ATTI DFILA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME XXIII GENOVA tipografia del r. istituto sordo-muti MDCCCXC GIACOMO BRACELLI L’UMANESIMO DEI LIGURI AL SUO TEMPO pel socio CARLO BRA.GGIO ono ormai quattro anni, che pubblicando nel Giornale Ligustico una monografia sur Antonio Ivani, letterato sarzanese del secolo xv, io promettevo uno studio più ampio sull’ umanesimo dei liguri, di cui quella pubblicazione voleva essere solo un saggio. Ahimè, io non dubitavo allora di prometter troppo : poi sopravvennero altre occupazioni che mi impedirono di darvi pronto effetto, e poi anche questa modesta provincia fu invasa da altri valenti che coi loro lavori mi fecero meno curante e sollecito del mio. La monografia, ch’ora presento qui, tratterà dunque di un solo periodo che dai primi anni del quattrocento non va oltre il ’6o, tentando di raggruppare intorno a Giacomo Bracelli, storico e cancelliere della genovese Repubblica, il movimento erudito che in lui parve accentrarsi durante quegli anni travagliati, dentro dello Stato da tumulti, fuori da guerre, — 8 — col presentimento negli animi di un peggio avvenire. In una parola, ragionando di cose e uomini genovesi, io rimarrò, per quanto mi è possibile, in Genova. Una eccezione avrò a fare per Bartolomeo Fazio, che ligure, trascorse tuttavia la maggior parte della sua vita in Napoli ed in corte dell’Aragonese. Ma la fama di lui, gli anni della giovinezza passati come cancelliere della Repubblica, le frequenti sue attinenze con cose e uomini della sua patria mi giustificano abbastanza. Del resto la trattazione che lo riguarda, sarà più specialmente oggetto di un’ appendice. • Ed ora per finire e per confessarmi intero al lettore, aggiungerò, che oltre le necessarie ricerche per cui non ho risparmiato fatica, avrei voluto anche rendere l ambiente da me preso a studiare ed apprezzare al vero l’opera degli eruditi genovesi. Probabilmente 1 avrò tentato senza riuscirvi. E di questo e delle omissioni inevitabili sarà giudice chi mi legge. Il quale se non apparterrà alla schiera di coloro che acquistano facile fama di arcana dottrina con la citazione di un fascicolo nato morto, o messo meritamente insieme colle ben note lucerne e i chiodi d’Ercolano (i), perdonerà, dico, le dimenticanze non volute e le deduzioni o supposizioni mie che per altre ricerche potessero essere infirmate. Perché già in oggi se é vero, come celiando scriveva il Giusti, che un chimico rovina un santo, è anche più vero 'che le migliori teoriche vanno a gambe levate dinanzi alla testimonianza di un documento. (i) Barbtti, La Frusta letteraria, Milano i8}8, I, 59. — 9 — CAPITOLO I. Notizie Biografiche. Intorno alla vita del Bracelli e alla famiglia di lui, conosciuta, intendo, nell’ intimità delle pareti domestiche e non solo per le poche notizie biografiche che é facile racimolare, sappiamo assai poco. Egli discendeva, dicono concordemente i suoi biografi, da una famiglia dove il notariato era ereditario. Venuta, verso la metà del sec. xiii in Genova, da un picciol luogo nelle parti della Spezia detto appunto Bracelli, essa ottenne coll’esercizio di una professione che era lucrosa e rispettata, pubbliche immunità sin dall’anno 1312. In appresso il nome dei Bracelli figura onorevolmente tra gli anziani e maggiorenti del Comune (1). Anche per l’anno della nascita di lui non si può procedere se non per congettura. Ma di atti che recano la sua firma come cancelliere, se ne rinvengono nell’Archivio di Stato fin dal 1411 (2), sicché non saremo (1) « Del 1311 Gabriele Bracelli fu anziano della città come nelle convenzioni della Spezia a c. 16 appare » (Ganducci ; Famiglie nobili di Genova, ms. p. 359); il padre di Iacopo, Simone del quondam Bartolomeo, era nel 1424, ai 25 di aprile, uno de’ due officiali deputati per dare e ricevere il sale (Cicala; Memorie della città di Genova e di tutto il suo dominio, ms. in Arch. Municip.); e nel 1427 un Nicolò Bracelli era mandato ambasciatore al Re di Francia. (Federici; Scrutinio della nobiltà ligustica, ms. p. 157). (2) Arch. di Stato in Genova, libri diversorum e litterarum. La data del 1419 portata dallo Spotorno (St. lett. della Liguria, Genova 1824-58, II, 64) va quindi anticipata ancora di qualche anno. molto fuori dii vero, se tenendo pur conto della sua morte avvenuta verso il '66, risaliremo per la nascita all’ultimo decennio del secolo precedente (i). Nell’ edizione principe della Guerra di Spagna fatta da Masello Venia circa l’anno 1477, 1’editore dà al Bracelli titolo di iuris utriusque consultum (2). E lo si ripete nell’epigramma in fine del libro. Scambio di restringersi al notariato, il Nostro avrebbe dunque compiuto lo studio delle leggi in una delle Università che godevano tama in quel tempo. Ma dove ? Due città si presentavano come famose nel diritto : Pavia che già sotto i Franchi aveva acquistata molta importanza, e Bologna, la dotta Bologna, la patria d’ elezione dei grandi giure-consulti. Pare che il Bracelli prescegliesse la prima. In una lettera a Giovanni Giacomo Riccio, che era stato colà precettore di suo figlio, egli parla difatti dei fratelli di esso Riccio come da lui conosciuti altra volta nella famigliare consuetudine della vita comune. — « Subibat animum meum memoria Zanini ac domini Abbatis fratrum quondam tuorum, quorum ut eximias virtutes, ita divina ingenia admirari adeo solebamus , ut quos illis U) Lo Spotorno, op. cit., il Soprani, Scrittori liguri 122, e lo Zeno, Disserta Yoss., II, 266, ma tutti dietro il Soprani, lo dicono nativo di Sarzana. H forse quest’ultimo si fondava sopra l’autorità del Fazio che nel De viris illustribus, lo chiama conterraneus meus. Ma perchè non Spezia allora, ma Sarzana? Inoltre jo dubito che il Fazio con quel vocabolo voglia intendere non un borgo, ma l’intera provincia; se no, mi riuscirebbe un enigma la chiusa del breve elogio: Moderatione animi civibus meis carus et iucundus. Evidentemente il Fazio , sebbene nativo della Spezia chiama qui concittadini suoi i genovesi. (2) Cfr. Argelati; Bibl. Script. Mediol., T. I, 9 segg. — Ad illustrem et bum. Principem Philippum Mariam Sfortiam . . . Praefatio. — L curioso che nè lo Zeno, nè lo Spotorno la citino. adequari possemus, aut nulli, aut perpauci admodum invenirentur » (i). Per contro direi che gli fosse poco noto lo Studio bolognese. Anni dopo, volendovi mandare il figlio Antonio, si rivolgeva per notizie e consiglio all’amico Cipriano De Mari. Voleva sapere il nome dei dottori che vi insegnavano ; egli pendeva incerto tra quella città e Siena e desiderava stabilire un confronto. Probabilmente nella vita randagia, che anche i maestri di diritto facevano da città a città, Siena aveva accolto nel suo Studio alcuno di tale celebrità da attirare gli sguardi del nostro cancelliere (2). Né all’osservazione contraddice, al mio (1) Lett. a Giov. Giacomo Riccio, clarissimo legum interpreti, in Iac. Bracelli et ALIOR. CL. viror. Epist. Orat. opusc. ms. del sec. xv, c. 16. Così la scritta impressa sulla costa del volume e risponde abbastanza bene a ciò che esso è in effetto, ossia una copiosa miscellanea. 