ suoi. Entra non chiamato un messo, « traghetta » noi lo nominiamo e dice: « Serenissimi Signori, il popolo vuol difendere il suo Principe; e con questa intenzione è venuto a Palazzo, e si affolla di là e si arrovella che la porta dell’armeria sia chiusa ». — Io era entrato nella sala con quello, e sento un Senatore che bisbiglia: Daremo noi luogo a una guerra civile? — Ma sopraggiunge un altro messo che dice: « Serenissimi Signori, il popolo ha forzato la porta dell’armeria; s’impadronisce di quante armi vi sono, e corre via ». Mentre io sto riflettendo, ciò inteso, alle probabili conseguenze del fatto e alla necessità che ne deriva di ritenere 68 — la guardia del palazzo unita, vengon nuove poggioli: — che i rivoltuósi appostarono un cannone sulla piazzetta che dal palazzo Serra divide la Darsena interna, e forzate le porte entrarono in quella delle galee; sferrarono in nome di libertà i galeotti sì turchi come cristiani associandoli a’ loro disegni; ed altri intanto liberarono i detenuti per debiti alla Malapaga, ed altri ancora, abbandonato in Scurreria il cannone col rotto carretto, piegarono a dritta con manifesta intenzione di aprire le prigioni de malfattori dietro Palazzo. Accorre la guardia, e facendo fuoco dalle finestre soprastanti alle carceri, impedisce queirorribile attentato. Ma nuove grida, nuove minacce si sentono con un lontano ìumoie di fucilate. — Non reggeremo a tanta procella, se il Ministro francese non interpone i suoi potenti uffizj; per lui si vada! Così pei avviso di vecchio e timido Consigliere deliberarono i Sei diissimi Collegj, impediti dal convocare, per difetto di numero e urgenza di eventi il Consiglio. E poco di poi, non essendone 1 abitazione lontana, pregato, introdotto dal M.co Gian Luca Dui azzo il sogghignante Ministro fa di sè mostra nelle stanze ducali, ove i Senatori erano passati a riceverlo. Interrogato se accondiscende a recarsi in Banchi per conferire con Morando e gli altri Capi della sommossa, e dissuaderli da ulteriori violenze, « Volentieri, risponde Faypoult, purché io loro porti parole di conciliazione, e qualche cosa consentano essi, qualche alti a il Governo ». Videsi ove parava; ma fatto il passo imprudente di ricorrere a lui, non si poteva tornare addietro. Sei bossi pei altro una nobile dignità nel seguente editto: « Doge, Governatori e Procuratori della Ser.ma Repubblica di Genova. « Un improvviso tumulto oggi destato in questa Città, sebbene debba sorprendere gli animi Nostri per un fatto così poco corrispondente all’amore e all’ossequio verso le leggi, pure inclinando l’animo Nostro paterno a dare per la via della dolcezza le maggiori testimonianze di quanto c’importi la quiete di tutti ed il bene d’ogni individuo in particolare, abbiamo — 69 — ordinato che si sospendano le vie di fatto sebbene intraprese per sola difesa, e abbiamo determinato che una Deputazione composta di un Ecc.mo Togato, di quattro Soggetti del Governo e di quattr’altri dell’Ordine non ascritto (cioè popolani non ascritti alla nobiltà) intendendo sui reclami che le possano essere diretti, sia l’organo fedele della primiera intelligenza e concordia fra il Ser.mo Governo e li suoi cittadini. « Dato da questo reai Palazzo alli 22 maggio 1797 ». Ricevuta la copia autentica di tale editto, il Ministro Francese soggiunse che nel venire col Sig. Durazzo a Palagio aveva osservato un drappello di patrioti fuggire da’ luoghi vicini (ov’erano le porte delle carceri), e una turba di carbonaj iarsi avanti in festa e trionfo e co’ fucili montati, e già si udiva d’ogni intorno ripetere: Morte ai ribelli! Fra quest’armi ostili e queste frenesie la dignità di un Rappresentante francese non saria rispettata, se non gli davano una scorta di nobili, di quei nobili stessi che i carbonarj amavano e rispettavano sì grandemente. Ordini non davano i Collegj a’ Patrizj, ma insinuazioni, e fu insinuato di accompagnare Faypoult a i seguenti, ch’io nomino secondo il patrio costume per ordine di età : Gian Luca e Girolamo cugini Durazzo, Brancaleone e Cesare fratelli Doria, Girolamo e Giovambattista cugini Serra, e forse ancora, sebbene accertarlo non posso, Gian Carlo Brignole figlio del Doge. Avvitichiossi il Ministro col suo braccio al mio per quale genio di preferenza non so, e uscimmo. In Piazza Nuova un uomo còlto da fucilate cadde tre passi da noi lontano. — È un ribelle, grida-ron. — È uomo, risposi, buona gente portatelo allo spedale. Andossi avanti; sulla piazza del Duomo persone armate in gran numero, del vederci a corteggio non liete, ma pur rispettose. Non dicevano parola; laddove i miei Colleghi costretti a venirci addietro in quell’anguste vie parlavano più liberamente. Giunti all’arco di Banchi, ov’era un’antica porta, odo generale acclamazione in piazza: Viva la Repubblica Francese ! Vedo la nota fisionomia giubilare, e sento Faypoult che dal mio braccio si svincola, e con incredibile agilità corre fra suoi. — 70 — Cli’ei leggesse loro l’editto non dubito, ma se con efficacia li persuadesse a contentarsene io non so dire; perche veggendomi sì caramente abbracciato dal compagno quand’ei temeva offese, sì rattamente abbandonato dov’io potea riceverne, di tale sdegno mi accesi che volsigli le spalle, e a Palazzo tornato vi riferii l’occorso. Venne mezz’ora dopo il Ministro, e al Doge li volto, cui pochi Senatori attorniavano, disse, senza più dargli altro titolo: « Ho fatto quanto ho potuto, quanto da me bramavate, ma il popolo non si fida; rifiuta il vostro decreto perchè ambiguo e insufficiente ; ha proclamata, da quel vero sovrano ch’egli è, la libertà, l’eguaglianza; onde fa di mestieri che de’ vostri titoli, delle vostre dignità vi spogliate, e a voi sottentrino quelli che dal popolo rigenerato verran destinati ». Aveva in così dire la faccia squallida e i neri capegli così ritti in sul capo e rabbuffati, che sembravano aghi. Io ruppi allora il silenzio, che per riverenza del grado ducale da noi tutti si teneva, e dissi breve, — non permettere le nostre leggi mutazioni di tanto momento senza l’intervento e approvazione del legittimo numero de’ Senatori e Consiglieri; oltre che nessuna forza aveva l’editto poco avanti emanato, come quello ch’era condizionato all’accettazione dell’insorgenti e costoro per dichiarazione del cittadino Ministro l’avevano ricusata. — Guardommi egli bieco; indi volgendosi al Doge e dolendosi di essere stato chiamato sol per istrazio e vituperio, soggiunse. « De’ fatti vostri più non m’impaccio, ma questi Francesi che ho raccolti per via, inseguiti com’erano e minacciati da carbonari, saranno da me protetti a qualunque costo, e usciranno meco. Alla scorta che avevo dinanzi si aggiungano due Senatori, e ne preceda una guardia di granatieri ». Fu compiaciuto, ma questa volta non mi diede più il braccio; venivami in sua vece da lato un Francese giunto da Parigi come Corriere, il quale si protestava di nulla più odiare che le rivoluzioni. Ricondotto a casa il Ministro, trovò la suocera e la moglie sbigottite, perchè guatati dalle finestre alcuni carbonai che passavano, e ingiuriandoli probabilmente la giovane, chè prudente e buona era la vecchia, coloro avevano levati contro i fucili senza -Piperò tirare. Per il che domandò un rinforzo di guardia, e l’ebbe; quindi un altro e l’ottenne ancora. Era più guardato che il Doge, e temeva ancora. I sediziosi avevano intanto perduti tutti i posti militari, salvo che quella parte del cammino delle ronde ch’è interposta fra il Pontereale e la Darsena. Al Ponte era il nerbo delle lor forze, il loro quartier generale; sulla piazzetta contigua alla Darsena stava il già detto cannone mal provveduto di munizioni e di braccia. Un giovanetto di piccola condizione fece l’ardito disegno di corrervi sopra a ora di pranzo, impadronirsene e smontarlo; ma fu prevenuto, e una palla spaccogli il ventre. Accorse scapigliata la madre; io stesso le vidi spargere torrenti di lacrime, io stesso udii i suoi gemiti inconsolabili. — O mio figlio, mio figlio; o maledetta rivoluzione....., — e copriva di baci il cadavere insanguinato. L’afflizione materna è una pena sì grande che l’uomo non può descriverla. Nel rimanente del giorno non si fecero più assalti, ma numerose pattuglie per l’una e l’altra parte. Quelle de’ rivoltosi miste di cisalpini e di qualche francese giacobino, avevano per segno d’ordine — libertà, eguaglianza, ovvero Repubblica francese, — ma le pattuglie de’ carbonai e facchini, cui si erano aggiunti i venditori de’ commestibili e quasi tutti i bottegai, pigliarono per segno d’ordine quello di cinquant’anni addietro: Viva Maria! La notte passò più tranquilla che non si credeva. Il Governo fece affiggere e distribuire per le vie un’esortazione alla concordia, che pochi lessero e a che nessuno badò. Alla punta del dì due pattuglie fedeli attraversando la piazza di Banchi, i difensori del Pontereale temettero di venire assaliti, e però trassero alquanti colpi di cannone; una palla andò a colpire direttamente sotto la loggia un giovine di librajo più degli altri sollecito ad aprir la bottega. Questo fu il nuovo segnale dell’armi. Una moltitudine infinita investe dalla banda della città il Pontereale, i barcaroli che infino allora erano stati neutrali l’investono di fuori. Dissemi poi la sorella di Clary, e non sa dir bugie, che salita insieme col fratello sulla — 72 — terrazza di loro abitazione a vedere, non ostante il pericolo della vicinanza, si rammaricavano quando la parte fedele era respinta, facevano plauso quando vinceva. E vinse cosi che degli avversari, chi potè, salvossi. Morando co’ suoi confidenti non aveva aspettato il dì chiaro a mettersi in sicuro. Chi riparossi alla Legazione francese, chi fuggì a Milano, chi rimpiattossi ne’ monti d’intorno e moltissimi ancora d’infimo stato, mutata parte e linguaggio, col favore de’ congiunti o degli amici di taverna si mescolarono alle pattuglie vittoriose, tanto più fieri persecutori de’ vinti e fino de’ cittadini pacifici e disarmati, quanto avevano meritato più grave gastigo per contrarj eccessi. E così credo io che quasi sempre accada, qualunque volta una giusta e degna ia-gione leva a romore un popolo, che nel principio altro male non segue se non il necessario alla vittoria, perchè tutti coloio che vi concorrono, hanno rette e sincere intenzioni; ma come prima la vittoria si è dichiarata, i malvagi si confondono co buoni, e si calunnia, si ruba, si contamina ogni cosa da que’ falsi compagni, e i giorni più belli e gloriosi 11011 giungono a sera, senza coprirsi di un’oscurità favorevole ai tristi, ingiuriosa e stomachevole agli uomini onorati. Finché si combatte per la buona causa i Capi possono chiudere 1111 occhio; ma dopo l’ottenuto trionfo bisogna spalancarli ambedue. Nessuno ci aveva convocati pel veniente dì; ma tutti noi per tempissimo ci ritrovammo nelle stanze ducali. Udita la vittoria de’ nostri, la fuga de’ sediziosi, non tardarono a giunger querele del crescente disordine in tutti i quartieri. Si frugavano magazzini, si aprivano case, si portavano arrestati a Palazzo caricandoli di pugni; e le piazze e le vie brulicavano di gente accusatrice e accusata. L’esagerazione di tali riclami era evidente, ma non si doveva trascurare. Il Doge per tanto c’invitò a dividerci in deputazioni presso i quartieri e a mettervi pace; i Mm.ci Franco Grimaldi, Nicolò Pinelli Cattaneo, Gian Carlo Brignole ed io componemmo la deputazione indiretta al quartiere del Molo. Mescemmo esortazioni a preghiere, ammoni- — 7,3 — zioni e biasimo a lodi e ringraziamenti; i maestri d’ascia quivi abitanti in gran numero ci accompagnarono al Molo vecchio, ove dicevano esser giacente un uomo ucciso; e ravvisammo disteso sull’estremo gradino quel Filippo Doria, che un forestiere scrittore, abbagliato dall’illustre cognome, ha dipinto qual capo di ribellione contro un Governo da un altro Doria fondato. Lo sventurato Filippo, privo d’ingegno, di credito, di pecunia, non poteva aver seguito alcuno, ma seguitò i peggiori. Simile fine fecero due altri francesi al più; de’ genovesi non so, ma certo non molti; avendo il Governo adoperato quanto poteva nella debolezza de’ suoi mezzi per impedire violenze; di certo non si sarebbe torto un capello a’ francesi, se i sollevati non avessero usata la nappa tricolore, facendo comune a tutti coloro che la portavano, l’odio e i vituperj ond’essi solo erano meritevoli. La liberazione de’ galeotti, il tentativo di aprire le carceri furono atti disonoranti e vili così, che tutta la Città sdegnossene e che un gran numero di persone buone si allontanarono. Non son io l’autore di questa apologia al Governo, di questo biasimo a’ rivoltosi; gli estrassi da due lettere, in che la paura, irresistibile tortura degli animi deboli, costringeva Faypoult a confessare la verità. E ricordandosi come due divisioni facevano fronte a’ confini del Genovesato, ne scrisse lo stesso giorno del martedì una terza. « Se per avventura » — scriveva al Generale in capo — « aveste dati ordini di marcia a qualche divisione di truppe, bisognerebbe senza indugio rivocarli. Imperciocché le numerosissime popolazioni della Polcevera e del Bisagno che già sono in moto, si unirebbero senza fallo colla plebaglia della città, il cui furore, che or va calmandosi, s’innasprirebbe più che mai, e ne seguirebbono infallibilmente la strage e il saccheggio di cento famiglie di negozianti francesi qui stabiliti. Straniera è a noi la contesa qui suscitata; il Governo fece tutti i suoi sforzi per impedire non si spargesse sangue; hanno i patrioti operato contro ogni buon senso, hanno compromesso i Francesi e pregiudicato mai sempre alla parte loro. Il popolo tutto vuol - — sempre mai quello che appella il suo Principe, cioè il Governo de’ Nobili; e i suoi direttori sono i preti. Così fatto è il risultato dal carattere genovese ». Io sono d’avviso che appena scritta quest’ultima ardita riflessione, se ne pentisse per tema che giu-gnesse per avventura a notizia di qualcuno del popolo o della plebe, e gliene facesse mal viso; ma ricopiare la lettera era perdere un tempo prezioso; e guai se l’ordine di marcia non si potesse più rivocare! Lasciamo per poco il Ministro e torniamo al Governo. Egli aveva ripigliate le sue ordinarie sessioni. La Ruota criminale, tribunale ordinario, istruiva i processi degli arrestati, alla cui moltitudine non bastando le consuete prigioni, si erano nel primo dì assegnati i sotterranei del pubblico palazzo; ma poi, o per sospetto di qualche lor trama, o per riguardi di umanità, si erano sostituiti i corridoj, altri pretese con poca probabilità, le sepolture della chiesa di S. Ambrogio. Non è per altro impossibile, non l’affermo nè il niego, che disordinando e agitandosi senza riparo quella ciurmaglia di detenuti, gli stanchi custodi aprissero loro qualche sepoltura per ultimo avvertimento o pei1 correzione. Rammaricavansi allora con fremito e sdegno dell’ol-traggiata loro innocenza, e, mutate le cose, si vantavano della loro complicità, e ne domandavano premio. La carcerazione de’ più turbolenti, gli editti de’ Magistrati, le deputazioni a’ quartieri e le regolari pattuglie, non più di compagnie volontarie, in gran parte disciolte, ma d’arti e mestieri, avevano ricondotta la calma, senza diminuire ancora, ch’è un gran punto in simili emergenze, il popolare entusiasmo. Voleva il popolo cogli artiglieri di professione stare alle batterie, co’ soldati di linea guarnir le porte; e l’appello suo prediletto, il grido di: Viva Maria!, era ancor quello della fedeltà e del valore. Ciò sentendo la notte, non dormiva un pacifico sonno il Faypoult; ma più forte che mai fu conturbato il dì 26 di gran mattino, quando appunto il sonno scende più dolce sulle agitate pupille; e la cagione era il segnale che il custode della Lanterna faceva, secondo il costume, quando legni da guerra — 75 — comparivano sull’orizzonte. Il popolo ne strepitava. Poco appresso gli uomini di mare, con quella lor vista acutissima, scoprirono la bandiera tricolore sventolante sopra due navi di linea e due fregate. Venivano, per meglio celare gli ordini avuti, da batter l’acque della Corsica e di Livorno. Il Contrammiraglio Brueys le comandava. A tale avviso i Serenissimi Collegj inviarono al Ministro francese un messaggio per offerirgli il palischermo più veloce che si trovasse in porto, dichiarandogli, se non iscriveva al Comandante di non accostarsi, che non si potrebbe rispondere della popolare effervescenza e de’ mali infiniti che ne seguirebbono. « Udisse le grida che si profferivano, guardasse quante armi già si brandivano, osservasse la moltitudine che correva alle batterie, moltitudine di naviganti agguerriti; e non perdesse tempo ». Acquistavano fede alla sincerità del messaggio le micce accese dal popolo lungo le batterie di mare, uno strepito minaccioso e terribile sotto i balconi del Console di Francia, La Chaise, uomo pacifico e infino allora rispettato da tutti, e la forza usata a un Commissario di marina, l’opposto del Console, il quale mentre sparlava più grossolanamente, e additava in gran trionfo le navi, fu legato a furore dagli abitanti del sobborgo S. Lazzaro, e consegnato nel forte della Lanterna. Pertanto Faypoult, il palischermo accettato, spedì la lettera, e il Contr’ammiraglio, al cui generoso animo pesava la commissione di usar violenza a un porto amico, virò senz’altro di bordo e tornò a Tolone. Nessuno, neppur Bonaparte, osò rimproveramelo; laddove amari rimproveri contiene la lettera scritta da questo a Faypoult il dì 27 (8 prairial). « Il vostro modo di procedere fu pieno di debolezza; aveste gran torto a impedire l’entrata della nostra squadra nel porto di Genova; la dignità non meno che l’interesse della Repubblica ne rimasero al disotto. Esigo dunque da voi, che non adempiendosi al tutto le condizioni contenute nella lettera ch’io scrivo al Doge, e che un mio aiutante di campo dee consegnargli, voi sgombriate incontanente da Genova e vi ritiriate a Tortona, avvisando i Francesi dimoranti in cotesta città, quando s’intimoriscano, di mettersi al sicuro. Se l’aristocrazia ardisce di farci guerra, non sopravviverà dieci giorni. Per l’opposto, se sta a cuore al Senato di conservare l’antica amistà fra le due Repubbliche, se acconsente ai preliminarj suddetti, voi verrete a Milano co’ suoi Deputati, e vedrassi qual prescrivere ammenda agli attentati commessi contro i cittadini francesi, e come rassodare per sempre la pubblica tranquillità ». Voleva egli conservare o distruggere il Senato in caso di compiacenza? Ciò lasciava in dubbio, secondo il suo costume, e forse noi sapeva egli stesso. Nò col proprio Governo parlò più chiaro. A intelligenza della sua lettera al Doge convien sapere, come appena repressa in martedì la rivoluzione, i Ser.mi Collegj gli avevano indirizzata a Milano una giustificazione modesta degli avvenimenti. Il Doge la sottoscrisse, e apportatori ne furono due testimonj di veduta, i Min.ci Girolamo Durazzo e Cesare Doria. Con questi patrizi, l’uno de’ quali erami zio e l’altro amico sin da fanciulli, parve accortezza a’ Serenissimi Collegj di accompagnare il Sig. Adamo Calvi negoziante, credendo che il Generale di uno stato popolare gradirebbe, se non altro, la mescolanza. Ma fallò a gran pezza l’avviso. Erasi il Calvi in breve tempo arricchito, da povero e oscuro ch’era in addietro, rivendendo grano a’ Francesi quando la fame li tormentava nelle sterili balze della Liguria; e a questi primi guadagni aveva aggiunto l’appalto di parecchi fornimenti militari. Non pochi Generali perciò l’amavano, che aveva animo splendido, graziose maniere e pratica di loro favella ; e osservato si era con ammirazione in Genova, che Madama Bonaparte aveva da lui accettata una gran cena nella magnifica villa Giustiniani di Alba-ro. Ma Napoleone la pensava altrimenti; e disse in pubblico essere ben goffa l’aristocrazia genovese, se credeva ch’egli avesse in qualche pregio i ricchi fornitori e i monopolisti; 11011 vendere egli favori nè grazie, ma compartirli secondo gli interessi e la gloria del popolo francese. Sostenuto però, ma non già brusco e collerico come inverso i Veneziani, ricevè i Deputati; prese la lettera senza pur leggerla, e non guardando mai il Calvi in viso, dopo alquante interrogazioni a’ patrizj, se avevano pieni — 77 — poteri, se la plebe era ancora armata in Genova, gli accomiatò soggiungendo, che in fra pochi dì sarebbe egli stesso a Tortona e sui confini del Genovesato. Con afflitto cuore que’ buoni signori si rimisero in via; il più vecchio, già malaticcio, cadde infermo a Novi; Doria ab-boccosi sull’alto giogo della Bocchetta con una nuova Deputazione; e arrossendo il Calvi di un ricevimento troppo contrario alle concepite speranze, si rattenne in Lombardia. Sopraggiunse intanto l’ajutante di campo La Vallette con la risposta al Doge. Pareva un’estrema durezza il non essersi pure degnato di consegnarla a i Deputati, ma quando fu letta, si giudicò favore. « Ho ricevuta la lettera che Vostra Serenità si prese la pena di scrivermi. Ho differito a rispondere fino a tanto che mi pervenissero dirette informazioni dell’accaduto in Genova, di che V. S.tà mi ha date le prime notizie. « Sono sensibilissimo a’ mali che han minacciata e minacciano ancora la Repubblica di Genova. Indifferente a i vostri dispareri interni, la Repubblica francese non può esserlo agli assassinamenti, alle vie di fatto d’ogni maniera commesse testé entro le vostre mura a’ danni de’ francesi. La Repubblica di Genova interessa per tanti rapporti la Repubblica francese e l’esercito d’Italia, che costretto mi trovo a dare pronti ed efficaci provvedimenti a effetto di mantenervi la quiete, proteggervi le proprietà, conservarvi le communicazioni, e assicurare i numerosi magazzini ch’essa (la città) contiene. « Una sfrenata plebaglia suscitata da quegli uomini stessi che fecero bruciar la Modesta, accecati da una frenesia che incomprensibile sarebbe se non si sapesse che l’orgoglio e le opinioni pregiudicate mai non ragionano, dopo essersi satollata di sangue francese, prosegue a far scempio de’ cittadini francesi che portano la mappa tricolore nazionale. Se 24 ore dopo la ricevuta della presente per mezzo di un mio ajutante di campo, voi non mettete a disposizione della Francia tutti i Francesi chiusi — 78 — nelle vostre carceri; se arrestare non fate quegli uomini che incitarono il popolo di Genova contro i Francesi; se finalmente non disarmate cotesta plebaglia, che fìa la prima a rivoltarsi contro di voi, quando conoscerà le terribili conseguenze che devono risultare per essa dagli inganni fatali in che la traeste, il Ministro della Repubblica francese uscirà da Genova, e l’Aristocrazia avrà esistito. « Le teste de’ Senatori mi risponderanno della sicurezza de’ Francesi che sono in Genova, come pure gli Stati interi della Repubblica mi risponderanno delle loro proprietà. « Vi prego, nel rimanente, di credere a i sentimenti di stima e di considerazione distinta che ho per la persona di Vostra Serenità « sott. Bonaparte. « Montebello, 6 prairial A. V. (25 maggio 1797). Il circolo di sabbia, che il romano ambasciadore Popilio • delineò col bastone intorno al Re di Siria, Antioco, dicendogli: Non uscire di qua prima di rispondere — è un atto di tracotanza senza pari nelle storie antiche; ma fra gli esempj che le moderne ne offrono, nessun gli somiglia tanto quanto il contegno del freddo, taciturno e piccolo La Vallette con questa lettera in mano, scritta da un Generale repubblicano al Capo di una Repubblica. Tutte le vene si gonfiarono in petto a chi sentì leggerla, e fu probabilmente allora, che, al dire di Faypoult, un generoso esclamò in Consiglio: Ebbene ci batteremo. Se il zelo delle suddite popolazioni bastasse, si poteva disputar la vittoria, tante proteste e offerte si riceverono da quasi tutti i popoli della Liguria, appena conobbero il tumulto del dì 22. Io posseggo le copie autentiche delle offerte di Ven-timiglia, del Governatore e degli Anziani di S. Remo, de’ Consoli della Pieve di Cosio e Mendatica, degli Anziani di Alassio, del Governatore di Albenga in nome della città, del nobilissimo — 79 — Conte Giovanni della Lingueglia, a nome proprio e de’ suoi fedeli vassalli, del Comun di Parodi, di Eecco, di Rapallo, di Sestri, di Levanto, borgo illustre pe’ suoi Giurisperiti, e di Marinasco, popolazione povera, alpestre, e pronta a reprimere con l’armi i movimenti suscitati nel vicino Golfo. Con tante prove di affetto e di zelo, non che per parte del popolo genovese, ma de’ popoli a lui congiunti per nome, indole e governo, tutto si poteva tentare, tutto, fuori che l’impossibile; e impossibile cosa pareva resistere a quell’Uno, cui non aveva resistito l’Austria. Donde sperare soccorsi, a chi de’ forestieri fidarsi? La Russia troppo lontana, retta da Paolo I principe bisbetico, incostante; la Spagna concatenata più che mai dall’ambizioso e vano Godoi all’antica sua avversaria; l’impero germanico condannato da’ suoi protettori medesimi a comperare un avanzo di vita col sagrifizio di tre elettorati, e di quanto già possedeva sulla sinistra riva del Reno; l’Inghilterra dal voto popolare, e da immensi debiti costretta a rannodare le pratiche di pace a Parigi; e il confinante Piemonte non solo alla pace costretto e all’abbandono de’ suoi alleati, non solo in lega offensiva e difensiva col suo nimico, ma esibitore spontaneo deli’estreme sue forze (tanto male sono consigliati i Principi in certi momenti) all’occupazione della Riviera occidentale, quando bisognassero al Generale in capo le proprie, per continuare la guerra o aggiungere peso alle pendenti negoziazioni. La condizione de’ Genovesi alla fine del secolo XVIII era similissima a quella in che si trovava sul declinare del secolo XVII: pari eroismo in ambedue l’età, e ciò non ostante necessità quasi pari, atteso lo stato in che giaceva l’Europa, di cedere all’incontrastabile volontà della Francia. Come allora Seignelay fu mantice all’orgoglio offeso del gran Re, così Faypoult all’impeto del gran Capitano quando passata gli fu la paura; e la paura gli era si tosto passata che l’autorità del Governo e i suoi proclami ebbero sedato il popolo fedele. « Inutilmente » — scriv’egli a Bonaparte — « insisto da tre giorni e richieggo che rendasi la libertà a tutti gl’impiegati della — 80 — Repubblica francese arrestati, e che solennemente si dichiari essere stati i Francesi onninamente stranieri alle accadute turbolenze. Ma vedo bene che il Governo di Genova non sente punto il valore della condiscendenza usata dal Ministro di una gran Potenza nelPandare a palagio per ajutarlo a sedare la fermentazione di quel momento. Nè sente egli più la lealtà degli ordini dati per allontanare la squadra francese, e le truppe, che il caso (le hasard) avrebbe potuto avviare verso Genova ». Cotesti impiegati chi fossero, Faypoult lo spiega nella lettera del dì 27; tutti coloro tanto lombardi che genovesi i quali si ritrovavano al servizio della sua Repubblica, militari come civili, secondo la lista ch’ei ne darebbe; il che stendeva un manto impenetrabile d’impunità sopra qualunque persona gli fosse in grado, nazionale o straniera, innocente o rea. Il simile si conteneva nelle numerose sue note al Governo. — Che vuol dire, leggesi in una di quelle, la nota del Sig. Giacinto Gianello (uno de’ Segretarj di Stato) al Console di Francia ov’egli dichiara che il Commissario di marina Menard sarà messo in libertà, qualora non risulti complice de’ passati avvenimenti? Intenderebbesi forse di processare tutti i Francesi arrestati; e si dimenticherebbe il diritto competente alla Repubblica francese di processare essa stessa gli uccisori de’ Francesi morti in quelle funeste giornate? — in altra nota egli biasima gli emanati proclami come insufficienti, mancanti della richiesta dichiarazione sull’innocenza di qualsiasi Francese, e limitati a proibire l’uso dell’armi e della forza, quando necessaria non sia per propria difesa. Risposegli il Segretario di Stato: « Si sa che la maggior parte de’ Francesi, e nominatamente quelli di S. Pier d’Arena (alloggiati cioè in quel popoloso sobborgo per avviamento di coscritti e munizioni) non hanno preso parte ne’ movimenti; ma il dichiararli tutti senza eccezione innocenti è cosa che ancora non può accertarsi, e risulterà dagli esami, i quali si faranno colla maggior sollecitudine; finalmente la frase obbiettata (quando la forza necessaria non sia per propria difesa) serve ad avvertire i cittadini del solo caso in che possono della forza — 81 — valersi giustamente, caso sempre possibile ove si tratta di uomini soggetti ad errori e traviamenti ». E di nuovo Faypoult: « Vedendo che il Serenissimo Governo persiste in voler fare informazioni ed esami innanzi di mettere in libertà i Francesi e forestieri al servizio della Repubblica arrestati, il sottoscritto domanda per l’ultima volta e per prima riparazione agli oltraggi commessi contro il nome francese: I - Che faccia una solenne proclamazione ove sia dichiarato essere i Francesi onninamente stranieri alle turbolenze di Genova; II - Che tutti i Francesi, Lombardi e Genovesi al servizio della Repubblica Francese siano messi incontanente in libertà. Senza tale riparazione è impossibile al sottoscritto di rimanere più lungamente in una città ove i Francesi sono stati assassinati sotto i suoi occhi; e se alle ore sei della sera, non gli sarà trasmessa la risposta affermativa del Governo a questa domanda, esso gli domanderà i suoi passaporti e salvacondotti per la sua libera uscita dalla città e dal territorio di Genova. «17 7 prairial A. V. della R. F. all’ore 2'l4 dopo mezzodì. « Segnato l’inviato straord. e Ministro Plenip. Faypoult Che stile, che forme diplomatiche, qual giro di vane e ripetute espressioni! Un animo generoso può talvolta intimorirsi, ma non passerà mai dal timore all’ insolenza. Deputato a visitare in pubblico nome l’ajutante di campo La Vailette, il ritrovai, come dissi dianzi, riservato e taciturno; ma noi giudicai malevolo e ingiusto come Faypoult. Oggidì leggo nella corrispondenza inedita una sua lettera che mi disinganna; ne dò un transunto per fare conoscere i primi effetti della sua missione (1). (1) T. II c. I. p. 224. 6 — 82 « Al cittadino Bonaparte « Generale in capo dell’Armata d’Italia « Genova 11 prairial (30 maggio 1797) « Arrivai qua ieri alle 4 della sera. Fui ammesso in Senato alle 61/4 col cittadino Faypoult. Letta da me la lettera vostra, fui ascoltato con attenzione (recueillement). Si promise una risposta per oggi......Una delle vostre domande conteneva che il Governo facesse arrestare gli uomini eccitatori del popolo contro i Francesi. Faypoult, temendo non il Governo salvasse i grandi colpevoli dando in lor vece dei miserabili assenti (come avrebbe dato gli assenti?), informatissimo de’ portamenti de’ Signori Francesco Maria Spinola, Franco Grimaldi Inquisitori di Stato, e Niccolo Cattaneo patrizio, ha domandato questa mattina il loro arresto e imprigionamento, finché abbiate deciso della sorte loro. Questi tre uomini provocarono con tutti i mezzi possibili le atroci esecuzioni che si sono fatte contro i Francesi, ed ebbero una gran parte nelle disposizioni date dal Governo da qualche tempo......Questo giorno i prigionieri francesi sono usciti; e un Segretario della Legazione e parecchi Ufìziali genovesi gli hanno ricondotti con pompa fino alla casa dell’ambasciadore fra una turba di popolo, che gli ha veduti con qualche simpatia (interét). Da qualche giorno si effettuò il disarmo. Avendo il Governo dato fìn’ora 40 soldi per ogni fucile renduto, quattromila ne vennero restituiti; ma n’erano stati presi 25 mila. Ecco due vostre domande in parte eseguite; restava quella riguardante l’arresto de’ colpevoli. Pare che ciò abbia dato cagione a grave discussione. « Giusta la voce pubblica si disse nel Consiglio, che i carbonari avevano potuto nel 1746 scacciare da Genova gli Austriaci, e che potrebbero fare altrettanto contro i Francesi; e si è esclamato forte abbastanza per udirsi dalla gente di fuori: ci batteremo. — 83 — « Questa sera il Senato ha mandato all’ambasciadore la sua risposta alla Vostra lettera, la quale non adempie il Vostro intento. Per conseguente il cittadino Faypoult ha poc’anzi indirizzata la sua nota di partenza; domanda sul momento un passaporto, e ottenuto che l’abbia, lascierà questa città. È troppo evidente per ogni persona ragionevole, che tutti questi disordini ebbero una direzione. Il dito del Governo si trova per tutto in mezzo agli assembramenti, le provocazioni, le stragi, il saccheggio e il disarmo. I carbonari furono pagati per uccidere, lo dicono essi stessi altamente; la testa di ogni vittima era pagata come in un mercato. Gli uni riscattarono la vita e i beni, dando più che il Governo; altri perderono tutto, perchè il richiesto prezzo era eccessivo; era una vera proscrizione. Se i nomi de’ Francesi non furono messi sopra le tavolozze ai cantoni delle strade siccome al tempo di Siila e del triumvirato, nulla meno si diedero gli ordini per assassinarli; e quando avrete tratti gli abitanti dallo stupore in che sono, migliaja di deposizioni attesteranno l’infamia del Governo. « Segnato La Vallette » Se il generoso inglese, che tanti anni dopo cooperò a salvare da una capitale condanna l’autore di questa lettera veramente infame, conosciuta l’avesse, non so se avrebbe degnato di farlo. Come in un solo giorno di permanenza a Genova, l’ajutante di campo aveva penetrato il contrario di quanto il Ministro pochi dì prima aveva affermato? Come ardiva in cosa sì grave accusare su debolissimi indizj persone per nascita e qualità sì rispettabili; come parlare di un mercato di vittime, quando in tanto tumulto, in tanto bollore di parti appena è che perissero tre in quattro uomini imprudenti e sediziosi? Ne furono mai nominati di più? Le loro famiglie ne riclamarono i corpi? La Repubblica francese, il Direttorio, il Generale in capo posero in oblio tante teste proscritte, tanto orribil mercato! Che diranno i posteri di cotesti avventati rapporti? — 84 — Raro.....Deseruit pede poena claudo (1) Un incidente pericoloso, quantunque per sè di lieve importanza, venne a complicare il dramma politico che si agitava in Genova. Quivi approdò con le sue figlie Madama Letizia, madre di Napoleone, che da Marsiglia ovvero da Ajaccio andava a raggiungere il trionfante figliuolo a Milano. Deputati le furono, come si usava verso le principesse di Stato, tre ragguardevoli patrizj, con incarico di accertarla che in qualunque modo si decidessero le pendenti questioni, ella saria condotta da sicura scorta fuori de’ liguri confini; e la forte matrona, sollevata di poi ad alta fortuna, fé’ più volte menzione del cortese ufizio. Faypoult e La Vallette, temendo nondimeno di esporla per troppa fretta a qualche popolare insulto, si determinarono a non insistere sul breve termine assegnato alle deliberazioni del Governo; il quale, citando la provvida legge fondamentale Nihil in eadem die, aveva ricusato di trasgredirla a posta loro. Ma questa giustissima fermezza nelle forme, a torto o a ragione non si mantenne nella sostanza; e in prima, checché ne costasse, un Senatore parente, mio padre, richiese in pubblico nome il M.co Franco Grimaldi che si costituisse in arresto nella propria abitazione a disposizione de’ Ser.mi Collegj; il simile fecero due altri Senatori, con Cattaneo Pinelli e con Spinola. Ma Faypoult, non mostrandosi pago e insistendo sulla loro carcerazione, lasciò travedere al Segretario di Stato con cui conferiva, non cesserebbero le querele, le molestie di ogni genere, e la mossa de’ reggimenti destinati all’occupazione del Genovesato, se non si spediva al Generale in capo una Deputazione autorizzata a mutare sotto la sua mediazione e autorità un’odiosa e rancida Costituzione; così volerlo il Direttorio, così l’onnipossente democrazia francese. Ma guai se qualche indiscreto lo rivelasse, se ne’ pubblici atti non risplen- (1) Non si sa come conciliare si possa gli elogi, che la duchessa di Abrantes fa nelle sue memorie dell’amico suo La Vailette, con le due storielle più che ridicole, eh essa in parte riferisce e tace in parte, al C. I del Tomo XVII. Lodi il Duca di Bassano, il Generale Colbert, il maresciallo Moncey e somiglianti; più studierà il loro carattere, più avrà a lodarli. — 85 — desse spontanea e indipendente la deliberazione de’ Governanti! Con queste insinuazioni del Ministro francese cospirava la persuasione del Segretario di Stato Ruzza, parte timido alla guisa de’ moderni Giuristi, parte allettato dalla vana lusinga di primeggiare in un Governo popolare; e per quello ch’io con-ghietturo, combinavano ancora le lettere de’ primi due Deputati, i quali innanzi di lasciare Milano avevano scritto segreta-mente a’ Collegj, non già a gran pezza che favorevoli fossero al mutamento, ma persuasi dalle cose osservate e udite al quartier generale non potersi fare altrimenti. La mia conghiettura è fondata sopra l’istruzione alquanto fredda e concisa, che i Collegj loro mandarono per espresso corriere, di comunicare alla nuova Deputazione le acquistate notizie, e sopra i non prima uditi protesti de’ Senatori e Consiglieri più vecchi, sè essere indifferenti al governare, non rimordere loro in minima parte la coscienza di averne abusato, conoscerne i pesi soltanto, non i vantaggi; e li conoscerebbe di certo chiunque succedesse in luogo loro serbando la stessa integrità. Ho sempre dinanzi agli occhi la prima panca ove seder solevano gli anziani del Minor Consiglio, e parmi ancora di loro ripetere quello che, lettore più assiduo de’ giornali francesi, io aveva ben conosciuto; non probità, non ser-vigj quantunque eminenti difendere la classe che cessa di governare dai soprusi, dalle calunnie, dall’apprensione di risurgente fortuna, e, se non altro, dall’invidia di sfavorevoli confronti. Ma il dado era già tratto; alle considerazioni politiche esposte di sopra si aggiungevano il tedio di stare al timone della Repubblica co’ venti sempre contrarj, e il dubbio istillato da vacillanti amici che ulterior resistenza fosse ostacolo alla bramata riconciliazione, incentivo a maggiori violenze. Yedevasi inoltre chiaro dopo i primi fatti d’arme, che quanto la parte numerosa e attiva della popolazione mostrava più zelo per l’antiche leggi, odio alle novità, tanto più coperto e ambiguo era il contegno de’ mercatanti di Porto franco timorosi di un blocco al porto, di un assedio alle mura, e dell’armi stesse che una gran parte del popolo, principalmente del quartiere del Molo, non avevano a — 86 — patto alcuno deposte, non curando il prezzo offertone, e rispondendo a’ Commissarj che volevano stare a vedere come le cose finissero. Perciò è duro a dirsi, ma vero: nell’ultima settimana di maggio un solo mercatante si era presentato a Palazzo offerendo beni e persona, l’onesto e bel parlatore Massola appartenente all’arte onoratissima in Genova, come in Firenze, da setajuolo. Pochi avvocati altresì comparvero, ma chiusi si tennero i più nelle