11 codice fu già di Tommaso Fransone, come si rileva dalla notizia scritta nel secolo passato sopra una delle carte che formano la guardia del volume, ed ora trovasi nella Civico Beriana di Genova. Oltre alle lettere edite del Bracelli, ne contiene molte delle inedite, e in proprio nome e in nome della Repubblica, nonché alcune brevi orazioni. Delle operette del Nostro v’ ha 1’ opuscolo De Claris genuensibus, la lettera al Merula , De precipuis urbis genuensis familiis relatio, e la Descriptio orae ligusticae. Si trovano poi nello stesso ms. lettere d’altri uomini insigni al Bracelli e di principi, ovvero scritte in loro nome, alla Repubblica genovese ed orazioni diverse ed epistole d’argomento erudito e letterario, parte delle quali sono a stampa, come si rileva dalle annotazioni che vi si veggono fatte di mano moderna nei margini. Sonvi alcuni versi latini, brani copiati dalle opere di Cicerone, di Sallustio, di Poggio Fiorentino. Vi è trascritto un frammento dell’ opuscolo del Fazio : De bello veneto clodiano e il Conto fatto latino dal medesimo, coll’intitolazione: Barth. Facii ad quemdam amicum suum, de belli origine inter Gallos et Brittannos historia incipit feliciter. Il ms. consta di 468 pag. modernamente numerate, ed è scritto da diversi menanti, tutti però dello stesso tempo. È di esso ch’io mi varrò largamente in questa monografia, giovandomi sempre dell’ indicazione : ms. Br. (2) Ms. Br. c. 135, senza data, ma se due lettere al Riccio ed a Rolando da Corte (praecl. ac cclcbrat. iuris ulriusque doctori d. RoL a Curie, patri curn primis — 12 — parere, un suo fuggevole accenno in una lettera a Poggio Bracciolini: — « Credo ti ricorderai, gli scrive l’umanista genovese, del tempo che, stando noi in Bologna, ed essendo caduto il discorso sulla mia patria, tu dicesti che avevi rinvenuto in un libro di scrittore trancese, compilazione della storia di molte genti, questo ricordo, che Genova fu, sono appena quattrocent anni, saccheggiata da’ saraceni » (i). Ma il Bracelli alludeva , per opinione mia, al tempo che era stato inviato come ambasciatore nel ’36 a Papa Eugenio IV ed a fiorentini. Difatti a Bologna erasi recato a’ 18 aprile di quell anno il Pontefice e con esso, come segretario apostolico, anche il Poggio (2). I fi<;li, e ne ebbe due, Stefano ed Antonio, alternarono, se capisco bene gli accenni dell epistolario, la dimora in Bologna con quella in Pavia, attendendo entrambi al diritto civile. Antonio sembra a\esse la predilezione paterna, e la riuscita giustificherebbe, del resto, questo piccolo debole del padre. Ecco il suo stato di servizio, quale lo desumo dal Federici (3)- — a. 1460. Mandato ambasciatore al papa per congratularsi della promozione del card. Fregoso. — a. 1462, 1464. Eletto anziano. colendo) entrambe del 14, o 15 ottobre 1456, >:> danno Antonio come già partito da Pavia, avendovi conseguito il dottorato, si dovrà risalire, per la lettera al De Mari, a tre o quattr’anni prima, ossia al 'S2. (1) Lett. 18 febbraio 1449. « Ext- in codice ms* EPist0,arum Iacobi Br;u:ellei* apud Io. Thomam Cavanam ». — Mi venne favorita insieme con altre due, del Poggio al Bracelli, e di questo al Poggio, dall’egregio e dotto amico. Prof. Neri. Ed a lui ed al Comm. Belgrano, m’è caro attestare l’animo mio sinceramente grato, per i molti aiuti, onde con la liberalità loro solita, mi furono cortesi. (2) Gregorovius; Storia della città di Roma, \ enezia, Antonclli, 1S75, VII, 65. (3) Federici; op. cit., 157 segg. — 13 — — a. 1484. Inviato ambasciatore al duca di Milano. — a. 1489. » » al papa. — a. 1490. # » al re d Aragona. Fin dal 1477 era stato creato consigliere del duca, con titolo di magnifico. Ed ecco quello del fratello Stefano che successe al padre nell’ ufficio di cancelliere : _ a. 1^2. Podestà di Scio, la soccorre con due navi. — a. 1467. Mandato al re d’ Aragona. — a. 1477. Ufficiale di balìa. Nello stesso anno ambasciatore al re di Napoli. — a. 1489. Anziano del Comune. Dei quattro figli che il nostro umanista ebbe dalle sue nozze con una figliuola di Onofrio Pinelli, nobile cittadino genovese, congetturo che Antonio fosse il penultimo nato. Difatti il figlio Stefano fin dal '45 si recava a Pavia ut opera-m darei iure civili; la figliuola maggiore era andata a nozze nel '42 a Francesco Marrufo; Antonio per contro non conseguì il dottorato a Pavia che nel '56. Due anni dopo lo troviamo in Francia, dove era passato in compagnia dell’ amico Gottardo Stella, di Battista Goano ed altri due che recavansi a concordare i capitoli di cessione della città di Genova al re Carlo VII. Quando Battista di Goano, cui era specialmente raccomandato, ne fece ritorno, egli si fermò in Avignone per consiglio o consenso del Goano stesso. E il padre dalla villa nel territorio di Rapallo, dove era andato a passare quel settembre '58, ne ringraziava affettuosamente l’autorevole amico e protettore (1). Speravano di allogare (i)'Ms. Br. c. 29 lett. ex Cerasola, villa Rapalli, xil kal. sept. — i4 — Antonio in una carica confacente a lui, per opera e favore di re Raniero? Se ciò fu, le speranze ebbero ad andar fallite, poiché, nel ’6o, Antonio si trovava di nuovo in Genova, donde mandava a donare al Riccio dell’uva passa di Malaga e un barile d’olio di Cadice, torse per consolargli il digiuno quaresimale. Era 1’ ultimo di di febbraio (i). Delle figliuole, la maggiore, come sappiamo, era andata moglie ad un Marrufo: non così l’altra, l’ultima della famiglia, che per la sua sventura avrà certo addolorato il cuore affettuoso del babbo. Nel ’56 egli scriveva difatti al genovese Giovanni Marabotto, che esercitava medicina in Bologna ed era conosciuto dal suo Antonio, chiedendogli consiglio per questa sua figliuola che aveva in casa, in età già oltre i vent’ anni e che cosi era debilitata nel ginocchio e nella gamba sinistra da non poter muovere passo senza il soccorso di una gruccia (2). Tali le poche notizie, scarne in verità, che abbiamo potuto raccogliere sulla vita domestica di questo insigne cittadino. Fu fortunato ne’ figli maschi che risposero alle speranze paterne, spese l’operosità sua negli studi in servizio della Repubblica che, cogli uffici in patria, colle ambasciate al di fuori, mostrò di apprezzarne l'ingegno e la virtù (3). (1) Ms. Br. c. 33. (2) Ms. Br. c. 26, lett. 4 ottobre 1456. (3) Le legazioni da lui sostenute, salvo le omissioni, sono le seguenti: Nel 1428 inviato a Milano, nella sua qualità di cancelliere, insieme con sei ambasciatori, dall’arcivescovo Bart. Capra governatore di Genova per congratularsi delle nozze di F. M. Visconti con Maria di Savoia. Nel '34 legazione al duca di Milano per la possessione di Tagliolo ed altri luoghi, contrastata dai Del Carretto. — Ricordata dall’ Olivieri. Nel '35, '36 id. al papa Eugenio IV ed a Firenze, perchè concedessero che — 15 — Dal canto suo, pago della modesta agiatezza che gli era consentita, non partecipò punto alla vita zingaresca che tanti, e notai e letterati, si piacevano di fare. Egli visse e mori nella cancelleria genovese, e si che dalle loro terre si potesse cavar grano e condurlo a Genova. Giustiniani, Annali, libro V, ad a. 1435. Nel '45 id. al duca di Milano per concludere tra gli Adorno che allora dominavano in Genova e il duca un trattato d’amicizia , volto a mettere un termine alle reciproche diffidenze ed animosità ed assicurare lo Stato contro i Fieschi e Campofregoso (Cfr. un erudito articolo del Neri in Giorn. Ligust a. XV, 161 segg.). Nel ’47 id. al re Alfonso per riparare ai capitoli dannosi allo Stato stipulati dal nobile Araone Cibo, dandogli commissione, se il re acconsentisse, di regolare detti capitoli secondo 1 istruzione datagli 5 se no, di ritornarsene. Se crediamo al Giscardi (Origine e fasti delle famiglie genovesi; ms. p. 126) il re a dimostrare il suo gradimento mandò in dono al Bracelli una collana d’oro con medaglia. E non ebbe ad essere piccola impresa lasciare soddisfatti ad un tempo I’ Aragonese ed i suoi Signori, dopo il precedente di Araone Cibo. Rade volte in un documento rilasciato da Signori, si troveranno parole più veementi contro 1 operato di un agente infedele, di quelle che si leggono a carico di costui nell’istruzione al Bracelli, 7 dicembre 1447. Ne trascrivo un periodo: « .... non admirari non potuimus vehementer videre contra iussa nostra eum Alaonem, sine ulla honesta cogitatione, ea capitula ac conventiones tran-sigisse et lta» post admirationem, in indignationem iramque pervenimus ut nisi reverentiam regiae illius maiestatis nos movisset, supplicio ultimo illum damnatum punissemus ». (Arch. di Stato in Genova, Diversorum, f. 1). Riporterò per intero la lettera con cui il card. Capra accompagnava gli ambasciatori, ed è anche testimonio del conto in cui si teneva fin d’allora il N ostro : Illustrissime princeps ac preclarissime domine noster. Ad excellcnlte vestre conspectum veniunt generosi et egregii cives nostri dilectissimi, dominus Andreas Bartholomeus Imperialis doctor legum insignis, Isnardus de Goarco, Bartholomeus lustinianus, Gaspar Marruffus, Dorinus de Grimaldis, Petrus Spinula quondam egregii Cipnani, sex legati nostri et cum eis dilectus cancellarius noster Jacobus de Bracellis, ut leticiam huius civitatis ex tam allo connubio conceptam, adventu suo testentur et in bis felicibus nuptiis celsitudini vestre congratu-lentur. Eidem itaque humillime supplicamus ut devotionem lmius civitatis gratam habeat, in quibus referendis . . . velit eis fidem adhibere indubiam ceu nobis. Data 1428, dìe XXI■ sept. (Arch. di Stato in Genova, Litterar. n. 3, canc. Bracelli). il popolo era famoso per mutare dalla state al verno, emulo ne’ sottili provvedimenti dei fiorentini di Dante. Offertogli dal pontefice Nicolò V, spontaneamente, il posto di segretario apostolico rifiutò, scrive il Foglietta, della mediocrità sua contento (i). E vivendo nel tumulto de’ negozi e nell’ abbondanza delle idee , interrompeva volentieri i sopraccapi urbani per gli ozi lieti — / otium bonum de’ latini — o nella sua villa di Ceresola presso Rapallo, o più spesso in un poderetto a Bogliasco. E quivi nel cospetto dell’ immenso mare inspiratore di liberi pensieri, nel declive imbalsamato dall’acri fragranze marine, non sdegnava prendersi cura insieme con quei poveri lavoratori de’ cavoli capucci. All’amico Ambrogio Vicemala, cancelliere in Savona, scriveva: m’ hai mandato tanto seme che la metà sarà più che sufficiente pel mio orto. Ciò che più lo differenzia dagli altri umanisti è in lui la costante dignità dell’ instituto di vita. In tutte le lettere sue che ci rimangono, non una dove si rinvengano le servili sollecitazioni per favori o donativi per cui s’abbiettavano anche i migliori. Frequenti invece i segni di un’ onesta alterezza. Ad un Filippo Spinola, che dimorava pe’ suoi traffici in Milano, commette in una sua lettera l’acquisto di tanto panno verde per il valsente di lire settanta genovesi, e soggiunge: « Al magnifico Vitaliano Borromeo offrite , il prezzo di un cavallo che sta per inviarmi, ma non voglio ecceda il valore di 24 fiorini d’oro, né sia troppo (1) Foglietta. Clar. Lig. Elogia, 246. - * Bracellius genuensis Senatus scriba eundem honoris locum a Nicolao Quinto pontifice maximo ultro de tum repudiavit, mediocritate sua contentus. » - 17 — bello, che non vorrei me lo togliessero per farne un campione di razza. E se per avventura il conte Vitaliano vi rispondesse di non voler denaro, ditegli che senza prezzo non lo mandi, poiché io accetto bensì la benevolenza e i buoni uffici di lui, ma non ne accetto il danaro » (i). Siamo nel 1445, e questa data ci trasporta nel vivo degli avvenimenti, ai quali presero tanta parte amici e protettori del Bracelli, avvenimenti ond’ egli stesso fu parte, o spettatore assai da vicino. Due anni ancora e morirà sfasciato del corpo e del-1’animo l’ultimo rappresentante dei Visconti, e la Signoria, quale s'era definitivamente costituita nel sec. xiv, cederà il luogo al principato dei condottieri. Quattro anni ancora e il conte Vitaliano, il fondatore della illustre stirpe da cui doveva uscire S. Carlo, attraverserà al galoppo il ponte di Porta Vercellina per correre a rinchiudersi nel suo castello di Arona. Audacia del momento, che lo salvava dalla forca sulla quale perirono i compagni suoi e fautori dello Sforza in Milano. E finalmente, quello stesso Sforza che pareva pazza temerità il sostenere, mentre le spade infuriavano dappertutto, un anno dopo entrerà trionfante in Milano, in mezzo alla mirabile concordia e letizia dei cittadini. Così almeno dicono i cronisti. L’attività del Bracelli abbraccia quasi un mezzo secolo, longum aevi spatium in verità. Egli potè quindi assistere alle frequenti rivoluzioni del governo genovese e all’altalena incessante delle opposte fazioni: le famiglie (1) Ms. Br. c. 103, lett. 18 maggio I44S- — «.....et si forsitan d. Vi- talianus vobis responderet nolle precium equi, dicite quod sine precio ipsum non mittat : ego enim eius curam et laborem accepto, pecunias non accepto ». An: Soc. Lio. St. Pat*ia. Voi. XX11I. 2 — iS — popolane guelfe invocanti l’aiuto della Francia, i nobili ghibellini che aspiravano al principato, e poiché il doge non poteva incarnare in sé l’ideale della Signoria , com’era portato del secolo xv, era giuocotorza cedere di quando in quando ai partiti che sconvolgevano senza prò’ la Repubblica, o appigliarsi al disperato rimedio di chiamare un signore che inforcasse cotesta cavalla eh era latta indomita e selvaggia. L’ altalena durava perpetua tra i due potenti vicini : i re di Francia che rinfocolavano le speranze guelfe, e i duchi di Milano , tautori de’ nobili ghibellini. Fortuna fu per 1’ Italia che la potente signoria de’ Visconti prima, degli Sforza più tardi in Lombardia, e le guerre dei re francesi coll’ Inghilterra, togliessero a que’ monarchi la voglia e il modo di occuparsi dell’ Italia. Se no, la malinconica profezia di Lorenzo de’ Medici sarebbesi verificata mezzo secolo innanzi e le convulse scosse dello Stato genovese avrebbero portato assai prima ad un durevole intervento francese. L’età, che già volgeva a decadenza, é piena tuttavia di operosità, come il tramonto di un bel giorno: estesi ancora i commerci in tutte le parti del mondo conosciuto, gli sconvolgimenti interni non tali che inceppassero l’attività individuale, notevole anche nei peggioii periodi di soggezione straniera; le guerre contro il costante nemico della Repubblica, cioè il re Alfonso di Napoli, per un certo tempo fortunate, e, infine, quando in Oriente tutto precipitava dinanzi ai turchi, la difesa delle lontane colonie affidata al Banco di S. Giorgio, eroica e degna della vecchia prudenza romana. Ma, già cadente sotto il fascio degli anni e delle — 19 — memorie — il Bracelli era ancor tra’ vivi nel ’66 — quale colpo avranno fatto sul cuore del vecchio le notizie che giungevano confuse e tanto più paurose dei progressi dei turchi ? Il gran Comune che aveva piantato vincitore il suo vessillo a Mamistra, a Laiazzo, in tanti luoghi remoti dell’Egeo e del Mar Nero, ora pareva dall’ira delle stelle destinato a rovinare, nelle colonie sotto i colpi dei barbari, nell’ interno sotto quelli de’ suoi figli. E dov’ erano andati i gloriosi giorni delle flotte rapidamente allestite, numerose, sicure della vittoria, che movevano alla conquista di Antiochia e di Cesarea? Stringeva il cuore vedendoli ridotti nel governo a’ meschini espedienti di chi vive giorno per giorno, esaurita ogni risorsa nella diuturna guerra, i luoghi di S. Giorgio ridotti al valore di ventitré lire e nessuna luce di speranza da’ principi italiani che avresti detto attoniti, o non curanti dell’ ultimo danno minacciato ; e doge di Genova un Paolo Fregoso, piuttosto ladrone e micidiale de’ concittadini e de’ suoi, che arcivescovo e signore. Alla vigilia di comparire dinanzi al Signore di tutti, aveva udito il suo autorevole amico, Battista Goano, proclamare nel cospetto dello Sforza che — « siccome in cielo che é patria di tutti i buoni, comanda un solo Dio, al quale ubbidisce tutto il mondo, cosi in la città che dev’essere ben governata é necessario che sia un solo principe, il quale con la ragione e con consiglio governi e indirizzi ogni cosa » (i). — Ma oramai non era più questione di signoria comune , bensì della (i) Giustiniani, op. cit., V, 445. — 20 — comune servitù, che fra tanti sobbalzamene si maturava per noi, fuori delle corte previsioni umane. 