domestiche pareti, chi ammalatosi dalla paura, chi fingendo di esserlo. Nel medesimo tempo gli ecclesiastici più venerabili, partecipando senz’avvedersene all’opinione de’ loro congiunti nel ceto mercantile, consigliavano i Nobili lor penitenti a dechinarsi al moderno Attila come il supremo Gerarca avea dovuto pur fare, e l’autorità di tali consigli era allora grandissima. Imperò le voci udite al di fuori nelle prime adunanze: — ci batteremo, — tacquero all’ultime due; appena si ascoltò con pazienza chi soleva ascoltarsi con unanime favore; non si vollero domandare schiarimenti maggiori al Ministro per non irritarlo anche più, non riferirsene in tanta mole di cose al Maggior Consiglio per non incorrere in nuove scissure, dilazioni, pericoli; si propose assolutamente di eleggere, e tosto si elesse una Deputazione straordinaria con facoltà di combinare col Generale Bonaparte una convenzione, che, serbando l’indipendenza e libertà della Nazione, rendesse la sua costituzione più adatta alle opinioni del secolo, più idonea a far dimenticare le passate turbolenze e a rassodare i legami dell’antica osservanza e amistà verso la Francia. Cento quattro voti favorevoli sopra cento trenta votanti obbligarono, per molte ragioni, chi non doveva avere tal carico ad accettarlo; gli altri due deputati furono l’ex Doge Michelangelo Cambiaso e l’ex Senatore Luigi Carbonara, ch’era un dotto e facondissimo giureconsulto. Niun’amarezza fu pari a quella di partecipare personalmente a Faypoult, l’elezione, di udirne le finte proteste d’indifferenza alla durata o mutazione del presente governo, di corrispondere con modi cortesi ai complimenti affettati dell’Aiutante La Vallette - 87 — e del Segretario Poussielgue, ch’ebbe poi tanta parte all’avvilimento dell’Ordine di Malta. Si uscì finalmente, e fuori dell’abitazione di Francia, sulla salita di S. Caterina, trovossi una doppia fila di persone benestanti, appartenenti al ceto mercantile, che battevano ambe le mani, e dicevano alto: Viva l’Eccellentissimo Michelangelo, — o perchè lo credevano autore della bramata deliberazione, o perchè i Signori Cambiaso godevano allora di gran benevolenza nell’universale. Il volto dell’ex Doge non occultava la pena che simile applauso gli cagionava. Inteso l’accordo, Madama Letizia con le sue figlie, preceduta dall’Ajutante di campo, partì alla volta di Milano, quindi Faypoult, e poche ore dopo i Deputati. Vedemmo Cesare Doria alla sommità della Bocchetta, amenissimo punto di vista per chi ritorna lieto, a Novi nella propria casa il zio Durazzo, a Tortona la vanguardia francese, a Milano non pochi di quelli insorgenti che il martedì mattina, perduta ogni speranza, erano fuggiti da Genova, ma nulla si disse loro. Montebello, che in Liguria sarebbe un bel piano, è un ridente monticello in quella levigata campagna del Milanese, dodici circa miglia a levante della città. La villa Crivelli ne occupa il bel mezzo con casa a tre piani, spaziosa terrazza e sottoposto giardino, che prima era delizia e allora seminavasi a grano. Questo era in que’ giorni il prediletto ritiro di Bonaparte sì per godere dopo tante fatiche dell’aure pure di primavera, sì ancor per sottrarsi alle importunità de’ patrioti d’ogni paese, che pretendevano sotto tal nome dargli consigli e impetrarne favori. La prima volta che la Deputazione andò a visitarlo, non fu ricevuta, facendole dire da un ajutante che prevenuto non era e però in conferenza co’ Ple-nipotenzjari austriaci. Ma nel pian terreno si vide Madama Bonaparte che giocava alla gatta-cieca, e, vagamente bendata, in quel punto riconosceva alle doppie spallette il giovine colonnello d’artiglieria Marmont, il solo ajutante che allora vi fosse di Stato Maggiore, poi generale, poi maresciallo infelice, e poi due volte istrumento dell’ultima rovina de’ suoi principi. Madama — 88 Letizia, ch’era pur nella sala con le sue figlie, ci venne incontro, molte cose gentili ne disse e volle assolutamente che ritornassimo a Milano, non più in carrozza da fitto com’eravamo andati, ma in cocchio a quattro cavalli del Generale. Il dì seguente, 4 di giugno, all’ore 9 della sera tornossi a Montebello. Napoleone era al pian terreno con alcuni Ufiziali; dopo i consueti saluti fummo invitati a salire ne’ suoi mezzanini (entresols). Egli ci precedeva solo sul grande scalone, con l’agilità propria dell’età giovanile e di una corporatura assai muscolare e in quel tempo magrissima. Io gli teneva di alquanti passi dietro come men giovane e men agile di lui, più giovane e agile de’ miei Colleghi; Carbonara veniva dopo, per ultimo il gottoso e lento per natura Cambiaso. Ad ogni braccio di scale ei si fermava per aspettarci tutti, e ricominciava quindi a correre quasi a salti in sù, finché c’introdusse vicino al suo gabinetto. Sedemmo; ma quivi, mutato improvvisamente contegno, domandò bruscamente qual era l’oggetto della Deputazione. Allora l’anziano di noi tre si raccolse alquanto, e poi con bella parlatura romana, come quegli che lungamente era vissuto in corte di Roma, incominciò. Tralascio di ricercare ansiosamente nell’affaticata memoria l’improvvisata sua orazione, per seguitare in compendio la relazione che di questa conferenza e della susseguente si mandò al Governo, relazione scritta in parte di mano del M.co Luigi Carbonara, e in parte del nostro Segretario Sig. Marcello Cerruti, ora principale Direttor delle poste. « L’oggetto della presente Deputazione » — disse l’ex Doge — « è di sommo momento. Veniamo, cittadino Generale, per parte del genovese Governo e di tutti i suoi popoli, a rinnovarle le sincere proteste che poco dianzi le porsero gl’illustri Deputati che ci precedettero, dell’afflizione e rammarico estremo che a tutti noi cagionarono i dissidj e i mali avvenuti verso gli ultimi giorni del passato mese. Piacque a V. E. (1) di mettere il nostro rin- (1) Era voce comune, di scandalo a i patrioti, che Napoleone non disamasse allora da’ forestieri il titolo di Eccellenza. — 89 — crescimento e l’osservanza nostra alla prova, facendoci fare alcune domande spinose sì, ma che il Governo ha tuttavia adempiute, come il suo degno ajutante di campo le avrà riferito, e come dimostrano i decreti che abbiamo in copia. Nè a ciò solo contenti, il Senato, ambo i Collegj e il Consiglio della Repubblica elessero la presente Deputazione all’oggetto di confermare a Y. E. il desiderio grande che nutrono di continuare nell’amicizia e salvaguardia della Repubblica francese. E questo ancor non è tutto. Ma, ammiratore, il Governo che rappresentiamo, de’ talenti non meno politici che militari con esempio rarissimo uniti nella persona di V. E., ha premurosamente ingiunto alla Deputazione d’invocare i di lei consigli per quelle riforme di leggi che fare potessero la felicità dello Stato, rassodarne l’unione, e assicurare la sua integrità. A questo importantissimo fine sono dirette le credenziali che abbiamo l’onore di presentare aV. E. ». Aveva il Generale ascoltato con meravigliosa attenzione questo ragionamento; quindi trascorse le credenziali, e poi con voce ferma rispose in francese, essersi egli altamente sdegnato contro il Governo di Genova e i suoi oligarchi, i quali avevano voluto compromettere il Ministro di Francia levandolo di propria casa per farlo servir di zimbello a’ loro maneggi, e per mettere a pericolo la sua stessa vita. « Gli oligarchi » — diss’egli — « sono coloro che fomentarono gli assassinamenti e gli orrori commessi in Genova sulla fine di maggio, i medesimi che nutrono un odio inveterato contro la Repubblica francese, e che lasciarono abbruciar la Modesta; e nel rimanente il Governo è in gran parte composto di persone deboli, poco sincere, e qua e là tirate non dalla ragione, ma dalla fortuna. Con tale sorta di aristocrazia la Repubblica francese non può dunque avere la minima simpatia e fiducia, nè in verun modo assisterla e favorirla; anzi la sua dignità ne richiederebbe vendetta e punizione esemplare de’ ricevuti oltraggi. « Con tale intenzione la mia vanguardia è già a Tortona; l’artiglieria d’assedio è vicina a raggiungerla, e non vi ha forza al mondo che possa impedire la soddisfazione dovuta alla grande Repubblica, e le pene meritate da quelli che armarono car- — 90 — bonari e facchini a danno d’inermi e inoffensivi Francesi. Non havvi dunque più scampo? » — soggiunse — « Sì certamente! e poiché invocaste i miei consigli, io ve li darò; riformate » — parlava in francese — « riformate la vostra esistenza politica, rinunciate all’aristocrazia, e create un governo nel quale siano ammesse tutte le oneste persone e confidenti alla Francia. Non intendo però di escludere quelli, fra gli aristocratici attuali, che sono pieni di probità e di lumi, ma coloro che han sempre voluto la rovina della loro patria, e quegli ancora che hanno feudi forestieri; il che, se fui bene informato, un’antica vostra legge, andata poi in disuso, già prescriveva. Nè d’altra parte intendo di rendere ammissibile ai pubblici Ufizj la gente screditata e quella che, non avendo niente a perdere, non ha riparo di mandare ogni cosa sossopra. Un governo, ripeto, di uomini onorati, amici della Francia e senza privilegi di nascita, è quello solo che può salvarvi. Se le vostre facoltà o intenzioni non si estendono a tanto, è vano usar sotterfugi, procurar dilazioni; incontanente io mi pongo alla testa de’ miei valorosi soldati; laddove se a quello accondiscendete ch’io vi proposi, ci metterem tosto a lavoro; compileremo una costituzione fondata sopra gli addotti principj, assicureremo l’interna e l’esteriore tranquillità, e non solamente saranno dileguati i timori recentemente diffusi in Genova, che una gran parte della Riviera di ponente verrebbe ceduta al Re di Sardegna, ma la sicurezza e l’integrità dello Stato non sarà mai stata più salda, e ne ridonderanno molti altri vantaggi nelle pendenti negoziazioni di pace coll’Austria. Non si tema per altro che la Francia voglia comandare a Genova, o imporle le sue proprie leggi o quelle de’ Lombardi, essendo ben chiaro e manifesto che diversi sono i rapporti, diversi i costumi, e che il più delle volte le leggi di uno Stato non sono applicabili ad un altro. Laonde invito e richieggo la Deputazione, che voglia formare un piano di riforme adattate alla località, alle abitudini patrie, e nel medesimo tempo conformi agli esposti principj di una ben intesa democrazia. Questo piano io lo desidero fino di domane, e domane spero che la Deputazione vorrà favorirmi a pranzo ». — 91 — Fu osservato che nel principio di questa lunga risposta, a mano a mano ch’ei favellava, l’animo suo ne diventava più concitato e sdegnoso, non serbando decoro nè convenienza; laddove in sul fine il tuon della voce e le profferte tendevano a raddolcire l’amarezza grande e il turbamento che n’era nato negli ascoltanti. I Deputati Carbonara e Serra giustificarono a loro potere gli atti del Governo, scusarono le seguite violenze come rappresaglia degli attentati rivoluzionarj; compararono il procedere e la sicurezza de’ Francesi abitanti in S. Pier d’Arena co’ modi irregolari di quelli che avevano partecipato ai tumulti della città; mostrarono che l’aristocrazia di Genova, diversissima in ciò dalla veneta, era sempre aperta e disposta per legge a ricevere nelle sue file i benestanti ed onesti delle classi popolari; ma infine unitamente a l’ex-Doge conchiusero, come sempre si fa con chi potrebbe molto più nuocere che non vuole, ringraziando il Generale de’ compartiti consigli, e promettendo di accignersi tosto al lavoro. E invero le deliberazioni del Governo, notificate dal Segretario di Stato in pubblico nome a Faypoult, non permettevano di conchiudere altrimente. Durò questa conferenza quattr’ore. II pranzo del dì seguente fu splendido e numeroso. Come quegli che più correntemente parlava il francese, fui posto allato di Madama Bonaparte; dal lato sinistro era il Generale Clar-ke; dove sedesse il Deputato Carbonara non ricordo; il vecchio Cambiaso era presso alla Paolina non ancor maritata al Generale Aiutante Le-Clerc. Nel primo fiore della bellezza e gioventù, nella imitazione modesta delle correnti mode, essa pareva quel-l’Ebe che gli antichi favoleggiarono presente al convito degli Dei, o quella più veramente che scolpì Canova. Napoleone sedeva fra l’Arcivescovo di Milano e il Marchese Del Gallo Plenipotenziario d’Austria e di Napoli. Non mi ricordo bene, se a questo Pianzo o ad un altio appresso si trovasse il Generale Augerau. Certo è che, a dispetto de’ modi obbligantissimi di chi ci aveva invitati e di tutti i suoi senz’eccezione, quel maleducato e avido Giacobino non dubitò di dire con voce bassa ma intei- — 92 — lìgibile, che s’egli avesse comandata l’armata, perdonato non avrebbe all’orgogliosa e ostile città. Io stavagli a dirimpetto e cominciava a rispondere tutto agitato, che fortunatamente la dignità di Generale in capo,.... ma Napoleone interruppe e volse altrove il discorso, raddoppiando attenzioni. Quel tristo, io credo, ebbe ordine la stessa sera di portarsi alla sua divisione, e forse anche a Parigi, ove il Direttorio lo aspettava, e dov’egli non cessò di macchinare contro il suo Capo sotto mentite adulazioni. Noi rividi mai più. Dopo il desinare e un breve passeggio sulla terrazza, Bonaparte ci condusse in una stanza terrena, e domandata la carta delle chieste riforme, udilla senza muover palpebra, quindi invitocci a salire ne’ mezzanini. Faypoult già c’era; e a lui, che teneva la penna in mano, dettò, quasi l’avesse a memoria, un progetto di convenzione tra le due Repubbliche, tratto in parte da quello che aveva allora allora udito e in parte dalle proprie idee. Sicuro di non avere a chi che sia dato copia del nostro lavoro, che aveva io stesso disteso in carta, fui veramente colpito di maraviglia per tanta prova di memoria e d’ingegno; ma la maraviglia diè quasi luogo alla compiacenza, quando, sull’invito di lui, Faypoult prese a rileggere l’un dopo l’altro gli articoli; e obbiezione non fu da noi proposta che il Generale, senza mostrarne mai noja, non la discutesse con noi, arrendevole sempre che troppo direttamente per suo avviso non si alterassero le fermate basi. Nel rimanente egli stesso cercava a gara con noi di variare così l’espressioni da ledere il men possibile la nostra indipendenza, e di estendere la proposta amnistia non solo ai difensori del Governo, in maggio, ma pure a quelli che per disordini accaduti ne’ feudi imperiali erano stati condannati in contumacia a sua instanza dalle commissioni militari francesi. Il che recò indicibile contento a tutti noi, e principalmente a me, la cui famiglia avendo avuto qualche differenza con quella del M.co Agostino Spinola signore del feudo imperiale d’Arquata, troppo a cuore mi stava di vendicarmi con fargli bene. La sua sentenza contumaciale portava la fucilazione. — 93 Esaurita la discussione, convenute l’emende da farsi, e corretta altresì la sintassi grammaticale francese, ove il Generale a dir vero incespicava un poco, il Segretario Bourienne rifece la copia della convenzione, ed in questo mezzo essendosi Bonaparte alzato per passeggiare su in giù della stanza, seguitatolo anch’io l’interrogai a sollazzo sulla tattica usata per ispingere l’arciduca Carlo alle linee di Vienna; al che egli mostrandone piacere rispose distintamente, mostrandomi che s’egli aveva indebolite oltre misura ambedue l’ali del suo esercito, era però sicuro dell’effetto morale che produrrebbe una forza irresistibile al centro sul cammino che guida alla città capitale di una gran monarchia. Al primo avviso che la nuova copia era in pronto, ci sedemmo di nuovo; e già trattandosi di sottoscriverla, la Deputazione mosse altre questioni, dicendo che, in definire cosa sì grave e inopinata, faceva di mestieri qualche tempo di più per riflettervi; darne parte al Serenissimo Governo, e intenderne le sue ultime determinazioni. Ma il Generale accigliandosi rispose, che le facoltà a lui esibite dovevano bastarci, e ch’egli non s’opponeva alla ratifica de’ Collegj e del Minor Consiglio. Una seconda obbiezione si fece in quel genere di argomenti che i loici antichi chiamavano ad hominem. Concediamo, dicevamo, che la suddetta ratifica debba bastarci per parte dell’aristocrazia che si estingue; ma i principj della democrazia che incomincia non richieggono essi che, a volerla o a rifiutarla, si consulti la prima cosa, il voto del popolo? — Giustissimo è questo principio, replicò Napoleone, ma il tempo di farne l’applicazione non è ancor venuto; ei verrà allora quando la Giunta di legislazione avrà steso il suo progetto di costituzione, senza del quale impossibil cosa saria che il popolo genovese pronunziasse con cognizione di causa il suo giudizio....... Nel rimanente, o sottoscrivete la convenzione fin da quest’ora, o non isperatene mai più un’altra; avete in questo punto a decidere se alleata o nimica sarà quindi innanzi la Repubblica vostra della mia. Ciò detto alzossi da capo, e noi, dopo breve pausa, concordemente persuasi della necessità, ci sottoscrivemmo. Sottoscrittosi egli ancora, e invitato altresì il Ministro Faypoult — 94 — ad apporre la sua segnatura, a tre ore dopo la mezza notte sciolse la conferenza, e ci accompagnò fino alle scale colle più grate espressioni. La relazione uficiale de’ fatti surriferiti conchiudeva a questo modo, in che la mano si riconosce e lo stile di Carbonara: « Dopo l’esposto dovrebbe la Deputazione aspettare in silenzio le determinazioni del Minore Consiglio; ma sarà permesso al di lei zelo per il bene della patria e per l’interesse comune de’ cittadini di osservare, che posta la necessità di un cambiamento di governo, resa per tanti lati evidente, non poteva presentarsi una convenzione più di questa meritevole della universale approvazione. Per essa si conserva almeno la forma dell’antico governo, diviso in un Senato e due Consigli; che se i principali cittadini non avranno più dalla nascita il diritto privativo di esservi ammessi, lo avranno in modo più vantaggioso al bene comune dalla propria virtù, accompagnata da sufficienti sostanze. Per essa si sostiene una Repubblica già da lungo tempo vacillante, e che abbandonata da ogni Potenza, era prossima ad una intera rovina. Per essa soltanto possono calmarsi le interne inquietudini, delle quali è impossibile calculare il progresso, e che dopo l’incendio de’ mali occorsi devono necessariamente di giorno in giorno crescere e riprodursi. Per essa, finalmente, lo Stato acquista unità, sicurezza, conservazione, e fondata speranza di possibile incremento ». L’espresso apportatore di cotal relazione ritornò quanto prima con la ratifica del Minor Consiglio, nel quale Corpo di Repubblica erano, come si disse, compresi i Collegi Serenissimi, vale a dire i Senatori e il Doge. Fu approvata a pieni voti; però che le nuove già sparse delle incominciate trattative avevano persuaso ogni gente, innanzi ancora di averne certezza, che la costituzione si muterebbe. Laonde gli amatori degli ordini antichi si erano astenuti dall’adunanza, o postisi in silenzio o rassegnati alla necessità; mentre il numero de’ contrarj era cresciuto. Medesimamente la parte vittoriosa del popolo stava confusa, la vinta più baldanzosa che mai, e disposta a prorompere — 95 — in vendette; nè il vacillante Governo sapeva quale opinione sostenere, quale reprimere. Durava quasi per un prodigio la pubblica tranquillità, come dura in mare la calma, quando già il baleno squarcia le nubi addensate sull’orizzonte. L’affisse copie della convenzione allontanarono la procella. Insieme colla copia ratificata i Deputati riceverono le facoltà necessarie a eleggere di concerto co’ Plenipotenziarj di Francia i Ventidue del Governo provvisorio. La salute e prosperità di qualunque nuovo Stato dipende in gran parte da’ suoi primi Capi, onde non basta far buone leggi, bisogna eguale bontà ne’ governanti. Una terza conferenza venne a ciò destinata. Napoleone propose la prima cosa i tre Deputati, Carbonara non contraddisse; ma gli altri due, posti nella durissima alternativa di tacitamente disapprovare il suo procedere, o di tornare fra i lor cittadini con taccia di amor proprio e di ambizione, passioni innate agli uomini, ma in certi casi che diffinir non si possono, men delicate, l’esempio del loro dotto collega non seguitarono, anzi così resisterono alle più forti istanze, che, invece di Michel Angelo Cambiaso e di Girolamo Serra, si scrissero finalmente i nomi di Carlo e di Giovanni Carlo loro fratelli maggiori. Appresso fu scritto in capo di lista il Doge Giacomo Brignole, il quale era il primo in tre secoli di aristocrazia che fosse due volte asceso al supremo grado, e doveva di tutti esser l’ultimo, senz’aver fatto mai cosa che fosse degna o immeritevole di tant’onore. Ma ristretta autorità, incommode cerimonie, e molesti divieti (1) erano allora cagione che pochi lo ambissero. Francesco Cattaneo, già deputato al quartier generale, fu il quinto alla cui elezione il Generale prese spontanea parte. Degli altri non s’ingerì, se non quando Faypoult non s’accordava co’ deputati, mirando, com’egli diceva, a fondere i partiti, e ad escludere da qualunque banda i violenti. Discordanza non v’ebbe pel burbero negoziante Eossi, oracolo soverchiamente vantato della piazza di (1) Era per legge vietato al Doge di andare per minimo tempo in villeggiatura, e di uscire anche a solo diporto senza corteggio da principe. Genova in materia di commercio e di finanza, nè per l’eloquente e a tutti grazioso avvocato Corvetto, nè finalmente per Agostino Pareto, giovinetto di 22 anni, nobile di natali, cupido di fama onorata, e fornito anzi tempo di tutte le qualità che un pi incipe buono può desiderare ne’ suoi Ministri; sol gli mancava per uom di repubblica la facilità di parlare a numerosa assemblea, e quel caldo di affetti che supplisce al dono della parola in tempi pericolosi. Tralascio i rimanenti; ristringendomi ad osservare come nell’intera lista de’ Ventidue i Nobili erano otto, i Possidenti dell’Ordine non ascritto quattro, gli Avvocati quattro, i Mercatanti tre, de’ Medici uno solo, de’ Militari un altro, e un solo Notajo, che poi fu costretto da irragionevoli clamori a rinunziare. Adunque l’autorevole influenza del Capo e la ragione del numeio dovevano al certo impedire le reazioni violente e le ingiuste persecuzioni, funeste compagne de’ rivolgimenti di Stato, se Bonaparte non avesse lasciato l’Italia, e ancora se 1 animo di alcuni fosse stato più saldo, si mens non saeva fuisset. Napoleone non andò a riposare prima di aver dato parte dell’ultime due conferenze al Doge: « Al Serenissimo Doge della Repubblica « di Genova « I Deputati, che il Minor Consiglio della Repubblica di Genova si è compiaciuto (a bien voulu) di mandare presso di me, sono stati soddisfatti de’ sentimenti di benevolenza che la Repubblica francese conserva per la Repubblica di Genova. « Ben lontana da volere smembrare il vostro territorio, la Repubblica francese promuoverà con tutta la sua influenza l’accrescimento e la prosperità della Repubblica di Genova, ormai libera e governata da principj sacri, fondamenti della grandezza e della felicità de’ popoli. « Vostra Serenità troverà qui sotto la nota delle persone — 97 — che, giusta la Convenzione che abbiamo fatta, ho creduto opportuno di scegliere come i più idonei a formare il Governo provvisorio ..........Prego Vostra Serenità di voler fare adunare i cittadini suddetti, ed entrare in carica come governo provvisorio il di 14 del presente mese di giugno. « Bonaparte ». Se il Generale in Capo rubò una mezz’ora al sonno per indirizzare questa lettera al Doge, il più giovane dei Deputati tolse l’intera notte al riposo per dare una spinta efficace alle vaghe offerte d’ingrandimento che Napoleone non rifiniva in carta e a voce di fare. Il più profittevole acquisto stato sarebbe il territorio di Oneglia e di Loano, che intramezzava la bella riviera di ponente; ma il Re di Sardegna ne aveva il dominio, e la recente sua lega co’ Francesi prometteva anche a lui più ingrandimento che diminuzione. Eravi pure col Duca di Parma una lega consimile sotto la mediazione di potente alleata, la Spagna. Una specie di paternità legava la Repubblica francese alla Cisalpina; oltre che i confini non erano ancora contigui con quelli di Genova. Non rimaneva dunque altro a sperare che i feudi imperiali, una volta uniti all’Austria mediante il Milanese, ora disgiunti per tutta l’ampiezza del nuovo Stato. I feudi imperiali situati presso la Trebia e la Scrivia avevano una popolazione di settanta mila anime, quelli di Val di Magra trenta mila circa, tutti discendenti dagli antichi Liguri, montanari robusti, operosi, frugali. I loro numerosi e poveri casali, l’aspre ma coltivate e boschive loro montagne formavano una specie di zona e antimurale della Liguria marittima, sì contro a l’impeto de’ venti boreali, come contro a nemiche forze di terra. Alcuni di essi non erano più di 15 miglia lontani da Genova, e però la diversità di dominio vi apriva un facile ricetto a tutti i malcontenti e i rei processati dalla Repubblica. Per lo contrario, se antiche convenzioni non permettevano di porvi dazj di transito, quella stessa diversità nondimeno impediva di aprirvi 7 — 98 — più corte e più agevoli strade per carri e vetture. L’ottenerli o il perderli, il prevenire le altrui domande o l’essere prevenuti, poteva dipendere da pochi istanti, essendo codesto il tempo unico dopo quelli del medio evo, che un uomo solo, un guerriero, scomponeva a sua voglia le antiche associazioni de’ popoli e ne formava di nuove. Pieno la mente di tali considerazioni che non mi lasciavano chiuder palpebra, scrissi la lettera che in gran parte si trova nella corrispondenza inedita, non senza un manifesto errore di data (1); e al nuovo dì la lessi ai miei Colleghi, i quali la commendarono assai, ma non la sottoscrissero, velando sotto graziosi colori quella maggior cautela ch’è propria della più grave età. « Generale in Capo » — io scriveva in francese — « quando si è nell’entusiasmo, si parla agli uomini grandi come se si avesse somiglianza con loro; scusate dunque il mio ardire, e degnate leggere tutta intera quest a mia lettera. Voi non siete fatto, Generale, per un solo popolo, e la fisica differenza delle Nazioni non può influire nei vostri sentimenti. Epaminonda, Milziade, Seno-fonte, combatterono per piccole Repubbliche, e i nomi loro van del pari in celebrità cogli eroi del Romano impero. Vincitore de Piemontesi e degl’imperiali, pacificatore dell’Europa, altri titoli di gloria, altri piaceri vi sono serbati, quelli di far molti popoli felici. I Genovesi meritano forse la vostra preferenza per aver serbata una scintilla di libertà nella schiavitù delle vicine regioni, per l’energia del loro carattere e l’importanza della lor situazione. Voi date loro un governo nuovo; aggiungete ancor qualche cosa che renda loro cara quest’epoca, date una regolare e solida circonferenza a uno Stato che ne fu privo finora; unite loro quegli abitanti degli Appennini, cui la natura circondò di montagne e di mari, perchè formino insieme una sola famiglia. Tempo è che la Francia e il Capo immortale delle sue schiere in Italia, che un uomo di Stato così illuminato e sagace, li renda all’an- (1) Milano li 11 prairial a. V. (30 mai 1797), laddove la data vera è nella notte del sette all’otto di giugno. Copie devono essere quelle lettere che si contengono nella corrispondenza inedita. — 99 — tica unione indicata dalla stessa natura. Oso sperare che me ne darete la sicurezza; i miei Colleghi l’attendono meco impazientemente dalla Vostra magnanimità. Di certo Voi non ismentirete quel carattere di sincerità e di vera grandezza che non dipende dagli avvenimenti, e che maestosamente si estolle sopra ogni specie di ostacoli e contraddizioni ». Quest’ultima frase faceva allusione all’a-nimo a\ \ erso che cominciava a palesarsi in vari giornali, nel cele-hio Club di Clichy, in ambo i Consigli, e nel Consesso stesso del Direttorio; e da quanto egli mi aveva già accennato in famigliari ìagionamenti, io conghietturava che l’allusione non gli spiacerebbe. Non iu lento a rispondere. « Già da 15 giorni aveva donati alla Repubblica cisalpina i feudi di Val di Magra. Essa pur domandava quelli della Trebia e della Scrivia; ma non avendo ancora annuito, egli si faceva un piacere di adempiere i miei voti, mandandomi copia delle deliberazioni, in cui, atteso la convezione, che democratica, amica ed alleata della Repubblica francese rendeva quella di Genova; atteso i voti della popolazione di Trebia e di Scrivia componenti gli antichi feudi imperiali di formare co’ Genovesi una sola famiglia, il Generale in Capo, valendosi della piena balìa conferitagli nelle cose d’Italia, le incorporava per sempre alla Repubblica genovese ». Fu questo un bel giorno per la Deputazione. La sua convenzione segreta, titolo imitato da quella che 1 anno innanzi si era fermata a Parigi, fu nondimeno stampata a Genova appena che vi pervenne, e la seguente ne è una copia. « CONVENZIONE « stipulata a Montebello presso a Milano li 5 e 6 giugno del 1797 fra il cittadino Bonaparte Generale in capo dell’armata francese in Italia e il cittadino Faypoult Ministro della Repubblica Francese presso quella di Genova, e l’Eccellentissimo e MM. Michel Angelo Cambiaso, Luigi Carbonara, Girolamo Serra, Deputati per la Repubblica di Genova. — 100 — « La Repubblica francese e la Repubblica di Genova volendo consolidare l’unione e l’armonia che in ogni tempo è esistita fra esse; e il Governo di Genova credendo, che la felicità della Nazione Genovese esiga, che nelle circostanze presenti le sia rimesso il deposito della Sovranità, che gli aveva confidato, la Repubblica francese e la Repubblica di Genova sono convenute negli articoli seguenti. « Art. 1. « Il Governo della Repubblica di Genova riconosce che la sovranità risiede nella riunione di tutti i Cittadini del Teni-torio Genovese. « Art. 2. « Il Potere legislativo sarà confidato a due Consigli Rappresentativi, composto l’uno di 300 e l’altro di 150 membri. « Il Potere esecutivo apparterrà a un Senato di dodici membri presieduto da un Doge. « Il Doge e li Senatori saranno nominati dai due Consigli. « Art. 3. « Ogni Comunità avrà una Municipalità, ed ogni Distretto un’Amministrazione. « Art. 4. « Li modi di elezione di tutte le autorità, la circoscrizione de’ Distretti, la porzione di autorità confidata ad ogni Corpo, l’organizzazione del Potere giudiziario, e della Forza Militare saranno determinati da una Commissione legislativa, che sarà incaricata di compilare la Costituzione, e tutte le leggi organiche del Governo; avendo cura di niente fare che sia contrario alla Religione Cattolica, di garantire i debiti consolidati, di conservare il Portofranco della città di Genova, la Banca di S. Giorgio, e di prendere delle misure perchè sia provveduto, per quanto i mezzi lo — iói — permetteranno, al mantenimento dei poveri Nobili esistenti attualmente. Questa Commissione dovrà finire il suo travaglio fra un mese, da contarsi dal giorno della sua formazione. « « Art. 5. « Il Popolo ritrovandosi reintegrato ne’ suoi diritti, ogni specie di privilegio e di organizzazione particolare, che rompe l’unità dello Stato, si trova necessariamente annullata. « Art. f>. « Il Governo provvisorio sarà confidato ad una Commissione di Governo composta di 22 membri presieduta dal Doge attuale, che sarà installata lì 14 del presente mese di giugno, 26 prairial anno V della Repubblica francese. « Art. 7. « Li cittadini che saranno chiamati a comporre il Governo provvisorio della Repubblica di Genova, non potranno ricusarne le funzioni senza essere considerati come indifferenti alla salute della Patria e condannati a una multa di duemila scudi. « Art. 8. « Quando il Governo provvisorio sarà formato, determinerà esso li Regolamenti necessarj per la forma delle sue deliberazioni: egli nominerà, entro il termine di una settimana dalla sua installazione, la Commissione Legislativa incaricata di compilare la Costituzione. « Art. 9. « Il Governo provvisorio provvederà alle giuste indennità dovute a i Francesi derubati nelle giornate dei 3 e 4 prairial. — 102 — « Art. 10. « La Repubblica francese volendo dare una prova dell’interesse ch’essa prende alla felicità del popolo di Genova, e desiderando vederlo riunito ed esente dalle fazioni, accorda un’amnistia per tutti i Genovesi, di cui essa avesse a dolersi sia per ragioni de’ 3 e 4 prairial, sia a cagione degli avvenimenti diversi arrivati nei Feudi Imperiali. Il Governo provvisorio metterà la più viva sollecitudine ad estinguere tutte le fazioni, a riunire tutti i Cittadini, ed a penetrarli della necessità di riunirsi intorno alla libertà pubblica, accordando a quest’effetto un’amnistia generale. « Art. 11. « La Repubblica francese accorderà alla Repubblica di Genova protezione, ed ancora i soccorsi delle sue Armate, per facilitare, se ciò sarà necessario, l’esecuzione degli articoli suddetti e mantenere l’integrità del territorio della Repubblica di Genova ». Non sarà discaro, a chi fra i genovesi deputati e patrizj ancor sopravvive, che si confrontino con questa le convenzioni, le paci, le tregue successivamente fatte dalla Repubblica francese con Torino, Venezia e Roma, col germanico Impero, con la Spagna, il Portogallo, gli Svizzeri e gli Olandesi. Checché siasi scritto in contrario confondendo due epoche diverse, e una pretesa obbligazione in Milano co’ restanti due milioni di prestito pattuiti l’anno innanzi a Parigi, niuna gravezza affatto, nessuna nuova sovvenzione si stipolò. Nessun genovese, ancorché feudatario, fu dal Governo per diritto escluso, nessuno per cagioni politiche rimase in arresto o sotto processo; le antiche forme non vennero dimenticate, non le angustie di nobili famiglie! Nel medesimo tempo cansossi il pericoloso ajuto di una forza straniera, si evitò ogni lega ogni promessa di ostilità contro i nemici della Francia; ottennesi ciò non »- 1Ò3 — di meno la desiderata garanzia, e due giorni dopo, invece delia temuta separazione, un territorio importante si aggiunse al Genovesato. Guai se l’Aristocrazia genovese mancava quattr’anni prima, quando la Convenzione di Parigi perseguitava a morte gli aristocratici, i moderati, i ricchi, o vero un anno dopo, quando il Direttorio aveva tal fame d’oro, che mise sossopra e in rivoluzione la Svizzera per divorarne le spoglie, quantunque ella fosse una costante alleata, e una Nazione bellicosa! PARTE SECONDA STORIA DI GENOVA NELL’ANNO 1814 SCRITTA DAL M.se GIROLAMO SERRA. NEL 1830 Un forestiere di gran titolo e di vasta erudizione fornito mi disse un giorno, maravigliarsi che a sua notizia nessuno avesse ancora descritte l’estreme vicende della Nazion genovese nell’anno 18.14, quando gli amici e cittadini di lei concepirono, e quasi ad un tempo perderono la speranza di rivederla nell’antica sua dignità e indipendenza. Fu questo come un carbone ardente; non ebbi pace, finché non proponessi meco medesimo di prendermi a cuore sì fatta osservazione, contenente un rimprovero di benevolenza; ed oggi in questo mio romitaggio sopra il ligure mar riguardante dò mano al lavoro, cominciando da un brevissimo sunto degli avvenimenti che corsero dal dì 22 di maggio 1797 all’epoca indicata. Dirò cose in parte da me trattate, parte vedute, o lette in documenti originali. Nell’anno 1797 alli 18 aprile, Napoleon Bonaparte, Generale supremo dell’esercito francese in Italia, dettava quasi alle porte di Vienna gli articoli preliminarj di Leoben. Indi a pochi giorni la Repubblica veneziana, forte di quattro milioni d’anime, dopo un’incauta alternativa di neutralità disarmata e di nimi-cizia coperta, a un tratto atterrita dalla fortuna e dalle minacce di Napoleone, si era da se stessa sciolta in una garrula Municipalità alla francese, senza garanzie, senz’accordo ostensibile nè col Direttorio di Francia nè col suo Generale. Il Gran Duca di Toscana assai prima, quindi il Re di Napoli e il Duca di Parma si erano già separati dalla coalizione, mediante tre paci sotto-scritte da’ loro Ambasciatori in Parigi. Il Papa Pio VI avea consentito a un duro armistizio in Bologna, e poscia alle durissime condizioni impostegli a Tolentino, nelle quali, oltre a monumenti e capi d’arte preziosi, abbandonava il Ferrarese, il Bolo- T — 108 — gnese, e la Romagna. Il Re di Sardegna, fatto già l’abbandono della Savoja e della Contea di Nizza, poi consegnate tutte le sue fortezze salvo quelle di Torino e di Alessandria, che cedè poscia ancora, si era obbligato il dì 5 di aprile ad un’alleanza offensiva e defensiva con la Repubblica francese contro l’Impe-radore germanico. I Deputati e Ministri di questi Principi, Ma-rulli, Politi, Massimi e San Marzano, seguitavano il quartier generale de’ Francesi, e corteggiavano assiduamente il vincitore ora nel palagio Serbelloni a Milano, e ora in quel de’ Crivelli a Montebello, abitati da lui a vicenda fino al Congresso di Cam-poformio. Tra gli ultimi giorni di aprile e i primi di maggio venivano pure a complimentarlo il Marchese del Gallo napolitano, e il Conte austriaco di Meerfeld, destinati ambedue dalla Corte Cesarea a trattare una pace deffìnitiva. Intanto 1 Aristocrazia Genovese, invariabilmente neutrale fra i Principi coalizzati e la Francia, si compiaceva in palese delle sue amichevoli relazioni con tutti e del commercio più esteso che i suoi popoli avessero da lungo tempo avuto, ma deplorava in segreto l’equilibrio rotto, l’esempio pericoloso, i malevoli incoraggiti; e già sentiva fischiarsi all’orecchio il sibilo d’imminente procella, quando il dì 22 di maggio la Compagnia volontaria de’ Cadetti, giovani tutti impiegati al commercio, andando a rilevare secondo il consueto la guardia del Ponte Reale, fece sonare la funebre marcia del (la-ira alle grida triplicate di Viva il Popolo e l’Egua-glianza! Ma il Popolo stesso, e principalmente l’Arte numerosa de’ Carbonaj, prese l’armi contro agli spergiuri, di modo che il dì seguente con pochissima mortalità tutto era nuovamente tranquillo, e tutta l’autorità in man del Governo. Se non che alcuni Francesi misti a’ rivoltosi erano rimasti feriti, forse uno o due uccisi, che non fu bene accertato; ma Bonaparte ne montò in furore e incamminò a Tortona la sua retroguardia comandata dal generale Berthier con grosso treno di artiglieria. Al che si aggiunsero sicuri avvisi che, alienissima l’Austria dall’impegnarsi in nuova guerra, non sol consentiva ma sollecitava l’esecuzione delle cose trattate ne’ Preliminari. Laonde il Governo genovese 109 — privo d’ogni speranza, e non volendo a manifesta rovina esporre i suoi popoli, inviò al Generale supremo in Milano due Deputati, i Patrizi Girolamo Durazzo e Cesare Doria, e poco appresso tre altri con le facoltà che non avevano i primi, i Patrizi Michel Angelo Cambiaso ex-Doge, Luigi Carbonara e Girolamo Serra. Fu male che il Governo comunicasse al Ministro Francese Faypoult le facoltà concedute di variare insino alle Leggi fonda-mentali; e fu