11 Bracelli potè godere ancora degli ultimi benefizi del nuovo Principato: difatti mediante lettere ducali del 3 settembre 1465 e del 14 luglio 1466 lo si dispensava, con onorevoli parole, dall’ ufficio a benefìzio del figliuolo Stefano che gli succedeva (1). Era una parte di sé che sottentrava a continuare quelle buone tradizioni di cancelleria, delle quali il nostro umanista, come i migliori tra’ suoi colleghi, avrà sentito un legittimo orgoglio : ormai egli poteva togliersi in pace il riposo che aveva ben meritato. Probabilmente neppure il riposo ultimo non ebbe a tardare molto, oltre quell’anno ’66. La generazione che aveva sentito, patito, operato con lui, l’aveva, pressoché intera, preceduto nel sepolcro. Gli amici, i fidi consiglieri ed ammiratori suoi, erano passati ad uno ad uno. Nel ’39 il Traversari, nel '44 il Bruni, nel '57 il Fazio, nel '59 Poggio Bracciolini, Flavio Biondo nel '63 e forse prima del 54 Francesco Barbaro, il patrizio procuratore di S. Marco, che dimenticava, a quando a quando, il riserbo del suo grado per mandare lettere brevi, ma affettuose a Gottardo Stella ed al Bracelli. Rimanevano della vecchia generazione alcuni superstiti, isolati, solitarii, siccome rovine dimenticate dal tempo. Egli poteva andarsene contento. La fortuna ora sorrideva al Pontano, al Poliziano, al Ficino, a’ giovani insomma che avevano preso altre vie. Come ebbe ad essere triste, malgrado 1’ orgoglio in cui s’ irrigidiva, la vecchiezza del Filelfo ! Giacomo Bracelli invece moriva (1) Cfr. Documento I in fine. - 21 — lieto del civile governo che pareva incominciato per la sua patria, dopo dieci anni di violenze ed afflizioni continue (i), lieto de’ servigi suoi riconosciuti dalla Repubblica, de’ figli che venivano sulle orme paterne: sopratutto egli moriva a tempo, il che, se non è un merito, é sempre un caso fortunato. CAPITOLO II. Coltura ed erudizione in Genova nel secolo xv. Il Burckhardt, fondandosi sopra un passo di Pietro Valeriano, afferma che Genova, prima dei tempi di Andrea D’Oria, non ebbe pressoché parte veruna nel Rinascimento, anzi gli abitanti della riviera passavano in tutta Italia per nemici di qualsiasi coltura (2). Basterebbe quel tanto che ne scrisse il benemerito Spotorno per provare la severità dell’ affermazione, ma alcune altre notizie che verrò qui raccogliendo dimostreranno, spero, come il paese, in cui potè fiorire una serie di valenti storiografi da lasciar ammirato il buon Muratori, (1) Giustiniani, op. cit., V, 439. (2) Burckhardt; La civiltà del secolo del Rinascimento, trad. Vaibusa I, 118. L’opera di Pietro Valeriano ha per titolo: La infelicità de’ letterati, trad. dal latino, Milano 1829, p. 173. Per altro nel passo indicato, il Valeriano non porta se non il racconto pietoso delle sevizie inflitte ai figli da un tal Bartolomeo Rovere, un conte Cenci del secolo xv. E il Della Rovere era davvero un efferato nemico d’ ogni coltura ; ma che critica è ella codesta che generalizza così stranamente un fatto isolato? Perchè davvero all’infuori di questo esempio che il Valeriano stesso, per onore della specie umana, considera mostruoso , nuli’ altro v’ è detto che giustifichi 1’ affrettata conclusione del Burckhardt. non fosse poi così avverso a quel risorgimento dell antichità che correva trionfalmente la penisola. È certo però che l’infuriare ad ogni tratto delle fazioni doveva rendere talvolta poco grata la dimora in Genova ai dotti, e d’altra parte la tendenza loro aristocratica, congiunta al maggior tornaconto, li spingeva di preferenza alle corti dei principi. Antonio Astigiano che vi capitò verso il 1431 scrive avervi trovato, come maestro di grammatica Bartolomeo Guasco, da lui conosciuto in Asti, ma ci stava, aggiunge, di molta mala voglia : Illic grammaticam, licet invitissimus, artem Jpse docens Guascus Bartbolomeus erat (i). Per altro il Guasco, uno de’ più curiosi ed irrequieti maestri vaganti di quel secolo, non é testimonio molto attendibile. Più lacrimevole la fine toccata al povero Antonio Cassarino e narrata dal Mongitore (2). In un tumulto scoppiato nella città l’anno 1444, alcuni furfanti, volendo forzare anche la porta del maestro per derubarlo, questi, in preda al terrore, pensò salvarsi, saltando dalla finestra sul tetto della casa vicina ; ma cadde invece in istrada e mori (3). Forse era per (1) Ant. Astesani; De varietate fortunae, in Murat. S. R. XIV, col. 1015 sgg- (2) Mongitore, Bibi. Sicula, I, 58. (}) Il Cicala (ms. citato) e il Mongitore portano concordi la data del '44-Tuttavia come si spiega il fatto che nè il Giustiniani, nè altri storici segnano, sotto detto anno nessun tumulto? La città era governata dal doge Raffaele Adorno e vi si viveva con sospetto per cagione del duca Filippo e di Alfonso, e i Fieschi commettevano numerose ruberie nel territorio, ma di sedizioni in Genova non è parola. Se badassi ad una lettera del Cissarino a Iacopo Curio, che trovasi nel ms. Br. colla data: Genue, Iti id. iunii 1446, direi che nel '46 — 23 — ciò che taluno de’ maggiorenti preferiva rivolgersi per l’educazione de’ figli o de’ nipoti ad alcuna delle città allora in fama per istudi. Ne sia esempio Tommaso Fregoso che i nipoti, tra cui quel Niccolò, di cui ci avverrà altrove di parlare, affidò a Giovanni Toscanella che insegnava in Firenze (i). Ma il Fregoso, doge della Repubblica prima del '21, poteva esservi determinato da altre ragioni, ed inoltre non di Genova centro di studi, che tale veramente non era, vogliamo noi trattare, ma di Genova non estranea, come da alcuni fu detto, al movimento erudito che correva ormai da un capo al-1’altro la penisola, e pervadeva anche gii infimi strati sociali. Le numerose relazioni de’ genovesi con dotti italiani, o con altri genovesi che migravano per commerci in estranee contrade, provano una genialità di coltura che forse riuscirà a molti lettori inaspettata. Pur tra gli affari, in paesi lontani, alcuni portano l’amore delle lettere. Giungono corrieri dalla Gallia Belgica, e 1’ umanista chiede all’amico: che fa vostro nipote? ha messo da parte i libri? — « Mi fu risposto che tu vi attendevi con tale misura tuttavia, che nessun danno per ciò i negozi ne risentivano. Me ne rallegrai sommamente e stimai dovermi congratular teco che in cose di loro natura così diverse, l’una non nuoccia all’altra, ma a il Cassarino non era anche morto, ma le date del codice miscellaneo non vanno prese come articoli di vangelo ed inoltre c’ è la testimonianza chiara esplicita del Filelfo che deve pur contare. — « Antonio Cassarino viro siculo (qui) proximis annis Genue periit, codex fuisse dicitur », etc. (lett. al Ceba, i.° gennaio 1448). Il Bracelli ed il Giustiniani ricordano invece i tumulti sul principio del '43, allorché fu deposto dal dogato Tommaso Fregoso. Che si debba riportare a quest’anno la morte del Cassarino? (i) Sabbadini; Giov. Toscanella, in Giorn. Lig., XVII, 119 sgg. — 24 — tutte e due sia provveduto con lode ». E il nostro Bracelli coglie la gradita occasione di scagliarsi contro coloro che attendono solo all’arricchire. — « Che se vi sarà alcuno che riprenda questi tuoi studi, e dica non per ciò aver tu abbandonato patria, genitori, congiunti, cercando un remoto angolo della Gallia, perché tu attendessi alle lettere, ma bensì per ritornartene, con l’esercizio della mercatura dovizioso, ricordagli parimenti che non ti sei deciso a peregrinare neppure per questo, che tu avessi a disprezzare ciò che é buono ed a preferire ciò che é vile ». E conclude : « Io conobbi già un re — credo alluda ad Alfonso d’Aragona — che vecchio, col peso di parecchi regni a governare, dava udienza ai legati, rispondeva, accudiva alle cose guerresche, e di mare e di terra, né trascurava gli esercizi della caccia e per quanto dicono anche gli amori ; e ciò non di meno era solito assistere nello stesso giorno a dotte dispute e non c’ era caso che mancasse ad una lezione » (i). Era anche un genovese quel Giovanni Iacopo Spinola che dimorando in Francia verso il '55, tra i sopraccapi della ragion di commercio, trovava pur modo di occuparsi del libro De Republica di Cicerone. — « Multi autem Italici fuerunt, qui Ciceronis opera, maxime De Republica summa diligentia quaesierunt, sed frustra ». — E il Fazio stupiva che non si rinvenissero libri latini presso 1 (1) Ms. Br. c. 27, lettera $ nov. 1457, egregio adolescenti Qi. Ius- — * ^c‘ gem ego cognovi et quidem senem, multorum maximorumque regnorum admi-nistratione gravatum, multas eodem die legationes audientem, iisque responsa dantem, bella mari terraque gerere nec venationes negligere, nec, ut quidam loquebantur, amores, et tamen his ipsis diebus disputationes audire solitum, nec una unquam die a lectione cessasse ». — 25 — francesi, essi che avevano spogliata l’Italia, non una volta sola. — « Per me non v’ ha dubbio che, o costi, o presso i germani, anch’ essi frequenti saccheggiatori d’Italia, il libro di Cicerone deve pur essere giacente in qualche luogo » (i). Ma io debbo vedere in quale comunione di spirito vivesse Jacopo Bracelli nella sua città, dopo le consuete e non lievi occupazioni d’ ufficio. Flavio Biondo, in un noto passo della sua Italia illustrata (2), osserva che pochi valenti letterati contava al suo tempo Genova, tra i quali quelli a lui più noti erano il nostro umanista, Niccolò Ceba, illustre viaggiatore, e Gottardo Stella anch’ esso segretario e cancelliere. E per rappresentanti diretti dell’ umanesimo, il Biondo poteva aver ragione : ma egli non teneva conto dei molti, che senz’ essere letterati erano pure partecipi di quel moto intellettuale, dirò di più, erano il prodotto più genuino di quel moto e dell’ epoca, nelle sue molteplici e contradditorie tendenze. Si veda ad esempio quel Tommaso Fregoso che per quasi mezzo secolo ha parte principalissima negli avvenimenti della sua patria, e più volte doge, tra l’imperversare degli odi di parte, sa conservare animo mite. Egli dedica alla lettura de’ latini i brevi ritagli di tempo che avanzano alle cure del governo, prega l’Aurispa, nel '39 a Ferrara, a mandargli le dodici commedie di Plauto, ritrovate alcuni anni prima, che le voleva leggere (3); si occupa di studi eruditi (1) Mittarelli, Bibi. ms. S. Micbaelis, Venet. 1779, p. 295 segg. (2) Blondi, Italia III. ; Basileae, 1531, p. 297. (3) Arch. di Stato in Genova, Litterarum 1437-39-8 1784 — vedi Documento II, in fine. Ne devo notizia alla gentilezza del Comm. Cornelio Desimoni. con il Toscanella a proposito dei nipoti che questo istruiva, si tiene in relazione con i più illustri letterati del tempo; e si dica lo stesso di Giano, di Tommaso iuniore, governatore di Savona durante il dogato di Pietro e del prode figliuolo di Spinetta Fregoso, Niccolò (i). Uomini colti avevano certamente ad essere Pileo De Marini, protonotario in curia di Roma e, giovanissimo, eletto arcivescovo di Genova, che era ancor vivo nel '27 e corrispondeva coi dotti fiorentini; Gaspare Sauli, che desiderava sapere dal Toscanella più volte citato, quali letture paratamente su Virgilio e Cicerone e Plauto, questi venisse tacendo con Leonardino suo fratello, e Niccolò e Pietro Fregoso (2); e il giureconsulto Battista Goano, uno degli uomini più influenti d’allora nella Repubblica, e Giovanni Grillo, Francesco Spinola, Benedetto Negrone, Paolo Imperiale, che tecero tanta ( 1 ) Cfr. Gabotto ; A proposito d'una poesia inedita di G. M. Filelfo, in Atti delld Soc. Lig. di St. Patr., XIX, 489 sgg. Per i rapporti di Giano con umanisti, riporterò qui una lettera ancora inedita di lui a Ilavio Biondo (Arch. di Stato in Genova, Litterarum, cancell. Gottardo Stella). — Domino Biondo Forìiviensi apostolico secretario — Speetabilis amie e noster carissime. — Accepimus litteras vestras quas legisse iuvit. Nam semper grata nobis rst memoria vestri. Sciebamus enim tue animum nec fidem deesse vobis ad ea omnia agenda, quae grata nobis esse possent, nec ia spe diffisi, vos rogavimus ut cum aliquid dignum noticia ad vos deferrebatur, id nobis nuntiaretur, cum solerent negotia omnia praesertim magnifica raro sine participatione romana/ curiae geri. Sfd que-m-idmodum scribitis et tempora et vivendi apud vos alius modus nunus gnaros so• licitosque nos efficit. Cetera autem quae memorastis quaeque laudastis intelleximus et ea ut ab amicissimo prudentiae et amoris plena accepimus. Frequen’er enim scribite etiam si nibil sit praecipuum. Nam hoc maximum nobis est cum litteras vestras legimus. Valete et cum tempus est, commendate nos sanctissimo domino nostro• Data lanuae, die XXII aprilis 1448. lanus dux etc. (2) Sabbadini, art. cit. — 27 — festa a Ciriaco, quando questi nel ’34 si recò a Genova (1); senza parlare di dotti religiosi, come Raffaele da Por-nassio e Guglielmo de’ Traversagni, professsor sacrarum litterarum, lo dice il Bracelli, e scrittore di opere ascetiche. (1) 11 passo di Ciriaco, Itinerarium, non è senza importanza per lo stato della coltura genovese in quell’ anno. Eccolo : Sed quos (sic) nlios illa de inclyta Genuensium urbe praeclaros aetate nostra viros praeteream, quos peregregie meam cognovimus exornasse curam, ut ve! in primis Baptistam Cicadam praestantissimum equitem Senis et ipse in Urbe (Roma) apud Sigismundum Caesarem, Andream Imperialem Mediolani apud Philippum ducem et exinde dum Genuam ipsam peterem ad Paulum fratrem et lacobum Bracelleum, egregium P. Rei scribam, elegantissimas epistolas ad me dantem, omittam ue et % ipsa in civitate nobiles illos cives Franciscum Spinulam, Ioannem Grillum, Bene-diclumque Nigronem qui, et duce Pb. mei gratia moniti, postquam humane susceperant omnia tnihi civitatis insignia ostentantes, nobilem illum preciosissimo de smaragdo cratera lubentissime vidimus et praetentavimus manu. Un altro genovese il Pizzicolli ricorda nel suo Itinerario con affetto, ossia Enrico Stella, che intorno al '41 scrisse un carme latino in lode dello stesso Ciriaco. Il Voigt crede che egli appartenga alla famiglia onde uscirono i due cronisti genovesi, Giorgio e Giovanni Stella (Voigt ; Il risorgimento dell’antich. classica, trad. Vaibusa, I, 440). Il Pizzicolli, che alla lode ci teneva, chiama il suo ammiratore iuvenis egregie doctus et indolis bonae praeclarus, e riporta il principio del carme. I distici non valgono gran che ; neppure costui non era stato tenuto a balia dalle Muse, ma forse non dispiacerà leggerne qui alcuni, come erudita curiosità : — Italiam decorat, quem Dorica protulit Ancon Kyriacus, curam totius orbis habet. Ille etenim promptus cunctas Orientis ad oras Ivit ab humanis nulla pericla timens. Non pelagus, saevasque ferast non tela, ncque hostes Extimuit, habilis semper et ille fuit. Ergo quae antiqui caelarunt mollius aera% Viva quoque inspexit marmoris ora virum. Gentibus ignoti vidit animalia Nili, Et quidquid tanti fluminis unda creat. Atque ea cuncta quidem fidis partitur amicis Et manibus largis est benefactor eis. Humani generis curùmque in pectore gestat..... 11 Prof. Belgrano mi dà cortesemente notizia che nell’esemplare degli Scrittori del Soprani, posseduto ora dalla Biblioteca universitaria di Genova e già proprietà dello Spotorno, di mano di quest’ultimo leggesi a p. 55 la seguente — 28 — Ma restiamo agli eruditi. 