peggio ancora, che Napoleone, poco curante in cuor suo di novità e d’uguaglianza, avesse risoluto a quell’ora, per giugnere un dì agli occulti suoi fini, di sostenere la parte de’ Giacobini in Francia contro quella de’ Moderati, i quali propendevano a richiamare i Borboni; talché non avrebbe potuto, senz’aperta contraddizione nè forse senza pericolo, tollerare in Genova ciò che simulava di abborrire in patria. A conferma di che fu inteso un Generale di fazion giacobina, l’arrogante e rotto Augerau, dolersi con lui alla stessa sua mensa e ad alta voce, che progredir non facesse la sua retroguardia alle mura di Genova per darle quel grande emporio in preda. Giunti pertanto i tre Plenipotenziarj a Milano, e introdotti alla villa di Montebello, otto miglia lontana, ottennero pace, amnistia generale per le persone incolpate di violenza contro i Francesi, integrità del territorio, che i Coalizzati per lunghissime istanze non avevano promessa giammai, e alcune forme antiche di dignità, Doge, Senatori, e Consigli, atte a imprimer rispetto e moderar reazioni; ma conservar non poterono l’ottima forma di governo per un paese piccolo e ricco, l’Aristocrazia temperata de’ loro Maggiori, nella quale non erano pochi i difetti, come in tutte le umane istituzioni, ma due i vantaggi e innegabili e grandi, certa quiete e tasse moderate. Il nuovo atto governativo fu letto, discusso e sottoscritto da’ Deputati Plenipotenziarj e dal Generale i giorni cinque e sei di giugno, ratificato dai rispettivi Governi, nel minor tempo possibile, e nominossi la Convenzione di Montebello. Furono lodate generalmente da tutti, e in particolare da uno dei plenipotenziarj imperiali, l’avvedutezza e la costanza usate dai Genovesi in evitare qualunque patto d’ai- — 110 — leanza e di lega contro altri Principi, e parve altresì che Bonaparte, estimatore spesse volte imparziale delle rette intenzioni, non ne tenesse rancore, poiché dietro a una lettera del più giovane de’ Deputati, vista e approvata dagli altri due, consentì a valersi degl’illimitati poteri che conferiti gli aveva o non osava contendergli il suo Governo, donando a quello di Genova un’am-pliazione notabile di territorio, e più notabile ancora per la vicinanza e la situazione. Era questa una catena di montagne e convalli presso al fiume della Scrivia, divisa in vari feudi imperiali rinunziati dall’Austria, lunga cinquanta miglia circa, da sei in dodici larga, quasi una fascia del Genovesato a settentrione, contenente una popolazione armigera e nerboruta di sessanta mila anime. Pochi momenti ancora che indugiata si fosse la Convenzione di Montebello o la domanda, Bonaparte, conquistatore ed arbitro di quel territorio, incorporato l’avrebbe, come avea fatto alcuni giorni innanzi degli altri feudi imperiali di Val di Magra, alla nuova Repubblica de’ Cisalpini, o, in premio d’intima alleanza, al Piemonte. Probabilmente ancora la Riviera di Ponente sarebbe fin d’allora venuta nelle stesse mani, almeno per un certo tempo; avendomi il Generale in capo confermato di sua bocca l’avviso, comunicatoci dal nostro Incaricato d’affari a Torino, che, su i primi romori d’una civil dissensione in cui de’ Francesi abitanti a Genova erano rimasti morti, il Governo Sardo gli aveva offerto, tanto son ciechi per avidità i Governi!, di occupar la Riviera con le sue truppe a comune sicurezza e vantaggio, senza sguernire l’esercito francese accampato inverso l’Austria. Anzi, chi sa se l’Aristocrazia ostinandosi a non cedere, una crudele politica non avesse disposto di Genova stessa, non che della Riviera, come dispose poi di Venezia? E dato ancora che tanto non fosse avvenuto, guai se l’antico Governo cadeva, come caduto infallibilmente sarebbe, quando, lontano Napoleone, corsero tempi di aperta violenza, di confiscazioni e di esilj sotto il comando militare di Brune e di Joubert, uomini per sé stessi non sanguinar]', ma nimici a morte del Patriziato e delle vecchie istituzioni! — Ili — Il giorno 14 di giugno era stato prescritto al mutamento dell’ordine politico nella Liguria. In detto giorno adunque cessarono senz’opposizione, senza il menomo tumulto i principali Magistrati dell’Aristocrazia; e un Governo provvisorio di 22, col vecchio Doge per Capo, pigliò le redini dell’amministrazione. Otto erano degli antichi Patrizj, quattro Avvocati, quattro Possidenti nel Dominio, quattro Mercatanti, un ufiziale del Genio, e un Medico. Sogliono i più imprudenti dominare ne’ Governi nuovi. Uomini di tale carattere furono quelli i quali persuasero a’ loro Colleghi di tutto distruggere quanto ricordava il passato, e vennero in ciò secondati dalla plebaglia, che ama il disordine senza conoscerlo, e da’ malvagj, che lo conoscono e l’amano. Ma quando intesero di riedificare, quando vollero ubbidienza, tranquillità, leggi eguali per tutti, per quelli che s’erano dichiarati nimici del cessato Governo a fine di crescere in potenza, come per quelli cui l’esercitato e perduto potere rendeva deboli e odiosi, allora i Ventidue s’avvidero, con tardo dolore, di aver posta la Repubblica a ripentaglio tra una moltitudine delirante e un branco di affamati. Laonde i sei mesi, che durò quel Governo, furono pieni di tumulti, d’insidiosi raggiri, e di carcerazioni, fra le quali notabilissima è quella del Patrizio Giovan Carlo Serra, soprannominato da’ ripetitori delle cose francesi il Duca d’Orleans, uno de’ Ventidue, per ampiezza di cognizioni, per costanza d’animo e attitudine a governare incontrastabilmente il primo. La sua manifesta innocenza dall’imputatagli congiura, una invincibil vergogna ne’ suoi avversarj, sovvenuti più volte da lui con danaro e protezione, il numero stesso de’ suoi fratelli risoluti di salvar la sua vita a costo della propria, l’antica dignità della sua Famiglia, e occultamente l’impegno del Ministro Faypoult che l’albero fosse incurvato ma non isvelto, aprirono la carcere del Serra con sentenza pronunziata da quel medesimo tribunale straordinario, ch’era stato istituito in mezzo alla sommossa per giudicare s’era degno di morte. Queste cose seguirono terminando il dicembre dell’anno 1797. Alle calende del gennaio seguente cessò il Governo provvisorio, ed ebbe principio la Costituzione compilata da — 112 — una Commissione speciale sull’esemplare della francese con violazione manifesta all’articolo 11 della Convenzione di Montebello, la quale, come dissi sopra, conservava le dignità di Doge, Senatori e Consiglj. Gli uomini eletti a comporre il supremo Magistrato, detto in allora il Direttorio, erano tutti e cinque amatori dell’ordine pubblico e del ben generale; ma tutti più o meno essendo di piccolo cuore, due solenni paure li dominavano, l’u-na più remota ma forse più profonda, che, mutata la fortuna del-l’armi in Italia, tornasse al governo la depressa Aristocrazia, l’altra, di tutti i giorni e quasi di tutti i momenti, che la moltitudine agitata da’ Nobili vendicativi, o da Popolari avidi e ambiziosi, si scagliasse contro di loro e li privasse di vita qualunque volta essi facessero una resistenza gagliarda alle sue frenesie. Quindi il permettere sospette combriccole, arresti arbitrar], grida di morte contro gli ex-Nobili e i Preti, il licenziare un Ministro di Polizia amatore del nuovo ordine di cose, ma fermo e severo nimico di tutti gli eccessi, il proporre essi stessi, benché esattissimi a’ doveri della religione, e amicissimi a’ Religiosi, lo spoglio dell’argenteria delle chiese, il trattare i Potentati stranieri ne’ pubblici atti e proclami da barbari e liberticidi, quantunque non ignorassero il rispetto dovuto alle grandi Nazioni e all’au-guste Famiglie che le signoreggiano. Non ultimo a cedere alle popolari minacce, e quasi unico a scrivere proclami, era quel Luigi Corvetto a cui tanto deve la Francia, occupata dalle Potenze coalizzate, per la sagacità e dolcezza con che ottenne diverse facilità importanti nelle pattuite compensazioni in danaro, e pel successivo Ministero delle Finanze sotto il Re Lodovico XVIII, nel quale, checché l’invidia possa dirne, si posero le fondamenta del credito pubblico in quel desolatissimo regno. L’avvocato Corvetto, sensibile di nervi, tenero di cuore, di nobile e dolce aspetto, di commovente e grata eloquenza, d’incorrotti costumi e religiosi, dava il suo voto nel Direttorio Ligure e scriveva i suoi proclami con quel ribrezzo istesso che tira il remo un galeotto; ma non aveva petto di bronzo contro a una turba minacciosa sotto le sue finestre o ad un paffuto — 113 — Patriota nel suo gabinetto; i suoi colleghi l’assomigliavano in questo. Non è perciò maraviglia se, sotto il governo d’uomini individualmente buoni, il paese tollerò tutti i mali, che i cattivi fanno quando pervengono a governare: tasse straordinarie spartite ad arbitrio di commissioni speciali, pene contro l’emigrazioni, Uste di emigrati, sequestro e confisca de’ loro averi, manpresa dei beni ecclesiastici rattamente sciupati, lasciando allo Stato il carico enorme delle pensioni vitalizie alle monache e ai frati; quelle stesse pensioni con tutto il debito pubblico pagato in carta non esigibile, e però di un valore per la metà, e anche di tre quarti inferiore al valor nominale; spoglio delle chiese, liste di sospetti, creazione di tribunali militari e inappellabili per delitti di Stato, guerra dichiarata alle potenze nemiche della Francia; e perciò la navigazione sospesa, il commercio annientato, l’antico banco di S. Giorgio violato, il progressivo rincarimento di tutte le derrate, e finalmente il terribile blocco dell’anno 1800. Non giunse però la Costituzione direttoriale a durar tanto tempo; perchè appena fu esaurita la lista degli atti governativi, i quali rendono un popolo infelice e un governo odioso, che il più oscuro fra i Deputati del Corpo Legislativo stimolato dal Comandante delle truppe francesi in Liguria, pronunziò dalla ringhiera: — Non esiste più Direttorio; — e tanto bastò perchè i Membri di esso si sepa-ressero contentissimi di uscire da un posto ove la loro coscienza era sempre in contrasto con le loro operazioni. Una Commissione combinata col Generale S.t Cyr, e poi un’altra rifatta dal Generale Massena occuparono quel breve e misero tempo che corse dallo scioglimento del Direttorio alla fine del blocco anzidetto. La seconda Commissione si distinse dalla prima e dal Direttorio, mediante l’amalgama, che si sapeva al reduce Napoleone gradire, di fervidi e rotti patrioti con nobili di molta popolarità e altrettanta pieghevolezza. Girolamo Durazzo e Michel’Angelo Cambiaso furono i primi Nobili che al governo rientrassero dopo il Provvisorio; a’ quali ben s’addiceva con piccola variazione queU’antico dettato, che si sarebbero creduti i più atti a gover- 8 T* — 114 — nare in tempi difficili, se non avessero governato. Ad ogni modo non voglio nè posso tacere, che le calamità de’ tempi furono appunto quelle che renderono inutili e spesso ancor perniziose le qualità stimabili di Corvetto, Littardi e Molflno, certo i migliori fra i membri del primo Direttorio, e quelle altresì del Durazzo e del Cambiaso di gran lunga i migliori fra gl’individui delle due Commissioni. Il Governo francese, arbitro e regolatore del nostro, era debole, instabile, revoluzionario; la fortuna o il tradimento avevano respinti i suoi eserciti da’ fertili campi della Lombardia nel lido angusto della Liguria, i suoi Generali erano allevati ne’ pubblici disordini, avidi d’oro, e sprovveduti d’ogni cosa per sè e i loro soldati; tutto facile con la violenza e il concorso dei malvagi, tutto impossibile con la dolcezza e l’acquiescenza de’ buoni. Gracile di complessione, ma d’animo forte non meno che buono era sicuramente Agostino Pareto; ciò non ostante al falso avviso, che Massena lo avesse nominato tra i Governanti di sua creazione al tempo dell’assedio, egli si turbò tutto e tramortì, tanto stimava malagevole l’uscir senza macchia da quel letamajo. Le storie del blocco di Genova nel 1800 sono a mia notizia tre: l’una del medico lombardo Rasori, l’altra dell’aiutante generale francese Thiébault, la terza dell’esule romano Petracchi, tutti e tre presenti all’assedio. Testimone di veduta anch’io, confesso che non ebbi mai la pazienza di leggerle, ma dubito forte che un uomo intento a’ fenomeni dell’epidemia ossidionale, o un ufiziale sollecito di esaltare i suoi compagni d’arme, o un esule costretto dalla trista sua condizione a tenersi più con chi facea soffrire che con chi soffriva, abbiano conosciuto e fatto conoscere molte particolarità onorevoli al Popolo genovese. Io rammenterò queste due. Avendo la Commissione governativa, o in nome di lei il Generale Massena, assegnato ad ogni agiata famiglia un certo numero di poveri da mantenersi ogni giorno finché durasse l’assedio, nacque in quasi tutti gli assegnatarj il sospetto di essere ad ogni ora assaliti nelle proprie case da una turba famelica, e in nome della legge costretti a dividere seco l’ultimo — 115 — pane senza pur la speranza di contentarla. Ma udite ammirabile moderazione, e ben poss’io attestarla, alla cui famiglia ventidue bocche erano state addossate; entravano i poveri languenti nelle case loro prescritte senza strepito, ricevevano un mediocre sussidio senza contrasti, e si partivano senza disordine alcuno promettendo di non più ritornare che la mattina appresso, e sempre fedeli alle promesse e sempre modesti. — Un Conservatorio di velate zitelle, chiamate le Figlie del Rifugio, fa voto di assistere all’inferme negli Spedali. Ora infierendo le malattie ossidionali tanto che, occupati per ogni banda i letti, moltissime giacevano sul pavimento coperto di poca paglia, e il tempo era scarso a portarne via i cadaveri, le pie assistenti cominciarono da principio a tremare per la propria salute; ma, ripreso tosto animo all’esortazioni de’ lor Direttori, che ne davan l’esempio, non vedevano l’ora di esporsi alla contagione in guisa, che ottanta sopra dugento perirono nell’esercizio del lor ministero. Due medici, Monteverde e Peroni, parteciparono di tanto eroismo; gittandosi sul nudo terreno per appressarsi a’ giacenti ammalati, toccarne i polsi, somministrare le medicine ricusate da’ barbari serventi, mescere a’ consiglj dell’arte i conforti della religione; e la morte non li risparmiò. Volaste, ambedue, io ne son certo, nel beato Empirò presso il trono della Misericordia, e se gl’immortali prendon contezza delle cose terrene, e’ non vi è grave ch’io sparga qualche povero fiore sul vostro sepolcro! Non pochi ufiziali genovesi si segnalarono nell’assedio; e primo fra tutti fu riputato Giuseppe Partenopeo, ufiziale di artiglieria che aveva il comando della batteria di mare, al pie’ della Lanterna. Mai non cessò il fuoco, mai non fece sembiante di paventar quello de’ legni inglesi che gli grandinavano sopra; tanto che l’ammiraglio Keith chiese poscia il suo nome. Giuseppe Spinola, altresì del Corpo degli Artiglieri, si portò valorosamente alla batteria della Cava, ove una palla di cannone lo inzoppì per tutta la vita, ma dal suo posto noi tolse. Non si rinnovarono certo gli esempli che la Storia rammemora nel celebre assedio del 1746, il Popolo tutto in arme, i Patrizi così — 116 — pronti che il Signor La Flotta, ufiziale francese combattente nelle lor file, gli accusa di temerità, e Oanevari e Pinelli cavalieri di Malta che, usciti dall’isola per accorrere alla difesa della loro città, vi posero gloriosamente la vita. La qual differenza non proveniva d’altronde che dall’essere allora la nobiltà onorata e alla testa di tutte le imprese, ma nel secondo assedio sospetta, vessata, e, da quelli in fuori che avevano grado ne’ Corpi assoldati, confusa co’ fantaccini della Guardia Nazionale. Che Massena spiegasse grand’arte e valore nella difesa di Genova, non si può dire; ma sì bene forza d’animo e indefessa vigilanza. La sua capitolazione, in cui si valse per la dettatura dell’opera di Luigi Corvetto, parve più tosto il premio di una vittoria che il risultato di una sventura. Quanto dissimile non fu quella di Alessandria! ove Melas, vinto come ognun sa da Bonaparte a Marengo, cedette in nome dell’Austria alla Francia tutte le piazze di quà dal Mincio compresavi Genova, calda ancora del sangue e de’ sudori sparsi per acquistarla. Non vi si videro segni di gioia nè di cordoglio; la faccia del luogo era simile a una marina tranquilla sotto un ciel procelloso; ognun badava a sfamarsi. Non defrauderò del debito onore, come no’l defraudai in pubblica udienza a Milano, il Conte Hohenzollern-Hechingen, Comandante generale dell’armi austriache in Genova, il quale, dietro l’avviso della sorte alla nostra città riservata, spontaneamente consigliò alla Reggenza da essolui e dal C.te Saint-Julien istituita, di avviare una Deputazione al Primo Console in Milano per conciliarsene il favore; lasciò una piena libertà di scelta, e diede agli eletti lettere e passaporti per lor sicurezza qualora si abbattessero in qualche corpo di truppe imperiali; atto veramente degno di eterna memoria per giunta a’ fasti gloriosi della sua Casa, e per esempio di bontà e grandezza d’animo alla sua discendenza. Quando il Primo Console ricevette nel suo gabinetto in Milano i Deputati di Genova Michel’Angelo Cambiaso, Girolamo Serra e Jacopo Saettoni negoziante, domandò loro se volentieri acconsentirebbero all’unione della lor patria colla Cisalpina; al che risposero essi, che avendo nelle loro istituzioni l’onorata — 117 — incombenza d’implorar la benevolenza del .Primo Console per la patria loro, ma non la facoltà di consentire a innovazioni essenziali sulla sorte avvenire di quella, non potevano dargli una risposta soddisfacente senza consigliarsene prima coi loro concittadini. Napoleone non ne fece più motto, ma rivolse le sue interrogazioni a’ diversi avvenimenti del blocco, non dissimulando il desiderio che Massena avesse differito a capitolare fino alla sua prossima liberazione. Un’altra volta, ma in pubblico, si vide il Primo Console e poi partì; seppesi ch’egli avea nominato tre Commissioni straordinarie, una per Milano, un’altra per Torino, e una terza per Genova; in ciascheduna città risederebbe un Ministro francese, e il Ministro presso i Genovesi sarebbe il Generale e Consigliere di Stato Dejean, l’uomo, come disse alla Deputazione il Generale Berthier, l’uomo il più probo di Francia. Dejean giunto a Genova pubblicò la lista dei Soggetti componenti una Commissione straordinaria di governo, tre Nobili e quattro Popolari, poi quella de’ Membri della Consulta, specie di Corpo legislativo. Le parti della Commissione dovevano essere di governare interinalmente e proporre le leggi; quella della Consulta discuterle, e d’ambedue preparare la via a un ordine stabile e affatto indipendente di cose, mediante una nuova Costituzione più conforme delle precedenti al genio e all’abitudini della Nazione. Durò quel Governo due anni, dal 1800 al 1802, e in questo mezzo annullò le leggi contro gli Emigrati, richiamolli con inviti particolari in patria, cangiò la carestia in abbondanza con una illimitata libertà di prezzi, di arrivi e di esportazioni, non ostante i clamori dell’interesse e dell’ignoranza; sostituì alle tasse arbitrarie le antiche imposizioni indirette, non lasciò impuniti i delitti coperti col manto della libertà; osò fare schiantare, ch’era a que’ giorni inaudita fermezza, quegli alberi ridicoli che ancora si rispettavano in Francia, riducendone il numero ad un per quartiere; confinò nell’isola agreste della Capraja i Capi, noti per pubblica fama, di una compagnia sanguinaria di malviventi; e con quest’atto politico, se non legale, ricondusse la pubblica sicurezza e confidenza. — 118 — Alle cure interne accoppiava con pari ardore quelle di fuori. Ottenne l’espressa rafferma dell’indipendenza nazionale nel trattato di Luneville fra l’Austria e la Francia, e al primo avviso delle negoziazioni pendenti fra Bonaparte e l’Inghilterra in Amiens, nominò un Ministro Plenipotenziario, il quale tut-tavolta non fu accettato, più, come molti allora conghietturarono, per colpa della Potenza amica che della contraria. L’amarezza del rifiuto fu temperata dall’acquistata certezza di somigliante procedere verso Nazioni più potenti, e dalla soddisfazione incomparabilmente maggiore, se fosse stata più durevole, della pace generale tanto in terra che in mare. Se non che, chiusa una fonte d’ansietà e pericoli, un’altra ne scaturì poco appresso niente meno penosa; ed è possibile che chi governa fra tante spine sia invidiato? Aveva il Primo Console assunto il titolo di Console unico e perpetuo in Francia; nè pago di ciò, voleva eziandio la Presidenza della Repubblica Cisalpina, come un secondo scaglione al trono di Carlo Magno. Ora al dispaccio apportatore di tali novelle ne tenne dietro un altro, ove i Ministri della Commissione a Parigi, Giuseppe Fravega e Giovan Carlo Serra, l’antico Rappresentante dei Ventidue, le partecipavano il desiderio di Napoleone, che nominasse uno o due Deputati alla Consulta de’ Notabili Cisalpini, convocati a Lione per eleggere con suffragi apparentemente liberi il Presidente. Si dibattè la questione a più riprese. Ognun conosceva che il passo richiesto era il primo, e che il secondo sarebbe l’unione della Liguria alla Cisalpina. Dovea consentirsi? Dall’una parte Genova è il porto naturale del Milanese, talché l’unione raddoppierebbe per poco gli agj, il traffico e la popolazione della Liguria. Inoltre uno Stato vasto si fa rispettare da tutti, alleati o nemici; e poi come opporsi al volere di chi non conosceva ostacoli, volere già palesato inutilmente in Milano; e chi Posasse sarebbe poi sicuro?... Dall’altra parte si rifletteva alle dolcezze dell’indipendenza, all’antica abitudine di possederla, aU’abborrimento generale di mutar nome e bandiera, quella immortale bandiera che dominò altre volte i mari. — 119 — Non esser ciò lecito a sette cittadini, la centomillesima parte di tutti gl’interessati; proporlo alla Consulta e all’intera Nazione esser lo stesso che ridestare nuove agitazioni, i danni dell’indipendenza perduta esser tosto sensibili, i vantaggi dell’unione remoti e lenti. Che se intanto il dado della vittoria si rimutasse, l’unione sarebbe disciolta, e non si racquisterebbe mai più l’indipendenza. Dicano ciò che san dire; ma niun può negare, che un Principato antico è più solido di un nuovo benché maggiore. Sosteniamolo dunque francamente; chi adempie il proprio dovere, è sicuro abbastanza. Quest’opinione fu approvata a pieni voti. S’ingiunse a’ Ministri di presentare una Nota deprecatoria,, e tale la scrissero che il vecchio Lord Chatam non avrebbe potuto dettarla più viva, e forse era troppo; ma sarà sempre ammirabile il magnanimo loro contegno. Da principio Napoleone tenne loro silenzio ne’ soliti ricevimenti; e il suo Ministro Talleyrand, con quella sua altera destrezza più secondata che impedita dal suo zoppicare, non permise mai loro di aprirne bocca; il che provocò da un indegno loro collega nel corpo diplomatico qualche motto insulso; ma racquistarono indi a poco il sospeso favore, della qual cosa niun’altra è più atta a dimostrare l’innata pieghevolezza dell’animo di Napoleone, cui tanti negoziatori dipinsero come feroce e ferreo, per occultare la propria dapocaggine. Il mirabile fu che al ritorno di Giuseppe Bonaparte dalle conferenze di Amiens, Napoleone stesso il deputò a trattare co’ Ministri di Genova intorno alle spese addossatele dalla militare violenza mentre le truppe francesi erano acquartierate nel suo territorio senza ricevere un pane nè un quattrino di Francia; e con le solite formalità si convenne, che in cambio de’ pagamenti cento volte promessi dal Direttorio francese, e senza intermissione richiesti dal Governo di Genova, la Francia gli cederebbe i conquistati distretti di Loano e di Oneglia, che intersecavano i suoi dominj in Ponente. Così, per la prima volta dopo più secoli, tutto il littorale della Liguria trovossi senza un filo di separazione sotto le stesse leggi. — 120 — Alla pubblica felicità null’altro mancava, che una buona costituzione. I pensatori politici della nazione stesero diversi progetti, fra cui si distinse quello dell’avvocato Gottardo Solari per una qualità comune a quasi tutti i suoi scritti sparsi di profonde vedute fra molti paradossi. La Commissione straordinaria aveva da principio eccitate simili pubblicazioni; ma veg-gendo nascere urto di opinioni e bollori di parti, riflettendo all’importanza delle prime elezioni ne’ Governi nuovi, importanza eguale alle difficoltà, tormentata inoltre da continui sospetti e timori dopo l’esclusione del suo Plenipotenziario alle Conferenze di Amiens e dopo la proposta deputazione, concorse nel parere di uno de’ suoi, che, l’antico esempio imitando, si pregasse l’Arbitro della Francia e del Continente insieme, a voler essere il Legislatore e il primo Elettore della Liguria. Nelle grandi crisi politiche tutto suol dirsi, eccetto la principale cagione. Così dovea farsi nella lettera indiretta al Primo Console, e così si fece. Il Presidente di turno, Girolamo Serra, la sottoscrisse; i Ministri di Genova a Parigi la presentarono, e la gradì Napoleone. Al lieto avviso la Commissione, e tutti i buoni che partecipavano delle sue sollecitudini, si ripromisero che un Uomo troppo potente per voler fingere, non avrebbe dato mano a un edifizio che avesse in cuore di atterrare. Come le madri amano i loro portati, così gli umani ingegni le lor produzioni. Intanto dopo due lunghissime conferenze co’ Ministri genovesi, l’Arbitro dell’Europa dettò al suo solito alcune idee principali, invitandoli a farne la base della nuova Costituzione, di concerto col Consigliere di Stato Hauterive, uomo riputatissimo nelle cose politiche, e per questa ragione uno de’ più influenti del Ministero delle Relazioni straniere in quel tempo, dopo il Signore di Talleyrand. Rivide Napoleone il lavoro, mutò alcune cose, sottoscrisse la lista delle principali elezioni e indi a non molto nominò suo Ministro in Genova il Corso Saliceti, uom pien di destrezza, conoscitore del bene e apprezzatore del merito, ma per impeto di carattere e per calcolo d’interesse inveterato Giacobino. L’opera del Costituente era tale da meritare le cure con- — Ì2l — servatrici di un Ministro incorruttibile e zelante, di un onesto Dejean. Non aveva già esso l’istinto delle antiche Democrazie, il quale commovendo universalmente gli affetti e le volontà faceva talvolta prodigj, nè la forza de’ Principati assoluti ove regna unità di voleri, nè la stabilità dell’Aristocrazia ereditaria ove l’interesse e il decoro delle principali famiglie sono intimamente uniti all’interesse e al decoro dell’intera Nazione; ma partecipava di queste forme diverse; e come non era senza gravi difetti, più o meno inevitabili in tutti i sistemi, così non mancava di savie e ingegnose disposizioni. Accostavasi alla Costituzione del 1576, nella creazione di tre primarie Autorità, Doge, Senato e Consiglj, e, singolarmente in quel principio di unità e conciliazione, diametralmente opposto al prediletto sistema de’ Costituenti rivoluzionarj, che l’autorità più ristretta sia parte e capo della più numerosa; e allontanavasi da quella sostituendo a un libro d’oro di ereditarj patrizj tre Collegj, di Possidenti, di Dotti e di Mercanti, contenenti almeno in apparenza tutte le Notabilità del paese e tutte le garanzie della vita sociale, proprietà, dottrina e industria. Maggiori particolarità mi svierebbero troppo; aggiugnerò solamente che l’anno primo della Costituzione ducale fu occupato in far leggi organiche e principalmente nel rendimento de’ conti di tutte le Amministrazioni, opera degna del Presidente delle Finanze Agostino Pareto, nella riordinazione delle forze di terra e di mare, e principalmente del genio e dell’artiglieria onde uscirono allievi stimatissimi in Francia e Sardegna, lavoro del Presidente Serra; e finalmente nella riforma dell’ordine giudiziario, riforma così adattata alle nazionali abitudini, al comodo delle popolazioni e a’ desiderj di ciascheduno, che il Codice Napo-leoneo, con tutta la profondità delle sue discussioni e la pompa de’ suoi rapporti, non ha fatto dimenticare il nome del principale suo autore, il burbero e parco Morchio presidente di legislazione. L’anno primo della nuova Costituzione fu notabile per una intera libertà di opinioni; il secondo finì con rimunerare coloro che si piegavano alle crescenti richieste di Saliceti, e con escludere dal Senato chi resisteva; il terzo consumò il sacri- tìzio dell’indipendenza nazionale. Giova spiegare il modo scaltro, indiretto, e niente meno sicuro con cui s’operava l’esclusione. Una disposizione transitoria della Costituzione voleva che rimanendo l’anno terzo in carica due terze parti di Senatori, una ne uscisse per via di tratta. I Senatori ubbidienti a Saliceti, essendo il maggior numero, chi spinti da ricompense avute o sperate, e chi da sola debolezza d’animo, proposero sotto specioso pretesto il partito, che non la sorte, ma i voti determinassero chi mantener si dovesse, e chi escludere. Una lista a due colonne andava attorno, e un mezzano sfacciato di Saliceti mostravaia a chi voleva. Cosi vennero dimessi alla maggiorità di suffragj i Senatori: Domenico De Marini Agostino Pareto Girolamo Serra Vincenzo Spinola Antonio Dagnino, Mercante Marcello Massone, Possidente Francesco Montaldo, Possidente Gottardo Solari, Avvocato Alvigini, Avvocato, e sorrogati in lor vece altrettanti, più vani che ambiziosi. Non fu questo un Senato illegale? non meritò il soprannome obbrobrioso del Parlamento di Cromwell? un marchio perenne di nullità non rendè inattendibili e vani tutti i suoi atti? Havvi ancora di più. Cosifatto Senato decretò quando fu tempo, che dovendo il Doge con parecchi Senatori allontanarsi per complimentare in Milano il nuovo Imperadore e Re Napoleone, coloro che rimarrebbero a Genova, in qualunque numero si ritrovassero, o per qualunque materia fosse loro proposta, approvarla potessero e darle forza di legge così perfettamente come se il legittimo numero non ci mancasse; secondo e sempre peggiore attentato contro le leggi fondamentali! Il Doge indi a pochi giorni partì. Fu accolto splendidamente, ricevette dal Gran Maestro delle ceremonie imperiali il titolo di Altezza Serenissima; sedette allato ad una sorella del- Nobili — 123 — 1 Impei adore; e a Genova intanto il mozzo Senato, sulla proposta di Saliceti, decretava l’unione della Liguria all’imperio francese con la derisoria condizione che i Capi di famiglia, convocati per parrocchia, la comprovassero, sottoscrivendosi in un libro a ciò preparato. Fra tanta doppiezza da un lato e dapocaggine dall’altro, consola il nobile slancio di Francesco Serra de’ Principi di Gerace, giovinetto di 23 anni, il quale, all’udire il partito vinto in Senato, montò a cavallo e, benché inseguito da più d’un satellite, usò tanta celerità, e tenne una via così disusata, che giunse a Milano il primo ad informare dell’occorso il Doge Durazzo, ch’era marito della sua zia. Ma quell’uomo, d’animo veramente maraviglioso nella prontezza e nel piacere di beneficare, non avea fermezza d’animo o giudicava, senza riflettere alla varietà dei casi, che una resistenza inutile è sempre perniziosa. Apertisi intanto nelle Chiese parrocchiali dello Stato i protocolli de’ voti sulla proposta riunione, le sottoscrizioni non furono molte, nè favorevoli tutte. Generalmente non si voleva, concorrendo in qualunque modo a quell’atto, mostrare di riconoscerlo; un cupo silenzio, più espressivo di ogni rifiuto, dominava per tutto. Ma quando bene il voto d’unione fosse stato legittimo, e il consenso della Nazione generale, 11011 avrebbe quel documento più efficacia che le rinunzie del Gran Duca Ferdinando alla Toscana, dell’Austria al Tirolo, della Prussia e della Mosco via stessa al Ducato di Varsavia. Una forza ingiusta le cagionò, una contraria le sciolse. Non era dunque da dubitare, che atterrato il trono di Napoleone, la Repubblica di Genova non riassumesse l’antico suo posto fra le Sovranità dell’Europa. I Generali degli eserciti coalizzati, entrando in Germania e in Francia, avevano preconizzato il pieno ristabilimento dell’ordine antico, i Ministri delle Grandi Potenze lo avevano dichiarato; i Sovrani stessi impegnata ne avevano la loro parola. Vero è che, secondo lo storico Burnet, il Re d’Inghilterra Carlo II inviperito contro le Repubbliche aveva proposto nel secolo diciassettesimo di vendere, o donare, Amburgo alla Danimarca, e Genova al Piemonte; che nel diciottesimo il — 124 — Ministro di Giorgio II aveva promesso il Marchesato di Finale al Re di Sardegna, togliendolo a’ Genovesi; e che all’anno quinto del secolo presente Guglielmo Pitt, intesa l’unione della Liguria all’imperio di Napoleone, aveva indicata quella Repubblica al Gabinetto di Russia, come uno de’ piccoli Stati che non conveniva ristabilire. Ma, per contrario, la memoria di Carlo II e de’ suoi progetti era in piccola stima presso gl’inglesi; la pace di Acqui-sgrana avea cancellata la convenzione di Vormazia; e Pitt, la cui nota confidenziale ben pochi ancor conoscevano, era disceso innanzi tempo al sepolcro, senz’aver potuto far crollare il Colosso che lo spaventava, nonché dividerne e disperderne i frantumi. Governava al principio del 1814 il timone dell’inglese politica il Marchese di Wellesley, non discepolo di Pitt, non passivo strumento di alcuna fazione, nè forse così abile in guerra, nè così riflessivo in pace come il fratello Wellington, ma d’ingegno più acuto e di animo più pronto. Egli aveva scritto pochi versi al Generale dell’armi britanniche in Sicilia; salisse sulla flotta del Contr’Ammiraglio Pellew, afferrasse in un porto della Toscana o del Genovesato, cacciasse via i Francesi, eccitasse gli Stati italiani all’antica indipendenza e libertà. Così fatte istruzioni non potevano commettersi a persona più disposta a eseguirle, che il Tenente Generale Guglielmo Bentinck. La sua famiglia possedeva da più secoli una piccola Contea e un porto in Olanda. Un suo ascendente aveva accompagnato il principe d’Orange in Inghilterra e partecipato (Recueil de pièces offìcielles par Frédéric Scholl; t. VII, 39-59; le 19 jan. 1805) all’inaudita fortuna del suo Protettore. Come la revoluzione del 1688 fece il principe olandese Re, così il nuovo Monarca fece Duca di Portland il conte. Due sette politiche aveva in quel tempo e ha tuttavia la Gran Bretagna, l’una de’ Torys, promotori zelanti della prerogativa reale, l’altra de’ Whigs, difensori delle ragioni del Popolo, affermando esistere in diritto e in fatto un solenne contratto d’ambe le parti obbligatorio fra Principe e Nazione, talché chiunque egli sia che rompa fede, ne scioglie l’altro. Tutti coloro cui la revoluzione del 1688 ingrandì, devono esser Whigs se contraddirsi non vogliono e oscurare l’origine della — 125 — loro grandezza. I Portland dunque furono sempre tali. A’ dì nostri il Duca .... era il Capo onorario di quella breve amministrazione di Whigs, il cui vero motore fu Carlo Fox. Nacquero da ... . tre maschi, de’ quali il Sig. Guglielmo, o, per dirla con parole inglesi ricevute in tutti gl’idiomi moderni, Lord William fu il secondo. I beni aviti delle Case nobili sono tutti legati in un perpetuo majorasco, senza la qual precauzione che scandolezza i liberali del Continente, la Demagogia, ossia il furore della plebaglia, avrebbe già divorati Nobili, Possidenti e Re. Rimanendo però i Cadetti con piccoli assegnamenti, si danno il più a servire in terra o in mare. Dove la facoltà di comprare gradi militari fino a quello di Tenente Colonnello, il raddoppiamento degli anni nelle campagne attive, e le straordinarie commissioni che sono in balìa del Governo fan sì, che i rampolli di Case potenti, purché sopravvivano e si portino ragionevolmente, han rapide e grandi promozioni, non solo perchè possono spendere, ma perchè importa al Ministero di cattivarsi il favore de’ loro padri o de’ lor primogeniti nel Parlamento; felice combinazione, come tante altre, di quel singolare governo, per cui la ricchezza e la nobiltà non generano ozio, ma stimolano anzi l’ingegno e il coraggio a incontrare fatiche e pericoli, certi di non languire nel più bel fiore degli anni in gradi oscuri, e di acquistar nuovi titoli al rispetto e alla gratitudine de’ lor cittadini. Lord William dunque dopo un corso di studj all’Univer-sità, che le agiate famiglie non trascurano mai, entrò al servizio di terra, e giovane ancora fu fatto governator di Madras nel-l’Indie orientali. Poi, quando Murat non contento del regno di Napoli volle conquistar la Sicilia, fu mandato con grossa gente in quell’isola per difenderla e rincorare il Re Ferdinando e la Regina Carolina risoluti o sospetti di abbandonarla. Quivi alla vista di un’isola fertilissima senza commercio, di una Nobiltà agiatissima senza legali poteri, e di un Popolo numeroso senza difesa, l’animo suo educato alla scuola de’ Whigs s’infiammò, e propose di stabilirvi una costituzione all’inglese, fuor della quale essi non credono darsi sicurezza nè felicità. Veramente la Sicilia — 126 — è di tutti i paesi conosciuti il più idoneo a riceverla, perchè Ad sono dei gran possidenti, senza de’ quali una Camera Alta è un nome vano, vi sono ricchi e dotti Prelati, Comunità popolose, ingegni pronti e sottili; ma pur non vi ha ceto così fortunato che non possa promettersi un migliore avvenire, e, ciò che più vale, niuno ve n’ha che un lungo corso di secoli abbia assuefatto alla medesima dominazione. Perciò la Costituzione di Bentinck non trovò ostacoli nella popolazione, e fu favorita da’ Grandi; ma bisognò costringere la Regina al silenzio, e il vecchio Re ad una specie di abdicazione. In questo stato erano le cose della Sicilia, quando il Generale inglese ebbe ordine di trasferirsi nel cuore dell’Italia. Ubbidì prontamente, e menò seco 7000 uomini tra Inglesi, Annove-resi e Siciliani, i quali furon poi rinforzati da un reggimento di Albanesi e da un altro d’italiani, sulle cui bandiere erano poste queste parole già profanate da’ Rivoluzionarj: Indipendenza dell’Italia, o morte! Numerosi legni da trasporto si caricarono di questa gente eterogenea, e una squadra rispettabile, comandata prima dal Contr’Ammiraglio Rowley e poi da Sir Eduardo Pellew, gli scortò fino a Livorno. Bentinck prese terra a dì 9 marzo dell’anno 1814. Come nella spedizione della Sicilia, così anche in questa le commessioni dategli dal Ministero erano espresse in parole generali: coadiuvasse dal canto suo all’operazioni guerriere, che dalla parte loro farebbon gli Austriaci col loro alleato di Napoli il Generale Murat (perchè in quel tempo l’Austria il riconosceva per Re legittimo di Napoli, ma l’Inghilterra no). E nel rimanente facesse in modo che gl’italiani ritornassero a quegli antichi Governi cui Napoleone avea distrutti. Quante facoltà affidate a un militare, quante cose rimesse nel suo arbitrio! Ma i Ministri britannici amano di largheggiare cotanto nelle spedizioni lontane e d’incerto fine, per mettere al sicuro quella loro pretesa