11 Bracelli se 1’ intendeva meglio con Gottardo Stella, con Eliano Spinola, con il Ceba. Questi, che occupa un cospicuo luogo tra i grandi viaggiatori di quel secolo, aveva tatto nel '46 ritorno in Genova dall’Oriente. Lo attesta una lettera del doge Raffaele Adorno, nel luglio di quell’ anno, con cui rin- • • • graziava Luca Natara, ammiraglio e primo ministro dell’ impero bizantino, per la benevolenza da lui dimostrata verso la Repubblica, e i genovesi di Pera, secondo la relazione teste fattane dal nobile e prestante Niccolò Ceba (1). Ma al Bracelli non era mancata occasione di conoscerlo assai prima, negli anni che il Ceba da Costantinopoli e da Adrianopoli, dove dimorava, intratteneva, oltre che con lui, commercio epistolare col Bruni e col Filelfo. Egli si offriva ad acquistare ciò che formava la delizia di quei dotti, voglio dire, codici greci e latini. In questi stessi anni, ossia dal *27 al 31, dovettero aver luogo le importanti peregrinazioni del viaggiatore genovese in Asia, di cui tocca lo Scalamonti nella Vita del Pizzicolli, importanti dicevamo, per quanto si voglia fare la debita parte alle iperboli di moda (2). Sul finire nota: « Trovo Enrico Stella rettore del venerando collegio de' giudici, ossia giureconsulti di Genova, nel 1455 (Ms- Co//, lud., c. 36). E il Federici, Abecedario delle fam. nob. (Ms. della Bibl. Mi*s. Urb., voi. Ili, c. 428) ricorda a sua volta, in atti dell’anno 145}, un Enrico Stella, insieme con la moglie Maria figlia di Battista Calvi. Era, senza dubbio, il nostro caldo ammiratore del viaggiatore anconitano. (1) Vedi Belgrano, in Caffaro, anno XII, nura. 57, 58 e 60, Genova, 1886. Cfr. anche Gabotto, art. cit. (2) Colucci, .Antichità Picene, voi. XV, pag. 82. — Praeterea Kiriacus <" M civitate (Adrianopoli) cognoverat Nicolaum Ziba genuensem, virum doctum et >u-gotiatorem praestantem, qui semper inter Persas Hircanosque et Parthos versatus in mercimontalibus erat, et cum eo illas quoque partes visere composuit. — Ma nel 31 — 29 — del '31, battagliando tra loro veneziani e genovesi in attesa che il Turco castigasse le pazze gelosie fraterne, il Ceba, che era sempre in Adrianopoli, rendevasi di colà utile a’ compatriotti che erano stati assaliti in Scio da una forte armata veneta. Già il padre di lui, Tommaso, aveva avuto il comando delle tre navi grosse e delle due galere che in Genova si erano armate di tutta fretta per correre in soccorso, e il figlio, il nostro Niccolò, doveva stare alle vedette e tenere diligentemente informato 1’ ufficio di Balìa sugli avvenimenti; doveva inoltre stare in comunicazione co’ genovesi assediati nell’ isola, col padre, e con Dorino Gattilusio, signore di Mitilene (1). In Pera lo trovavano ancora due lettere, del Filelfo e di Iacopo Bracelli, la prima del '41 (28 aprile), la seconda del luglio '43 (2). 11 Filelfo si doleva che le ricchezze acquistate dal-1’amico ne’ commerci, avessero nociuto, anziché giovato agli studi. « Altre volte persino ne’ viaggi che in grazia della mercatura intraprendevi nella Media ed in Persia, ti veniva dolce compagno un codice delle Tusculane di Cicerone ch’io t’aveva regalato. E, tra la farragine molestissima de’ negozi, non tralasciavi di farti vivo meco con lettere degne di te e dell’ amicizia nostra. Ora dacché ti sei fatto più danaroso, né rispondi, sebbene da me provocato, nè, per quanto odo, ti dai Ciriaco ritornò in Italia a complimentarvi il nuovo pontefice Eugenio IV, suo vecchio mecenate, e Niccolò rimase ad Adrianopoli. — Deinde Kiriacus relieta Persarum quam cum Nicolao Ziba constituerat exploratione . . . Italiam ad patriam remeare decrevit. — Debbo il passo dello Scalamonti alla cortesia del-1’ egregio Belgrano. (1) Vedi Documento III, in fine. (2) Filelfo, Epist., lib. V, p. 31. — Ms. Br., c. 283, lett, 14 luglio 1445. — 30 — pensiero di libri e di letture, tutto ingolfato come sei nel guadagno ». La lettera del Bracelli ci rivela meglio il carattere del Ceba. La Repubblica non riusciva a trovare un tollerabile assetto, né Raffaele Adorno eh’ era salito al seggio ducale il 28 gennaio del '43, poteva dirsi saldo in sella. Il Ceba impensierito di quel pericoloso fluttuare, aveva rinunciato al progettato ritorno in patria. — « Troppe cose vi si fanno, egli scriveva all’ amico, che molto maggior dolore recano a chi vede che non all’assente ». — Su di ciò si estende il Bracelli e ribatte l'argomento del Ceba: — « Molte cose vedrai, ne convengo, che non vorresti vedere, ma credimi non più di quelle che ti avverrà di udire ». — L° spirito fazioso ha il vezzo d’ingrandire e anche d’interpretare spesso sinistramente ogni azione, sicché la realtà sotto gli occhi, cruccia meno, infine, delle cose che si sanno per sentita dire. Non egli apparteneva al novero di coloro che sono atterriti di far ritorno in patria per gli smoderati tributi che vi si esigono. — a E c é il padre, la madre tua, ci sono i fratelli che si affliggono di non vederti : ne’ tuoi ozi perensi, pensa insonima che non per te solo sei nato, ma che una gran parte del viver tuo la rivendicano a sé, come piacevasi, dicono, di osservare Platone, la patria e i genitori » (i)-Belle ragioni che non mossero punto il Ceba dal tranquillo soggiorno di Pera: sappiamo di già eh egli non fece ritorno a Genova se non tre anni dopo. L amor della quiete poteva più su quell’animo sfiduciato degli uomini e delle cose, che il tono tra 1’ affettuoso e (i) Ms. Br., Ictt. cit. — 3i — l’acerbo del dotto amico. E per gli anni dal '46 in poi, l’epistolario bracelliano tace, com’ é naturale: vivevano nella quotidiana intimità, non occorrevano lettere. Lo vediamo bensi in corrispondenza frequente con gli amici stessi del nostro umanista (1), e i tre nomi del Bracelli, del Ceba e di Gottardo Stella vanno più d’una volta compagni. Già m’ avvenne di citare un passo di Flavio Biondo come testimonianza. Anche il Filelfo non li sa disgiungere e quando deve sollecitarli in prò’ del figlio Giovanni Mario, si rivolge a tutti e tre ad un tempo. Gli è che congiunti vivevano realmente nei conforti dell’ intelletto, nelle abitudini letterarie. Accusando a Gian Mario Filelfo una lettera ed alcuni carmi di costui, il Bracelli soggiunge: « Ebbi cura che e 1’una e gli altri venissero letti dal Ceba per averlo partecipe meco del piacere » (2). Il padre Filelfo dal canto suo, faceva parte de’ suoi carmi all’ illustre viaggiatore, e se non bastasse, glie li dedicava. Ne sia esempio la decima satira della nona deca. È prova sicura del conto che faceva 1’ umanista tolentinate del Ceba e poi l’argomento scottava — quella satira era un terribile atto d’accusa contro le donne genovesi — e, forse per togliere o scemare invidia a sé stesso, piaceva al Filelfo di riferirsene, quanto a veridicità, al testimonio di un cittadino autorevole come il Ceba. Poiché son giunto nell’ordine di queste mie notizie ad un componimento che ebbe a levar certo molto rumore in quel cerchio di umanisti genovesi, mi ci fermo. (1) Belgrano, art. cit. — Gabotto, op. cit. (2) Ms. Br., c. 29, lett. 25 maggio 1457. — Curavi ut epistolam cum carminibus ipsis Ceba legeret, ut voluptatisque mecum particeps Jieret. La satira avrebbe ad essere posteriore di poco al '48, poiché secondo l’opinione del Rosmini, accettata dal-l’egregio Prot. Belgrano, é verso quel tempo che il to-lentinate diede effetto ad una sua gita a Genova. Quantunque non sia opera di un ligure, la satira rientra benissimo nell’ argomento nostro, e per rappresentazione dell’ambiente genovese, intorno la metà del secolo xv, é senza dubbio documento singolare (1). L’autore rammenta anzitutto la sua visita a Genova: In Ligurum primam spectaclum venimus urbem, Care Ceba; e descrive di essa il superbo aspetto, facendo eco alle lodi un secolo prima datele dal Petrarca, e più recentemente da Antonio Astigiano (2). .....Genuam decus aequoris ingens Ausonii, veterem cupientes ponere flammam, Vinimus, hanc scopulo postquam speculatus ab alto Occiduas qui frangit aquas, turrimque superbam Sustinet obscuris tendentem lumina naulis, Specto: maius opus, quam mens humana putarit Sum visus vidisse mihi .... Ed ammira i palazzi non privati, ma regali che torreggiano in alto, né laterizie hanno le pareti, bensì marmoree, ed ampie finestre decorate di ricchi intagli e tughe di colonnati e torri che sfidano ogni urto ostile (3). (1) Fr. Philelphi, Satyrarum etc, ; Mediolani 1476, per Cristoforo Valdarpher. La copia mi fu procurata dall’ inesauribile gentilezza dell’ ottimo Prof. Belgrano. Vedi Documento IV in fine. (2) Petrarca, lib. XIV., famil. — Antonii Astesani, De varietate fortunae, in Murat, S. R. /., XIV, col. 1015. (3) Sulla domus civilis inetl: regalia late Undique nubiferas tolluntur teda sub auras. Nec laterem monstrat paries, sed marmora miris Insignita modis latis insculpta fenestris: Mille quibus spatium decorant aequale columnae. Aedes quaeque suam referunt praegrandibus anem Molibus : hostilis quae nullos horreat ictus. - 33 — Fin qui dunque tutto bene. Del resto sulla bellezza della città cadevano tutti d’accordo: con rozzi esametri un anonimo sul principiar del secolo, con più eleganza il Filelfo, con maggior copia di particolari ed in prosa, venticinque anni dopo, l’Ivani (i). L’agitata vita politica non le noceva per questo lato. Ma le dolenti note incominciano quando si passa allo Stato ed ai costumi. — « Son queste le due piaghe per cui mi cruccio, da cui sospetto che tu sia crucciato, ciò é : le discordie civili prodotte da ambizione ed avidità di ricchezze, i brutti costumi che si depravano ognor più per la sfrenata libidine. Eppure gli uomini vincono e d’animo e di corpo i superbi edifìzi stessi onde Genova ha vanto, e per essi potrebbe rinnovarsi il superbo monito di Virgilio ai Romani : Tu regere imperio populos, Romane, memento; le donne sono Veneri se riguardi le forme, se il vigore dell’animo, sfolgorano anche in cospetto di Minerva. In-somma, . . . nihil est non magnum nobile pulcrum Urbe, Ceba dilecte, tua . Ma quale indecente spettacolo scapestrava liberamente per le vie e i luoghi pubblici urbani ! 11 Filelfo racconta (i) Belgrano, Contribuzioni alla Storia di Genova in Atti Storia Patria, XIX, 657 scgg. — Per l’Ivani vedi Documento V, in fine. Ai cultori amorosi di meirorie genovesi non tornerà forse discara la Descrizione di Genova dell’ umanista sar-zanese, come supplemento alle testimonianze degli altri. La ricavai dalla copia che il botanico Antonio Bertoloni di Sarzana traeva dal codice di lettere Iva-niane, esistente nella privata Bibl. Durazzo in Genova, e rinnovo all’egregio Prof. Neri ed al Sindaco di Sarzana le mie grazie per la facilità che mi fu fatta di consultarla a mio agio. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XX11I. 5 — 34 — con un intrepido realismo che colpisce di stupore, ma vieta di citare. E dagli scanni delle taverne, all* oscena vista, si levava un alto cachinno e le ingenue ragazze passanti di là, sorridevano. . . . resonatque per ampla cachinnus Scamna tabernarum : quae praeteriere puellae Ingenuae risere, Ceba, .... Poi coteste devote di Venere impudica si trafugavano non curate nelle case, sotto la qualità di guattere e fantesche, e divenivano instigatrici di corruzione e maestre di più turpe lenocinio. Questo del Filelfo é un terribile documento, tanto più che della sua veridicità non v’ha luogo a dubitare: egli si rivolgeva a un genovese che non avrebbe certo, per carità di patria, taciuto, se 1’ accusa tosse stata una menzogna. Ché anzi le cose dette da lui in tono moderato, l’autore esorta 1 amico a ripeterle con voce tonante, affinché — « que’ corpi candidi come neve, non si chiazzassero di lividori, deformi a vedersi ». Haec ego sum tecum modice, vir amice, locutus Quae graviore tuba referens atque ore tonanti In populum Genuae facito, ne corpora nive Candida liventes reddant deformia visu. Per altro, il lettore l’avrà notato nei passi qui prodotti, la satira non tocca che di una classe di donne e tanto abietta per giunta da non poter punto essere confusa con tutto il mondo muliebre genovese. Di gentildonne, in sostanza, non si parla, se non per lamentare — 35 — il pericolo che dal perverso esempio poteva loro venire, ed esortare i mariti, i padri a porvi in tempo rimedio: Haec exempla domi servatis ? qualibus uxor Cara ministrarum manibus, quae mille Priapos Tractavere die, potuque utatur et esca? Nonne putas famulas dominae narrare procaces Quae gessere foras ? È giusto però anche osservare che una città non tollera alla luce del sole le lubriche scene descritte dal-1’ umanista con tanta crudezza di particolari, se la licenza non é già passata dalla strada in casa. Dovremo credere ai raccoglitori di aneddoti, ai novellieri ? Sono in generale giudici poco sicuri, poiché proseguono, sebbene con altri intendimenti, la donna di quel medesimo disprezzo onde, intollerante ed incivile, 1’ aveva marchiata il medio evo. E se diamo retta a costoro, la corruzione si era travasata anche in casa. In uno degli aneddoti editi dal Romagnoli (i), sono nobili le donne che fanno il chiasso alle spalle di un messer Bongianni Gianfiliazzi di Firenze, ma il motteggio é tanto scolacciato, che davvero sarebbe suonato meglio in bocca alle sconcie eroine vedute negli angiporti genovesi dal Filelfo. E un altro toscano, uno scrittore di novelle alla boccacciesca, il Sercambi infine, sentite come dà principio ad una : « Fu una onestissima vedova donna di Genova, nomata madonna Lionora Grimaldi, la quale sopra tutte l’altre donne di Genova portava di onestà e di castità nome. E ben che questo vi debbia parere meraviglia che in Genova si debbia di tal donne trovare, vi dico che Iddio può conceder grazia in ogni (i) Scelta di curiosità letterarie, di?p. 138, n. 37. — 36 — luogo et però non é da meravigliarsi se costei in una sì fatta città si trovasse perfetta » (i). Per un compa-triotta delle sfacciate donne fiorentine, fustigate da Dante, non c’è male non è vero? A me avvenne altra volta, esaminando le accuse mosse da Antonio Astigiano e dal Padre Prierio sul costume delle genovesi, di stare dubbio se in quelle accuse non ci fosse molta esagerazione (2). A quelle testimonianze, ora se n’aggiungono dell’altre e così gravi che non ritenterei la dilesa. Però quanto al Sercambi ed all’anonimo autore dell’aneddoto, mi sia permessa un’ osservazione. Se si volesse raccogliere dalle stesse fonti tutti i frizzi e sarcasmi somiglianti lanciati contro città e provincie d’Italia, quante crede il lettore che ne andrebbero salve ? Rispetto poi allo sfacciato meretricio in Genova, non cade dubbio; doveva essere cosa grave, se i Padri del Comune, colla riforma ordinata nel 1459, vi portavano severi provvedimenti. Ma vedete perpetua altalena dei vizi e dei rimedi umani ! Il meretricio fu ridotto, infrenato e quei legislatori per poco non si saranno rallegrati che, mercé loro, la santimonia universale fosse felicemente insediata nel dominio della Repubblica; ma, ahimè un’ altra cancrena e ben peggiore entrava a far guasto nel corrotto corpo sociale e ne avvertiva, mezzo secolo dopo, i suoi concittadini il Prierio. Per affermazione sua, (1) Novelle inedite di Giov. Sercambi , per cura di R Renier , Torino, Loescher 1889, p. 85. De prudentia et castitate. (2) C. Braggio; La donna genovese del secolo XV, in Giorn. Ligustico, XII, ùsc. I, II. — 37 — nel 1506 accadevano nella città disonestà tali che forse non ci furono a Sodoma. Ecco il giudicio uman come spesso erra ! Tale l’ambiente: che ne pensava il Ceba? Quali saranno stati i ragionamenti del Bracelli, dello Stella e degli altri dotti uomini che componevano quella pleiade di letterati genovesi? E intendo segnatamente di Eliano Spinola, dotto antiquario, del grammatico Pietro Pierleoni, a