responsabilità, e per potere in caso di avversità scaricare il malcontento popolare sugli esecutori. Il quale procedere è molto biasimato dagli uomini imparziali, e va più che altro privando l’antica Albione, come gl’inglesi sogliono — 127 — amorevolmente chiamare la patria loro, di quel prisco vanto di buona fede e sincerità ond’ella andava gloriosa in tempi di men ricchezza ma di virtù maggiore. A chi dovran credere i deboli e gli oppressi, s’è lecito a’ Governi potenti di smentir, quando vogliono, i loro Inviati e i lor Generali? Su queste norme del Ministero, il Generale pubblicò cinque dì dopo il suo sbarco un proclama indiritto agl’italiani, dicendo che la Gran Bretagna porgeva loro la destra per liberarli dal ferreo giogo di Bonaparte. « Vorrete voi soli gemere incurvati sotto di esso, mentre il Portogallo, la Spagna, la Sicilia e l’Olan-da, liberate mercè degl’inglesi, rendono alta testimonianza alle loro massime liberali e disinteressate? Non differite più lungamente. E voi principalmente, soldati dell’armata d’Italia, il destino della vostra Patria da voi dipende. Noi vi chiamiamo a rivendicare i vostri diritti e a ricuperare la vostra libertà. I nostri sforzi uniti tenderanno a far sì, che Italia ritorni quella stessa ch’ella fu ne’ suoi più bei giorni, e ciò che la Spagna è oggi-mai diventata ». Ma per avvalorare le parole co’ fatti, dopo aver posto presidio in Livorno e discacciato un rimasuglio nimico dal territorio Lucchese, Bentinck s’incamminò alla fine di marzo verso la Magra e il Golfo della Spezia. La sua intenzione segreta era di giugnere a Genova dalla parte del levante, innanzi che ci venissero gli Austriaci da tramontana; intenzione mal valutata, ma sommamente valutabile al parer mio; perchè la speranza del bottino allenava il suo piccolo esercito, la bella ambizione di rimettere un popolo in libertà consolava il suo animo; una conquista di più, e una tale conquista alle porte della Francia e dell’Italia, faceva piegar la bilancia a favore del suo governo e del suo paese nella suprema disposizione delle cose in Europa. Dove nessuna e dove poca resistenza opposero i Francesi; di modo che, con la velocità di una marcia pacifica, Bentinck attraversò la Riviera di Levante fin presso a’ monti fortificati che cingono il fianco orientale di Genova. In ogni villaggio ei faceva promettere l’antica libertà, ne’ campanili più alti, e a — 128 — mia sicura notizia in quello della Chiesa parrocchiale di Bogliasco, egli ordinava che si collocassero le bandiere genovesi; gli Ufìziali piemontesi arrolati nel battaglione italiano o non conoscevano o 11011 propalavano le speranze dal loro Re concepite in Sardegna; tutti in Genova aspettavano, e, fuori di pochi impiegati, invocavano con viva impazienza il Liberatore. Lo stesso Presidio francese, cui ignoti non erano i progressi degli Alleati nel cuor della Francia, e in ultimo l’abdicazione dell’imperatore, guerniva a mal in cuore i forti esteriori. Un Uficial superiore, il cui coraggio era attestato da più ferite ricevute in Egitto e ancor grondanti, meno dolente per quelle, che per ricompense a suo giudizio scarse, si era ritirato, se non mentì la fama, in città la notte stessa che il forte di Richelieu alla sua guardia commesso venne assalito; il Comandante in capo, Fresia di nome, e Torinese di nascita, quel desso, che, come i suoi amici dicevano, era stato il solo Generale in Spagna oppostosi alla capitolazione di Baylen, pur vinto dalla contrarietà degli eventi, non più domandava per capitolare, che uno stretto assalimento alle mura e un’intimazione di resa. Solo la Giandarmeria, costante alle sue ricordanze, ferma ne’ suoi doveri, si avventurava a modo di tiratori fuor delle mura con pochi Ufìziali tornati di Spagna, uno de’ quali era Eighel d’origine svizzera, di nascita genovese, già stato Luogotenente nelle guardie del Doge, avanzo di sanguinose battaglie, e vittima allora di uno zelo infruttuoso. Onore al coraggio e alla fedeltà insieme! L’oscuro Eighel, venuto a morire da Saragossa in Genova, è più grande di Moreau, che venne dall’America a farsi uccidere sotto le mura di Dresda. Bentinck intanto sembrava irresoluto. Non intimava la resa al Generale nimico; a’ Deputati della città, Agostino Pareto ed Emanuele Balbi, che lo pregavano a non trattarla ostilmente, rispondeva fra brusco e peritoso, che dovessero piuttosto pregarne il Comandante francese; e in così dire occupava la collina d’Albaro, donde il cannone può flagellare una parte della città; faceva dalla flotta sbarcare la grossa artiglieria, commetteva quantità di scale e altri ingegni d’assalto, ordinava alla recente — 129 — batteria di Albaro che cominciasse a far fuoco. Nella città apparivano segni di confusione, tumulto, furore. Appena la cittadinanza, divisa in compagnie mal armate, bastava a impedire gli ultimi mali. Ovunque i Francesi non erano in forza, ricevevano insulti; si strappavano loro le decorazioni, la coccarda tricolore, si rimproveravano loro le passate insolenze, il caro de’ viveri, il turbato commercio, i figliuoli rapiti alle sconsolate famiglie; uno squadrone di cavalleria dissipò da prima certa turba feroce che, preceduta da femmine scapigliate, si era posta a diroccare la statua colossale di Napoleone eretta sulla piazza dell’Acqua,verde; ma dopo la prima carica fu colto a sassate, e diedesi alla fuga; il colosso precipitò. Finalmente un attruppamento di carbonari, beccaj, facchini circonvallò il palagio ove il General Comandante ritirato si era col Prefetto del Dipartimento; e, benché dissipato da un battaglione di linea, fu l’ultima spinta che mosse il Fresia non più ad aspettare proposizioni di rendimento, ma a farle egli stesso. Duoimi che un Generale di nobile stirpe, di belle maniere, di patria italiano, tralasciasse di apporre nella capitolazione quella clausola generosa in favore degli abitanti e delle loro proprietà, che i meno educati, i meno umani non dimenticano mai, che il Generale Massena, benché odiatissimo allora, e il suo Deputato Corvetto, un pacifico avvocato, non avevano ommessa dopo il gran blocco, nella mancanza di tutte le cose. Se il Fresia era stato insultato dalla impaziente plebaglia, non aveva egli avuta la visita di parecchi cittadini qualificati, con tutto il pericolo e l’odio a che si esponevano? Gli onesti cittadini non l’avevano soccorso de’ loro avvisi? Il Gonfaloniere della Città, Vincenzo Spinola, accompagnato da Nobili e Popolari, non avea visitati ad un ad uno i quartieri della città, raccomandando il buon ordine e la tranquillità? Brevi giorni sopravvisse il Fresia al suo ritorno in Francia, e credo che non avesse pace ne’ suoi estremi momenti. L’ingresso de’ vincitori in Genova fu simile a quello di una guarnigion numerosa, uscita poco innanzi a esercitarsi fuor de’ bastioni. A prima giunta ne fu rimandata una truppa di 9 — 130 — montanari liguri, costantemente avversi a’ Francesi e affezionati a’ loro nimici; i quali sotto il comando del Colonello Leveroni, ligure anch’esso, si erano uniti agl’inglesi avanti che incominciasse l’assedio; poco appresso gli Albanesi, gente indisciplinabile, fecero vela sopra alquante navi da trasporto; tutti gli altri rimasero. Il commissario di guerra, un certo sig. Granet, antico emigrato di Tolone accasatosi in Inghilterra, si pose in un palazzo di strada Nuova a giusta pigione, e con tale celerità strinse gli appalti, con tale esattezza fece i pagamenti, con tant’ordine le distribuzioni, che parve a i passati fornitori una maraviglia. I soldati ne’ quartieri, gli Ufìziali si alloggiarono presso i privati, e generalmente, da poche eccezioni in fuori ch’io non affermo nè niego, si portarono da ospiti riconoscenti, non da imperiosi condomini. Aiutante di campo del Generale in capo, e inglese di nascita, era quegli ch’ebbe alloggio in casa mia; del quale basterà dir questo, che non potè mai indursi a far uso degli apprestatigli candelieri d’argento con cera, dicendo amar meglio una lumiera d’olio. Perchè non poss’io proseguire con questi giusti encomj? ma è purtroppo vero che la Commission delle prede fece onta al nobile procedere dell’Armata, come un fangoso fossato che intorbida le pure acque d’un bel fiume. Creata, cred’io, dal Generale in capo, e dal Contr’ammiraglio a nome di S. M. Britannica, composta di due Capitani di vascello e di due Colo-nelli, essa pretese, fondandosi su ciò ch’era scritto nella capitolazione e ciò che non v’era, non solo che tutte le cose appartenenti a’ Francesi, ma tutti i legni mercantili aventi la loro bandiera, vale a dire tutti quelli de’ Genovesi eziandio, tutte le robe e derrate date da quelli in pagamento durante l’assedio, quanto si conteneva nell’Arsenale e fino i ceppi de’ galeotti, fin la catena di ferro con che al tempo dell’antica Repubblica si chiudeva ogni sera la bocca della Darsena, tutte le antiche artiglierie della piazza, le mobiglie de’ pubblici palagj fossero sue; e dava a intendere essere gran mercè se perdonava alle proprietà de’ privati; così disporre le Leggi e le consuetudini inglesi. Rispondevano le autorità superiori a’ ricorrenti, non — 131 — potersi mutare da chicchessia la condanna, competere bensì l’appello a un gran tribunale sedente in Inghilterra, il quale non può moderare le Leggi di conflscazione in Genova, ma sì l’applicazione in qualche cosa particolare; tuttavolta l’appello non sospendere la manpresa e la sentenza; queste sorti di liti essere lunghe, dispendiosissime e di poca speranza. Così fu turbata la serenità de’ primi giorni dopo la capitolazione, e di molto tempo appresso. Bene è vero che in alcuni capi la Commissione si lasciò smuovere, in altri, come per esempio in un gran deposito di sali e tabacchi, convenne di venderli a un prezzo molto superiore all’originario, molto ancora inferiore a quello della gabella; liberò dal sequestro i navili non appartenenti a’ Francesi, non procedenti da’ porti di Francia, e arrivati in quello di Genova dopo i diciotto d’aprile, giorno della capitolazione, condiscese a transigere per gli altri; non toccò la mobiglia del palazzo pubblico di Genova; ma pur continuando le ricerche e le rivelazioni durò a inquietare i cittadini, e non si sciolse che indi a più mesi. Ciò che le Leggi e consuetudini britanniche permettano o vogliano, io non so; so bene che Lord Wellington entrando in Francia, in paese tutto nemico, impedì ogni spoglio. Le gran novità accadute in quel regno durante l’assedio di Genova erano state occultate, per quanto potevasi, dal Generale e dal Prefetto Francese; tanto più prontamente e con maggior maraviglia si divolgarono dopo' la resa. Io ne darò un brevissimo sunto. Mentre Wellington passava i Pirenei, il Maresciallo Schwar-zenberg, stato ambasciadore e quasi parte della Famiglia regnante due anni innanzi alla Corte delle Tuillerie, conduceva dalla banda del Reno, nel territorio cento volte dichiarato sacro e inviolabile, gli eserciti austriaci, russi, prussiani, svedesi, baveri, sassoni, olandesi, con molti altri minori dell’alta e bassa Germania; nuvole di Cosacchi li precedevano. Le assalite provincie facevano in generale una debole resistenza, le conquistate si rassegnavano più o men volentieri al nuovo giogo. Napoleone, alla testa di devoti soldati e d’intiepiditi Generali, ritratto si era nél — 132 — cuore del regno, descrivendo archi sempre minori e sempre concentrici alla gran Capitale; l’apparizione di quel Genio funesto che atterrì Marco Bruto, invece di scemargli vigore, aveva in lui raddoppiato l’ardore e il mirabile colpo d’occhio delle prime campagne d’Italia. Non era più quello stesso che un grave sonno sorprendeva a Dresda, che non sapeva risolversi a Mosca, che, ghiotto di funghi mal digeribili e sospetti, aveva lasciato guastare dal precipitoso Vandamme il più bel dono della fortuna. L’antico vincitore di Beaulieu e di Wurmser, ringiovanito, avrebbe forse superato gli Alleati in una lotta sì disuguale, se volendo annientarli non avesse scoperto il punto più importante; se un Generale poco noto ancora, chi disse Pozzo di Borgo e chi un Prussiano, non avesse consigliato di spingersi innanzi, contro l’avviso del Maresciallo, che temendo un attacco di fianco volea retrocedere; se Alessandro, se il Re di Prussia non si trovavano presenti a quel Consiglio di guerra; se Marmont, il più antico e il più istrutto de’ superstiti ajutanti dell’imperatore, destinato a trattenere di faccia il nemico, non si fosse con lui convenuto; se Davous, intrepido e violento com’era, avesse provveduto senza privati rispetti alla difesa di Parigi; se Maria Luisa fosse stata un’altra Maria Teresa sua ava, e i suoi consiglieri e difensori altrettanti Magnati ungaresi. Or come la ritirata de’ coalizzati avrebbe prodotto il loro esterminio, così le accennate cagioni concorsero alla loro vittoria; il magnanimo cuore dell’impera-dore Alessandro fece il rimanente. Parigi salvato, la Francia intera riposta sotto l’augusta Famiglia de’ Borboni, un asilo dato a Bonaparte furon tutti suoi doni. Niun secolo offre un esempio di tanta generosità; se può darsegli taccia di qualche imprudenza, questo stesso l’esalta vie più; i benefìzj ove nulla s’arrischia, sono volgari. Trovavansi in quel tempo a Parigi alquanti Genovesi, qualificati per nascita o per impieghi; i quali, non lasciandosi sopraffare da così grandi avvenimenti sotto i loro occhi, nè vincere dalle distrazioni di società, volsero un guardo d’amore alla lor patria, le cui comunicazioni erano allora intercette; e, piuttosto — 133 — eccitati che rattenuti da certe voci sinistre, fecero inserire ne’ fogli di Francia un articolo eloquente sull’opportunità di render Genova al suo antico governo. La sua indipendenza non sarebbe nella rigenerazione politica dell’Italia, che un elemento essenzialmente pacifico; non avrebbe ambizione, perchè non avrebbe nè la volontà nè l’interesse nè i mezzi di sostenerla. Il suo superbo portofranco, le sue riviere ospitali verrebbero riaperte con gran vantaggio reciproco dell’estera navigazione. Genova sarebbe una gran fiera di più nel Mediterraneo. Così fatto sistema non potrebbe variare in tempo di guerra. Posto nella felice impossibilità di prender parte alle discussioni politiche, questo piccolo Stato offrirebbe di nuovo uno di que’ pacifici asili, di cui le grandi Nazioni belligeranti sentono spessissime volte il bisogno. Tutto cambia natura, se questo Stato medesimo si accoppia a qualche potenza continentale d’Italia. I suoi porti sono capaci di grandi stabilimenti marittimi, la sua popolazione può somministrare una forza imponente; darà dunque luogo a nuovi progetti d’ingrandimento, stimolerà l’ambizione di qualche Principe giovine e coraggioso; meno felice in sè stesso, sarà più ostile alla tranquillità dell’Europa. Così diceva in sostanza l’articolo; nè paghi di ciò que’ cittadini onorati presentarono a’ Ministri delle quattro principali Potenze una nota di simil tenore, stesa dal Conte Corvetto, Consigliere di Stato sotto Napoleone, e un dì membro del Direttorio genovese, il quale tuttavolta non ardì sottoscriverla e presentarla. Vederla pure non volle il Senator dell’impero, Carbonara, stato plenipotenziario a Montebello, di famiglia nobile, ma di professione avvocato. Quelli che la sottoscrissero furono, secondo l’ordine dell’età, i seguenti: Stefano Rivarola Ferreri d’Alassio Giovan Battista Serra Carlo Doria Giovan Luca Durazzo. — Ì34 — I Ministri non fecero risposta, il Colonello La Sharpe cui ne fu comunicata una copia, la diede in voce sgarbata. Ma il nobile procedere de’ sottoscritti ebbe un bel premio nel l’appagata coscienza e nella inaspettata notizia che il Generale dell’armi britanniche in Genova, partecipe de’ loro sentimenti, come gli animi bennati lo sono senza conoscersi, avea pubblicato otto giorni dopo la capitolazione il seguente proclama. « Avendo l’Armata di S. M. Britannica sotto il mio comando scacciati i Francesi dal Territorio di Genova, è divenuto necessario il provvedere al mantenimento del buon ordine, e governo di questo Stato. Considerando che il desiderio generale della Nazione Genovese, pare essere di ritornare a quell’antico Governo, sotto il quale godeva Libertà, Prosperità, e Indipendenza, e considerando altresì che questo desiderio sembra esser conforme ai principj riconosciuti dalle Alte Potenze Alleate, di restituire a tutti i loro antichi diritti e privilegi, « DICHIARO « Art. 1. « Che la Costituzione degli Stati Genovesi quale esisteva nell’anno 1797, con quelle modificazioni che il voto generale, il pubblico bene, e lo spirito dell’originale Costituzione del 1576 sembrava richiedere, è ristabilita. « Art. 2. « Che le modificazioni organiche, insieme colla maniera di formare le liste dei cittadini eligibili, e i Consigli Minore e Maggiore, saranno al più presto possibile pubblicate. — Ì35 — « Art. 3. « Che un Governo provvisorio consistente in tredici individui, e formato di due Collegj come prima, sarà immediatamente nominato, e durerà in carica sino al 1° Gennaio 1815, quando i due Collegj verranno compiuti nel numero prescritto dalla Costituzione. « Art. 4. « Che questo Governo Provvisorio assumerà ed eserciterà i poteri Legislativo ed Esecutivo dello Stato, e determinerà un sistema temporaneo, o prorogando e modificando le Leggi esistenti, ovvero ristabilendo e modificando le antiche nel modo, che gli sembrerà espediente per il bene dello Stato, e la sicurezza dei cittadini, loro persone e proprietà. « Art. 5. « Che due terzi dei Consigli Minore e Maggiore saranno nominati immediatamente; gli altri saranno eletti a norma della Costituzione, quando le liste dei cittadini eligibili saranno formate. « Art. 6. « Ai due Consiglj soprannominati, i due Collegj proporranno, secondo la Costituzione, tutte le misure che crederanno necessarie per l’intiero ristabilimento dell’antica forma di Governo. « E in adempimento di questo, io dichiaro col presente Proclama, che il Signor Girolamo Serra, Presidente, « Ed i Signori Andrea De Ferrari Agostino Pareto Ippolito Durazzo Gio. Carlo Brignole — 136 — Agostino Fiesco Paolo Pallavicini Domenico De Albertis Giovanni Quartara Marcello Massone Giuseppe Fravega Luca Solari Giuseppe Gandolfo, Senatori, sono eletti a formare il Governo Provvisorio dello Stato Genovese; ed io invito, ed ordino a tutti gli abitanti di qualunque classe e condizione di prestar loro ajuto e ubbidienza. « Dato dal mio Quartier generale in Genova questo giorno 26 Aprile 1814. W. C. Bentinck, Comandante in capo ». Rammenterassi il lettore, come Agostino Pareto era stato dianzi uno de’ due Deputati che in nome della Municipalità si erano presentati a Lord Bentinck, il quale, ancorché l’udisse con volto severo e rispondessegli acerbo, aveva ben conosciuto dalle profferite parole lui essere uomo di bellissime parti. Pareto in età di ventidue anni era stato nominato uno de’ 22 componenti il primo Governo provvisorio di Genova sul concorde attestato de’ Plenipotenziarj di Montebello, che maturo era il senno di lui e grandissimo l’ingegno, e senza dubbio per tutto quel tempo che durò quel Governo, egli sempre sostenne le cose più giuste, e alle contrarie s’oppose; di poi nella Commissione Straordinaria, che governò dopo il blocco, tenne co’ Ministri residenti in Parigi una corrispondenza ufìciale degnissima di stampa quanto quella di Torcy e d’Estrades; fu uno dei Senatori esclusi nel 1803, nuovo titolo di gloria; e trovandosi due anni dopo uno de’ Protettori di S. Giorgio, vale a dire amministratore di quel celebre banco che si tentava di restaurare, interpellato in tal qualità del suo voto in pro o contro l’unione — 137 — alla Francia, diedelo apertamente contrario; quindi nominato da Napoleone, che vendicativo non era, gonfaloniere o Maire di Genova, si conciliò grandissima benevolenza in patria coll’ordine maraviglioso che introdusse nella civica amministrazione, e con una rigida economia che anche spinta all’eccesso è sempre cara agli amministrati. Tal era uno di quelli cui Bentinck nominò Senatori. Andrea De Ferrari era stimato il più ricco Gentiluomo di Genova; vaste erano le sue proprietà in Val Polcevera e nel-l’Appennino, oltrech’era dotato di molto buon senso, e ne’ dì procellosi che precedettero all’entrata degl’inglesi in Genova, avea dato prove non dubbie di sangue freddo e di operosa moderazione. Durazzo, Brignole, Fiesco, Pallavicini erano quattro stretti amici, molto adoperati, quanto l’età loro il consentiva, negli antichi Magistrati della Repubblica, di poi non curati o non curanti, tutti, fuorché il secondo, ricchi, e tutti senza eccezione in grandissima estimazione presso a coloro che veduti gli avevano in potere. Questi erano i Senatori di Case nobili; i popolari si componevano, con sagace discernimento, di un banchiere, il Quartara, di un comodo possidente, il Massone, di un Capo di manifatture, il De Albertis, di un ricco negoziante, il Fravega, e di due avvocati. Fravega era stato Ministro plenipotenziario a Parigi nel 1801, Massone uno de’ Senatori che meritarono l’esclusione di Saliceti, De Albertis e Quartara probissimi giudici del Tribunale del Commercio, Solari ottimo professore di Legge civile nell’Università, Gandolfo consultore degli Austriaci nel loro breve soggiorno in Genova. Restami a dire del Presidente, diffìcile assunto e però tenuto per l’ultimo. Egli era stato collega a Pareto nella Commissione straordinaria e nel Senato, deputato due volte a Napoleone nel 1797 dalla cadente Aristocrazia, e nel 1800 dalla Reggenza austriaca dopo la convenzione di Alessandria; a’ tempi dell’antico Governo partecipe degli onori e de’ Magistrati che aversi potevano innanzi l’età di quarantanni. Non potrei accertar le cagioni della sua elezione; ma furo- 138 — no probabilmente esperienza di governo in tempi difficili, fermezza d’animo e vivo amore di patria, qualità che nessun gli negava. Interrogato un dì il Generale Clarke da Madama Spinola de’ Duchi di Levis sua lontana parente, perchè il Serra non fosse nominato Senator dell’impero secondo la proposta fattane dal Dipartimento — « Noi fu » — rispose quel sagace ministro di guerra, che avevaio conosciuto da prima a Montebello « Noi fu, e, noi sarà mai, perch’è troppo affezionato alla sua patria ». Io noi posso affermare; ma è pur verisimile che il Generale inglese non avendo altre relazioni in Genova, si consigliasse, in gran parte per notizie di fatto e conoscenza d’uomini, con Marcello Durazzo, nel cui magnifico palagio ebbe alloggio, e della cui moderazione e schiettezza dovè concepire alta opinione, trovandolo risolutissimo a non volere dignità veruna. Questo egregio Patrizio, lungamente perseguitato da’ revoluzionari, era nipote d’Ippolito Durazzo, fratei cugino di Brignole, cognato di Serra e di Pallavicini, ma per cosa del mondo non avrebbe sacrificata la patria alla sua parentela. Lo stesso giorno del pubblicato proclama, il Generale inglese visitò ad uno ad uno tutti i nominati nelle proprie case, esortandoli a non ricusare un carico penoso, ma profittevole a’ loro concittadini, ch’esso desiderava liberi di nuovo e felici. L’atto cortese e le veraci parole impegnarono tutti ad accettare, fuori dell’avvocato Gandolfo, persona di merito, ma singolare e pertinace nelle sue opinioni. Accettarono allora, ma chi prima, chi dopo, tre degli eletti se ne pentirono; Brignole il primo, quindi Fravega e De Albertis disperarono della Repubblica o della propria costanza. Vennero lor sostituiti Carlo Pico, nobile savonese de’ più qualificati, Grimaldo Oldoino il più ricco possidente della Spezia, Giuseppe Negrotto giudice al Tribunale del commercio, e altri due Senatori che non avean curvata la fronte al Saliceti, Domenico De Marini nobile genovese, e Antonio Dagnino negoziante. Alli 27 di Aprile il Presidente convocò il nuovo Governo nel pubblico palagio, in una delle stanze assegnate agli antichi Dogi; il discorso d’ingresso fu breve, molte le risoluzioni. — 139 — Si rendessero all’Altissimo grazie della ripristinata Repubblica, e s’implorassero i lumi necessari a reggerla e governarla sapientemente; il che fu eseguito la seguente domenica nella chiesa metropolitana pontificando con visibile ardore il Cardinale Arcivescovo Spina, e intonando esso stesso dopo il Divin Sacrificio le care parole da lunghi anni intermesse: Orate prò Republica nostra! Il Governo fosse distinto a norma delle antiche leggi in due Corpi o Collegj, il primo de’ Governatori ossia il Senato, e il secondo de’ Procuratori ossia la Camera, per discutere uniti le materie politiche, separati le cose spettanti a’ ricorsi de’ privati il primo, e l’amministrazione delle rendite pubbliche il secondo. Perciò le leggi e i decreti del Governo avessero l’antica intitolazione nella vacanza della dignità Ducale, Governatori e Procuratori della Serenissima Repubblica di Genova. Il Presidente gli autenticasse sottoscrivendoli. Sulla gran torre reale, sulle porte della città, sui baloardi delle fortezze, su i militari vessilli e i legni marittimi si rinnovassero l’arme di Genova, cioè croce rossa in campo bianco. Continuassero fino a nuovo ordine i Tribunali del cessato governo, trattone i giudici di nascita straniera. Durassero similmente le leggi e le imposizioni passate, eccetto le abolite nel proclama del dì 26. In correspettività di tal soppressione i pubblici salarj fossero ridotti di un quinto, giusta la proporzione della lira genovese al franco. Il Presidente e i Senatori gratuitamente servissero, paghi abbastanza se la patria gradisca le loro fatiche, condoni gli errori. Per simile genio di moderazione non assunsero essi alcun titolo di preminenza, ma l’uso comune diè quello di Eccellentissimo al Presidente del Governo, e di Serenissimi ai Collegj riuniti, come rappresentanti l’intero Corpo della Repubblica. Tralascio deliberazioni in gran numero che nulla monta indicare, e così userò per l’innanzi. La prima sessione finì con decretare un proclama al Popolo genovese, ond’egli tornasse a sentire dopo il mesto silenzio di nove anni, la voce di un Governo nazionale. Al dimane il proclama fu discusso e decretato. 140 — « GOVERNATORI E PROCURATORI « DELLA SERENISSIMA REPUBBLICA DI GENOVA « Gli avvenimenti, de’ quali siamo stati testimonj, e l’insperato successo, che oggi li compie, impongono al Governo il dovere di affrettarsi a far manifesti i sensi suoi non meno che dell’intera Nazione Genovese. « Scampati per evidente protezione Divina da gravissimi pericoli, e restituiti, mercè la magnanimità del Governo Britannico, al nostro nome, alla Patria, a noi stessi, un solo unanime sentimento abbiamo tutti in cuore, quello della più giusta insieme, e più viva riconoscenza. Grazie sieno adunque al Governo generoso, che preferisce con nuovo modo di trionfo alla gloria delle conquiste quella più solida della felicità dei Popoli; e grazie al Capo illustre, che degnamente lo rappresenta fra noi, e a cui si deve tanta parte di così gran beneficio. Popolo essenzialmente industrioso e commerciante, fummo noi sempre legati da naturali vincoli di amicizia coll’inclita Nazione Inglese; e se poc’anzi non ci era permesso di palesarli, è ora ben dolce il poterli proclamare altamente. « Ma per assicurare il potente appoggio di S. M. Britannica, per meritare la benevolenza delle Alte Potenze alleate, che annunziano all’Europa il nobile disegno di ricomporre, qual’era, l’anticc suo edifìzio sociale, sono ora più che mai necessarie la tranquillità, l’unione, il concorde volere de’ Cittadini. Chi mai potrebbe essere così dimentico de’ proprj doveri, e de’ proprj interessi, così nemico a sè stesso, ed a’ suoi, che volesse con inopportuna diffidenza compromettere quanto v’ha di più prezioso, la sperata indipendenza della Repubblica? Chi mai potrebbe, dopo sì tristo esperimento della dominazione straniera, non desiderare di vivere e morire in seno d’una libera Patria? Governati da Leggi, che per quasi tre secoli resero felici i Padri nostri, modificate — 141 — soltanto a pubblico vantaggio, e a generale soddisfazione, noi siamo quali le Potenze tutte d’Europa ci hanno in ogni tempo conosciuti, e quali lo richiede il voto della Nazione. « A compiere questo voto saranno costantemente diretti i pensieri del Governo, cui è affidato l’onorevole incarico di reggere in questi primi e più gravi momenti la Repubblica. Il secondarlo con illimitata fiducia nelle sue rette intenzioni, a voi si appartiene, abitanti di Genova, che nella ristorazione della patria avete il pegno sicuro di un migliore avvenire; e a voi del pari abitanti tutti del restante territorio, che ricongiunti all’antica Famiglia, chiamati a parte delle cure pubbliche, scorgete pur una volta riuniti e confusi i vostri particolari interessi in un solo interesse comune. Potremo così sperare, che a giorni di servitù e di travaglio succedano ormai, se la Provvidenza lo conceda, giorni di risorgimento e di prosperità. « Dal Palazzo del Governo, 28 Aprile 1814. « Il Presidente Serra » Non si può esprimere con umana facondia la commozione e l’esultanza eccitate da ambedue que’ proclami. Nella città capitale e in altre piazze di traffico le operazioni violente della Commissione delle prede, e l’incertezza degl’impiegati sulla lor sorte avvenire mescevano alla pubblica gioja, come già accennai, qualche privata sollecitudine; ma ne’ luoghi a’ confini, nelle fedeli e sempre affezionate valli e montagne dell’Alpi e dell’Appennino tutto era e senza nube allegrezza. Gli uomini attempati principalmente levavano voci di gratitudine al Cielo, illuminavano le chiese lor parrocchiali, e coprivan di baci, come accertato ne fui io stesso, la coccarda genovese bianca e rossa, che avevano infino allora serbata non senza pericolo dentro i loro forzieri. I tristi e malvagj stanno sempre spiando le congiunture d’intorbidare la generale felicità, e di spingere la moltitudine, buona in sè stessa ma inconsiderata, agli eccessi. Ciò seguì pure allora - — 142 — ne’ siti ermi e remoti, ove la vigilanza delle Autorità non giunse in tempo. Sotto il pretesto di abbonimento a quegli alberi secchi e infruttuosi che mentivano libertà, di fresche e utili piante furon divelle, i semafori distrutti, e altre opere di pubblica utilità minacciate d’incendio e diroccamento, quasi invenzioni straniere e rivoluzionarie; ma il disinganno de’ meno avveduti fu pronto, e i tribunali procedettero contro i ribaldi. Un’inquietudine di ben diversa natura, dopo i primi momenti di consolazione, nacque dall’espressioni usate nel proclama inglese. Pare, dicevasi in esso, che il generai desiderio de’ Genovesi sia ritornare al loro antico Governo, e sembra un tal desiderio esser conforme a i principj riconosciuti dall’Alte Potenze confederate. Perchè coteste espressioni dubitative in un Comandante così autorevole? Perchè tanta risoluzione da un lato, tanta esitanza dall’altro? Sarà il Governo ubbidito da’ suoi, rispettato dagli altri, se chi l’ha fondato non è ben sicuro de’ suoi proprj motivi, e chi dovrebbe approvarli, non si è spiegato a bastanza? Le considerazioni che avevano indotto Lord Bentinck a quella dubbietà di parole, non potevansi allora intender dai più, ma si svilupparono gradatamente. Il Marchese Wellesley, autor principale delle prime istruzioni mandate al Generale, era scaduto dal Ministero, e aveva preso il suo luogo Lord Castle-reagh, uomo imbevuto delle massime di Pitt, poco amante delle discussioni parlamentarie in casa propria, perchè non aveva eloquenza, e nimico capitale de’ piccoli Stati, perchè non amava con passione la libertà. Da vero Tory egli era avverso al partito Portland, tutto cosa dei Whigs; tal che per l’addietro avea fatto duello col Sig. Canning, cognato del Duca di Portland, uno de’ più eloquenti oratori in Parlamento. Con sì fatto Ministro Lord Bentinck non poteva esser certo del fatto suo, e però s’avvolgeva in quelle dubbiose parole; ma nessun ostacolo stimando troppo gagliardo, nessun sacrifizio troppo penoso per meritare il titolo di ristoratore e padre di una Nazione oppressa, ch’è veramente la massima fra le umane glorie, sperò poter tanto impegnare — 143 — l’onore inglese e la fede nazionale, a costo ancora della propria responsabilità, che il Ministero non oserebbe violarli, e che volendolo ancora, noi consentirebbe la pubblica opinione, rocca sicura ove o tosto o tardi si rompono in Inghilterra i movimenti delle private passioni. Che un semplice ministro, un generale, un usurpatore smentisca i suoi propri atti, è sempre una vergogna, nondimeno pur troppo ne addita la storia gli spessi esempj; ma dove si troverà più fede e onestà, se un potente Governo, se un’inclita Nazione rappresentata da un vittorioso suo Generale, e se la gran lega europea promettente a tutti gl’infelici sollievo, a tutti indistintamente i popoli soggiogati franchigia e libertà, anteponesse i segreti progetti di una politica ingiusta alle dichiarazioni formali de’ suoi manifesti? Questo non si vuol credere, non è questo possibile; taccia una vii diffidenza, indegna d’un guerriero; la riuscita dell’opera sta nell’ardire. Tali furono per mio avviso i pensamenti di Lord Bentinck; e chi non gli apprezza, non ha cuor generoso. Quantunque ei volesse dissimularli, non era malagevole a’ Governanti il conghietturarne gran parte, e ciò nondimeno, non che abbatterli, li confermava nel proposito loro. Vedevamo per lui solo fattibile il risorgimento della Repubblica; lui solo veracemente volerlo, e per grado, per relazioni esser tale che mal si ardirebbe da nimica fazione a svergognarlo. Conveniva dunque imitarlo, commettersi alla sua fortuna, non mostrar diffidenza, non pusillanimi rispetti. Come il ligure ardire non fu punto inferiore al britannico nel correre i mari e affrontare i pericoli, così non doveva esser da meno nell’incontrare politiche burrasche, e seguane ciò che vuole! A buon conto sarebbe sempre un gran che l’entrare in possesso dell’indipendenza, e far conoscere che una nazione, i cui rappresentanti possono pensar come vogliono e come pensano deliberare, non è spenta ancora. Potreb-besi senza taccia di temerità o tradimento espor sue ragioni all’Europa adunata in congresso; e qualora le cose andassero alla peggio, più rispetto si avrebbe ad un popolo dalla dolce indipendenza sottratto per farlo servire, che se il medesimo sempre aggiogato non facesse altro che mutar padrone. — 144 — In questa, forma fra sè discorrendo i Collegj della Repubblica s’inanimirono a proseguire le loro operazioni. Era la più urgente quella d’inviare un Deputato o Ministro a Parigi, ove ancor dimoravano i vittoriosi Sovrani, e ove pure trovavasi il principale architetto della nuova fabbrica politica, Lord Castle-reagli. La pubblica opinione e quella di Bentinck sulla scelta del Deputato, concorrevano egualmente nella stessa persona, il Senatore Pareto; ond’egli fu eletto. Cade qui a proposito un detto noto a ben pochi, a me soltanto molti mesi appresso. Non ha relazione diretta a ciò ch’io diceva; ma pure, essendone autore un uomo così straordinario come fu Napoleone, non dispiacerà. Era egli sul fare quella memorabile abdicazione che stordì tanta gente e pareva a lui cosa da nulla, quando gittò per avventura lo sguardo sopra il giovane Auditore del Consiglio di Stato, Fabio Pallavicini, rimasto generosamente con lui a Fontainebleau, benché non potesse più nulla sperarne; e a sè chiamatolo con un sorriso, — « E voi altri Genovesi » — gli disse — « che cosa diverrete dopo la mia abdicazione? ». Quindi non aspettando risposta, come spesso soleva, e continuando a interrogare: — « Sarete voi Austriaci? o del Re del Piemonte? ». E dopo un momento di pausa soggiunse: « Se volete ricuperare la vostra indipendenza, compratevi Talley-rand ». — Ciò detto, passò a favellare con altri d’altre cose. Ora nel punto di vista in che Napoleone considerava quel caso, e in tutto quel di più che richiede prontezza e risoluzione, Agostino Pareto non era l’uomo da ciò. Aveva i necessarj poteri, ma circospetto per indole e per riflessione, poco espansivo, poco assuefatto a mostrar lieta cera quando il cuor rode, era inoltre dotato di quelle fisionomie piene d’ingegno e penetrazione, che non invitano a confidenze. Amicissimo di lui, il Presidente ne avea deplorata la lontananza, e indicato a lui stesso un’altra persona d’alto intendimento, che partendo da Roma, ove il suo ufizio era soppresso, avrebbe potuto invece di lui ripartir per Parigi; ma buon per Serra, che il proposto baratto non ebbe luogo, perchè andando le cose com’era già destino che andassero, un’amarissima voce avrebbe gridato in cuor suo: Se tu fidavi — 145 — alPopinion generale, saria stato meglio; t’ingannasti solennemente, piangerai tutti i giorni della tua vita la tua presunzione, e morrai di cordoglio nell’incertezza, se mentre ti lusingavi di soprastare i tuoi cittadini in perspicacia, tu non servivi infelice alla più bassa fra le terrene passioni, l’invidia. Si dettero al Deputato opportune istruzioni sul modo di contenersi, lettere di credito sopra grossi banchieri, titolo d’inviato straordinario, e credenziali per l’Imperadore Alessandro, pel Governo provvisorio di Francia e per Lodovico XVIII qualora egli ne ottenesse ammissione e riconoscimento, felicitandolo sulla restaurazione dell’augusta sua Dinastia. In ogni caso passasse da Parigi a Londra, dove, non potendo aver adito al Principe Reggente, insistesse presso tutti i Ministri, scongiurasse il Segretario Hamilton; e quando gli scoprisse tutti contrarj, quando disperasse di muoverli, mettesse almeno in fiamme l’Opposizione già per se stessa ardente. Flectere si nequeas Superos, Acheronta moveMs! Dopo la missione di un Diplomatico sommamente importava di ordinare lo Stato, e così ordinarlo da tutti i lati, che l’Alte Potenze vedessero a colpo d’occhio non essersi dimenticate in Genova le antiche teorie del Governo, esistervi ancora degli uomini capaci a rimetterle in pratica, e poterne riuscire un tutto piccolo sì, ma ben costituito, giovevole alle sue parti, e giovevole ancora alla gran fabbrica sociale, come certi materiali di poco volume servono a collegare i massi d’ampio teatro o il prolungamento d’un molo. Ardua era l’impresa, ma pur riuscì mediante una giudiziosa imitazion deH’antico, e quel fecondo principio della division del lavoro. I Collegj, già divisi in Senato e Camera, si suddivisero in tre Giunte, ciascuna di tre Senatori: la Giunta degli affari esterni, presieduta dal Presidente stesso del Governo, degli affari interni, e degli ecclesiastici. Si crearono i Magistrati della Guerra e Marina, degl’inquisitori di Stato o d’alta Polizia, dell’Università degli studj, della Commissione di Sanità, composti di tre patrizj e tre cittadini con un Senatore per presidente, io — 146 — Soppressi i nomi stranieri di Dipartimenti, spartissi il territorio in sette Giurisdizioni sotto altrettanti Governatori, si diedero ad ogni Giurisdizione i limiti antichi e naturali, un Capo Anziano sottentrò all’ufìzio di Maire in ogni Comune, un Parlamento o Consiglio di Anziani a i Municipalisti. Dove i Prefetti imperiali avevano uno stipendio di 40 mila franchi almeno, si assegnarono annualmente novemila lire di Genova per Governatore. Fu loro ufìzio provvedere all’amministrazione de’ beni pubblici, invigilare all’esigenza delle contribuzioni, decidere sopra le opposizioni de’ contribuenti, autorizzare le adunanze de’ Consigli comunali, esercitare l’alta polizia come i Capo Anziani la piccola; disporre della forza armata nelle rispettive Giurisdizioni, corrispondere direttamente col Governo e i Magistrati della Repubblica. La Città capitale non ebbe Governatore, ma fu retta in parte da’ proprj Magistrati, Padri del Comune, Censori, Provvisori dell’abbondanza, Conservatori del mare, e in parte dalle Giunte e Cfìzj generali che, avendovi residenza, potevano attendervi con più semplicità più sicurezza e meno spesa. Una rigorosa uniformità che costa e non giova, è una pedanteria. All’amministrazione appartennero un Regolamento per le poste de’ cavalli diverso da quello che avevano i Francesi, un altro sopra i corrieri e le lettere la cui tariffa onerosissima al Commercio fu ridotta a meno della metà; altri sopra il lotto o seminario, l’estrazioni del quale, troppo seducenti quando sono troppo frequenti, si ristrinsero a due per mese, sul Portofranco e le Dogane, sui passaporti all’interno e all’estero, sul Monte di pietà, sui Luoghi pii, in una parola sopra tutti i bisogni di una società civile e di un paese, che dallo stato di passiva ubbidienza a un centro d’azione straniero e lontano, troncati ad un tratto i legami che vel tenevano avvinto, ritorna a far capo da sè e a governarsi secondo le proprie Leggi, e le native abitudini de’ suoi abitanti. Le udienze, gli esami e le sessioni a tutto ciò necessarie, non avevano fine. Ragionerò più particolarmente dell’Ordine giudiziario. Alli 29 Aprile era stata creata una Commissione di tre principali — 147 — Giurisperiti, Ardizzoni, Perazzo e Gandolfo, quello stesso che aveva rifiutato il grado di Senatore. La prima cosa che si aspettava da loro era un interino progetto per l’amministrazione della giustizia, atteso che la Corte imperiale sedente in Genova, priva del dotto suo Capo Ferdinando Dal Pozzo e di parecchi altri forestieri, non si trovava più a numero, e che la Corte di Cassazione residente in Parigi era diventata affatto straniera e incompetente. Non s’aspettò lunga pezza; in cinque giorni il progetto fu steso, proposto e approvato. I Tribunali di prima istanza già esistenti nella Liguria rimasero in piedi, tutti di tre Giudici, fuori che in Genova, ove furono di sei, in due sezioni divisi. In questa città cinque Giudici composero il tribunale criminale, e altrove il formarono tre Giudici di prima istanza riuniti a tre arroti o supplementarj, scelti fra i Legali o i cittadini più riputati di ciaschedun circondario. Ogni tribunale ebbe un Avvocato fiscale ed uno o più sostituti, esercenti il Ministero pubblico nelle cause criminali, correzionali o di semplice polizia. Si confermarono i Giudici di pace e di commercio. Fu posto nella Capitale, centro non remoto dalla circonferenza, un Tribunale generale di appello, composto di dieci Giudici e diviso in due Sezioni reciprocamente giudici in seconda appellazione, qualora l’una o l’altra non confermasse la sentenza della prima Instanza. Da ultimo fu eretto in numero di sette soggetti un Tribunale di Cassazione, sì per violazione di forme come per contravvenzione alla Legge. L’esperimento della conciliazione, il ministero pubblico ne’ piati civili, la previa dichiarazione se il ricorso in Cassazione sia ammissibile o no, cose escogitate da’ Legislatori francesi, si dichiararono coll’atto stesso abolite; confermati inte-rinalmente i Codici, ma dal civile cassato tutto ciò che appartiene alle formalità de’ matrimonj, al divorzio, alla communione de’ beni fra i coniugi, al registro civile delle nascite e morti, alle successioni intestate e al diritto di legittima, ripristinando in quella vece il disposto dalle antiche Leggi della Repubblica. Corse in questo un errore, il quale dimostra che si fa rade volte bene, quando vuoisi far presto. 0 sia che la Commissione de’ Giurisperiti pensasse la Legislazione francese esser mancata issofatto col potere illegale che la fondò, o qual altra ragion la movesse, certo è che nell’articolo ripristinante l’antico modo di succedere ab intestato, essa non s’attenne già al giorno della promulgazione, ma risalì a quattordici dì addietro a contare dal giorno 21 Aprile 1814, nel quale gl’inglesi erano entrati in Genova; e il Governo, che di confidenza approvò il progetto, non l’avvertì. Se alcuna cosa può consolarne ch’il sottoscrisse, è la certezza che nel gran numero de’ ricorrenti onde ogni mattina le sue anticamere e insin le scale erano piene, chi per impieghi e chi per altre domande, nessuno ricorse contro l’effetto retroattivo dato alla Legge; dal che risulta una forte presunzione, che l’errore non solo fu innocente, ma innocuo. Nessuna impressione ne rimase; grande all’incontro e molto accetta fu quella che nacque dalle decretate riforme. Nelle campagne principalmente e nelle piccole terre il parroco è il consigliere, l’istitutore, l’amico di tutte le famiglie. Le benedizioni ch’ei porge e i sacramenti ch’egli amministra a’ novelli sposi, a’ teneri parti, a’ vecchi moribondi, rallegrano e consolano ognuno; dove all’opposto la faccia dell’Ufìciale civile, solito a descriver la gente a presentare i coscritti, faceva ribrezzo; la sola possibilità del divorzio, la piccolezza della legittima pareva che allontanassero già i vincoli delle famiglie, e l’egual partizione de’ beni tra maschi e femmine dava a temere, che i primi non lasciasse!’ più presto il tetto paterno ove soli sarebbono a tollerar la fatica, non soli a coglierne i frutti. Così fatte ragioni rendevano odiosa la legislazione francese, e grate generalmente le sue riforme. Aggiungasi a questo il subito ribasso de’ grani in un paese che ne produce poco, la cessazione del blocco marittimo, l’universale richiesta de’ generi coloniali, in Italia da più e più anni mancanti e cari, l’avidità che succede a lunghe privazioni, e i regolamenti delle Dogane fatti con un paterno Governo e all’uopo rifatti, mirando più al vantaggio del traffico che a quello dell’imposta. Finalmente i coscritti reduci dalle armate, gli ecclesiastici dall’esi- lio, gli accattoni da’ loro reclusorj, le casacce ripristinate, le — 149 — fraterie riammesse, e le funzioni di chiesa solennizzate in tutti i giorni del mese, co’ riti della religione e co’ divertimenti della plebe, cose ottime miste amen buone, mezzi d’industria e d’ozio, atti di pietà e di superstizione, ma tutti egualmente bramati e da Francesi vietati, accrescevano il tripudio della Nazione. Oltre a questo non durò lungamente a splendere il giorno, che il Governo notificò per decreto le modificazioni organiche, che a tenore del primitivo proclama una Commissione speciale di tre Senatori e tre Giurisperiti, presente Lord Bentinck, avea compilate, uniformandosi, se vana speranza non l’abbagliava, al voto generale, al pubblico bene, e al fine primario dell’originale Costituzione. Di essa Costituzione non darò qui un estratto, perchè se ne trovano più edizioni, e perchè io stesso ne ragionai lungamente nelle ricordanze manoscritte della mia vita, con tener conto eziandio delle mutazioni legalmente introdottevi dall’anno 1576, in ^che fu approvata, sino al 1797 quando venne soppressa! All’opposto riporterò le modificazioni e riforme più importanti. Un nuovo Libro di Nobiltà sarà formato. Per esservi inscritto ed aver così la qualità d’eligibile al Governo, è necessario: 1. L’esser Cittadino Genovese; 2. L avere un patrimonio di lire centomila, metà in beni stabili situati in territorio della Repubblica, o in azioni del debito pubblico ragguagliato sul loro reddito al cinque per 100. e metà in altri beni o capitali qualunque; ovvero un reddito almeno di lire 4 mila, metà in beni stabili, o in azioni del debito pubblico come sopra, e metà da supplirsi con altri mezzi non escluso il reddito presunto d’uno stabilimento di commercio, di una professione o arte liberale qualunque. Sono esclusi i Cittadini che professano in qualche ordine cavalleresco, regolare o monastico, quelli che sono attualmente al servizio di una Potenza estera, quelli che sono colpiti da una sentenza deffinitiva in pena infamante o altra pena per titolo infamante, o attualmente inquisiti fino a che non siano purgati dall’in-questa, gl’interdetti per qualche causa, ed i falliti non riabilitati; quelli finalmente che non si sono astenuti da tre anni almeno dal- — 150 — l’esercizio di qualunque arte meccanica, ossia mestiere secondo il Capitolo 3 della Costituzione del 1576 e successive dichiarazioni. Tutti i Nobili inscritti nell’antico Libro della Nobiltà, quando però abbiano le qualità di cui sopra, saran conservati nel nuovo Libro. Tutti egualmente i Cittadini dello Stato che non erano inscritti all’epoca del 1797, saranno scritti nel nuovo, quando sieno forniti delle dette qualità. Sì gli uni che gli altri, ed i loro fìglj legittimi, anche già, nati, continueranno ad esservi inscritti, o vi saranno inscritti, nel modo ordinato dalla Costituzione. Non potranno però essere eletti ai Collegi, compreso il Doge, a i due Consigli, ed alle diverse Magistrature della Repubblica, compresi i Governatori dello Stato, quando non abbiano le anzidette qualità. Cesserà la loro esclusione, quando le avranno riacquistate. I Cittadini che dimanderanno di essere conservati o inscritti al Libro della Nobiltà, dovranno presentare nello spazio di tre mesi dalla pubblicazione della presente la loro istanza, o documenti, giustificativi delle anzidette qualità, e la dichiarazione del domicilio politico da essi eletto in uno dei diversi Governi dello Stato, o nella Capitale, in ragione del domicilio reale o dell’ubicazione dei beni e redditi necessari per essere inscritto al Libro della Nobiltà. Quest’istanza e documenti relativi dovranno esser mandati, o presentati entro il detto termine al Segretario del Governo, o del Magistrato dell’interno incaricato di rimetterli a una Commissione di nove Soggetti, uno de’ quali apparterrà a ciascuna Giurisdizione, ed uno almeno alla Capitale. Fin qui le riforme di maggior momento; e non guari dopo, sopra i reclami di un Gentiluomo di antica prosapia, ma di poca fortuna, protestantesi che ricorrerebbe in persona al Congresso di Vienna, si aggiunse, aderendovi pure Lord Bentinck, che a Nobili già scritti nel Libro d’oro bastasse la metà del censo richiesto per gli altri. Ora io dirò il mio sentimento, qualunque egli sia, intorno al lavoro della Commissione. Era di tutti i nostri — 151 — uomini di Stato, ch’io mi conobbi in gioventù, concorde querela, a dirla con le loro proprie parole, che le Leggi del 1576 avessero aperta una porta per entrare al Governo e non apertane un’altra per uscirne; dove, all’opposito, in Roma i Censori privavano del cavallo e del grado di cavaliere chi impoveriva; e nella Repubblica Fiorentina de’ tempi bassi non potevano andare al Consiglio nè avere ordinariamente ufìzio o magistrato nessuno coloro, che non pagavano gravezze dirette, e gli ascendenti de’ quali, il padre e l’avolo principalmente, non avevano conseguito i voti necessarj per uno dei tre magistrati maggiori in repubblica. Ciò posto, la principale riforma della Commissione speciale era di per se consentanea a’ consigli dell’esperienza; ma sembra a me che un capitale di centomila lire di Genova, ottantamila franchi circa, o una rendita di lire quattromila non bastino a costituire oggidì un uomo di Stato indi-pendente qual esser si deve in una bene ordinata Aristocrazia, e bisognava a parer mio duplicarlo. Chè se temevasi di soverchiamente ristringere il numero degli Eligibili, conveniva dar luogo, come alcune Leggi genovesi indicavano, alla buona dottrina e a’ lunghi servizj, aggiugnendovi per cagion d’esempio i Decani delle Facoltà, i Presidenti de’ tribunali, il Presidente e il Segretario delle due accademie, e gli Ufiziali di maggior grado giubbilati. Era inoltre indispensabile, a promuovere un’educa-cazione governativa, permettere nuovi majoraschi, e a corroborare i vincoli dello Stato lungamente allentati, render perpetua o molto più durabile di prima la dignità ducale. Queste e simili cose avrebbe proposte e sviluppate il Presidente del Governo, se da quella Commissione speciale non l’avessero escluso o il riflesso di non l’occupare soverchiamente, o il desiderio di non gli accrescere autorità, o forse il considerare i Popolari votanti ch’egli era nato Nobile, e i Nobili ch’egli era stato Plenipotenziario a Montebello, secondo un generale costume di biasimare sul lido i gettiti fatti in burrasca per campar dal naufragio. Comunque fosse, ciò punto non alterò la concordia tra il Presidente e i Senatori. — 152 — Era la Commissione investita di piena balìa. Onde il Governo, appena lette le aggiunte da lei compilate, decretò con frase antica, che si trascrivessero nel registro della Repubblica, citando a un tempo la lettera de’ 29 di maggio, ove Lord Ben-tinck dichiarava che le proposte modificazioni e riforme alla Costituzione del 1576 erano non solamente adattate alle circostanze dello Stato ed utili alla Nazione, ma interamente conformi allo spirito del suo Proclama. Non procedendo le cose in Sicilia com’esso le aveva lasciate, d’ordine superiore o di sua propria elezione egli era partito lo stesso dì sul vascello ammiraglio a quella volta, indirizzando la lettera anzidetta al Colonnello Sir John Dalrymple accreditato da lui in sua vece presso il Governo; e il Colonnello comunicata l’aveva al Presidente. Io non l'ho sotto gli occhi quale egli la scrisse, ma quale mandolla Dalrymple. Era però autentica, e doveva ragionevolmente tenersi per una solenne rafferma del primo Proclama emanato dal Generale. L’avrebbe egli scritta ove queU’atto fondamentale, trasmesso senza meno alla sua Corte, non avesse ricevuta, tacita o espressa, l’approvazione di Lei? E se non fosse così, durerebbe egli al comando delle forze britanniche nel Mediterraneo? Dunque l’esistenza della Repubblica è certa, In cotal guisa si argomentava da’ cittadini dabbene con ragionevol fiducia.....Ma i dispacci di Parigi non erano consolanti. In quella città giungeva il Ministro Pareto fra i cinque e i sei di maggio; alli dodici otteneva di abboccarsi con Lord Castlereagh, conformemente alla prima sua commissione di fai capo da quel potente Ministro e ringraziarlo delle cose operate coll’armi e il senno britannico a favore de’ Genovesi. Riceve l’imbasciata con grate parole é volto sereno, ma tosto accigliandosi soggiunse, che dorrebbegli assai se l’accaduto nella città di Genova si riputasse qual decisione formale de' suoi futuri destini; dipendere questi dal vicino Congresso, prendervi, è ^eio, una viva parte, ma non poterne decidere la sola Inghilterra senza l’adesione delle altre Potenze alleate, e però forse Lord W. Bentinck essersi più innoltrato che non doveva. Qui prese a — 153 — difenderlo Pareto sulla cooperazione de’ nostri alla gloriosa impresa, sul voto unanime della Nazione, sulle proteste di tutti i Confederati in voler ristabilito quanto era stato distrutto. Da ciò appunto esser nato un lampo di juosperità nel paese, una viva fiducia in tutti, che diverrebbe profondo cordoglio e disperazione quando un Congresso di pace distruggesse da capo ciò che un Condottiero d’esercito aveva nuovamente creato.— Ma non sareste egualmente lieti e felici sotto un governo più forte che non potete esser voi? L’unione al Piemonte non vi gioverebbe? — A così fatte interrogazioni io non so come il cuore battesse al Ministio; certo egli oppose a un di presso le osservazioni contenute in una Nota, che poco di poi presentò, e ch’io ristringerò qui appresso. Pigliando motivo da quella che un paese commeiciante e marittimo ha interessi affatto contrari alle vedute di uno Stato fra terra o tutto agricolo, l’inglese dopo una pausa replicò. Pei uno stabilimento commerciale il vostro Stato è troppo; non hanno le citta anseatiche altro che un piccolo contado d intorno. — E questo è bastante per esse — l’altro interruppe — chè poste sono all’imboccatura o a cavaliere di fiumi navigabili dentro terra; oltre che altro è conservare l’antica estensione, altro è perderla; perdersi a un tempo consumazione di roba, concorso di gente e capitali; è fiume che privo de’ suoi influenti ristagna. Alloia il discorso si allargò. Alla domanda ove il Congresso si adunerebbe, il Lord rispose che molto probabilmente in \ ienna: ad una seconda se approverebbe simiglianti uficj co’ Ministri delle Potenze Alleate, disse aver così fatto i Deputati d altri paesi. Richiesto infine di voler consentire a nuove conferenze, non ricusò, e ricevette la lettera indirittagli dal Governo con altra che gli scriveva Lord Bentinck. Una seconda conferenza ebbe effetto sette dì appresso. Alla quale ei diede principio con manifestare gratitudine per l’ac-coglienze che il pubblico, come altresì i privati, usavano senza intermissione agl’inglesi. Entrando quindi in materia disse, non essere ancor decisa la sorte di Genova, ma sì tutte le Potenze alleate esser ferme in ciò, di non volere altro che Principati — 154 — grandi e forti, capaci di resistere validamente in caso di nuovi pericoli, e di contribuire a proporzione per la difesa comune. — Ben volentieri contribuiremo anche noi — replicò Pareto — e se deboli siam reputati, si può trovar modo, che altre guerre occorrendo, i porti di maggior momento vengano occupati dall’armi britanniche.— Ecco — replicò vivamente Castlereagh — il concetto che vuoisi aver sempre di noi sul Continente! Ci si crede mercatanti; si crede che pretendiamo occupare possedimenti per tutto, e dominare in ogni parte. Ma ciò non sussiste; abbiamo idee più liberali; e come prima saranno stabilite le cose in modo sicuro da non temere nuove guerre, noi ci ritireremo dal Continente per isbarcarvi da capo al riapparire del pericolo. Siccome ciò che si ode ne’ discorsi di società, lia peso non lieve nelle menti stesse degli uomini di Stato, principalmente in Parigi ove il bel sesso è ricco di qualità socievoli, e ne ha gran fama, così non sono lontano da conghietturare che la vivacità di Lord Castlereagh al detto proposito movesse da quello, che a me fu narrato da Madama di Stael nell’ultimo suo viaggio d Italia, presente, se ben mi ricordo, il Principe Stahrenberg già ambasciadore d’Austria in Inghilterra. Questo servirà d’in-ti amessa al grave argomento. Tornata ella dunque al suo diletto sobborgo di San Germano, donde cacciata l’avevano prima la tiascuianza e poi 1 irritazione di Bonaparte in trono, riceveva in sua casa alle date ore il fior de’ forestieri e de’ nazionali i accolti in Parigi, incantandoli con la grazia de’ suoi racconti e il frizzo delle sue riflessioni. Un bel giorno prese a descrivere le qualità de’ Polacchi, de’ Russi e d’altri popoli settentrionali da lei "visitati durante l’esilio intimatole dal Ministro della Polizia Savarv. E degl’inglesi che dice Ella, Madama? — chiese Lord T\ ellington o Castlereagh stesso. — Che sono mercatanti, — e tosto pei tempeiare la puntura soggiunse, — ma pieni di genio e qualche volta ancor generosi. - Così l’illustre figlia di Necker; la scelta brigata n’ebbe un pezzo che dire, e forse l’inglese Ministro se ne nsovenne nella sua conferenza col Deputato Pareto. La nota presentata da questo conteneva in sostanza, oltre — 155 — l’anzidetta osservazione sugl’interessi diversi e quasi contrari dei due paesi, la sdegnosa natura del traffico, che un solo dazio eccedente o mal posto allontana, dove moltissimi ne aggiugne-rebbono lo splendore di una regia Corte e il carico di più amministrazioni centrali, non compensato da’ benefizj della presenza. I gradi superiori dell’esercito, le dignità eminenti del regno, l’aspetto consolatore del Sovrano, tutto il buono ed il bello toccherebbero in massima parte a’ sudditi antichi, i minuzzoli a’ nuovi. L’agricoltura, potente in mano de’ gran proprietarj del Piemonte e del Monferrato, si scaricherebbe de’ soverchi aggravj sul languente commercio, e contro le benefiche intenzioni dell Inghilterra, il principale porto del Mediterraneo sarebbe non Geno\a, ma Livorno o Marsiglia. Passando quindi dalle circostanze locali alle considerazioni dell’alta Politica, secondo il cenno che Sua Signoria si era compiaciuta di darne, bene sta il volere tai forze unite che impossibile rendano un nuovo regno dispotico di violenze e d usurpazioni; ma lecito sia il domandare se l’estension de’ confini, e non più tosto la contentezza degli animi, l’interno accoido delle popolazioni e lo spirito nazionale, opera di lunghissimi anni, costituiscano il vigore, l’unione e la forza vera delle Nazioni. Mantenuto il Piemonte ne’ suoi limiti antichi, avrà questi piegj per l’avvenire come gli ebbe in passato; gli a~\ rà similmente il Genovesato, che ne offre fin da quest’ora certissimi conti assegni, l’uno e l’altro li perderebbero in una fusione conti aria alle loio abitudini, a’ loro interessi, al genio e costume ereditato da’ loro Antenati. È questo il compendio della Nota presentata a Lord Castlereagh. E non avendo impetrato risposta dal Conte di Nes-selrode, Ministro di Stato dell’Imperador delle Russie, nè dal Principe Metternich, principale Ministro deirimperador d’Austria, ne indirizzò loro una simile con opportune variazioni. All’austriaco rammemorò il pacifico governo, di cui domandatasi la ricognizione, essere quel desso che tre secoli addietro nacque sotto gli auspicj e la tutela dell’immortal Carlo \, raffei mo e — 156 — consolidato di poi a Casale nel 1576 per l’opera de’ Plenipoten-ziarj de’ due gran rami austriaci di Vienna e di Madrid. Qual tributo di lodi per quest’Eccelsa Casa, quanti obblighi di gratitudine e d’affetto per Genova, qualora debitrice le fosse di una terza vita! Taluno fece intendere al Deputato che l’udienza negatagli come persona pubblica, gli sarebbe senza difficoltà conceduta in qualità di privato non solamente dal Principe di Mettermeli, ma eziandio e quasi all’istante dall’Imperadore Francesco. Doman-dolla di fatto e l’ottenne. L’Imperadore il ricevette solo nel suo gabinetto con quelle affabili maniere, che da un secolo in qua hanno cresciuto affetto a' Principi austriaci, senza scemar reverenza. E degnò ricordare i non pochi Nobili genovesi, che in varj tempi ^ insero battaglie o poser la vita per gli augusti suoi Antenati. Il principale Ministro parve più riservato; tutta fiata si mostrò anch’esso benevolo a’ Genovesi, dando pure ad intendere che al Congresso di Vienna si rimetterebbe il decidere o no l’unione della Liguria al Piemonte, ma che mal suo grado vede-vala presso che necessaria per fortificare le porte dell’Italia e peichè non si credeva convenire alla tranquillità del paese il risorgimento della Repubblica. (Trovasi intera nella raccolta di Scholl VII, 321, 327). Non ammutoliva il Pareto, ma un’onda di Ministri e Segretarj spingendosi innanzi per altre incombenze, lo costrinse a esser breve. In una conversazione presso la Via S.t. Honorè, il Principe Mettermeli parlò anche più chiaro. Richiestogli da una Signora forestiera, intima amica di una nostra Dama, qual sarebbe la sorte di Genova: — Di essere unita al Piemonte, — rispose egli tosto, — e quella opponendogli il dispia-ceie e la lipugnanza grandissima degli abitanti, — soggiunse: Così dicono i pochi che si trovano qui in Parigi, ma so io bene non trovarsi in Genova appena un sopra dieci, il quale desideri l’antico Governo. Da chi egli traesse così falsa informazione, nè a me ne al Deputato fu noto; e anco al presente non so nè voglio conghietturarlo. Se fosse mai stato a voce, per lettera, o indirettamente qualche mio paesano, mi farebbe più compassione — 157 — che sdegno. Per certo tempo avrà pace e fors’anche onori, que’ tanti che dall’onor vero possono stare disgiunti, ma tosto che il primo favore gli mancherà, o che spossato e a se stesso increscioso vedrà da lontano i suoi coetanei ancor vegeti e indi-pendenti nella stessa lor solitudine, allora la ricordanza del male che fece alla sua patria l’opprimerà come peso di marmo sul petto, come spina in mezzo del cuore; e una voce misteriosa susurrerà d’intorno: L’hai ben meritato, o traditore! Mentre queste cose si travagliavano in Parigi, Bentinck non s’era abbandonato. Già indicai la partita sua per Palermo a’ dì 29 di Maggio. Innanzi a questa, per via di messaggio e anche in persona aveva esplorato l’animo di parecchi Lombardi nobilmente desiderosi d’indipendenza, poi quando fu dichiarata la riunione della Lombardia e di Venezia all’impero austriaco, gli riuscì d’impedire che il Comandante dell’esercito imperiale non occupasse un sol punto del Genovesato; a Lord Catheart, speditogli dal Ministro, espose francamente i motivi del suo operato, e rispedì a Parigi e a Londra per sostenerli il Generale Macferlane Capo del suo Stato Maggiore, uomo più degno de’ tempi antichi che de’ moderni. E finalmente fece ritorno a Genova il dì 21 di Luglio dopo aver rinunziato il comando delle regie forze in Sicilia, ove il Re Ferdinando, consentendolo il Ministero britannico, avea ripigliate le redini dello Stato, atterriti con sol ripigliarle tutti gli amici della Costituzione inglese. Già dalli 30 di Maggio era pubblicato il trattato definitivo di pace fra le potenze alleate e la Francia. Di Genova ancor nulla, almeno palesemente; onde Lord Bentinck die’ fuori un proclama tendente per l’una parte a non incorrere i rimproveri del suo Governo, per l’altra a non distruggere affatto le speranze del nostro : I. Che il Governo provvisorio di Genova continuare dovesse nello esercizio delle sue funzioni fino a che il Congresso dell’Alte Potenze alleate in Vienna avesse terminate le sue operazioni. II. Che in luogo di tre Senatori rinunziatarj fossero riconosciuti tre altri, Negrotto e Dagnino due probi banchieri di Genova, e Grimaldo Oldoini ricco possidente della Spezia. — 158 — III. Che i due Consiglj maggiore e minore, prescritti dalla Costituzione, fossero per li due terzi composti secondo una lista annessa, ch’era stata formata sulle liste particolari di parecchi uomini qualificati. Così disposto, partì in caccia e ili furia per Londra, desideroso di giungervi innanzi alla partenza di Lord Castlereagh per Vienna. Mentre il Generale inglese non si lasciava uscir di mano il filo delle cose per lui stabilito, il Governo di Genova ponderava altamente i dispacci del suo Ministro a Parigi, il quale per la partenza de’ Sovrani o de’ loro principali Ministri stava in procinto di trasferirsi in Inghilterra, e, dopo un lungo riflettere, di unanime consentimento approvò la seguente istruzione proposta dal Presidente, In tutte le sue negoziazioni a Parigi e a Londra, il Ministro della Repubblica e Senatore Pareto si atterrà scrupolosamente a questi tre punti. 1. Che il primo voto della Nazione e del Governo genovese si è l’indipendenza da ogni dominio forestiere, 2. La conservazione di tutto quel territorio ch’è necessario alle comunicazioni di commercio non interrotte col Piemonte, la Lombardia, e la Toscana. 3. Che se il sistema europeo, e la decisa volontà dell’Alte Potenze alleate si oppongono alla continuazione del Governo repubblicano anche fra noi, il prefato Ministro è autorizzato a consentire espressamente alla privazione di esso Governo, piuttosto che dover rinunziare alla indipendenza della Nazione e alla continuità del territorio. Nel comunicare al Ministro un decreto di tanto momento, la Giunta degli affari esteri autorizzata, o più veramente il Presidente, che aveva ottenuta l’illimitata fiducia degli altri due membri, aggiunse con lettera delli trenta Maggio, che ove l’articolo 3 potesse aver luogo, badasse a stipulare ciò ch’erane una essenzial condizione, la residenza del Principe nel territorio, senza che per eredità o per qualunque altro titolo potesse il Genovesato riunirsi ad altri Principati vicini o lontani, e — 159 — procacciasse eziandio quello che non pareva nelle presenti emergenze malagevole, perchè da lunghi anni proprio dell’Inghilterra e da pochi giorni dato con magnanimi sensi alla Francia, una rappresentanza nazionale, una determinata misura d’imposizioni, oltre la quale fosse necessario il consenso de’ Rappresentanti per li due terzi almeno del numero legittimo, e finalmente la collazione de’ pubblici impieghi ristretta a persone nate e dimoranti nello Stato. La moderazione di questi desiderj, ch’è il nome loro più adattato, era tale da sciogliere le opposte difficoltà, se chi puote ogni cosa, non potesse ancor dispensarsi di favellare, quando non ha più nulla da opporre. Pertanto non ci fu modo che Pareto, giunto il dì 14 di Giugno a Londra, ottenesse mai un’udienza. A notizia del pubblico, il Cardinale Consalvi Plenipotenziario del Papa, e l’inviato straordinario della Corte Sarda non ebbero miglior ventura per più settimane; ma in segreto non fu così; e alla fine ambedue vennero presentati al Principe reggente. Stanco il Pareto di replicare inutili istanze presso l’inflessibile Castlereagh, s’indirizzò al Cav. Hamilton, sotto segretario di Stato, il quale, mentre il suo Principale risedeva a Parigi, faceva sue veci in Londra, e anche di poi riceveva gli Agenti diplomatici per riferirgliene in compendio i ragionamenti. Freddo come inglese, e anche più sulle sue come uomo politico, Hamilton fece tutta volta di molte domande, mostrandosi poco informato delle cose accadute in Genova; e dal canto suo, interrogato se a Londra o a Vienna soltanto si tratterebbono gli affari nostri, rispose, che quanto alle relazioni generali di ciascheduno Stato con le Potenze alleate, pensava se ne occuperebbe solo il Congresso di Vienna; ma quanto a’ rapporti particolari coll’Inghilterra, converrebbe probabilmente trattarne a Londra. Breve fu la dimora de’ Sovrani di Russia e di Prussia in Inghilterra, meno maravigliati, cred’io, de’ miracoli d’industria in quel paese, che della popolare licenza, la quale andava allora tant’oltre contro il Principe reggente che spesso i circostanti coprivano il suo calesse di mota. Ma per tali partenze il Ministro — 160 — alleggerito di cuore, non fu più largo d’udienze. Il Sotto Segretario ne diede una seconda a’ 5 di Luglio, nella quale riferì che Milord Castlereagh non pensava vi fosse nulla da fare per Genova innanzi alla ragunata del Congresso; che quanto a sè non conosceva le intenzioni del suo Governo, e però non potea dirne niente, ma che in generale lo stato definitivo dell’Italia dipenderebbe dalle determinazioni degli Alleati. Per variare domande, fìsonomia, attitudini, Pareto non potè saper altro; onde prese alla disperata il partito d’indirizzarsi all’Opposizione. Lord Holland, per la moglie del quale, Dama assai spiritosa, egli aveva una lettera, l’accolse cortesemente, e attintene le prime informazioni convenne seco di un giorno per favellarne a dilungo, presente ancora il Sig. Whitbread, Capo dell’Opposizione nella Camera bassa, come Holland nell’alta. Dinanzi a questi chiarissimi oratori, Pareto sostenne con giusto calore la causa della sua patria, principalmente fondandosi sopra i sacri diritti della libertà e dell’indipendenza delle nazioni deboli o potenti che sieno, e sopra l’onore della Gran Bretagna mal conservato in mezzo de’ suoi stessi allori, quando il Ministero negasse di mantenere le lusinghe date e le istituzioni promesse in suo nome più specialmente ancora che in nome di tutti gli altri .Alleati. Mostrarono ambedue gli ascoltanti una nobile simpatia de’ casi nostri; e Whitbread li comprovò in Parlamento cogliendone occasione dalla cessione di una parte della Savoja alla Francia nel trattato di pace, rispetto alla quale era voce che si abbandonerebbe Genova al Re di Sardegna. A lungo e con forte eloquenza provò solennemente impegnata la fede della Nazione inglese a non permetterlo, mostrandone l’ingiustizia e la crudeltà verso un popolo innocente e ingannato. Al che il Ministro con meno facondia ma burbero replicò, che gli Alleati desideravano di rispettare tutti i diritti e di far giustizia a tutte le parti, ma non toccava all’onorevole Gentiluomo (accennando Whitbread) di adoperarsi per infiammare la sensibilità de’ popoli in que’ paesi che mutar potessero le politiche lor relazioni, col dar loro a credere di essere sacrificati ingiustamente, quando — 161 — la necessità di costituire un giusto equilibrio, richiedesse una nuova determinazione di confini. Battè ambe le mani al Ministro la ligia Maggiorità de’ Deputati tanto per questa, quanto per le altre osservazioni sopra il trattato di pace; e ciò ch’è più notabile, l’indirizzo di ringraziamento al Trono, nemine dissentiente, come usano dire, fu approvato. Lord Grenville prima, e in altra sessione anche Lord Holland tennero le nostre parti nella Camera de’ Pari con pari infelice successo. Onde il nostro Deputato Pareto, credendosi inutile a Londra quantunque L. Castlereagh non ne fosse ancora partito, si restituì a Parigi. Dove restavagli giusto le sue incombenze a rendere un omaggio di felicitazioni al Re Luigi XVIII; ma, come già presso Francesco II, non potè altro impetrare che una presentazione da privato. Fino da Luigi XVIII, principe di non volgare ingegno, ma contegnoso com’è costume, s’io non m’inganno, de’ Re Francesi di nulla o pochissimo dire a’ forestieri che son presentati, mentr’essi vanno in cappella o ne ritornano. Così a me intervenne nel regno dell’infelice e venerabile Luigi XVI, e così allora a Pareto. Col Principe di Benevento non potè mai abboccarsi, quantunque avesse accesso alla conversazione della Principessa; cosa da non meravigliarsene punto a chi si rammenta, come il padrone di casa, lasciando alla mal tolta e mal curata sua donna le noie della rappresentanza, compariva tardissimo, parlava a spizzico con pochi, o con un solo come più. gli tornava, e nel più bello era seduto al suo giuoco del whist, o via di nuovo. Per iscrittura, trattandosi di affari secondari e attenenti a’ privati, consentì più volte a corrispondere, e fu talvolta il primo, ma sopra pubblici interessi nè primo mai, nè secondo. Era in arbitrio del Deputato il tentare Parme che non ignorano i diplomatici, acutamente indicate da Napoleone stesso, ma noi giudicò espediente, per naturai repugnanza a quelle pratiche occulte, che non si vorrebon palesi. Alla misteriosa durezza di Talleyrand facea contrappeso l’aperto procedere di un compitissimo Consigliere e Ministro di Stato aggiunto alle relazioni u estere, cui crederei secondo l’estimazione ch’io gli professo, il già nominato Signor di Hauterive. Questi, non dubitando di manifestare ciò che poteva senza inconveniente, affermò a Pareto, che la Francia prendeva una vivissima parte all’esistenza della Repubblica, e proverebbelo all’occasione; ma dopo breve pausa soggiunse: « non ci batteremo per questo ». Il foglio ufìciale del Monitore riferì a’ 25 di Luglio, in senso di chi approva e ne gode, le disposizioni che davansi in Genova per recare ad effetto la pubblicata Costituzione; e fino il Principe di Mettermeli, se il relator fu sincero, nella sua breve dimora in Parigi, restituendosi da Londra a Vienna, si spiegò in un modo più favorevole assai che la prima volta. Qual dietro a belle apparenze resta il cultor sopraffatto se subita grandine flagella la vite, così rimasero il Governo e il suo Deputato all’avviso, mandato da persona sicura, che il trattato di Parigi de’ 30 di Maggio conteneva una clausola segreta in pregiudizio de’ Genovesi, e che a’ 29 di Giugno, lo stesso giorno che l’eloquente Whitbread perorava per essi in Parlamento, le quattro grandi Potenze d’Inghilterra, di Russia, d’Austria e di Prussia avevano ratificata quella clausola funesta con promettere alla Corte Sarda di indennizzarla del territorio ritenutole in Savoja, per mezzo della Riviera di Genova, par la Rivière de Gènes; incerto lasciando se il tutto s’intendesse o solo una parte. Come conciliar quest’avviso sicuro co’ detti di Castlereagh in Parigi, e di Hamilton in Londra, che nulla v’era quivi da fare, e che la sorte di Genova si deciderebbe nel Congresso di Vienna? L’inganno era chiaro, ma chi poteva impedirlo? Pensoso e mesto il nostro Deputato chiese licenza di tornarsene a Genova, e l’ottenne. Non tacevano intanto i pubblici fogli e le scritture anonime. Dove il Monitore favoriva i Genovesi, la Gazzetta di Francia sembrava propensa a’ loro avversarj; e agli undici di Luglio esagerò non essere le strade della Liguria sicure, e le truppe sicule (non si ardiva a tacciare le inglesi) far risse con gli abitanti. Poscia affermò non potere il Commercio di Genova far fronte alle spese del Governo, quando nè in verun tempo mai — 163 — il commercio più prosperò, come provavano numerosissimi arrivi di mare, riferiti in succinto nella Gazzetta di Genova, e quando nessun Governo spese mai meno, Punico essendo, come osservava L. Bcntinck, che non salariasse i suoi membri. Verso il medesimo tempo si pubblicò in Londra un opuscolo in lingua italiana, inglese e francese sopra la convenienza di riunire sotto il governo del Re di Sardegna la Liguria non solo, ma quasi tutta l’Italia settentrionale. Aveva per titolo: « Appello ad Alessandro Imperador di Russia sopra il destino dell’Italia ». I fogli genovesi ribatterono questi colpi astuti con fermezza insieme e con moderazione; ma il Morning Chronicle andò più oltre. Dopo aver deplorata l’amara incertezza in che si lasciava uno Stato, come qualunque altro, legittimo e antico, soggiungeva: « Ci sia permesso di domandare, se i cuori genovesi non battono egualmente come i cuori inglesi al nome d’indipendenza e libertà. Quel sentimento elevato di nazionale esistenza, e quel generoso amor proprio che si chiama amor della patria, appartengono forse esclusivamente alle nazioni potenti; e non era egualmente cosa sacra in Corinto, a Sparta, a Tebe, come nella gran Roma, amare le proprie abitudini, le avite memorie, e il diritto prezioso di non ricevere altre leggi che da sè stessi? Sappiano gli Arbitri delle Nazioni, non darsi che un modo solo utile e semplice di essere veramente grandi, quello di essere giusti, d’esser giusti con tutti, d’essere giusti interamente. Nel 1743, nella malaugurata Lega di Worms, il Ministero consentì allo smembramento del Genovesato, ancorché si trattasse di un paese tranquillo, indipendente, e a quel tempo neutrale. La Provvidenza rendè vano allora il disegno; oggi l’onore inglese richiede che facciasi, con favorire e proteggere i Genovesi, un’espiazione solenne di quella grande ingiustizia ». Parmi di riconoscere in queste giuste doglianze lo stile di Corvetto. Non vorrei per cosa del mondo tacere il procedere fra generoso e ardito di Benedetto Boselli da Savona, genovese perciò di nazione, ma divenuto francese per domicilio e maritaggio. Il quale fece stampare dal Didot una scrittura senza nome di — 164 autore col titolo: « Nota d’un Italiano agli alti Principi alleati sulla necessità di una Lega italica per la pace d'Europa »; fece omaggio di un bell’esemplare di quella a ciascheduno di loro, come un dì il Vescovo Giustiniani della sua Poliglotta, e non dubitò di presentarla esso stesso a Luigi XVIII. La detta Lega doveva stare soltanto sulla difesa, il Presidente esserne il Papa, membri il Re di Sardegna, l’Arciduca di Milano, la Duchessa di Parma, il Duca di Modena, il Gran Duca di Toscana, i Re di Napoli e di Sicilia (perchè questi due regni non erano ancor ricongiunti), e le Repubbliche di Venezia, di Genova e di S. Marino. Sopra tre punti insisteva principalmente la Nota: che l’Austria rinun-ziasse a un Principe del sito sangue i suoi Stati ereditarj d’Italia; tanto valendo questa rinunzia, quanto la pace stabile e universale dell’Europa; che nessun Principe regnasse nella Penisola, il quale non vi avesse ferma sede; e •sopratutto che si ristabilissero, com’erano prima, le Repubbliche di Genova e di Venezia. Tutto ritorna all’antico stato — esclamava l’anonimo scrittoi’ della Nota — si rispettano tutti i diritti; si rimettono tutte le possessioni, ognuno rientra in casa sua; Venezia e Genova solo saranno escluse dal benefìzio universale? Forse perchè son Repubbliche? Ma Svizzera è Repubblica e si rimette; ma S. Marino è Repubblica, e si conserva. Venezia e Genova non avevan esse i loro diritti di sovranità altrettanto sicuri, altrettanto riconosciuti dal consenso di tutti, quanto qualunque altro Stato monarchico del mondo ? La distruzione loro non è stata forse il più insigne tradimento, l’atto il più iniquo che sia consegnato nelle storie dei nostri tempi? e si vorrà lasciar sussistere così brutta memoria senz’ammenda? Si vorrà lasciar sussistere in fatto un opera di tanta empietà? Non si vorrà purgare un tanto scandalo, vendicare una sì grave violazione della fede pubblica, con rimettere jf. le cose in pristino in due così nobili parti dell’Italia, quando si rimettono in tutte l’altre parti dell'Italia e del mondo? Ma se si vuole parlare di pace e di Governi pacifici, quali Governi più pacifici possono mai essere di quei delle antiche Repubbliche di Venezia e di Genova, i quali da duecent'anni addietro non — 165 — ebbero mai guerra con nessuno, e da seicento non la dichiara-ìono! Oh, venga fuori quel Governo del mondo, che ne possa dire di sè altrettanto! Gli Alti Principi alleati, con una generosità ed una integrità troppo rare, han già restituito alla loro sovranità e indipendenza la maggiore parte degli Stati Regj e Repubblicani d’Europa. Deh, facciano ancora con uguale generosità, che Venezia e Genova ricuperino il loro antico stato libero, e che si spieghino di nuovo le loro bandiere su quei mari stessi che corsero già con tanto vantaggio del commercio, con evidente progresso dei popoli verso la civiltà, e con pace universale del mondo! E tu, o sommo Imperatore Alessandro, che sei il Promotore d’ogni generoso disegno, e fosti il restitutore della libertà d’Europa, muoviti a far cosa degna di te, ritornando e ponendo di nuovo in istato queste due una volta fiorenti e sempre pacifiche Repubbliche! \ olgevasi quindi a’ magnanimi Inglesi, la cui fede era stata impegnata dall’egregio L. Bentinck; e tu, Re Luigi, — conchiudeva così il discorso — tu che sei dell’opera d’iniquità innocente, te ne renderai tu complice col sofferirla, col riconoscerla, ed approvarla? Tu fosti esule lungo tempo per una inaudita usurpazione, e tollereresti usurpazioni del pari inaudite? Ah! no, le parti di un Re di Francia, d’un Re Cristianissimo, sono di mostrarsi il riparatore delle ingiurie, il difensore del giusto, il protettore dell’oppresso! Mentre questa scrittura era ancor sotto i torchi, il luogo della sentenza, il fatale Congresso si apriva a Vienna. Ma innanzi ch'io ne ragioni, non rincresca ch’io narri alcuni fatti domestici. Dopo la partenza de' Francesi, il proclama di Bentinck, il desiderio di sollevare l’ansante Nazione, e la necessità in che sono i Governi nuovi di far qualche cosa che universalmente consoli, avevano fatto abolire gli odiosissimi Diritti riuniti, le Patenti, il Registro, la contribuzione delle porte e finestre, e la contribuzione straordinaria per le spese della guerra; e oltre a ciò diminuire moltissimo la tassa personale, la carta bollata, la decima ordinaria, i prezzi delle lettere, del sale e del tabacco, posti nell’infelice novennio della dominazione straniera. Era — 166 — però manifesto, che bisognavano al pubblico erario altre sorgenti. Deputare Ministri alle principali Potenze, formar battaglioni a proporzione del territorio, mantenere una giandarmeria per conservare l’ordine pubblico, rifornire le piazze di guerra spogliate dagli amici non meno che da’ nimici, apprestare una forza navale contro i Barbareschi, promuovere l’arti e il commercio, ammaestrare la gioventù, rassettare le strade, pagare il debito pubblico, ristabilire sull’antico e onorato suo credito il Banco di S. Giorgio, provvedere in somma alla sicurezza, a’ comodi, all’onore e decoro della Nazione, cose in parte già eseguite, in parte già decretate e in atto di eseguirsi: tutto richiedeva gravissime spese, e le spese richieggono imposizioni. Non si possono mantenere ordine e pace senz’arme, nè arme senza soldo, nè soldo senza tributi, diceva fin da’ suoi tempi Cornelio Tacito. Ora, lasciando le discordanti teorie da parte, le imposizioni che i popoli tollerano più agevolmente, sono quelle che tollerarono d’antico. Pertanto i Collegj della Repubblica limisero poco in vigore quelle, che usavano sotto l’antico Governo. La-facoltà di ristrignerle o la necessità di allargarle, perchè si hanno oggidì più bisogni, e i bisogni medesimi costano più, dipendeva da una sola determinazione: se le Comunità, come Sarzana, Finale, Diano, S. Remo e moltissime altre, le quali per pristini accordi nulla o ben poco versavano nel pubblico erario, ritenere dovessero o no l’antiche franchigie. Molte ragioni si allegavano in prò e in contro; finalmente prevalse, oltre l’equità e l’utile generale, la ragione tratta dall’aderire che tutti avevano fatto a’ Governi venuti dopo quell’antico; Governi ne’ quali fu soppressa per legge ogni esenzione di persone, di classi e di Università. Vennesi dunque alla gabella del grano e del vin forestiero, da consumarsi nel territorio; il primo fu imposto a 3 lire di Genova, 2,16 franchi ogni 300 libbre di peso, il secondo a 8 lire la mezzarola che tiene litri 159,----quand’oggi lo stesso grano paga.....e il vino..... Tanta moderazione non impedì, che la popolazione di Diano e quella di Sarzana, dolenti della perduta franchigia, — 3 67 — non facessero tumulto, assalissero le case degli esattori, gli mettessero in fuga, e protestassero con fiere minacce di non volerne più. In ambo i distretti andarono truppe e commessarj straordinari per usar persuasioni e consiglj innanzi alla forza; e i commessarj furono, a Diano, Iacopo Spinola governator di Savona, a Sarzana, Giovan Antonio Raggi, il quale nel punto ch’io scrivo è Ministro delle finanze sotto il Governo sardo; ambedue pacificarono il paese; nè la truppa inglese si mosse finché non venne richiesta, e solo fu richiesta verso Sarzana. Movimento di più importanza fu quello che nacque nella stessa città capitale la vigilia del dì d’Ognissanti, che ricorreva in Domenica. La cagione fu questa. Fra le antiche monete della Repubblica una ne aveva di bassa lega avente il valor nominale di 10 soldi, ossia di mezza lira. Ho prova sicura che non fu coniata nel 1792 senza l’opposizione di un giovine Consigliere, il quale sosteneva la moneta di bassa lega essere dannosissima in progresso di tempo, se non è piccolissima in valore. Ora avvenne indi a non molto, che quella fragil moneta perdè del suo peso, s’alterò nell’impronta, nè mancò ragione di credere che zecche forestiere o monetaj falsi ne introducessero in frode a migliaia. S’aggiunse a questo un altro inconveniente fin dal principio del Governo francese. Perchè una gretta economia indusse il suo rappresentante in Genova a far pagare i soldati in certe lire di Piemonte che per derisione, cred’io, della lor bassa lega e del mozzato valore si chiamano volgarmente Mutte. La soprabbondanza delle monete vili fa scomparire le nobili, e alza nominalmente i prezzi delle cose. Quindi perpetue contese fra i contraenti a minuto, incertezza e frode ne’ giornalieri contratti, e due ragioni di valuta, l’una legale, detta dal volgo moneta corta, e l’altra arbitraria e abusiva, chiamata lunga. Il Consiglio dipartimentale di Genova, istituzione non disprezzabile certo del Governo imperiale, avendo al Ministro delle Finanze in Parigi esposto ciò che accadeva, sicuro per legge di essere inteso, non rabbuffato, uscinne il provvedimento che le monete da dieci soldi fossero ridotte a 7 soldi.....e le lire del Piemonte a soldi dieci — 168 — cioè a quaranta centesimi di un franco. Cessò per poco l’abuso, ma rimise assai presto nell’anarchia degli ultimi dì dell’assedio, e continuò di poi. Opportunamente dopo le cure più urgenti si era riaperta la Zecca, stata alcun tempo chiusa per la stessa cagion dell’assedio, e datole un regolamento non più come cosa di provincia, ma come si conveniva ad uno Stato indipendente, oltre che si volea sostituire l’arma della Repubblica e l’immagine della Santa Vergine a quella di Napoleone. Quindi un Senator di professione banchiere, propose di farvi battere delle mezze lire al giusto titolo degli scudi, a effetto di ritirare dalla circolazione gli erosi da dieci soldi insiem con le mutte, ch’era l’ottima via di estirparne i danni, e così fu approvato. Ma intanto che lavoravasi alla stampa, onde che venisse il difetto, non si osservò il segreto; di modo che, aumentandosi prodigiosamente la diffidenza, tutti volevano spendere le screditate monete e nessuno accettarle, dicendo: fra pochi dì non avranno più corso. Il Governo non poteva più stare in silenzio, e fece però un proclama, nel quale scoperta e deplorata la radice del male, si vietarono i nomi e i pagamenti in moneta lunga o abusiva e si prescrisse una tariffa minore della francese, riducendo le monete da 10 soldi a 5, le mutte a 9, e l’altro viglione all’av-venante. Nondimeno a temperare il rigore di simili disposizioni e scompartirne il peso fra il pubblico erario e i privati, si annunziò che la zecca riceverebbe per lo spazio di mesi tre le monete da 10 soldi non falsificate a un soldo più della tariffa, e che i rivenditori de’ sali e tabacchi e i percettori delle contribuzioni dirette ne accetterebbero fino a nuov’ordine tutte quelle partite che i compratori e i contribuenti dovessero, senza guardare all’ordinario divieto di riceverne oltre una certa somma, a un determinato ragguaglio. Fu questo proclama approvato ai dì 29 di Ottobre. Poscia i Senatori desiderosi di attendere a’ tre dì festivi della domenica, del dì d’Ognissanti, e di quello de’ morti, si sparsero nelle circostanti lor ville, con ferma intenzione di restituirsi a città, tosto che il Presidente li richiamasse. La sera stessa si pubblicò e si affìsse ne’ luoghi soliti il proclama. La mattina dell’entrante domenica cominciarono i quartieri della città a sobbollire; e i Commissari della polizia de’ quartieri a fare avvisato il Presidente della disposizione degli animi; i venditori de’ comestibili non voler più ricevere la sospetta moneta da dieci soldi, non altra offerirsene loro dal popolo, perchè i Giornalieri avevano ricevuta quell’una per loro mercede; crescere colla difficoltà di comprare a minuto il desiderio, e con le richieste i rifiuti; l’ordine pubblico essere in pericolo, e non dover tacere, che siccome il nome del Presidente era scritto sotto il proclama non meno che in tutte le leggi, così la moltitudine incolpava lui solo d’ogni suo danno. Di questo tenore eran tutti gli avvisi. Ora per trasferirsi dalle case del Presidente al pubblico palagio ove lo aspettavano i Commissari, attraversarsi doveva gran parte delibi città;- ma pur . lo fece a piede, solo, senza udir motto ingiurioso, quindi dispose che si aprissero le pubbliche canove di pane, di farina, di sale e tabacco ch’erano per la domenica chiuse, ingiungendo a’ canovaj di riceverne in pagamento ogni qualità di moneta corrente; i Commissari de’ quartieri rimandò a’ lor posti, rinforzò loro le guardie, e fé’ lor consegnare moneta accreditata per iscambiare a tutti, e specialmente alla gente minuta, la rifiutata. I nuovi battaglioni furono consegnati a’ quartieri per non mescolarli col popolo, e averli in pronto se bisognasse; il nocciolo della Giandarmeria a Palazzo, gli altri in piccoli drappelli ne’ luoghi più popolosi, non a mostra di repressione, ma come per caso, e molti senza divisa. Venne ancora in aiuto una pioggia dirottissima a sgombrare le piazze, disperdere la plebe intirizzita, e confondere un branco di male intenzionati. A richiamare i Senatori sino a tumulto finito non si pensò, e ne’ subiti casi un solo vai più di dodici. Nel forte dell’agitazione sedendo il Presidente in una stanza terrena degli antichi Inquisitori di Stato, in mezzo a diversi Ministri e impiegati, un uficiale inglese domandò a essere introdotto. Lord Bentinck non era ancora ritornato da Londra; i Generali Macferlane, Honstett e Spencer avevano avute altre desti- — 170 — nazioni; il comando di quelle truppe inglesi che ancor rimanevano in Genova, era affidato a Sir John Dalrymple, l’antico incaricato della corrispondenza col Governo. Ma chi domandava udienza, probabilmente per ordine di lui, era il Comandante di piazza, giovine ancora, ma pure, come poscia s’intese, già noto per molte prove di coraggio in guerra. Invitato a sedere di faccia al Presidente, espose a bassa voce in quel po’ d’italiano che aveva appreso in Sicilia, l’imbarazzo della guarnigione pagata in parte con monete da dieci soldi poco avanti in corso, ed oggi ricusate da tutti. Pregava la pubblica Autorità a rimediarvi, e nel medesimo tempo offeriva l’opera della sua guarnigione per sedare il tumulto. Così a un di presso fu inteso. A cui il Presidente rispose: « Il Cassier camerale esser là presso, il quale baratterebbe in moneta corrente quella che un caso inopinato non permetteva di spendere allora. Quanto a’ profferti servigj ringraziarlo di cuore, ma voler anzi usare l’impero della ragione che la forza dell’armi, e non dubitava deH’esito ». Avresti veduto il Comandante di piazza modestamente ritrarsi senza più replicare parola, a gran maraviglia de’ circostanti, i quali si rammentavano, come altre volte rozzi granatieri e diplomatici imberbi pretendevano dettare politica a’ forestieri; e quantunque a casa loro tutto fosse disordine e malcontento, rimproveravano gl’italiani di goffa ignoranza nell’arte del governare. Ridutti gli animi in calma, la Zecca diè fuora non solamente scudi, e monete da dieci soldi in buon argento, ma eziandio parpajuole da due soldi e quattrinelli di rame al giusto peso, a fine di procacciare alla gente minuta que’ comodi rotti di lira e di soldo, che le fan d’uopo alla giornata. L’abilissimo e altrettanto malinconioso Vassalli, genovese di nascita e primo incisore di zecca a Milano, era stato chiamato a gettarne il conio. Ahi vane cure! Tutte quelle monete graditissime al popolo, insieme con tutte le antiche di argento stimate insin da’ Francesi e da lor rispettate, nonostante la loro bella impronta e forse a cagione di essa, vengono condannate oggidì al fuoco. Nel gran numero delle ordinazioni interne ripristinate, man- — 171 — cava ancora il Banco di S. Giorgio. La legge di rinnovazione fu pubblicata a’ dì 2 di Dicembre. Ritornò com’era prima, dotato di leggi, ufizj, introiti proprj e con la stessa facoltà di mettere in corso certe piccole cedole, dette ab antico biglietti di cartolario, rappresentanti in una o più somme i ricevuti depositi, gl’interessi dovuti a ciascun creditore, sotto condizione che il Tesoriere dovesse cambiarle in contanti ed estinguerle al primo momento della presentazione. Gli ufizj furono due, i Protettori di S. Giorgio e i Revisori, li primi di 8 persone durature in carica due anni, i secondi di cinque da nominarsi annualmente per rivedere i conti e il bilancio dell’anno precedente. I Protettori vennero eletti la prima volta da’ Collegj della Repubblica, ma rinnovarsi dovevano per l’avvenire da trentadue Elettori tratti dal Consiglio generale. Così i creditori dello Stato avrebbero ricuperato quella sicurezza di pagamento che nasce da speciali assegnazioni, e dal diritto di amministrarle in perpetuo da per sè o per rappresentanti da sè stessi eletti. I Protettori nuovamente creati tennero diverse sessioni, cominciarono a riscuotere gl’introiti loro assegnati, e l’anno entrante avrebbero dato corso a’ pagamenti. Inclinavano alcuni a sospendere la pubblicazione della legge che ricostituiva il Banco, attese le male novelle di fuori; e differirsi perciò sino al Dicembre; ma vinse allora l’avviso di lasciare un’utile norma, e s’era fattibile, un freno a chi verrebbe poi, e in qualunque evento mostrare che all’esistenza politica e alla prosperità della Liguria nulla mancava .... nulla, fuorché il beneplacito di un Potente in terra. Or mi convien ritornare alle pratiche esterne, a quelle che troncarono l’ultimo filo delle nostre speranze. Le conferenze di Vienna avevano avuto principio a dì 11 di Novembre. I Ministri Plenipotenziarj dell’otto Corti già contraenti nella pace di Parigi erano: Per l’Austria il Principe di Mettermeli, che fu dichiarato presidente del Congresso, e il Barone di Wessemberg stato Am-basciadore a Londra; Per la Russia il Conte Rasumowsky già Ambasciadore a — 172 — Vienna, il Conte di Stackelberg stato pure a Vienna, e il Conte Nesselrode Segretario di Stato per gli affari esterni; Per la Francia il Principe Talleyrand, il Duca Dalberg, il Conte La Tour du Pili, e il Conte Alessio di Noailles; Per ringliilterra Lord Castlereagh, Lord Catlieart Amba-sciadore in Russia, Lord Clancarty già Ambasciadore all’Aja, e L. Stewart; Per la Prussia il Principe di Hardenberg Cancelliere di di Stato, e il Barone di Humbold; Per la Svezia il Conte Lonenhielm Ambasciadore in Russia; Per la Spagna Don Pietro Gomez Labrador; Per il Portogallo il Conte di Palmela Souza-Holstein Ambasciadore in Inghilterra, il Conte Saldanha de Gama, Don Gioachino Lebe da Silveira. Oltre a questi Ministri presenti alle conferenze, si trasfe-rono a Vienna per la Santa Sede il Cardinale Consalvi, per li Paesi Bassi e Nassau i Signori di Spén e di Gagern, per la Danimarca il Conte di Bernstorff, per la Sardegna il Marchese di S. Marsano già Ministro di Napoleone a Berlino, per la Baviera il Principe di Wrede e il Conte di Rechberg, per la Virtemberga il Conte di Wintzingerede, per l’Annover il Conte di Murster, per la Sassonia il Conte di Schulemburg, per la Toscana D. Neri de’ Principi Corsini, con molti altri per altri Stati minori. E ciò ch’era cosa inaudita, l’Imperadore Alessandro, i Re di Prussia, di Danimarca, di Baviera, e di Vitemberga, l’Elettore d’Assia, il Gran Duca di Baden, i Duchi di Sassonia Weimar, di Brun-swich, di Nassau, di Coburgo, e molti altri Principi ancora si trasferirono a Vienna, chi per isciogliere senza indugio i dubbj de’ loro Plenipotenziarj, e chi per sostenere in persona le proprie ragioni. Or chi sarà il Nobile genovese, scelto a difendere dinanzi a tanto splendore di poteri e di titoli la causa vacillante della sua patria? Non il Senatore Pareto stanco di una commissione infruttuosa, e rattenuto da una eccellente e amabil consorte, che lentamente veniva alla fin de’ suoi giorni. Dunque i peli- — 173 — sieri del Governo si volsero al Patrizio Domenico Grillo Cattaneo, il quale per materna eredità aggiungeva a’ nativi cognomi quello di Sisto IV e di Giulio II. Nimico di novità e di gare egli abitava da lunghi anni Vienna, ove molti Grandi l’amavano assai, nessuno l’odiava. Della sua elezione a Ministro genovese lo avvisarono le lettere pubbliche ed una privata che il Presidente, suo amicissimo in gioventù, gli scrisse, quanto seppe affettuosa. Ma fu indarno; e Stefano Rivarola, Ministro un tempo a Pietroburgo e uno de’ sottoscrittori per la patria indipendenza a Parigi, non ebbe maggior coraggio. Allora Lord Bentinck, ch’era tornato frescamente da Londra, propose al Presidente e caldamente raccomandò l’elezione di Antonio Brignole Sale, statogli cortese del suo bel palagio per una splendida festa di ballo, ove l’arme di Genova risplendevano allato delle inglesi. Portata la pratica al Governo, fuvvi chi obbiettò, più stoico a parole che poscia non dimostrarono i fatti, la troppa gioventù del Brignole, la sua educazione sotto madre di nascita straniera, beneficata da Napoleone, e dama di corte dell’Imperadrice; lui stesso al primo uscire dell’adolescenza eletto auditore del Consiglio di Stato, indi a poco Referendario del Consiglio di Stato istesso, Commendatore della Corona di ferro, e Prefetto del Dipartimento di Montenotte. Poteva egli essere buon genovese colui che aveva tanti onori e tante speranze perdute nella liberazione di Genova? e quando pur fosse tale, sarebbe stimato da ciò nel Congresso? e la sospetta opinion del Ministro non pregiudicherebbe la causa della Repubblica? Finalmente, sareb-b’egli sincero, opponendosi ad una riunione feconda di titoli e dignità eminenti, un giovane vivace e spiritoso, che non aveva bevuto col primo latte la popolarità, la moderazione, e i sacri-fizj pungenti dell’amor proprio, indispensabili nelle virtuose Aristocrazie? A così fatto parlare si replicò, come lo stesso Capo dell’Augusta Stirpe borbonica aveva affidati i suoi più cari interessi al Principe Talleyrand e al Duca Dalberg, ambedue carichi de’ benefizj di Napoleone; la madre di Brignole essere grande — 174 — amica del primo, suocera del secondo, e trovarsi a Schonbrun, villa imperiale presso Vienna, come Dama di Corte dell’Impera-drice Maria Luisa, cui tutte le dame francesi avevano abbandonata, ma essa nò, con manifesta soddisfazione dell’Impera-dore Francesco d’Austria. L’educazione di Antonio Brignole essere stata in tal qualità, che ignorar non poteva quanto la Repubblica avesse fatto pe’ suoi Maggiori, ed essi per lei; questo stesso attignersi da tutti i suoi ragionamenti, dal suo spontaneo ritorno in patria dopo l’abdicazione di Napoleone, le cariche ottenute, le pratiche discusse in un Consiglio di uomini sommi, avergli accelerata quell’esperienza e fine discernimento che l’età sola non dà, e che dalla rivoluzione in poi non avevano la maggior parte de’ Genovesi; là pure aver egli dovuto conoscere che l’essere nobile, ricco, e anche capace non basta nelle monarchie, se la destra del Principe non ti sostiene, dove al contrario neH’aristocrazie ereditarie ed elettive chi molto spende ha molti fautori, e chi primeggia una volta, tanto solo che non precipiti in eccessi, è sicuro di primeggiar sempre. Finalmente considerare si debbe chi lo propone. Bentinck promosse la restaurazione della Repubblica, nessuno più di lui la desidera; il suo nome sarà immortale s’ella s’ottiene. Convien dunque fidarsi alla sua scelta, o disperare della nostra esistenza. Ventilate lungamente le due contrarie opinioni, vinse poi quella che inclinava a favore di Brignole. Il Presidente gli diede nelle lettere credenziali il titolo di Marchese per conformarsi all’uso, e specialmente dietro all’esempio della pace di Aquisgrana nel 1748, non però senz’opposizione di chi ricordava esser quello bensì un privilegio Cesareo conceduto alle principali Case di Genova, ma le leggi del 1576 oggidì richiamate in vigore interdire le distinzioni feudali, riservando a’ Patrizj e ad altre persone qualificate il titolo di Magnifici, ch’era allora in gran pregio. Con lettere pubbliche e private, e con premurose commendatizie di Bentinck, il nuovo Ministro partì alla volta di Vienna pien di fiducia e d’ardore. 175 — Giunto in quella lieta metropoli verso la fine di Settembre trovò già ivi stanziato L. Castlereagh, il quale no’l ricevette alla prima come i Ministri sogliono l’un l’altro graziosamente, ma con cera sostenuta anzi che nò; quasi disapprovasse l’insistenza de’ Genovesi sopra una cosa ch’ei non voleva; il Principe di Mettermeli, all’incontro, avendo dato luogo coll’urbanità del suo tratto a entrar tosto in materia, si mostrò inclinato a ricredersi dall’opinione per l’addietro tenuta, che la riunione della Liguria al Piemonte saria cosa utile e indifferente almeno alla sua Corte; se non che stimava non potersi disobbligare dall’articolo che le Grandi Potenze avevano posto nella pace di Parigi segretamente, confessando in tal guisa di vergognarsene. Perchè sebbene altri trattati contengano patti segreti, che nulla hanno in sè di men degno, ma ch’è spediente per diverse cagioni di non mettere così presto alla luce, in questo nostro non si poteva altra allegarsene fuorché un certo ribrezzo e rossore di venir meno alle date promesse, e di confermare una delle azioni più ingiuste di Napoleone. Chi lietamente accolse il Ministro, quanto il suo proprio carattere e il nazionale vi si prestavano, fu D. Pietro Labrador esortandolo a sollecitare dal Governo una Memoria intorno alla ripristinazione dell’antica indipendenza e costituzione di Genova; e ciò non potendosi, manifestasse il desiderio di formare almeno uno Stato separato e indiviso sotto il governo dell’infanta Maria Luisa, già duchessa di Parma, poi Regina d’Etruria, e poi ridotta a non avere più nulla, neppure la libertà di viaggiare. Aveva la proposta dello Spagnuolo una spezie di analogia con le istruzioni già date al Pareto e al Brignole stesso; ma pur vi correva la dissomiglianza del ristrignere essa a un’infanta di Spagna ciò che quelle estendevano ancora agli Arciduchi d’Austria. Ponderata la cosa, il Governo fè presentare con la possibile sollecitudine una Memoria, il cui ristretto è questo. Dover esso implorare senza il minimo indugio la giustizia e la rettitudine degli Ambasciadori e Ministri chiamati al Congresso, acciò sien mantenute rispetto allo Stato di Genova — 176 — le promesse solennemente fatte agli oppressi Stati europei di rendere loro l’antica indipendenza, e di ristabilire con mano imparziale e generosa tutto quanto era stato distrutto dalla violenza. Popolo non è in Europa più autorizzato a riprometterselo che i Genovesi. Sul loro territorio entrò poco innanzi, con quella medesima dichiarazione in pugno, un Generale inglese onorato della confidenza del proprio Governo così nelle operazioni militari, come nelle faccende politiche. Vide egli stesso e proclamò altamente l’ardore degli abitanti per l’antica indipendenza; ricostituì un Senato destinato a metterla in atto, e a farne assaporare i vantaggi, a tutte le Corti ne andò l’avviso, in ambe le Camere del Parlamento britannico n’echeggiò il rapporto; nessuna uficiale dichiarazione lo smentì. E sarà possibile che dopo sei mesi di possesso, di prosperità e di pace, si proponga alla giustizia e all’equità del Congresso, che il risorto edifizio s’atterri, e si straeci una fra le più belle pagine dell’istoria? No, la religione di cotesta eccelsa Assemblea e de’ Monarchi che la fondarono, non consentirà a tanto strazio mai. Che se le pristine forme repubblicane, le più adatte per altro a un piccolo Stato, non sono più ammissibili nel generale riordinamento dell’Europa, l’illustre Congresso manterrà i Genovesi nella racquistata indipendenza sotto il gradito governo di un proprio Principe, attinente alle Auguste Case regnanti, quali son quelli che resero un dì felici i Toscani e i Modenesi, o quelle cui nominano sempre con ossequiosa gratitudine Parma e Piacenza. Il Governo provvisorio di Genova richiede e prega l’E.E.L.L., gli Ambasciadori e Ministri dell’Alte Potenze alleate, che vogliano graziosamente accogliere la presente esposizione, e sottoporla agli sguardi de’ loro augusti Sovrani. Parve a’ Collegj di non dover restrignere all’infanta di Spagna la proposizione, sì per interessarvi con ragioni di famiglia l’Austria, e sì per sospetto che l’Inghilterra non avrebbe mai consentito, che a’ dominj borbonici già tanto estesi nel Mediterraneo si aggiugnessero ancora le due riviere del Genovesato. Ad ogni modo, persone degne di fede mi han detto, che quando ■ — 177 — uno o due anni appresso l’infanta Maria Luisa, ripreso il titolo di Regina, passò alquante settimane in Genova, fu intesa ram-maiieaisi di non averne accettato il dominio offertole indirettamente, sulla falsa opinione che fosse città inquieta e malagevole a governarsi. Ma di propria scienza non posso questo affermar nè negaie. Di certo io so che D. Pietro Labrador non solamente si mostrò pago della Memoria, benché alquanto diversa dalle sue idee, ma promise ancor di valersene e di sostenere nelle sessioni a ciò deputate le instanze de’ Genovesi. Ugual simpatia mostrarono i Plenipotenziarj francesi; anzi il Duca Dalberg in privato diede a sperare che l’avrebbero appoggiate. Astraendo un istante il pensiero da cotesti Ministri agli scrittori di cose politiche, ne ho letto due, i quali sembrano maravigliati come Senatori italiani amassero meglio un principe austriaco od una principessa spagnuola, che una Reai Casa da lunghi secoli italiana; ma non avvertirono a’ disavantaggi di un paese minore nuovamente unito a un più grande. Il Principe Austriaco o il Borbonico avrebbero posta la lor residenza e tutte lor cure nel Genovesato, siccome fanno nel Modenese e nella Toscana i sovrani di que’ felici Stati; dove al contrario era indubitato che i Re di Sardegna avrebbero continuato a risedere in Piemonte, anteposto l’utile degli antichi dominj fra terra al bene dei nuovi sul mare, convissuto alla domestica co’ famigliari e compagni della lor fanciullezza, e accumulate fuor di proporzione, nelle famiglie e attinenze di questi, le dignità, gl’impieghi e le beneficenze. Senza che, al parere stesso degli uomini di Stato, ella è cosa infelicissima dovere ubbidire a un potere straniero; nessuna umiliazione, nessun interno supplizio è comparabile a quello. La nazione suddita, eccetto il caso che venga efficacemente protetta da qualche legge straordinaria, crede ubbidire non solo al suo nuovo Principe, ma ancora alla nazione di quel Principe stesso. Ora nessun popolo ama ubbidirne un altro, per la naturale ragione che nessun popolo sa comandare ad un altro.....E in vero ella è opinion generale delle nazioni quella, che nel primo seggio degli uomini grandi 12 — 178 — colloca que’ fortunati cittadini i quali ebbero la gloria di liberare la patria loro dalla servitù de’ forestieri. Eroi se riuscì loro di farlo, martiri se avvenne lor di perire tentandolo, l’età più 'remote ne conservano e ne venerano i nomi. Non sono v queste le riflessioni di un Genovese, d’un Veneziano o Braban-zone, ma del Conte di Mestre savojardo e Ministro del Re di Sardegna a Pietroburgo. Il nostro di Vienna non istava ozioso^ ma in mezzo a’ ricevimenti, a’ festini, a’ privati e pubblici balli, per cui lo spiritoso Principe di Ligna ebbe a dire con frizzo francese, che il Congresso sapeva ballare, ma non andare innanzi (1), Anton Brignole ottenne il registramento de’ suoi poteri ne’ protocolli preliminarj del Congresso medesimo, un’udienza fra pubblica e privata dal-l’imperadore Francesco, che replicò il già detto al Senatore Pareto non volere egli un atomo degli altri Stati, un’altra dal Principe Metternich, che letta l’anzidetta Memoria parve non fare gran capitale de’ servigj renduti o da rendersi dagli Arciduchi austriaci all’Austria, e finalmente una prima conferenza, che fu l’ultima ancora col Conte di Nesselrode, senza che per istruzioni che ne aveva, e per desiderio che dovesse averne, mai gli riuscisse di presentarsi all’imperadore Alessandro. La quale difficoltà incontrata pur da Pareto a Parigi non posso io meditare e non l’ascrivere a un drappello di Piemontesi, che in Russia emigrati dopo l’occupazione francese e ben voluti dal Conte, sbarravano l’adito a quel Principe affabile, avido d’informazioni, e sì poco curante dell’etichetta, che passeggiava sovente nelle strade di Vienna tenendo per braccio il figliastro di Napoleone. Mentre le cose passavano a questa foggia in Vienna, L. Bentinck si era trattenuto pochi dì a Genova, e avendo riconfermato Dalrymple così nell’interino comando della truppa inglese come nella sua rappresentanza presso il Governo, si era tra- -sferito a Firenze, non volendo farsi strumento delle mutazioni (1) Du Pape, t. II, 304: Le Congrès danse, mais ne marche pas. E fece gli altri danzare loro malgrado, — 179 — che prevedeva. Alla misteriosa partenza, all’interrotte parole del Generale si aggiungevano altri indizj di somigliante natura. Onde il Senato temendo che la quistione si decidesse in Vienna bruscamente e senz’altri avvisi, ingiunse per espresso al Brignole di distribuire a’ Ministri plenipotenziarj una seconda Memoria che in sostanza significava: per grandi che fossero la venerazione e l’ossequio del Governo genovese verso quell’eccelsa assemblea, non potere far si, ch’ei tralasciasse quanto sapea di dovere alla sua coscienza, all’onor suo, a’ suoi concittadini, protestando apertamente contro ogni deliberazione contraria a’ diritti e all’indipendenza della patria loro. Questi legittimi richiami si fondano sopra i titoli più rispettabili: un’esistenza politica tanto antica quanto l’origine di varie monarchie; numerosi trattati in lungo corso di secoli con le Corti principali dell’universo; la pace di Acquisgrana base di quella teste conchiusa a Parigi, nella quale la Repubblica di Genova nominatamente partecipò alla reciproca garanzia di tutti gli Stati interessati; la manifesta nullità della sua aggregazione a un Impero usurpato e distrutto; un’amministrazione indipendente dopo la memorabile distruzione di quell’impero, amministrazione rivestita di sovrano carattere, e alla quale nessuno si è opposto; e sopra tutto le dichiarazioni immortali dell’Alte Potenze alleate ripetute e confermate nelle città di Chaumont e di Chatillon sulla Senna......., che una pace generale, degnissimo frutto della loro lega e de’ loro trionfi assicurerebbe i diritti, l’indipendenza e la libertà di tutte le nazioni........ La giustizia de’ Governi che proclamarono queste massime tutelari, potrà esser lenta, ma i suoi risultati presto o tardi che sia, s’adempiranno. Il dovere degli Stati depressi e deboli consiste nell’invocarli con perseveranza, e nell’aspettarli con fiducia e coraggio. Il sottoscritto richiede ossequiosamente che la presente dichiarazione venga trascritta ne’ protocolli del Congresso. Così le Memorie. Nel medesimo tempo, persuaso il Governo dalle relazioni di Parigi, di Londra e di Vienna, che uno spicchio di privilegj offrirebbe al Ministro come un poco di miele su gli orli di un vaso mal gradito, volle inviargli — 180 — una minuta di quelli che più idonei sembravano a temperarne l’amaro. Eccone il sunto. Fossero conservate la Zecca, la moneta, la bandiera e l’arme genovesi congiuntamente a quelle del Re di Sardegna, i militari ne’ loro gradi, gl’impiegati civili nelle loro incumbenze, o sovvenuti di pensione, i tribunali di commercio, i Luoghi Pii, le rendite e le amministrazioni civiche, il Banco di S. Giorgio co’ propri uffizi o magistrati con gl’introiti assegnati dall’ultima legge e l’onere correspettivo del debito pubblico; il magistrato generale di sanità co’ suoi lazzaretti, il portofranco di Genova co’ suoi privilegi- Le merci che dal portofranco passassero all’estero non pagassero nulla di transito; quelle che si spedissero per l’interno non pagassero più dazio che introdotte e spedite da qualunque paese o provincia più favorita del regno. Il simile per le robe e derrate straniere introdotte nell’interno. Atteso la nota sterilità del terreno, le spese necessarie a coltivarlo, e le gabelle già poste sul grano e sul vino forestiere, molto più sensibile in un paese marittimo che nelle provincie dentro terra, le quali ne soprabbondano di proprio, non potesse la tassa fondiaria eccedere un milione e dugento mila lire di Genova, somma eguale a quella ch’era imposta avanti i Francesi. L’Università degli studj, le Accademie delle Scienze, Lettere, Belle arti, il Liceo, l’istituto de’ sordo muti godessero special protezione. Non si facesse coscrizione di terra, non si annullasse il sistema ipotecario, nessuna causa civile o criminale potesse tradursi ad altri tribunali, che a quelli istituiti nel Genovesato, nessuno s’inquetasse per le emesse opinioni, o per beni acquistati dal demanio; l’unità e l’integrità de’ paesi contenuti nella Liguria quando venne incorporata alla Francia, fossero inviolabili. Infine il Corpo decurionale di Genova, avesse la speciale prerogativa di poter sottoporre alle considerazioni del Principe, quelle reclamazioni e domande che giudicasse man mano più espedienti alla conservazione de’ suddetti privilegi e a’ generali vantaggi del Genovesato; al qual fine ed effetto potesse tenere presso la Reai — 181 — Corte e Persona un agente autorizzato a presentarle, com’era un un tempo avanti la guerra il francese e forse anche al presente Pambasciador di Bologna presso alla S. Sede. Fin qui la minuta. Veramente il Presidente, un Senatore che professava massime austere, non avrebbe voluto occuparsene; e molto meno mandai la; ma i più aderirono a chi per intima persuasione insisteva, dopo il principale dovere di sostenere a tutta ragione 1 indipendenza della patria nessun altro esser più forte e sacro, che di procurare a’ lor cittadini tutta quella porzione di beni ch’era compatibile con l’assoluta volontà de’ Potenti; trascurarla, non volerla pur suggerire essere un grave errore, un sagrificare alle illusioni di un falso eroismo la realtà delle cose, la cura de’ pubblici e privati vantaggi. Tutti furono unanimi in raccomandare al Ministro che non ne desse sentore finché ancor tralucesse qualche raggio di speranza, e che persistendo, anche fuor di speranza, a protestare in nome pubblico, ne usasse soltanto come persona privata. Ma distinzioni sì fatte procacciano seguito a chi le propone, e mettono sulle spine chi deve eseguirle. Due lettere scrisse il Presidente al Ministro per inculcarle ben bene. Nella prima de’ 26 Ottobre si esprimeva così: « I Collegi han decretato non diate copia de’ privilegi, se non allora quando sarete moralmente certo che il Congresso abbia deciso di torci la nostra indipendenza, e che siate voi solo giudice di questo momento, perchè voi solo il potete. Nel fermo e imperturbabile vostro carattere ripone gran fiducia il Governo; il resto si raccomanda alla Provvidenza ». E nuovamente addì 12 di Novembre: « Sull’interpello del sottoscritto i Collegj hanno nuovamente deliberato dopo un maturo esame, che non desistiate per qualunque minaccia e lusinga dal reclamare l’indipendenza e l’integrità del Genovesato, che la sola violenza si giustamente detestata dall’Alte Potenze contraenti ha potuto distruggere; ed hanno espressamente presa la deliberazione e commesso a noi di comunicarvela, che quando anche siate sicuro che i Plenipotenziari del Congresso abbiano decisa la riunione del Genovesato agli Stati di una Potenza straniera, la proposizione dei privilegj non porti il — 182 — nome di esso Governo, ma sia una semplice carta senza sottoscrizione: tanto gli preme di non somministrare con una proposizione fatta in suo nome un pretesto ad affermare, che il Popolo genovese e chi lo rappresenta abbiano acconsentito alla perdita di ciò che di più caro e di sacro hanno i Popoli generosi ». E per nulla tacere, com’ era stato commesso al Senatore Pareto d’indirizzarsi in Londra all’Opposizione, in quella guisa appunto che i naviganti talora, rotte le gomene, sembiano pur confidare in un filo d’erba, così il Presidente fu autorizzato a compiegare le precedenti due Note al Signor Whitbread. La lettera d’accompagnamento fu questa, ma in lingua francese. « L’interessamento che il Parlamento Britannico prende mai sempre a’ diritti e all’indipendenza delle Nazioni, le speranze sostiene di quelle che per se stesse non possano resistere a un ingiusta oppressione. In cotesta augusta Assemblea, Voi avete, Signore, alzato una voce eloquente in favore dell’indipendenza di Genova, che un inglese magnanimo ha ristabilita e che un altro inglese soltanto può difendere contro un nuovo genere di dispotismo; il quale vorrebbe per la seconda volta distruggerla. Capo interino di di questa rinascente Repubblica, non posso usar meglio i poteri a me delegati, che ringraziandovi dell’energia con cui peroraste la nostra causa in Parlamento e dandovi a un tempo contezza di due carte qui stesso acchiuse. La prima fu già presentata al Congresso, la seconda il sarà quando esso recida le nostre speranze; ambedue proveranno che il Popolo genovese merita il patrocinio della vostia illustre Nazione, quello di tutti gli amici della libertà, e il Vostro ». Cresceva intanto la fama delle sinistre determinazioni di Vienna. Ma incerto il Governo del modo, del tempo preciso, e del primo luogo di esecuzione, deliberò due atti importanti che si diranno poi, e il seguente dispaccio a’ Governatori delle Giurisdizioni, in data dì 3 Dicembre. « I romori sparsi sopra l’aggregazione degli Stati della Repubblica a quelli di S. M. il Re di Sardegna si confermano in parte dagli avvisi ricevuti da Vienna. Sono i Collegj decisi a non prestar consenso alle minacciate innovazioni. Desiderano — 183 — essi che i Governatori delle Giurisdizioni continuino interinamente nelle loro funzioni, dando un’ultima prova del loro zelo verso la patria, e assicurino la pubblica tranquillità. Il massimo segreto vien loro raccomandato. In caso che qualche Capo di truppe straniere volesse impossessarsi dell’amministrazione civile e governativa, daranno una protesta in questa forma: Le innovazioni che vediamo accadere, le domande che ne vengono fatte, onde sottoporre a un nuovo sistema la pubblica amministrazione annunziano avvenimenti a noi non noti. I nostri voti, le nostre speranze son tali, che l’indipendenza e i diritti della Repubblica sanzionati per tanti secoli dal consenso di tutte le Potenze, abbiano ad essere conservati e rispettati nella loro integrità. In qualunque stato di cose è nostro dovere di non aderire a verun politico cangiamento, finché non giungano a noi delle nuove diverse istruzioni del patrio Senato, da cui rileviamo le nostre attribuzioni, e al quale abbiamo promesso fedeltà ed obbedienza. — Non dubitiamo che il nostro modo di procedere non sia secondato dallo spirito d’ordine e dalla più esemplare tranquillità per parte de’ nostri Amministrati, e riguardato non sia dal Sig. Comandante....... come conforme a’ doveri di un pubblico rappresentante ». Nella copia di tale istruzione al Governatore residente in Novi si appose, che sopraggiungendo qualche corner forestiero da Vienna gli facesse precorrere a briglia sciolta un nostro, il quale ne portasse l’avviso, non già al pubblico palazzo, circondato da vie popolose, ma piuttosto alla propria abitazione del Presidente. E già la ioiza delle circostanze era tale, che un Senatore propose di concentrare in quell’ultimo Capo della Republica l’arbitrio di consultare e risolvere a seconda delle straordinarie vicende che d’ora in ora si aspettavano. Il che fu approvato con meravigliosa unanimità. Gli avvisi venuti da Vienna consistevano in questo. A’ giorni 4 di Novembre s’era aperto il Congresso: alle tredici si adunava per decidere le sòrti de’ Genovesi. Lord Castlereagh aveva proposto di assoggettarli al Re di Sardegna, con certi privilegj che una Commissione speciale discuterebbe col Ministro Sardo e il — 184 — loro. Toccando la parola alli Plenipotenziarj francesi, il principe Talleyrand inaspettatamente disse sotto voce agli altri due: ci convien tacere, il faut nous taire; e ammutolirono. Succedendo nell’ordine D. Pietro Labrador si oppose alla proposta, « mostrando che la nazione spagnuola aveva fatto tanti eroici sforzi contro l’usurpatore per rivendicare la propria indipendenza e per riacquistare il proprio Governo, non per torli altrui; che se non era possibile di restituire l’antica costituzione a’ Genovesi chiaro appariva, dalle Memorie presentate dal lor Ministro, essere essi contenti di formare uno stato separato e indipendente sotto il governo dell’infanta Maria Luisa, a cui era altronde dovuto un compenso maggiore di Parma e Piacenza, se si voleva restituir la Toscana a’ suoi naturali Sovrani; questo essere l’unico mezzo di rendere giustizia a tutti; l’augusta Casa di Savoia aveva troppi giusti principi, troppo viva e sincera religione per voler nuovi sudditi con loro scontentamento e con manifesta violazione delle promesse fatte, a tutti i popoli oppressi, da’ loro gloriosi Liberatori ». In questa forma con grandissima veemenza favellò lo spagnuolo; Castlereagh replicò opponendogli l’articolo segreto del trattato di Parigi cui non era concorsa la Spagna, e affermando con l’esempio del suo nativo paese d’Irlanda, che se l’unione era da principio odiosa a’ Genovesi o a una porzione influente di essi, riuscirebbe col tempo a tanto vantaggio di tutti, che ne sarebbero unanimemente grati al Congresso. Nulla so io che dicessero gli altri ambasciadori. Il principe di Mettermeli si riferì brevemente al trattato di Vienna, e qual Presidente del-l’Assemblea, messa a voti l’unione del Genovesato alla Sardegna sotto privilegi da stabilirsi in appresso, dato intorno uno sguardo, la dichiarò approvata. Restava a formarsi la Commissione, e furono nominati: il barone Bender per l’Austria, il visconte di Noailles per la Francia, Lord Clancarty per l’Inghilterra, con incarico di conferire separatamente col Marchese Brignole Sale, e col Marchese di S. Marsano. Il primo dichiarò altamente, che come Ministro non potea conferire intorno ad articoli relativi alla perdita dell’indipendenza nazionale, perdita contro cui prò- — 185 — testava e protesterebbe sempre, ma come privato e solo in tal qualità esporrebbe sopra ciascuno eli quelli, e sul tutto insieme la propria opinione. Esiste ancora la lettera de’ 16 Dicembre a’ Collegj, ov’esso partecipa e accerta di avere in tal forma eseguite le ricevute istruzioni. Ma in questo mezzo un dissapore fra le principali Potenze, qual benefica nube su languente terreno, rianimò le speranze di Brignole. Confortato da avvisi amichevoli, egli stese il progetto di un Principato costituzionale sotto il titolo di Regno della Liguria, e una mano potente l’accolse. Se non che, dissipata quella breve speranza, le conferenze de’ Commissari ripigliarono corso. Tutto ciò che S. Marsano concesse, fu deliberato, tutto che Brignole chiese, fu dinegato con fredda ironia, salvo l’imposta di due per centinaio sopra tutte le merci di transito, che avrebbe ridotto il Portofranco di Genova a un deserto, sopra la quale non si fece più insistenza; ma stava già in cuore di limitare il Portofranco di Genova all’antico recinto de’ magazzini, e di estendere quello di Nizza a tutta la città e a tutto il contado. Nell’ultima conferenza si fece solenne lettura di 17 articoli sotto il nome di privilegi e di condizioni che devono servir di base alla riunione degli stati di Genova a quelli di Sua Maestà Sarda, e al Brignole fu domandato, se ne approvava il contenuto. Qui nulla può dirsi, che sia ben certo approvato. Il visconte Castlereagh nel suo dispaccio del primo dì Dicembre al conte Bathurst (1) e poscia in pien Parlamento affermò che il M. Brignole l’aveva approvato. Questi sostiene aver risposto soltanto di non potersi come privato opporre a tanta forza di opinione e di voleri. Io per me credo che non gli restassero in mente le precise parole, tanto era commosso e turbato, come attestò chi riscontrollo per via uscendo dall’infausta stanza. Ma che dico di Brignole? il sentimento delFingiustizia che negli animi onesti, com’erano quelli de’ Commissari, n’è il solo, ma indelebile gastigo, dovè pure commoverli e alterarli; tanto che, o non iste-sero subito il protocollo dell’ultima conferenza o no ’l sottoscris- (1) Scholl, t. Vili, 335. — 186 — sero, o certo non esigettero la sottoscrizione del Ministro, il quale, posto clie avesse verbalmente annuito, non poteva negarla. Se data l’avesse, non si sarebbe taciuto nel Parlamento. Una conferma del turbamento che lio creduto scoprire negli animi de’ Plenipotenziarj, e della inesattezza di loro espressioni, si trova nel protocollo de’ 12 Dicembre, quale almeno fu mandato da Castlereagh a Londra, ove fassi menzione de’ Deputati di Genova inviati alle Conferenze, quando il deputato era un solo. Fu caso o negligenza profonda1? Più ancora: confessò il detto Ministro in altra lettera di uficio al suo collega in Londra, di aver ricevuta l’ultima protesta del Governo di Genova, anzi gliene mandò una copia. Or come in riceverla dal Brignole il giorno 10 che il Congresso si era adunalo, non gli notò la sua giusta sorpresa per tanta e tale contraddizione fra l’approvazione del deputato, e la scrittura de’ suoi committenti'? come almeno non ne fece pure parola scrivendo a L. Bathurst, al quale, come il carteggio dimostra, comunicare soleva le sue inquietudini e le sue speranze? Finalmente perchè, terminate che furono quelle conferenze, il principe di Metternich espressamente incaricato dal Congresso, domandò a’ Plenipotenziarj Sardi un atto di adesione in iscritto, e no ’l domandò al Plenipotenziario genovese, se non perchè l’assenso degli uni non era dubbio, non dubbia l’opposizione dell’altro1? Alla riputazione del M.se Brignole ciò basta; agli effetti politici niente rileva la costanza del suo rifiuto o la debolezza del suo assenso. Qual’è il Ministro che, dichiarando non esser più che privato, obblighi la propria Nazione? Qual’è il trattato in cose molto men gravi, che si reputi valido, se non venga ratificato? Da qual parte stanno la veracità e la ragione, da quella che adduce un consenso controverso, contrario non meno all’antece-denti scritture che alle successive, al più verbale; ovvero dalla parte che addita una protesta scritta, distribuita a queglino stessi che oggi pretendono aver udito il contrario il giorno innanzi, distribuita eziandio al generale Congresso di tutti i Ministri, e consegnata ne’ lor protocolli? Direte forse che un Tribunale così autorevole non aveva mestieri dell’annuenza delle Parti. — 187 — Ciò non può essere, io ripiglio, perchè voi, voi stessi l’allegaste a vostra discolpa, e v’ingegnaste di j>alliare in quel modo la commessa ingiustizia. E poi non si arrossirà di metter fuori il desolante principio la giustizia esser nulla, il volere di pochi ogni cosa; non darsi titolo legittimo e sacro, se a quelli che hanno maggior forza non piace? Dove siamo noi, nella culta Europa, o nella più barbara contrada del Mondo? Ciò non ostante il Principe di Mettermeli convocò gli Ambasciadori dell’Otto Grandi Potenze il giorno 10 di Dicembre, come già accennai. Quest’era il giorno medesimo che si celebrava annualmente, sopra un poggio vicino alle mura di Genova nella rustica chiesa di Oregina, la meravigliosa ed eroica liberazione della città, operata dal popolo sessantasei anni addietro. Oh sante memorie, oh crudel differenza! Quel giorno medesimo, contro l’opposizione formale e in iscritto del forte Labrador, la perdita dell’indipendenza di Genova fu consumata colla giunta de’ privilegi proposti da Commissari. L’atto di adesione su mentovato fu dato dal Marsano e dal Rossi a’ 17 del mese formalmente, interamente e senza restrizione. A che s’impiegarono, nonostante la sollecitudine de’ Plenipotenziari, i giorni di mez;zo tra la domanda e l’adesione? Probabilmente ad una particolare negoziazione di L. Castlereagh co’ Ministri Sardi, la quale così si conclude, che il Re di Sardegna pagherebbe sedici milioni di franchi all’Inghilterra, e questa gli cederebbe la parte spettante alla Corona nell’artiglierie e munizioni prese in Genova (1). La notte stessa del giorno in cui l’atto di adesione fu ricevuto, il figliuolo maggiore di S. Marsano, che doveva andar poi esule dal Piemonte, portò a Torino una copia autentica del decreto di unione, e un’altra ne mandò a Genova a L. Castlereagh, il quale non prevedeva in quel tempo di dover terminare i suoi giorni da forsennato, svenandosi con un rasoio. Il corriere inglese, preceduto a Novi dal nostro, arrivò a Genova la sera del dì 25 di Dicembre. Il Colonello Dalrymple (1) Letters to Lord Holland, London 1819, p. 31. — 188 — cui era indiretto, scrisse poco di poi al Presidente che verrebbe la seguente mattina a comunicargli in sua casa un dispaccio importante, e che sarebbe opportuna e gradita la presenza de’ Senatori. Dopo breve risposta il resto della notte si passò a disporre in modo le cose che ad un batter di ciglio fosse affisso il proclama del Governo ne’ luoghi soliti della Città Capitale, e spedito nell’altre Giurisdizioni; e che ad un medesimo tempo, gli Agenti e Consoli delle Potenze forestiere in Genova ricevessero un esemplare della protesta comunicata al Congresso. Panni ancor di vedere all’ora assegnata entrare nell’anticamera il Colo-nello in grande uniforme, avvicinarsi al caminetto, e di faccia al Presidente sedersi. Erano in giro secondo l’ordine dell’età i Senatori Antonio Dagnino, Francesco Pico, Ippolito Durazzo, Giovanni Quartara, Luca Solari, Agostino Pareto; i rimanenti, o non ricevuto o trascurato l’invito del loro Capo, ne lasciarono a’ posteri loro il rincrescimento. In fondo all’anticamera stavano in piedi i Segretarj, gli Agenti, gli Amanuensi, i Portieri del Senato, uomini tutti pieni di zelo e di cordoglio. Dopo i complimenti d’uso, il Colonello disse aver ordine di partecipare al Governo provvisorio un dispaccio ricevuto la sera innanzi per parte di Milord Castlereagh, e prese a leggerlo in lingua italiana ch’egli aveva imparata in Sicilia. Tutti affissarono in lui gli sguardi, esso leggeva a bassa voce tralasciandone le prime frasi. « Il profondo interesse che il principe Reggente prende e continuerà a prendere alla futura prosperità de’ Genovesi mi ha fatto dal primo istante che l’Armi Britanniche ebbero la fortuna di essere ristrumento della lor liberazione, dall’oppression del nemico, un dolce dovere di invigilare su i loro interessi. Dispiacque non meno a me che a tutti i Ministri di non poter conservare a’ Genovesi un’esistenza separata, desiderio che abbiam ragione di credere che fra lor prevalesse, senza arrischiare d’introdurre nel sistema adottato per l’Italia debolezza e per conseguenza pericolo di poca sicurezza; ma ci persuadiamo di aver provveduto molto più efficacemente alla sicurtà loro avvenire e alla prosperità del loro commercio. — 189 — « La condiscendente libertà del Ee di Sardegna, il cui desiderio di contentare quanto fosse possibile i voti de’ Genovesi ha oltrepassato in questa transazione d’assai i desiderj delle Potenze, dà allo Stato di Genova il pegno il più sicuro che vanno ad essere posti, con principi fissi e liberali, sotto la protezione di un Governo liberale. « Non dubito che in tali circostanze il Popolo Genovese di ogni classe riceverà questa disposizione come benefica e favorevole al suo benessere, e si conformerà volentieri a quanto parve più conducente al suo interesse conciliato con quello dell’Europa ». Dopo quest’estratto in traduzione il Colonello passò a leggere i privilegi, e P°i quasi scarico da un gran peso disse più alto: « Ebbene, signori, conviene che ci combiniamo per l’esecuzione immediata di queste cose; giacché so di certo che alcuni di loro saranno chiamati a far parte della nuova amministrazione ». Qui tacque, e il Presidente acceso naturalmente in viso e più che mai in quel punto, rispose: — « Non privilegi, non con' descendenza aver domandato il Governo e la Nazion Genovese, ma la promessa e dovutagli indipendenza; niun popolo, nessun Ministro più dell’inglese dover conoscere e rispettare un sentimento sì fatto, ingenito ne’ potenti Britanni, come ne’ Genovesi; nessuno abitante in Genova aveva avuto prove più convincenti che il Signor Colonello, stato uno de’ primi ad entrarvi, e quello stesso che il generale Lord Bentinck aveva deputato con reciproca soddisfazione a trattar col Governo. Vero è che se la giustizia e la ragion eran tutta da una parte, dall’altra era tutta la forza, e però non restava al Presidente, dopo tante speranze insieme nutrite, e tante vigilie insiem sostenute, più altra cosa che di adempiere un dovere arduo ma necessario, di protestare solennemente alla faccia del Cielo e dell’Europa contro le determinazioni del Congresso. Un proclama — e fece un cenno di capo — un proclama da questi sentimenti dettato, doveva in quell’istante dirigersi a tutti i Genovesi, una solenne protesta recarsi a tutti gli agenti stranieri, quella stessa protesta che il Ministro Brignole aveva a quest’ora presentato al Congresso, monumento perenne \ — 190 — della sofferta ingiustizia ». E in questo dire gli porse ambedue gli scritti. Parevano i circostanti non sol consentire, ma secondare con gli atti le parole dell’Oratore. Successe per alcuni minuti un profondo silenzio. Quindi veggendo Dalrymple pensoso e turbato, parecchi Senatori gli si appressarono esprimendogli a gara l’intima lor persuasione, che quanto di sinistro accadeva al Paese, tutto era a suo malgrado. E invero ho sempre renduto e renderò sempre giustizia a’ nobili sentimenti ond’era animato, alle sue facili e concilianti maniere. Delle quali virtù il Presidente ebbe una riprova ottenendo pei suoi buoni ufizi una nave da trasporto inglese, per trasferirsi con dignità conveniente al fresco suo grado esule volontario in Toscana. Giunto in questa felice contrada tutta esultante per la restaurazione del suo antico Governo, egli scrisse al suo Ministro L. Castlereagh una lettera, ove dicevagli: che avendo inteso dal Cav. Giovanni Dalrymple in Genova e da Lord Guglielmo Bentinck in Firenze la parte _ ch’egli prendeva alla sorte de’ Genovesi e la benevolenza che loro portava S. A. R. il Principe Reggente, non era possibile ch’ei si contenesse da presentargli un’ultima domanda in nome loro. Poteva l’Inghilterra senza grandi difficoltà indurre le Potenze barbaresche a rispettare le Riviere del Mar Mediterraneo, e le diverse loro bandiere; questa potente intercessione avrebbe cancellate molte ricordanze spiacevoli, e rimarginate molte piaghe. « La Nazion generosa che, per quanto da sè dipendeva, ha liberata l’Affrica da un tristo mercato di schiavi, quella stessa applaudirà senza dubbio alla rimozione di un flagello che da più secoli sparge di lutto il più bel suolo d’Italia; e l’attività de’ privati, costretta a ripiegarsi sopra terreni ove tante fiorenti città sorgevano altre volte, li renderà più felici e più affezionati a’ lor proprj Governi. Accenno idee » — conchiudeva l’ex Presidente — « accenno idee, che la penetrazione di V. E. saprà fecondare, tenendomi io ben pago, e felice, se nella vita privata e solitaria in cui terminerò il mio corso mortale, potrò recar la speranza di aver fatto ancor qualche cosa in vantaggio dei miei concittadini ». — 191 — L. Castlereagh non usò la civiltà di rispondere. Ma pure nelle condizioni indi a qualche tempo prescritte alli Stati Barbareschi ebbero cura di farne comprendere una in favore delle bandiere Sarde, bandiere date a’ Genovesi invece di quelle che avevano vinto anticamente le battaglie navali della Meloria e del Bosforo. Le rispettarono costantemente i Barbareschi; e se una volta que’ di Tripoli mancarono alla data fede, il Comandante Sivori, genovese, li ridusse al dovere. Ciò non ostante, o che gli ostacoli posti dalle Potenze che si dicono amiche, alle rispettive comunicazioni, abbiano tutto sconvolto il commercio, o che i regolamenti di un Governo dentro terra contengano sempre qualche cosa d’ostile contro gl’interessi delle provincie marittime, o che veramente la libertà e l’indipendenza sieno elementi indispensabili dell’esistenza e prosperità commerciale, certa cosa si è che i traffici e la navigazione presente con bandiera franca rimangono grandemente al disotto di quello ch’erano un tempo con bandiera schiava. Anzi i primi vantaggi di una pace durevole e generale vanno man mano scemando; si ricominciano a vedere botteghe chiuse, abitazioni disaffittate, operai che domandano inutilmente lavoro; l’emigrazione, la povertà fanno spaventevoli progressi. Un lusso indistinto di robe straniere pallia questi mali e gli aumenta. FINE DOCUMENTI Seguono le prime frasi del dispaccio di L. Castlereagh a Sir John Dalrymple; i privilegi dati dal Congresso di Vienna e la protesta, e il proclama del Governo provvisorio di Genova. « S ir « Riceverete qui acclusa la decisione finale delle Potenze che sottoscrissero il trattato di Parigi, la quale sotto certe condizioni riunisce lo Stato di Genova alla Corona di Sardegna. « L’atto di questo giorno (17 Dicembre) esprime il consenso di S. M. Sarda a queste condizioni, come base sopra la quale le dette Potenze han consentito a confidare immediatamente a S. M. il Governo provvisorio di Genova fino a che la sovranità ne sia formalmente conceduta a S. M. mediante un trattato da sottoscriversi più tardi. Io devo per conseguenza farvi conoscere il buon piacere del principe Reggente secondo il quale, di concerto col Governo provvisorio esistente, prendiate le disposizioni necessarie per rimettere, conforme alla suddetta decisione, questo Governo al Ee di Sardegna, o a quella tale persona che S. M. Sarda deputerà per questo. Voi continuate a regolarvi colle truppe che comandate come ausiliarie messe alla disposizione di S. M. Sarda finche riceviate ordini ulteriori. « Eseguirete questi ordini nella maniera che crederete più accetta alle Autorità anco esistenti. — 19G — Qui poi continuava ciò che trascrissi di sopra, e che incomincia: — Il profondo interesse.... — Il trattato su mentovato fu sottoscritto in Vienna addì 20 di Maggio 1815 fra il re di Sardegna, l’Austria, l’Inghilterra, la Russia, la Prussia e la Francia, e venne compreso nel Trattato de’ 9 di Giugno detto anno fra le otto grandi Potenze negli articoli 85, 86, 87, 88, 89 congiuntamente ai detti privilegj. * * * CONDITIONS QUI DOIVENT SERVIR DE BASES À LA RÉUNION DES ÉTATS DE GÉNES A CEUX DE S. M. SARDE. Art. 1. Les Genois seront en tout assimilés aux autres sujets du roi. Ils participeront, comme eux, aux emplois civils, judiciaires, mili-taires et diplomatiques de la monarchie, et, sauf les privilèges qui leur sont ci-après concedés et assurés, ils seront soumis aux mèmes lois et règlements, avec les modifìcations que S. M. jugera convenables. La noblesse genoise sera admise, comme celles des autres parties de la monarchie, aux grandes charges et emplois de Cour. Art. 2. Les militaires genois composant actuellement les troupes genoises, seront incorpores dans les troupes royales. Les officiers et sous-officiers conserveront leurs grades respectifs. Art. 3. Les armoiries de Génes entreront dans l’écusson royal et ses couleurs dans le pavillon de S. M. — 197 — Art. 4. Le port frane de Gènes sera rétabli, avec les règlements qui existoient sous l’ancien gouvernement de Gènes. Toute facilité sera donnée par le roi pour le transit par ses ótats, des marchandises sortant du port frane, en prenant les prècautions que S. M. jugera convenables pourque ces raémes mareliandises ne soient pas vendues ou consomées en incontre-bande dans Pinterieur: elles ne seront assujeties qu’au droit modique d’usage. Art. 5. Il sera établi dans chaque arrondissement d’intendance un conseil provincial, composé de trente membres, choisis parmi les notables des differentes classes, sur une liste de trois cents plus imposés de chaque arrondissement. Ils seront nommés la première fois par le Eoi, et renouvelés de mème par cinquième tout les deux ans. Le sort décidera de la sortie des quatre premiers cin-quièmes. L’organisation de ces conseils sera reglèe par S. M. Le président, nommé par le roi, pourra ètre pris hors du conseil: en ce cas, il n’aura pas le droit de voter. Les membres ne pourront ètre choisis du nouveau que quatre ans après leur sortie. Le conseil ne pourra s’occuper que des besoins, réclamations des communes de l’intendence, pour ce qui concerne leur administration particulière et pourra faire des raprésenta-tions à ce sujet. Il se rèunira chaque année au chef-lieu de l’intendence, à l’époque et pour le temps que S. M. déterminera. S. M. le reu-nira d’ailleurs extraordinairement, si elle juge convenable. L’intendant de la province, ou celili qui le remplace, assisterà de droit aux séances, comme Commissaire du Eoi. Lorsque les besoins de l’Ètat exigeront Pétablissement de nou-veaux impòts, le Roi reunira les différens conseils provinciaux dans telle ville de Pancien territoire genois qu’il désignera, et — 198 — sous la présidence de telle personne qu’il ama déleguée à cet effet. Le président, quand il sera pris hors des conseils, n aura pas voix déliberative. Le Roi n’enverra à l’enregistrement du Senat de Gènes, ancun édit portant créations d’impòts extraordinaires, qu après avoir recu le vote approbatif des conseils provinciaux ìéunis comme ci-dessus. Art. 6. Le maximum des impositions que S. M. pourra établir dans l’état de Gènes, sans consulter les conseils provinciaux réunis ne pourra excéder la proportion actuellement établie poui les autres parties de ses états; les impositions maintenant pei§ues seront ameneés à ce taux, et S. M. se reserve de faire les modifi-cations que sa sagesse et sa bonté envers ses sujets genois ponrront lui dicter à l’égard de ce qui peut ètre reparti, soit sur les charges foncières, soit sur les perceptions directes ou indirectes. Le maximum des impositions ét.ant ainsi réglé tous les fois que le besoin de l’état pourra exiger qu’il soit assis de nouvelles impositions ou des charges extraordinaires, S. M. demanderà le vote approbatif des conseils provinciaux pour la somme qu’elle jugera convenable de proposer, et pour l’espèce d’imposition à établir. Art. 7. La dette publique, telle qu’elle existoit légalement sous le dernier gouvernement frangois est garantie. Art. 8. Les pensions civiles et militaires accordées per l’état d’après les lois et les règlemens, sont maintenues pour tous les sujets genois habitant les états de S. M. — 199 — Sont maintenues, sous les mémes conditions, les pensions accordées à des ecclesiastiques ou à d’anciens membres des maisons religieuses des deux sexes, de méme que celles qui sous le titre de seeours, ont été accordées à des Nobles genois par le gouvernement francois. Art. 9. Il y aura à Gènes un grand corps judiciaire ou tribunal suprème, ayant les memes attributions et privilèges que ceux de Turin, de Savoje et de Nice et qui porte comme eux le nom de Sénat. Art. 10. Les monnoies courantes d’or et d’argent de l’ancien état de Gènes actuellement existantes, seront admises dans le caisses publiques concurrement avec les monnoies piémontoises. Art. 11. Les levées d’hommes dites provinciales dans les pays de Gènes, n’excederont pas en proportion les leveés qui auront lieux dans les autres états de S. M. Le service de mer sera compté comme celui de terre. Art. 12. S. M. créera une compagnie genoise de gardes-du-corps, la quelle formerà une quatrième compagnie de ses gardes. Art. 13. S. M. établira à Gènes un corps-de-ville composé de qua-rante nobles, vingt bourgeois vivant de leur revenu, ou exer-cant des arts liberaux, et vingt des principaux négocians. Les nominations seront faites la première fois par le Eoi, — 200 — et les remplacemens se feront à la nomination du corps-de-ville mème, sous la réserve de l’approbation du Eoi. Oe corps aura ses règlemens particuliers, donnés par le Eoi, pour la présidence et pour la division du travail. Les présidens prendront le titre de syndics, et seront choisis parmi ses membres. Le Roi se réserve, toutes les fois qu’il le jugera à propos, de faire présider le corps de ville par un personnage de grand distinction. Les attributions du corps-de-ville seront l’administration des revenus de la ville, la surintendence de la petite police de la ville, et la surveillance des établissemens publics de charité de la ville. Un Commissaire du Eoi assisterà aux séances et délibe-rations du corps-de-ville. Les membres de ces corps auront un costume; et les syndics le privilège de porter la simarre ou toge comme les présidens de tribunaux. Art. 14. L’Université de Génes sera maintenue, et jouira des mémes privilèges que celle de Turin. S. M. avisera aux moyens de pourvoir à ses besoins. Elle prendra cet établissement sous sa protection spéciale, de méme que les autres instituts d’instruction, d’éducation, de belle lettre et de charité, qui seront aussi maintenus. S. M. conserverà, en faveur de ses sujets genois, les bourses qu’ils ont dans le collège dit Lycée, à la charge du gouvernement; se réservant d’adopter sur ces objets les règlemens qu’elle jugera convenables. Art. 15. Le Roi conserverà à Génes un tribunal et una chambre de Commerce, avec les attributions actuelles de ces deux établissemens. — 201 — Art. 10. S. M. prendra particulièrement en considération la situa-tion des employés actuels de l’état de Génes. Art. 17. S. M. accueillera les plans et propositions qui lui seront présentés sur les moyens de rétablir la banque de S. George. Pour copie conforme à l’original déposé à la Chancellerie intime du conseil d’état à Vienne. Signé (L. S.) le Prince de Metternich. * * * Le Gouvernement de la Serénissime République de Gènes. L’espoir de rendre à notre olière Patrie sa splendeur primitive, nous avoit fait accepter les rènes du Gouvernement. Tout paroissoit justifier notre atteinte; les proclamations d’un Général Anglais trop généreux pour abuser de la victoire, trop éclairé pour mettre en avant le droit douteux de conquète; les prérogatives imprescriptibles d’un peuple, dont l’indépendance se rattache au commencement de son histoire, et forme une des bases de l’équilibre de l’Italie, garanti dans le dernier traité d’Aix-la-Chapelle; l’évidente nullité de sa réunion à un Empire oppresseur, puisque l’on y admit le principe que le consentement des habitans était indispensable, et que l’on compta néanmoins comme ayant donne leur voix favorable touts ceux qui n’avait point voté; la dissolution de cet Empire, et par dessus tout la — 202 — garantie des Haut.es Puissances Alliées, déclarant à la face de l’univers attentif et reconnaissant qu’il était temps que les Gou-vernements respectassent leur indépendance réciproque, qu’un traité solennel, une paix générale allaient assurer les droits et la liberté de tous, rétablir l’ancien équilibre en Europe, garantir le répos et la liberté des peuples, et prévenir les envahisse-mens, qui depuis t.ant d’années ont désolé le monde. Après ces déclarations mémorables, après une admini-stration assez beureuse pour rouvrir les premières sources de la prosperiti nationale, après que l’état a repris sans obstacle toutes les marques de la souveraineté, et que son antique pavillon a flotte sur toutes les còtes, et a été regu dans tous les ports de la Méditerranée, nous avons été aussi séurpris que profondment affligés, d’apprendre la résolution du Congrés de Vienne, portant le réunion de cet état à ceux de S. M. le Roi de Sardaigne. Tout ce que pouvait. faire pour les droits de ses peuples un gouvernement denué de tout autre moyen que ceux de la raison et de la justice, notre conscience nous rende temoignage et les premières Cours de l’Europe en sont bien informées, que nous l’avons fait sans réserve et sans hésitation. Il ne nous reste donc plus qu’à remplir un triste et honorable devoir, celui de protester que les droits des Génois à l’indépendance peuvent ètre méconnus, mais ne sauraient ètre anéantis. Cet acte conservatoire n’a rien d’opposé au profond et inviolable respect dont nous sommes pénétrés pour les Hautes Puissances contractantes dans la Capitale de l’Autriche. Il est dicté par le sentiment intime et irrésistible de notre devoir: il est tei que tout État libre, piace en pareille circostance, l’eùt toujours désiré de ses premiers Magistrats: tei que nos respectables voisins l’énonceraient peut ètre, s’il arrivait jamais, et le cours impénétrable des siècles peut amener un jour cet événement, que leur Capitale fut transportée sur une terre étran-gère, et leur pays réuni à un État plus puissant. Notre tàche est remplie; nous abdiquons sans regret le pouvoir qui nous avait été confié sous de meilleurs auspices. — 203 — Les autorités militaires, administrations judiciaires, conti-nueiont à exereer leur l'onctions; les transactions commerciales sui-ront leur marche accoutumée; le peuple sera tranquille, et il méri-teia par une attitude convenable à ces grandes circostances l’estime du Prince qui va le gouverner, et l’intérèt des Puissances qui prennent part à nos destinés. Génes, le 26 Décembre 1814. Le Président du Grouvernement signé Serra PROCLAMA GOVERNATORI E PROCURATORI DELLA SERENISSIMA REPUBBLICA DI GENOVA. Informati che il Congresso di Vienna ha disposto della nostra Patria riunendola alli Stati di S. M. il Re di Sardegna, i isoluti dall una parte a non lederne i diritti imperscrittibili, dall’altra a non usar mezzi inutili e funesti, noi deponiamo un Autorità che la confidenza della Nazione, e l’acquiescenza delle principali Potenze avevano comprovata. Ciò che può fare per i diritti e la restaurazione de’ suoi Popoli un Governo non d’altro fornito che di giustizia e ragione, tutto, e la nostra coscienza lo attesta, e le Corti più remote lo sanno, tutto fu tentato da noi senza riserva e senza esitazione. Nulla più dunque ci avanza se non di raccomandare alle Autorità Militari, Amministrative e Giudiziarie, l’interino esercizio delle loro funzioni, al successivo Governo la cura delle truppe che avevano cominciato a formare, e degli Impiegati che han — 206 — lealmente servito; a tutti i Popoli la tranquillità, della quale non è alcun bene più necessario alle Nazioni. Riportiamo nel nostro ritiro un dolce sentimento di riconoscenza verso l’illustre Generale che conobbe i confini della vittoria; e una intatta fiducia nella Provvidenza Divina, che non abbandonerà mai i Genovesi. Dal Palazzo del Governo, lì 26 Dicembre 1814. Girolamo Serra Presidente del Governo Senatori : Fr. Antonio Dagnino - Ippolipo Durazzo - Carlo Pico -Paolo Girolamo Palla vicini - Agostino Fieschi - Giuseppe Negrotto - Giovanni Quartara - Domenico de Marini - Luca Solari - Andrea de Ferrari - Agostino Pareto - Grimaldo Oldoini. ANNOTAZIONE Esposto in tal guisa il mio sentimento senza parzialità, mi occorse di leggere l’opera grande intitolata: Force navale de la Grande Brétagne, per Chakles Dupin; e vi trovai stabilito dall’atto 32 di Giorgio III, c. 66 art. II, clie quando le forze navali (dal dì 2 feb. 1813 in appresso) prenderanno in terra una fortezza, delle armi, delle munizioni, degli effetti o danari appartenenti al Governo nimico o a qualche compagnia pubblica di commercio; tutti gli oggetti trasportabili saranno proprietà de’ predatori (capteurs). E se l’esercito di terra e l’armata di mare concorreranno alla presa, spartiranno insieme giusta la concordanza de’ gradi, e la proporzione determinata dal Re stesso (t. I, pag. 263). Ora riflettano le persone saggie e oneste, quante vittorie riportò la G. B. innanzi a quest’atto Reale, quante violenze son seguite dopo, e fin dove esso fosse applicabile ad un territorio e ad una citta, che si protestava di voler liberare da un giogo iniquo. INDICE ALFABETICO DELLE MEMORIE PER LA STORIA DI GENOVA DAGLI ULTIMI ANNI DEL SECOLO XVIII ALLA FINE DELL’ANNO 1814 del March. GIROLAMO SERRA COMPILATO DAL SOCIO March. GIUSEPPE SOPRAMS AVVERTENZA I nomi sono segnati nell’indice con l’ortografia più comunemente usata. Per rendere più agevole il riscontro col testo elenchiamo le varianti, senza porre mente se dovute all’autore o a errori di copisti e tipografi; intanto si rettificano alcune mende tipografiche finora sfuggite. Quando fu possibile, si è incluso nell indice il nome delle persone indicate dal Serra per via di perifrasi. Per es., a pag. 113, egli scrive « il più oscuro dei deputati del corpo legislativo, istigato ecc. »; nell’indice si è messo il nome di questo deputato, risultando dallo « Studio intorno la vita politica del conte Luigi Corvetto » di Massimiliano Spinola, Genova, 1870, p. 16, che si chiamava Montebruno Emanuele; così per altri. CORREZIONI Pag. 4 Bentink in Bentinck. 8 Choiseuil in Choiseul. 12 Moupellieri in Mouipellieri. 23 Montesquieu in Mcntesquiou. 25 Dracke in Lrake. ‘28 Farmars in Famars. 29 Valencienne in Valenciennes. 38 Dumorbion in Du Merbion. 40 Kellerman in Kellermann. 42 (lodoi in Godoy. 43 Oaoaut in Cacault. 49 Bourienne in Bourrienne. 51 Alvisa in Alvise. 52 La Reveillere Lepaux in La Ré-veillère Lépeaux. Pag. 57 Meerfeld in Meerveldt. 57 Judemburg in Judenburg. 96 saeva in laeva 112 paffuto in baffuto. 116 istituzioni in istruzioni. 132 Davous in Davout. 134 La Sharpe in La Harpe. 149 amen in a men. 154 Stahremberg in Starbemberg. 157 Cathear in C&thcart. 157 Mac Ferlane in Mac Farlane 158 ... punto e a capo dopo qualificati. 171 Wessemberg in Wessenberg. 171 Rasumowsky in Razoumoffsky. 172 Humbold in Humboldt. — 212 — Pag. 172 Lonentielm in Lòwenhielm. 172 Palmela in Palmella. 172 Lebe de Silveira in Lobo da Syl-veira. 172 Spen in Spaen. 172 Wintzingerede /'nWintzingerode. 172 Murster in Mlinster. 174 Schonbrun in Scboenbrunn. 177 alla riga 28* incomincia la citazione del de Maistre (Du Pape. Lib. 11, capo VII) che termina Pag. alla riga 4* della pagina 178 e di cui alla nota posta in calce ad essa pagina. Tale nota va divisa in due, di cui la prima si riferisce al l’accennata citazione, e la seconda al frizzo del Principe di Ligne, segnato erroneamente (1). 178 Mestre in Maistre. 178 Ligna in Ligne. 183 alle in alli. 181 Bender in Binder. A Abrantès (la duchessa di), v. Permon Saint Martin Laura. Acqui, 38. Adriatico (mare), 10, 60. Affrica, 190. Aia (1’), 172. Aiaccio, 8-4. Aix, 25. Aix-la-Chapelle, v. Aquisgraua. Alassio (gli Anziani di), 78. Albanesi, 126, 130. Albaro, 76, 128, 129. Albenga, 40; (il governatore di), 78. Alberi della libertà in Genova, v. Genova, Alberi della libertà. Alberi della libertà in Liguria, v. Liguria, Alberi della libertà. Albione, v. Inghilterra. « Alceste » (nave), 32. Alcudia de Carle r, (il duca di) v. Godoy D. Emanuele. Alessandria,, 38, 48; la cittadella, 108; la capitolazione, 116, 137. Alessandro il Macedone, 45. Alessandro I, imp. di Russia, 132, 145, 159, 163, 165, 172, 178. Alpi, 30, 141; marittime, 20, 35; nori-che, 57; sabaudiche, 20; tirolesi, 57. Abazia, 28, 39. Altenlmen, (battaglia di), 28. Alvigini (Silvestro, avv.), sen. rep. 1802, 122. Alvinzy (Gius, von Barberek, barone), gen/austr. 55, 56, 57. Ambasciatori e ministri, v. ai nomi dei singoli stati. Amburgo, 123. America, 10, 60, 128. America (colonie inglesi), 10, 18; (colonie portoghesi), 10; (colonie spa-gnuole), 10. Amiens, 118; (conferenze d’) 119, 120. Amsterdam, 60. Ancona (la cittadella di), 47. Annover (elettorato di), 41, 172. Annoveresi, 126. Anselme (Giacomo d’), gen. frane. 23, 24. Antioco re di Siria, 78. Appennino, 30, 48, 98, 137, 141. Aquisgrana (pace di ), 8, 124, 174, 179, 201. Arcole, 57. Ardissoni (Nicolò, avv.), giureconsulto genovese. 147. Arquata, 48, 92. Artois (il conte di), 16. Asia, 45, 60. Assereto (Domenico, avv.), ministro di polizia in Genova, 112. Assereto (Giuseppe), incar. d’affari a Torino, 42. Assia (l’elettore di), v. Guglielmo 1. Assia Casse!, 41. Atlantico (oceauo), 55. Attila, 86. Augereau (Pietro Francesco), gen. frane. 91, 9'2, 109. « Aurora » (nave), 33. Austria, 17, 20, 21, 25, 31, 31, 40, 48, 49, 55, 57, 58, 61, 79, 90, 91, 97, 108, HO, 116, 118, 123, 126, 154, 162, 164, 171, 175, 176, 178, 194, 196,202. Austria (l’imperatore d’), v. Francesco li. Austria (il consiglio aulico), 41. Austria (ministro d’), a Genova v. Girola; a Londra v. Starhemb^rg, Wessenberg; a Torino v. Glierar-dini; al Congresso di Vienna v. Mettermeli, Wessenberg. Austriaci, 8, 14. 15, 28, 38, 41, 43, 45, 57, 58, 59, 82, 126, 127, 137, 141. Austriaco impero, 157. Austro-Sardi, 44. Autun (il vescovo di), v. Talleyrand. Azara (D. Josè Nicolò d’), Ministro di Spagna a Roma, 50, 51. B Baden (il granduca di), v. Carlo Luigi Federico. Balbi (Costantino), min. di Genova a Vienna 20, 31. Balbi (Emanuele, banchiere) membro della Municipalità di Genova, ] 28. Balbo (Prospero, conte), min. di Sardegna a Parigi, 51. Banco di S. Giorgio, v. Genova Banco di San Giorgio. Barbareschi e potenze Barbaresche, 54, 63, 166, 190, 191. Bakkas (Gio. Paolo, conte di), uomo politico fran. 44. Basilea, 42, 55, (la pace di), 41, 42. Bassano (il duca di), v. Maret. Bastia (di Corsica), 10. Bathurst (Enrico, lord), nomo politico inglese 185, 186. Baviera, 172. Baviera (il re di), v Massimiliano. Baviera, (ministri di Baviera al Congr. di Vienna), v. Wrede, Rechberg. Baylen, (capitolazione di), 128. Bkaihahnais (Alessandro, visconte di), gen. frano. 44. Beaultec (tìio. Pietro, barone di), gen. austriaco, 45, 47, 132. Bbadmabchais (Pietro Agostino Caroli di), scrittore frane. 18. Belgio, 57. Bei.leville (Carlo Goffredo Redon, barone ili), ammin. dei beni di casa Cambialo, poi incar. spec. presso la Rep. di Genova, poi min. pleu. presso la stessa, 24. Bklmonte. Pignatelli (.......principe), min. di Napoli a Parigi 52. Bembo (Pietro, card.), 67. Benevento (il principe di), v. Tal-leyrand. Bentinck (la famiglia), 124-, 125. Bentinck (Gio. Guglielmo), conte poi duca di Portland, 124. Bentinck (Guglielmo lord), gen. inglese, 4, 124, 125, 126, 127, 128, 130, 134, 136, 137. 138, 140, 142, 143, 144, 149, 150, 152, 153, 157, 158, 163, 165, 169, 173, 174, 176, 178, 179, 189, 190, 201, 206. Bentinck (Guglielmo Enrico Caven-dish), duca di Portland, uomo poi. inglese, 125, 142. Berlino, 172; (la corte di), 9, 32. — 215 — Bernstorff (Cristiano, conte di), di-plom. danese, 172. Berthier (Alessandro), gener. frane. 108, 117. Binder von KaiEQELSTEiN (Francesco, barone), diplom. anstr. 184. Bimjno (torrente), 59, (la valle del), 73. Blois (il vescovo di), v. Grégoire. Boccardo (Bartolomeo, avv.), min. di Genova a Parigi, 34, 43, 46, 47, 51. Bocchetta (passo della), 14, 77, 87. Boglianco (la chiesa paroccliiale di), 128. Bou.o (...., stnd. in legge), rivoltoso genovese, (54. Bologna, 47, 50, 51 107; (agente di Bologna presso la S. Sede), 181. Bolognese, 107. Bonaparte (Carolina), 84, 87, 88. Bona parte (Elisa), 84, 87. 88. Bonaparte (Giuseppe), 60, 119. Bonaparte (Giuseppina) v. Tascher de la Pagerie Giuseppina. Bonaparte (Letizia), v. Ramolino Letizia. Bonaparte (Napoleone), 3, 37, 38, 44, 45, 47, 49, 50, 51, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 73, 75,76, 78, 79, 82, 83, 84, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 95, 96, 97, 98, 99, 107, 108 109, 110, 113, 116, 117, 118, 119, 120, 122, 123, 124, 126, 127, 128, 131, 132, 133, 137, 144, 154, 161, 168, 172, 173, 174, 175, 178. Bonaparte (Paolina), 88, 91. Bonelli (Franco), :ncar. di Genova a Torino, 42, 45, 46,110. Borboni (di Francia), 22, 109, 132, 145, 173. Bordeaux, v. Bordò. Bordò, 25. Borghetto (di Albenga), 40. Bosei.li (Benedetto), pubblicista, 163. Bosforo (mare), 191. Botero (......) com. la porta della Lanterna in Genova, 66. Botta (Carlo), storico 1, 4, 8, 23, 63. Bourdon de Vatry (Marcantonio), prefetto del dipartimento di Genova, 129, 131. Bourrienne (Luigi Ant. Fauvelet de), segret. di Bonaparte, 49, 93. Brame (Gius.) console inglese a Genova, 29, 53. Brescia, 47. Brignole (i fratelli), del Min. Consiglio nel 1768, 9. Brignole (Giac. Maria) Doge, 49, 69, 70, 72, 76, 77, 95, 101. Brignole (Gian. Carlo), Sen. Rep. 1814. 69, 72, 135, 137, 138. Brignole Sale (Antonio, M.se), min. di Genova al Cong. di Vienna, 173, 174, 175, 178, 179, 181, 184, 185, 186, 189. Brignole Sale (Anna), v. Pieri Anna. Brignoline, v. Genova. Conservatorio delle Figlie del Rifugio. Britanni, v. Inglesi. Brueys (Francesco Paolo, conte di), ammiraglio francese, 62, 75. Brune (Guglielmo), gen. frane. 110. Brunswick (il duca di), v. Federico Carlo Guglielmo. Brunswick (Carlo Guglielmo Ferdinando, principe ered. di), gen. prussiano, 16, 17, 21. Bruto (Marco), 132. Burnet (Gilberto), storico, 123. c Cacault (Francesco), min. di Francia a Genova. 43, 45. Cadice, 60. Calvi (Adamo, negoziante), inviato di Genova a Buonaparte. 76, 77. Calvinismo, 17. Cambiaso (la famiglia), 87. Cambiaso (Carlo), membro del gov. provv. del 1797, 95, Cambiaso (Michelangelo), inviato di Genova a Bonaparte, ‘24, 86, 87, 88, 91, 93, 94, 95, 98, 99, 109, 110, 113, 114, 116, 136. Campoformio (congresso di), 108. Cane va ri (Pier Maria), cav. di Malta (1747), 116. Canning (Giorgio) uomo politico inglese, 24, 142. Canova (Antonio), 91. Capraia (isola), 117. Carbonara (Luigi), uomo politico genovese, 86, 87, 88, 91, 93, 91, 95, 98, 99, 109, 110, 133, 136. Corinzia, 57. Carlo (l’arciduca), gen. austriaco, 55, 57, 93. Carlo II, re d’Inghilterra, 123, 124. Carlo IV, re di Spagna, 42. Carlo V, imperatore, 155. Carlo Emanuele IV, re di Sardegna, 56. Carlo Luigi Federico, granduca di Baden, 172. Carlomagno, 57, 118. Carnio, 57. Carnot (Lazaro) uomo politico francese, 23. Carolina d’Austria, Regina di Napoli, 125, 126. Casale, 156. Càstelforte Massa (la principessa di), 12. Castiglione (battaglia di), 56. Castlereagh (Enrico Roberto Stewart, rnse di Londonderry, visconte), uomo politico inglese, 142, 141, 152, 153, 154, 155, 157, 158, 159, 160, 161, 162, 172, 175, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 190, 191, 195. Cathcaht ("Guglielmo Shaw, conte), diplom. inglese, 157, 172. Caterina II, imp. di Russia, 17, 65. Cattaneo (.......), commissario a Savo- va, 38, 40. Cattaneo (Francesco), inviato di Genova a Bonaparte ,50, 51, 62, 85. Cattaneo Pinelli (Nicolò) 67, 72,82, 84. Celesia (Pietro Paolo), Min. plen. di Genova a Madrid, 31, 42. Cerruti (Marcello), segret. della deputazione di Genova a Bonaparte, 88. Cesare, v. Imperatore del S. R. Impero. Ceca 45. Chatam, v. Pitt William. Cluìtillon-sur-Seine (dichiarazione di), 179. Chaumont (dichiarazione di), 179. Chauvelin (Frane. Bernardo, Mse di) min. di Francia a Londra, 25. Cherasco (armistizio di), 40. ChoiseulStainville (Stefano Giuseppe, duca di), Ministro francese nel 1768, 8, 9. Cicoperi (Rosa), 172. Cisalpina repubblica, 58, 97, 99, 110, 116, 118. Cisalpini, 71. Clancarty (Richard Le Poer Trench, conte), diplom. inglese, 172, 184. — 217 Clarke (Enrico Guglielmo), gen. frane. 58, 91, 138. Clary (Nicola Giuseppe), neg. marsigliese emigrato a Genova, CO, 71. Clary (Giulia), 60, 71. Clichy (club di) 99’ Cobiìnzl (Gio. Filippo contedi), Vice Cancelliere di Stato austriaco, 20. Coburgo (il duca di;, 172 Coburgo (Federico, duca di), generale austriaco, 28. Colbert, (Augusto Maria Frane.conte di) gen. francese, 84. Colli (Michele, barone), gen. austriaco, 45. Collomet (Cristoforo) cap. della tartina francese « N. S. della Guardia », 26. Collowrath (Frane. Antonio, conte), min. austr. 55. Condè (Luigi Gius. Borbone, principe di), com. gli emigrati francesi, 20. Consalvi (Ercole, Card.) min. della S. Sede al Congresso di Vienna, 159, 172. Corinto, 163. Corsari (corsi), 35, 36; (francesi) 36, 43; (liguri) 40. Corsi, 8, 10, 44, 50. Corsi (deputali agli Stati Generali), 10. Corsica 8, 9,10, 11, 35, 50,55.60, 75. Corsixi (D. Neri) min. di Toscana e inv. al Congresso di Vienna, 51, 172. Corvetto (Luigi,avv.), uomo politico, 96, 112, 114, 116, 129, 133, 163. Costantinopoli, 60. Crivelli (la villa a Mombello), 87, 108. Cromwell (Oliviero), 122. Cuneo, 45. Cuneo (........, abate, ex-seolopio) prete rivoluz, genovese, 65 D Dagnino (Frane. Antonio, mercante), sen. rep. 1802 e 1814, 122, 138, 157, 188, 206. Dalberg (Emerico, barone poi duca di), inv. di Francia al Congr. di Vienna, 172, 173, 177, 184. Dal Pozzo (Ferdinando, conte), proc. imp. in (-renova, 147. Dalrymple (sir John Hamilton Mac-gill, \III conte Stair), com. le truppe inglesi in Genova, 152, .170, 173, 187, 188, 189, 190, 195. Dandolo (Vincenzo, chimico) uomo politico veneziano, 59. Danimarca, 37, 123, 172. Danimarca, (ministri di), al congresso di Vieuna v. Bernstorff. Danimarca, (il re), 172. Davout (Luigi Nicola), gen. frane. 132. De Albertis (Domenico), sen. rep. 1814, 136, 137, 138. De Ferrari (Andrea), sen. rep. 1814, 135, 137, 206. Dego, 38, 45. Dejean (Gio. Francesco), inv. straord. di Francia, e pres. della cons. straord. di Governo di Genova, 117, 121. De Lauxay (Gio. Renato), govern. della Bastiglia, 19. De Marini (Domenico) sen. rep. 1814, 122, 138, 206. Devins (.....), gen. austriaco, 39, 40, 41, 45. Diano (comunità e popolazione di), 166, 167. Diderot (Dionigi) enciclop. francese. 18. — 218 — Djdot (......), stampatore a Parigi, 168. Doria Andrea, (il padre della Patria), 73. Doria Lainba (Brancaleone) del Minor Consiglio, 69. Doria (Carlo), 133. Doria Lamba (Cesare), del Min. Cons. e inv. a Bonaparte, 69, 76, 77, 85, 87, 109. Doria (Geronima) v.va Franzoni, 65. Doria (Filippo), rivoltoso, 73. Doria (Orazio), del Min. Cons., Go-vern. di Savona, 38, 10, 41. Dorset (......duca di), Min. d’Inghilterra a Parigi, 16. Drake (sir Francis), inv.straord. d’Inghilterra a Genova, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 62. Dresda, 128, 132. Drouet (Gin. Battista), convenzionale francese, 19. Du Merbion ( Pietro Jadar) gen. frane., 38, 39. Dumouriez (Carlo Francesco) gen. frane., 20, 21, 28. Dupin (Carlo) pubblicista francese, 207. Dupuy (.....) ufi’, francese, 40. Durazzo (Gian Luca), 62, 68, 69, 133. Durazzo (Girolamo) Doge rep. 1802, 69, 76, 77, 85, 87, 109, 113, 114, 122, J 23. Durazzo (Ippolito) sen. rep. 1814, 135, 137, J 38, 188, 206. Durazzo (Marcello) Doge (1767-69),9. Durazzo (Marcello q. Giac. Filippo), 138. E Ebe, 91. Efeso, 58. Egitto, 128. Eighel (.....) uff. di gendarm. francese, 128. Eijsabetta di Francia (sorella di Luigi XVI), 39. Eùvezio (Claudio Adriano) enciclop. francese, 18. Emigrati francesi, 16, 19, 60, 130. Enrico IV, re di Francia, 17. Epaminonda, 98. Estrades (Goffredo, conte d’) diplom. francese, (1682) 136. Etruria (la regina d') v. Maria Luisa, infanta di Spagna. Europa, 23, 36, 39, 65, 79, 98, 120, 123, 127, 138, 140, 141, 143, 164, 165, 176, 187, 189, 202. F Faenza, 47. Famars (battaglia di), 28. Faypoult de Maisonceli.e (Guglielmo Carlo) min. di Francia a Genova, 45,48, 49, 51, 52, 53, 56, 59, 61, 62, 63, 64, 65, 68, 69, 70, 71, 73, 74, 75, 76, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84,85, 86, 87, 89, 91, 92, 93, 95, 99, 109, 111. Faypoult (.....) moglie del precedente, 48, 60, 70. Federico I[, re di Prussia 16, 17. Federici (Marco) rivoluz. genovese e vice-console di Francia alla Spezia, 59. Federici (Robespierre), 59. Federico Guglielmo II, re di Prussia, 17. Ferdinando IV, re di Napoli, 107, 125, 157. Ferrara, 47. Ferrarese, 107. Ferreri (Onorato) d’Alassio, 133. Feudi Imperiali, 43, 48, 56, 92, 97, 99, 102, 110. Fiandre, 28. - 219 — Fiesco (Agostino) sen. rep. 1814, 136, 137, 20G. Finale (Marchesato e comunità di) 12, 14. 38, 124, 1G6. Fiorentina Repubblica, 151. Firenze, 86, 178, 190. 1< lassan (Gaetano de Raxis, conte di) diplom. e storico frane. 4, 9. Fontainebleau, 144. Fox (Carlo) uomo politico inglese, 25, 125. Francesco, II, imp. d’Austria, 16, 156, 161, 174, 178. Francesi, 7, 14, 15, 16, 20, 21, 22, 28, 29, 32, 35, 38, 40, 41, 45, 46, 50, 51, 52, 53, 54, 56, 70, 73, 75, 76, 77, 78, 80, 81, 82, 83, 89, 90, 91,97, 101, 108, 109, 110,124, 127, 129, 130, 131, 134, 149, 165, 170, 180. l'ranchi Muratori (società segreta dei), 16. Francia, 8, 9, 10, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 20, 21, 23, 24,25,26,27, 28, 30, 35, 37, 38, 39, 41, 42, 43, 44, 48, 52, 53, 55, 56, 57, 59, 60, 63, 65, 76, 77, 79, 86, 87, 89, 90, 95, 98, 102, 108, 109, 112, 113, 116, 117, 118, 120, 121, 123, 127, 128, 129, 131, 132, 133, 137, 145, 157, 159, 160, 162, 172, 180, 184, 196. Francia, Re di, 21, 22, 165; Stati Generali 18; Assemblea Nazionale 19, 20, 21 ; Assemblea Costituente 12, 20; Assemblea Legislativa 20, 23; Consiglio Esecutivo 21,23; Convenzione 10, 20, 23, 25, 27, 28, 29, 32, 33, 37, 39, 42, 103 ; Comitato di Salute Pubblica 23, 39,43; Di. rettorio, 42, 43, 44, 46, 47, 51, 52, 55, 56, 57, 58, 62, 75, 76, 83, 84, 92, 99, 103, 107, 119; Consiglio dei 500, 99; Consiglio degli Anziani 99; Repubblica, 75, 76, 77 78, 80,81,83, 89, 92, 93 , 96, 97, 99, 100, 101, 102, 108, 114; Consolato, 118; Impero, 3, 123, 124, 167, 179, 201; ministro delle Finanze di Francia, 167 ; Governo Provvisorio, 145; Regno, 145. Francia, Esercito d’Italia, v. Ital-a; di Sambra e Mosa, v. Sambra; del Reno, v. Reno. Francia, Ministro di, a Genova, v. Helleville, Cacault, Faypoult, Na-illac, Saliceti, Semonville, Tilly, Villars; a Londra v. Chauvelin; a Napoli, v. Cacault; a Vienna, v. Noa-illes; al Congresso di Vienna v. Tal-leyrand, Noailles A., la Tour du Pin, Dalberg. Francia, Rappresentante del Governo di, in Genova 167. Francia, Console di Francia in Genova, v. La Chaise; vice Console a La Spezia, v Federici Marco. Fraschetta (di Novi) 48. Fravega (Giuseppe) sen. rep. 1814, 118, 119,120, 136, 137, 138. Fresia (Maurizio, di Ogliano, barone) gen. frane. 128, 129, 131. Friuli, 57. Gr Gagehn (Gio. Cristoforo Ernesto, barone) diplom. olandese 172. Gallo (Marzio Mastrilli, mse. del) diplom. napoletano. 57, 91, 108. Gandolfo (Giuseppe) sen. rep. 1814, 136, 137, 138, 147. Gavi (la fortezza di), 24, 46. « Gazzetta di Francia » (la), 162. « Gazzetta di Genova » (la), 163. Genova, 8, 9, 10, 12, 13, 14, 17, 20, 22,24, 25,26, 27, 28, 30, 81, 32, 34, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 58, 59, 61, 62, 68, 73, 75, 76, 77, 78, 80, 81, 82, 83, 84, 86, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 96, 97, 99, 100, 101, 102, 108, 109, 110, 114, 116, 1L7, 118, 119, 122, 123, 127, 128, 129, 131, 133, 134, 136, 138, 140, 141, 145, 147, 148, 151, 152, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 162, 164, 165, 167, 168. 169, 170, 173, 174, 175, 177, 178, 179, 180, 182, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 196, 197, 198, 199, 200, 201, 203, 205. Genova, (avvenimenti e storia), 1, 3, 105, 307. Genoca, Leggi del 1576, 7, 13, 14, 134, 149, 150, 151, 152, 156, 174; Costituzione del 1797, 7, 134, 137; Camera 11; Collegi Serenissimi 7, 24, 29, 35, 46, 50, 66, 68, 69, 75, 76, 84, 85, 93, 94; Consigli: Maggiore, 7, 54, 56, 62, 86, 89; Minore 7, 8? 9, 24, 29, 35, 37, 54, 56, 62, 85, 89, 93, 94, 96; Doge 7, 8, 24, 63, 68, 70, 71, 72, 75, 76, 77, 94, 96, 97, 109, 121, 138 ; Inquisitori di Stato, 59, 63, 169; Ruota Criminale, 74; Senato e Senatori, 7, 4*, 62, 68, 70, 76, 82, 83, 84, 85, 89, 94, 109; Sindicatori Supremi, 8, 9; Governo Provvisorio del 1797, 95, 97, 100, 101, 102, 111, 136; Consigli, 100, 109, 110; Commisione di Governo, 101, Doge 100, 101, 111, 112; Senato 100, 109, 112; Costituzione del 1798, 111; Direttorio 112, 113, 114, 133; Commissione di Governo noni in. dal gen. Saint-Cyr, 113, 114; Commissione di Governo nomili, dal gen. Massena, 113,114; Ecc.ma Reggenza Imperiale di Governo, liti, 137; Comm. straor. di Governo (Napoleonica) 117, 120, 136, 137; Consulta di detta 117; Repubblica del 1802, 121; Doge 121, 122; Senato 121, 122, 123, 136, 137, 138; Dipartimento di Genova, 129, 138; Prefetto di Genova v. Bourdon de Vatry; Maire di Genova v. Pareto e Spinola Vincenzo; Consiglio dipartimentale, 1 <>7; Governo Provvisorio e Rep. del 1814,3, 125, 135, 136, 139. 145, 140, 157, 173, 175, 176. 178, 179, 181, 186, 188, 195, 205; Collegi (i due) 135, 139, 1 14, 145, 166, 171, 176, 181, 182, 185; Consigli: Maggiore. 134, 135, 158; Minore, 134, 135, 158; Governatori, 139, 140, 205; Presidente v. Serra Girolamo; Procuratori, 139, 140, 145, 205; Senatori, 4, 136, 137, 138, 139, 145, 147, 149, 151, 157, 158, 168, 169, 179, 181, 183, 188, 190, 206; Libro d’oro della Nobiltà, 12, 13, 149, 150. Genoca, Accademia 180, 200; Banco diSan Giorgio 11, 12, 100, 113, 136, 166, 171, 179, 201; Casacce, 148; Conservatorio delle Figlie del Rifugio (Brignoline) 115; Istituto dei Sordo-Muti 180,200; Lazzaretti 180; Liceo 180, 200; Opere Pie, 11 ; Ospedali 115, 130; Portofranco 15, 60, 85, 100, 133, 146, 180, 185, 197; Università 180, 200. Genoca, Acquaverde 129; Arsenale 130; Banchi 29, 60, 64, 65, 68, 69, 71; Carignano 29, 52; Cava 115; Darsena 29, 64 ,68, 71, 130: Duomo (piazza del) 69; Lanterna 29, 52, 65, 74,75, 115; Malapaga (carceri) 68; .Molo (porta del) 63, Molo (quar- —^_ — — 221 tiere de!) 72, 85; Molo Nuovo ‘26; Molo Vecchio 29,52, 64, 73; Mura-ghette 64, 71; Nuova (Piazza) ‘29, 67, 69; Nuova (Via) 130; Nuovissima (Via) 63; Oregina ‘24, 187; Pammattone H, 67; Pila (porta) 65; Ponte della Legna 67; Ponte Reale 53, 60, 64, 65, 71, 108; Ponte degli Spinola 67; Porto 24, ‘29, 30, 47; Portoria 67; Pré ‘24; Riche-lieu (forte) 128; Santa Caterina (salita) 87; San Lazzaro (sobborgo) 75; San Siro (Piazza) 63; San Tommaso (porta) 63, 64; Scurreria 64, 68; Sottoriva 64; Teatro di Sant’A-gostino 63; Statua di Napoleone 129. Genova, Alberi della libertà, 117. Genova, Milizie 196; Artiglieri 115; Granatieri 66, 70; Guardia del Doge 128; Guardia Svizzera 66; Corpi volontari (del 1797) 30. 36, 64, 94; « Cacciatori » 36; «Cadetti » ,64,108; « Merciai » 53; Guardia Nazionale 116; Presidio francese 128; Gendarmeria francese 128; Gendarmeria Ligure 169. Genova, Chiese: Metropolitana 129; d'Oregina 187; Sant’Ambrogio 74; Palazzi: Brignole o Rosso 173, Du-razzo 138; Reale o Ducale 27, 29, 43, 63, 64, 66, 67, 68, 69, 70, 72, 74, 80, 86, 131, 138, 141, 169, 183, 206; Serra (a Pré) 68, 183, Giustiniani (villa in Albaro) 76. Genova, Ministri presso le corti estere 4; a Amiens v. Serra Gio. Carlo; a Basilea v. Assereto Giuseppe; a Londra v. Spinola Cristoforo; a Madrid v. Celesia Pietro Paolo; a Parigi v. Spinola Cristoforo, Mas-succone, Boccardo; Spinola Vincenzo, Serra Gio. Carlo, Fravega, Pa- reto; a Pietroburgo v. Rivarola; a Torino v. Assereto, Gius. Bonelli I ranco; a Vienna v. Balbi Costantino; al Congresso di Vienna v. Brignole Sale Antonio. Genovesato, 8, 11, 24, 27,29, 33, 40, 49, 73,84, 103, 110, 124, 155, 157, 158, 163, 176, 177, 180, 181, 184. Genovese popolo, 1, 78, 79, 114, 139, 182, 189. Genovesi, 9, 10, 25, ‘26, 31, 32, 34, 35, 37, 43, 44, 53, 73, 79, 80, 81, 98, 99, 102, 109, 124, 130, 132, 142, 144, 152, 156, 162, 163, 174, 175, 176, 177, 183, 184, 188, 189, 190, 191, 196, 202, 206. Germania, 8, 15, 16, 25, 41, 55, 56, 57, 123, 131. Germania, (l’imperatore di) v. Imperatore del S. R. Impero. Gesuiti, 8, ]8. Gesuiti spagnuoli, 8. Gherardini (.....) aiin. d’Austria a Torino, 28. Giacobini, 21, 23, 34, 61,109. Gianello (Giacinto) segretario di Stato di Genova, 80. Giansenisti, 18. Giorgio II, re d’inghilterra, 124. Giorgio III, re d’inghilterra, 207. Giornali francesi, 59, 65, 85, 133; Genovesi 163; Milanesi 59, 62; v. anche « Monitore », « Gazzetta di Francia », « Gazzetta di Genova », « Morniug Chronicle » Girola (.....conte) min. d’Austria a Genova. 24, 48, 49. Gihola(.....) moglie del precedente 49. Giulio II (Giuliano della Rovere, papa) 173. Giuseppe II, imperatore, 8,10, 13, 15, 16. Giustiniani ( Agostino) vescovo di Nebbie, 164:. Giusttniani (villa in Albaro) v. Genova Villa Giustiniani. Godoy (D. Emanuele) 42, 55, 79. Gouvion Saint-Cyr, (Luigi) gen. francese, 113. Gran Brettagna 25, 31, 54, 124, 127, 160, 206; v. anche Inghilterra. Grant (Catherine Noel, madame) v. Worlee. Granet (.....) commissario di guerra inglese, 130. Gréooire(Enrico) vescovodi Blois, 65. Grenville (William Wyndam, lord) uomo politico inglese, 32, 161. Grillo Cattaneo (Domenico), 173. Grillo Cattaneo (Nicolò) deputato a Drake, 11, 28, 30, 31. Grimaldi (Franco) inquisitore di Stato, 28, 30, 31, 72, 82, 84. Grimani (.....) min. di Venezia a Vienna 59. Guglielmo I., elettore di Assia-Cas-sel, 172. H Hamilton (sir William) sottosegret. aff. esteri d’Inghilterra 145, 159, 160, 162. Hardenberg (Carlo Augusto, principe di), cancelliere di Russia 172. Hauterive (Aless. Maurizio Blanc de la Nautte, conte di) diplom. frane. 120, 162. Hoche (Lazzaro) gen. frane. 57, 58. Hohenzollern - Hechingen (....) com. austriaco in Genova, 116. Holland (Enrico Riccardo Wassall Fox, III lord) 160, 161, 187. Holland (lady) v. Vassall Elisabeth. Honstett (.....) geuer. inglese, 169. Hood (Samuele, visconte) amm. in glese, 26, 28, 31, 32, 33, 35. Hotham (.....) amm. inglese 39, 40. Humboldt (Guglielmo, barone di) min. di Russia al Congr. di Vienna, 172. I Illuminati (gli) società segreta, 16. « Imbroglio » (nave), 32. Imperatore (1’) del S. R. Impero, 8, 9, 13, 15, 20, 108. Imperiali (l’esercito degli), 98. Impero napoleonico (T) v. Francia Impero. Impero (il) Sacro Romano Impero, 8, 14, 17, 54, 79, 102. • Indie orientali, 125. Inghilterra, 10, 16, 18, 25, 30, 31, 33, 34, 36, 40, 41, 55, 79, 118, 123, 124, 126, 130, 131, 140, 143, 152, 154, 155, 158, 159, 162, 172, 176, 184, 187, 188, 190, 196, 207. Inghilterra (il principe reggente d’) 145, 159, 188, 190, 195. Inghilterra (il re d’) 27, 33, 140, 207; v. anche Giorgio II e Giorgio III. Inghilterra, Ministri a Basilea, v. Wi-ckam; a Genova, v. Drake; a Madrid, v. Saint Helen; a Parigi v. Dorset, Malmesbury; al Congresso di Vienna, v. Castlereagh, Cat-chart, Clancarty, Stewart. Inghilterra (console di), in Genova v. Brame Gius. Inghilterra (alto commissario a Tolone) 32. Inglesi o Britanni, 10, 11, 14, 27, 35, 41, 42,50, 52, 53, 54, 60, 124, 126, 127, 130, 137, 148, 153, 165, 189. Irlanda, 55, 184. Italia, 1, 12, 14, 17, 24, 25, 28, 31, — 223 — 38, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 52, 55, 57, 58, 59, 96, 98, 99,112, 126, 127, 132, 133, 148, 154, 156, 1G0, 163, 164, 188, 190, 201. Italia (esercito francese d’) 45, 48, 57, 77, 82, 99, 107. Italiani, 126, 127, 170. J Joubert (Bartolomeo) gen. frane. 110. Jourdan (Gio. Battista) gen. frane. 55, 57. Judenburg (armistizio di) 57. K Kaunitz (Wenzel Antonio, conte) uomo politico austriaco 17. Keith (Giorgio Elphinstone, lord) amm. inglese 115. Kellermann (Frane. Cristoforo) gen. frane. 39, 40. I; La Chaise (.....) console di Francia in Genova, 75, 80. La Croix de Constant (Carlo di) min. esteri di Francia, 52. La Fayette (Paolo Maria Motier, Mse. di) uomo politico francese, 28. La Flotta (.....) uff. frane, nella guerra del 1747, 116. La Haupe (Fed. Cesare) col. svizzero, 134. La Revéillère Lépeaux (Luigi Maria) uomo politico frane. 52. La Sai,le (.....) 18. La Spezia (città e Golfo de) 13; 28, 36, 37,40, 52, 58, 59, 79,127,138, 157. - Maralunga (batteria) 36; San Bartolomeo (punta di) 3, 160, 161, 162, 172, 175, 178,182,188, 206. Pareto (Rosa) moglie dei precedènte, v. Cicoperi Rosa, Parigi, 16, 19, 21, 22, 23, 24, 30, 32, 33, 38, 44, 45, 46, 48, 51, 55, 58, 61, 66, 70, 79, 92, 99, 102, 103, 107, 120, 132, 136, 137, 144, 145, 147, 152, 154, 156, 157, 158, 159, 161, 162, 167, 173, 178, 179. Parigi Bastiglia, 19; Carrousel (piazza) 21; Lucemburgo (palazzo) 43; Sant’Antonio (sobborgo) 22; San Germano (sobborgo) 44, 154; Saint-Honorè (strada) 156; Tempio (prigione) 23; Tuillerie (palazzo) 21, 22, 23, 131. Parigi (trattato di), 157,162, 171, 175, 179, 184, L95. \ — 227 Parma, 42, 176, 184. Parma (il duca di), 47, 97, 107. Parma, (la duchessa di), 164. 1 arma (Maria Luisa duchessa di, già regina d’Etruria) 175. Parma, inv. presso Bonaparte, v. Politi. Parodi (comune di) 79. Partenopeo (Giuseppe) uff. d’artigl. genovese, 115. Pascal (Biagio) scrittore francese, 18. Pellew (Edoardo) contrarrmi, inglese, 124, 126, 130. Perazzo (Benedetto, avv.) giureconsulto genov. 147. Permon Saint Martin (Laura) duchessa d’Abrantès, scrittrice francese. 84. Peroni ( . . ) medico, 115. Persiani, 45. Peschiera (fortezza di), 47. Petracchi (Angelo) esule romano, 114. Piacenza, 47, 178, 184. Pico (Carlo) di Savona sen. rep. 1814, 138, 206. Pico (Francesco) 188 (1). Piemonte, 13, 14, 15, 24, 30, 34, 38, 43, 45, 46, 47, 48, 53, 57, 58, 61, 79, 110, 123, 144, 153, 155, 156, 158, 167, 175, 177, 187. Piemontesi, 14, 15, 35, 41, 45, 98. Piemontesi (emigrati in Russia), 178. Pieri (Anna, Msa. Brignole) dama deU’imp. Maria Luisa, 173, 174. Pietroburgo, 173, 178. Pieve di Cosio (consoli della), 78. Pinelli (Agostino) sen. rep. 1768, 9. Pinelli Cattaueo (Nicolò) v. Cattaneo Pinelli Nicolò Pinelli (Paris) cav. di Malta (1747), 116. (1) Probabilmente lo stesso ohe il precedente. 15® Pio VI (Gio. Angelo Braschi, papa) 47, 107. Pitt (William, Lord Chatam) uomo politico inglese, 119. Pitt (William), figlio del precedente, 25, 124, 142. Po (fiume), 35, 45, 47. — Polacchi 55, 154. Polcevera (Vallata della) 24, 73, 137. Politi (.....) inv. di Parma presso Bonaparte, 108. Polonia, 16. Pompadour (Giovanna Antonietta Poisson, msa. di) 18. Popilio, 78. Pornassio (distretto e passo) 14, 27. Portland (il duca di) v. Bentinck Gio. Guglielmo. Portland (casa ducale di) v. Bentinck famiglia. Portland (partito politico inglese) 142. Portogallo, 55, 102, 127, 172. Portogallo ministri di, al Congres, di Vienna v. Lobo da Sylveira, Palmella e Saldanha. Portoghesi, 1Ò. Portomaurizio, 35. Poussielgue (Gio. Batta, Stefano) se-gret. di Faypoult, 87. Pozzo di Borgo (Carlo Andrea) uomo politico, russo, 132. Preisberg (.....barone) ten. col. tedesco al serv. di Genova 66, 67. Provenza, 51. Provenza (il conte di) 16; v. anche Luigi XVIII. Prussia, 16, 25, 41, 55, 123, 162, 172, 196. Prussia (il re di) 132, 159, 172, v. Federico Guglielmo II. Prussia ministro di, al Congresso di Vienna: v. Hardenberg e Humboldt. Prussiani, 21. Q Quartara (Giovanni, banchiere) sen. rep. 1814, 136, 137, 188, 206. Querini (Alvise) min. di Venezia a Parigi, 51. R Raggio (Gio. Antonio) (1) commiss, a Sarzana (1814), 167. Ramolino (Letizia) 84, 87, 88. Rapallo (il comune di), 79. Rasori (Giovanni) medico, 114. Razoumoffsky (Andrea Cirillowitch), min. di Russia al congres, di Vienna, 171. Raus (forte di), 34. Recco (il comune di), 79. Reggenza (di Francia, 1715-23), 18. Rechberg Rothenlòwen (Luigi, conte di) min. del Wurtemberg al congres, di Vienna, 172. Reno (fiume di Germania), 20, 57, 79, 131. Reno (esercito francese, detto del), 57. Revello (...) commiss, del re di Sardegna presso Faypoult 45. Ricolfi (Alessandro) (2) monaco, detto il Bernardone, rivol. gen., 65. Ricolfi (Geronima) v. Doria Geronima, vedova Franzoni. Ricord (Gio. Francesco) rappres. del popolo francese all’esercito d’Italia, 37, 38. Rivarola (Stefano) uomo politico genov. min. a Pietroburgo 40, 41, 133, 173. Riviera occidentale o di Ponente, 8,10, 13, 14, 20, 29, 33, 34, 41, 51, 58, 79, 90, 97, 110, 119, 133, 176. (1) O Raggi. (2) Cosi il Gaggero: Compendio ecc. p. 140; invece lo Staglieno: Dell’Abuso dei titoli ecc. p. 14, ha Gio. Battista: Riviera orientale o di Levante, 10, 13, 14, 33, 127, 133, 176. Rivière de Gènes, 162. Rivoli (battaglia), 57. Robespierre (Agostino) rappres. del popolo francese all’esercito d’Italia, 27. Robespierre (Massimiliano) uomo politico francese, 23, 39, 59. Roma, 10, 50, 56, 88, 102, 144, 151, 163. Romagna, 108. Rosa-croci (soc. segreta), 16. Ross (....) comand. sardo a Tolone, 32. Rossi (Gioachino Aless. conte) min. di Sardegna al Congresso di Vienna, 187. Rossi (Giovanni Battista, negoz.) membro gov. provv. 1797, 95. Rousseau (Gian Giacomo) scrittore e filosofo francese, 18. Rowley (......) contramm. inglese, 126. Russi, 55, 154. Russia, 16, 17, 25, 40, 55, 79, 124, 162, 171, 172, 178, 196. Russia (l’imperatore di), 155, 159, 163, v. anche Paolo I e Alessandro I. Russia ministri al Congresso di Vienna v. Razoumoffsky, Stackelberg e Nesselrode. Ruzza (Frane. Maria) segret. di stato della Rep. di Genova, 84, 85, 91. S Saettoni (Jacopo, negoz.) dep. di Genova a Bonaparte, 116. Saint Helen (..................) min. d’Inghilterra a Madrid, 31. Saint-Cyr, v. Gouvion Saint-Cyr. Saint Julien (conte di) gen. austr. 116. ————I — 229 — Saldanha da Qama (Antonio de) min. Portogallo al congres, di Vienna, 172. Saliceti (Cristoforo) min. di Francia a Genova, 50, 51, 52, 60, 120, 121, 122, 123, 137, 138. Salvandy (Narciso, Achille), scritt. frane., 45. Sambra e Mosa (esercito francese, detto di), 57. San Ildefomo (trattato di). 55. San Marino (la Repubblica di), 164. San Marzano (Carlo Emanuele Asi-nari di), 187. San Marzano (Filippo Antonio Maria Asinari mse di) min. di Sardegna al Congresso di Vienna, 108, 172, 183, 184, 185, 187. San Pier d’Arena 52, 80, 91. San Remo, 13, 14, 34, 37; la Comunità di, 8,166; la fortezza di, 46, gli Anziani di, 78; il Governatore, 34. Santa Sede, 50, 172, 181. Santa Sede, ministro presso Bonaparte v. Massimi; al Congresso di Vienna v. Consalvi. Saorgio, 24, 34, 35. Saragozza, 128. Sardegna (isola), 15, 128. Sardegna (regno di), 25, 30, 51, 54, 121, 159, 162, 172, 184, 195; v. anche Piemonte. Sardegna (il re di) 17, 20, 28, 24, 25, 27, 38, 58, 90, 97, 108, 124, 128, 160, 163, 164,177, 178, 182, 183, 185, 187, 189, 195, 196, 197, 198, 199, 200, 201, 202, 203, 205, v. anche Vittorio Amedeo III, Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I. Sardegna ministro di, a Genova v. Nomis di Cossilla; a Parigi, Balbo; a Pietroburgo, de Maistre; al Congresso di Vienna, San Marzano, Rossi. Sardi, 8, 23, 24, 32. Sardo (governo) 14, 15, 21, 110, 162, 167. Sarzana (comunità e popolazione di) 166, 167. Sassonia, 41, 172. Sassonia Gota, (principi di) v. Brunswick Ferd. e Neuwied. Sassonia Weimar, 172. Saupet (......) gen. francese, .. 62 (1)' Savary (Gio. Maria), generale e ministro francese. Savoia, 17, 23, 29, 39, 45, 108, 160, 162, 199. Savoia (Casa), 184. Savona, 13, 38, 40, 163, 167; Santuario di N. S. 45/ la fortezza di, 24, 38, 40, 46; San Giacomo 40. Scherer (Bartolomeo), gen. frane. 41, 44. Schoell (Federico) storico. 4, 124, 156, 185. Schoenbrunn, 174. Schreiber (Ippolito) col. com. la guardia svizzera della Rep. di Genova, 66. Schulemburg (Fed. Alberto, conte di) min. di Sassonia al Congr. di Vienna, 172. Schwarzenberg (Carlo Filippo, Principe) maresciallo austriaco, 131,132. Scrivia (fiume) 97, 99, 110. Seignelay (Gio. Battista Colbert. mse). min. francese (1682), 79. Semonville (Carlo Luigi Huguet, mse. di) min. di Francia a Genova, 17, 20, 21. Senna (fiume), 179. Senofonte, 98. Serbelloni, v. Milano, palazzo Serbel-loni. (1) Suchet (?). — 230 Serra (Francesco, dei principi di Gerace), 123. Serra (Giacomo) sen. 1768 e 1797, 4, 9, 63, 84. Serra (Gio. Battista) sen. 1797 e 1814, 69, 133. Serra (Gio. Carlo, detto il duca d’Or-lèans) uomo politico genovese, 95, 111, 118, 119, 120, 136. Serra (Girolamo) uomo politico e storico genovese, 4, 11, 22, 23, 29, 30, 31, 36, 37, 40, 51, 60, 61, 63, 66, 67, 69, 70, 72, 74, 81,85,86, 87, 88, 91, 92, 93, 95, 96,97,98, 99, 105, 107, 109, HO, 114, 115, 116, 120, 121, 122, 130, 135, 136, 137, 138, 141, 144, 145, 149, 150, 151, 152, 153, 156, 157, 158, 161, 165, 167, 169, 170, 173, 174, 176, 177, 181, 182, 183, 185, 187, 188, 189, 190, 203, 206, 207. Serrurier (Matteo Filiberto) generale francese, 62. Sestri (comune di), 79. Sicilia 10, 124, 125, 126, 127, 152, 157, 164, 170, 188. Sicilia (il re di) v. Ferdinando IV, re di Napoli. Siciliani, 126. Siéyès (Emanuele Giuseppe) uomo politico francese, 65. SlLLA, 83. Siria, 78. Sisto IY (Francesco della Rovere, papa), 173. Sivori (Francesco, cav.) com. spedizione sarda contro Tripoli, 191. Società segrete, 15, 16. Solari (Gottardo) senat. 1802, 120, 122. Solari (Luca) sen. gov. provv. 1814, 136, 137, 188, 206. Spaen de Voorstonden (Gerardo Car- lo, barone di) min- dei Paesi Bassi al Congres, di Vienna, 172. Spagna, 8, 25, 31, 34, 41, 55, 79, 97, 102, 127, 128, 172, 175, 176, 184. Spagna (il redi) v. Carlo IV. Spagna, ministro di, alla conf. di Basilea v. Yriarte; a Roma, v. Azara; al Congresso di Vienna v. Labrador. Spagmiolì, 10, 33. Sparta, 163. Spencer (....) gen. inglese 169. Spina (Giuseppe, card.) arcivescovo di Genova, 139. Spinola ( . . ) dei duchi di Levis, 138. Spinola (Agostino) signore di Arqua-ta 48, 92. Spinola (Cristoforo) min. di Genova a Parigi e poi a Londra, 22, 30 32, 33. Spinola (Domenico) comand. a Savona 38, 40. Spinola (Frane. Maria) inquis, di Stato, 82, 84. Spinola (Giuseppe) del corpo degli Artiglieri, 115. Spinola (Jacopo) govern. di Savona (1814), 167. Spinola (Vincenzo) min. di Gpnova a Parigi, 34,37, 51, 52,54,122,129. Stackelberg (Gustavo) min. di Russia al congresso a Vienna, 172. Stael Holstein (Germana Necker, baronessa) scrittrice francese, 154. Staglieno (Marcello) consigliere di Stato (1830), 36. Staglieno (Carlo Fabrizio) com. il forte di Santa Maria (Spezia), 36. Starhemberg (Luigi, principe) min. d’Austria a Londra, 154. Stein ( . . barone) com. austriaco in Lombardia. 31. — 231 Stewart (Carlo, lord), min. di Inghilterra al Congresso di Vienna, 172. Stiria, 57. Svezia, 37, 172. Svezia, ministro di Svezia al Congresso a Vienna v. Lòwenhielm. Svizzera, 103, 164. Svizzeri, 34, 102. Svizzeri al servizio di Francia, 23; di Genova, v. Genova, Guardia Svizzera. T Tacito, 166. Talleyrand-Périgord (Carlo Maurizio) vescovo di Autun e poi principe di Benevento, uomo politico francese, 25, 65, 119, 120, 144, 161, 172, 173, 184. Talleyrand (Mad.di) v. Worlee Ca-thèrine Noel. Tanaro, 35. Iasoher de la Pagerie (Giuseppina) 42, 60, 61, 76, 86, 91. Tavaeoni (Lazzaro) pitt. Genovese, 65. Tebe, 163. Tedeschi, 40, 41, 66. Tenda (il colle di) 14, 35. Tenda (Beatrice, Contessa di) 14. Teodofì (società segreta), (1) 16. ImÈBAULT (Paolo) gener. frane. 114. Thugut (Gio. Francesco, barone) primo min. austriaco, 31, 34, 55, 59. Tilly (Giovanni, mse.) ministro di Francia a Genova, 26, 27, 29, 30, 31, 39. Tirolo, 123. Tolentino, 107. Tolone, 28, 29, 32, 33, 37, 44, 62, 75, 130; Lamalgue (forte) 33. Tolonesi, 33. (1) Probabilmente Teosofi. Tonso (... cav.) comm. del re di Sardegna presso Faypoult, 45. Torcy (Gio. Battista Colbert, mse. di) ministro degli esteri francese, (1682) 136. Torino, 17, 24, 28, 31, 42, 43, 45, 56, 102, HO, 117, 187, 199, 200; la cittadella di, 45, 108. Tortona, 45, 75, 77, 87, 89, 108. Torys (partito politico inglese) 124. Toscana, 15, 51, 123, 124, 158, 172, 177, 184, 190. Toscana (il Granduca) 41, 107, 164. Toscana, ministro di, a Parigi e al Congresso di Vienna v. Corsini, Toscani, 176. Trebbia (fiume) 97, 99. Trieste, 60. Triumvirato, 83. Tripoli d’Affrica, 191. Truguet (Lorenzo Gio. Francesco) amm. francese, 24, 26. Turchia, 16. V Vado, 38, 40, 52. Valenciennes, 28, 38. Valenza, 45. Vandamme (Dom. Gius, conte di Une-bourg) gen. fran. 132. Vandea, 32. Varennes, 19. Varsavia, (ducato di), 123. Vassall (Elisabetta) lady Holland, 160. Vassallo (G.........) incisore, 170. Veneta terraferma, 58. Venezia Rep. e città di, 51, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 102, 107, 110, 157, 164, 165. Venezia ministro a Parigi v. Querini, a Vienna v. Grimani. Veneziani, 34, 47, 57, 76. — 232 — Ventimiglia, 34, 78; il castello di, 46. Verona, 47. Versailles, 19. Vienna, 17, ‘20, 31, 32, 57, 59, 93, 107, 153, 156, 158, 159, 162, 165, 172, 173, 174, 175, 178, 179, 182, 183, 196, ‘201. Vienna (Congresso di) 4, 150, 152, 156, 157, 159, 160, 162, 165, 171, 173, 175, 176, 178, 181, 182, 183, 184, 186, 188, 189, 195, 202, 205. Vienna (Trattato di) 184, 196. Villars (Gio. Batta Doroteo) min. di Francia a Genova, 39, 43. Villetard, (Edmondo Giuseppe) diplom. frane, a Venezia, 58. Virtemberga o Wurtemberg, 172. Virtemberga o Wurtemberg (il re di) 172. Vittorio Amedeo III re di Sardegna, 17, 20, 45, 56. Voltaire (Frane. Maria Arouet detto) scrittore e filosofo francese, 18. Vormazia v. Worms. W Wallis (Oliviero, conte) gen. austriaco, 39, 41. Wellesley (sir Enrico Colley, m.se di) uomo politico inglese, 124, 142. Wellington (sir Arturo Colley, duca di) gen. inglese, 124, 131, 154. Wessenberg - Ampfingen (Giovanni, barone) min. d’Austria al congres, di Vienna, 171. Whighs (partito politico inglese), 124, 125, 142. Whitbread (Samuele) dep. inglese, 160, 162, 182. Wickam (William) inviato inglese a Basilea, 55. Wilson (Roberto), inglese salvatore di La Valette, 83. Wiltzek (..........conte) plenip. austriaco in Lombardia, 31. Wintingerode (Luigi, conte di) ministro di Wurtemberg al congres, di Vienna, 172. Worlee (Catherine-Noel, poi Grand, poi Tallejrrand), 161. Worms, 14, 124, 163. Wrede (Carlo Filippo, principe di) min. di Baviera al congres, di Vienna, 172. Wurmser (Dagoberto Sigismondo conte di) gen. austriaco, 56, 57,132. Wurtemberg v. Virtemberga. Y Yriarte (D. Domingo) min. di Spagna alle conferenze di Basilea, 42. INDICE GENERALE Pag. Prefazione di Pietro Nurra....... . ix GIROLAMO SERRA. MEMORIE PER LA STORIA DI GENOVA DAGLI ULTIMI ANNI DEL SECOLO XVIII ALLA FINE DELL’ANNO 1814 Introduzione............3 Parte prima - Contenente alcuni fatti anteriori alla convenzione di Montebello nel 1797.........5 Parte seconda - Storia di Genova nell’anno 1814 .... 105 Documenti ......... . . . 193 Proclama ............205 Annotazione.......... . . 207 Indice alfabetico compilato da Giuseppe Sopranis . 209