cui s’ aggiunga a quando a quando Prospero da Ca-mogli, avvolto sempre in corti di principi e maneggi politici, e, se nel '48 era ancor tra vivi, quel Nicolò da Camogli, di cui fa menzione il Pizzicolli nel suo viaggio a Genova. Certo piacerebbe riprodurli, ma l’umanesimo tutti sanno che era aristocratico, nè degnava, se non fosse per uno scopo satirico, discendere a’ minuti particolari della realtà quotidiana. Il Ceba intrattenne anche negli anni appresso, 1’ amicizia col famoso tolentinate, come é noto per le lettere di quest’ ultimo (1). Nel ’51 attendeva a scrivere un commentario delle guerre tra bizantini e turchi; e il Filelfo se ne rallegrava, ringraziandolo anche delle buone parole che nel lavoro voleva introdurre sul conto suo. L’umanista ci teneva che fossero ricordati i suoi (1) Aveva ragione il Gabotto (op. cit.), di dubitare che le lettere del Filelfo al Ceba, posteriori al 1454, dovettero andare perdute. Perchè l’amicizia non cessò tra i due illustri uomini dopo di quell’ anno e per conseguenza non ebbe a mancare di quando in quando neppure una corrispondenza epistolare. Ne sia prova la lettera del Ceba a Prospero da Camogli, secretario ducale in Milano, (12 febbraio 1462), in cui manda a salutare affettuosamente il Filelfo. — Vale et meo Phileìpbo multas ex me salutes dicito. viaggi in que' luoghi su cui ora si volgevano cupidi gli occhi dei turchi, il viaggio sopratutto che giovine di venticinque anni, aveva fatto come oratore di Giovanni Paleologo all’ imperatore Sigismondo (i). Ma se pure lo incominciò, dubito assai che il Ceba abbia condotto a termine il suo commentario. Gli sarà probabilmente avvenuto come per la seconda moglie che voleva prendere nel *54 (2), e che credo parimenti non pigliasse mai, se non si vuole supporre che infermo di gotta e in età non più verde, e tra il disordinato impero dei cappellani che agitò la Repubblica nel decennio dal *54 al *64, costringendolo per giunta ad esulare, egli potesse sentire una voglia, davvero spasimata, di andare a nuove nozze. Il Ceba appartiene a quella generazione d’ uomini che si vien facendo più numerosa sul finire del secolo xv e nel seguente, che altalena tra l’amor del ben pubblico, arduo e pericoloso, e il desiderio di egoistica pace, di chiudersi ciascuno nella breve cerchia del bene particolare. Cotesto commentario, di cui nelle lettere successive non si legge più un cenno, m’ha tutta l’aria di quelle fiammate di paglia che brillano un istante e si spengono. Tanto più eh’ egli era viaggiatore insigne e buon bibliofilo, ma punto educato nell’arte dello scrivere. Nel ’62 aveva lasciato da poco la dimora di Firenze e viveva ritirato a Nizza. A Prospero da Camogli che gli moveva rimprovero di starsene speculando da ottimo porto gli sforzi di coloro che lottano in alto mare, risponde: — « io vorrei tu potessi a diritto muovermi (1) Lett. a Cicco Simonetta, XIII kal. martias 1476, in Rosmini, Vita di F. Filelfo, Milano, Mussi 1808, t. I. (2) Lett. del Filelfo al Ceba, 25 gennaio 1454. — 39 — quest’ accusa, il che sarebbe vero se vivessimo in una libera Repubblica, ma poiché essa s’é mutata in acerbissima tirannide, né posso porgerle aiuto, sto deplorandone da quest’angolo d’Italia l’imminente rovina ». Ma infine ciò che debolmente negava, sentiva pure che era; e conclude coll’accento malinconico delle anime deboli e sfiduciate: « Ahimè, Prospero mio, poiché la nostra mediocrità non sa trovare un rimedio al male, sappiamoci accomodare al tempo del quale molti dotti uomini affermano che la prudenza è figliuola » (i). Con l’amore della sapienza classica non fu rara nel Rinascimento neppure la sapienza di Pomponio Attico. Morì nel 75, nove anni dopo il Bracelli, ed ebbe tempo di sapere Caffa, e le ultime colonie di Crimea, della cui floridezza nelle sue peregrinazioni si sarà tante volte compiaciuto, perdute dalla Repubblica per sempre, colpa 1’ avarizia e la viltà de’ suoi reggitori indegni della fiducia che in loro avevano riposta i concittadini. • II. Il ricordo di questo illustre viaggiatore, amoroso, quantunque non letterato, di codici latini e greci, ed amico ad insigni umanisti, mi conduce a parlare di un altro genovese, intrinseco del Bracelli e di Ciriaco Anconitano, in relazione frequente col Traversari e con Poggio Bracciolini. Voglio dire del nobile Andreolo Giustiniani, de’ Maonesi di Scio. Era, scrive il nipote di lui, mon- (1) Ms. Br. c. 298, 99, let. cit. — Cfr. Belgrano, art. cit., per altre notizie sul Ceba e sua sepoltura nella chiesa di S. Francesco d’Albaro. — 4o — signor Agostino Giustiniani, studiosissimo di tutte le buone arti, e possedeva una biblioteca di circa due mila volumi (i). In que' tempi che i libri, come osserva lo stesso nipote, — « non s’imprimevano già a caratteri di stagno, secondo 1’ uso presente, ma venivano a grandissima spesa copiati dagli amanuensi » — era certo una cospicua raccolta. Difatti parve a’ contemporanei meravigliosa quella radunata in Roma da Nicolò V, il ligure che fece salire, dice ottimamente il Belgrano, 1’archeologia sul trono dei papi, ed infine non contava che tre mila volumi (2). Per altro non credo che la cifra recata in mezzo da monsignor Agostino, s’abbia a tener proprio come articolo di fede. Già tutta la lettera al Sauli é in tono di panegirico per l’illustre avo, e fin qui le più larghe attenuanti, ma vedremo più innanzi che, nello stesso luogo e sempre allo stesso fine di esaltare vie meglio Andreolo, egli afferma con la maggior sicurezza tal circostanza che viene gravemente infirmata da tutte le notizie dei contemporanei. Restiamo per ora ad Andreolo. Raffaele Adorno, salito al trono ducale come sappiamo nel '43, lo invitava a tornare in patria (3); ma al vedere, neppure il Giustiniani si fidava molto del nuovo governo, (1) Lett. a Filippo Sauli, vescovo di Brugnato, Bologna i agosto 151} , in Aeneae Platonici dialogus qui Tbeophastus inscribitur, Venetiis, anno 1513- — Cfr. Belgrano, art. Caffaro, 29 maggio 1885. (2) Vedi Enea Silvio ; Hist. de Europa, in Opera Omnia, Basilea, 1571, p. 459. — Lo Spotorno, op. cit., II, 380, assevera 5 mila codici, ma io mi attengo più volentieri all’ autorità del Piccolomini che poteva e doveva saperlo. (3) V. lett. del doge a lui in Enea Platonico, ediz. di Genova, 1645. — 4i — e le notizie che riceveva da Genova non erano latte in verità per ispronarvelo. Tra esse, merita ricordo, come curioso documento dei tempi, la lettera di un Guglielmo, nipote di Andreolo, che attendeva alla mercatura (i). « Non saprei da che parte farmi, incomincia egli, per scriverti cose che convengano ad un uomo libero, in tal modo la Repubblica é debilitata e sconvolta. Stando in Siviglia ebbi desiderio di rivedere la patria, poiché dubitava che le relazioni de’ concittadini nostri non fossero più gravi del vero ; ma, a mio parere, ci trovai anche peggio che non m’era stato riferito ». E delinea un quadro a tinte fosche, di cui i cenni abbiamo già sentiti nelle lettere del Bracelli al Ceba. « Tutto é pieno di fazioni scellerate, i tributi incomportabili, la città oppressa. I nobili di fuori pronti a disertare al duca di Milano, o a rubare nel dominio, e perchè più facilmente lo possan fare, la Repubblica li stipendia; i popolani poi in tal modo rivendicano tutta a sé la libertà di tutti, che si direbbe sia stata loro trasmessa in diritto (i) Ms. Br. c. 261 — Ex Genua, 144$ (manca il giorno ed il mese). La lettera è scorretta assai e pare di un giovine: Undc enini inicium scribendi sumerem, quo tenderem, quo me verterem {nescio), tam enim debilitata, ita quassata sunt omnia, ut quae komini libero conveniant non solum quod (sic) dare possim habeo, sed ne quid pollicear quidem. Cum Hispali residerem magna mihi fuit voluntas revisendi patriam: putabam enim, ut saepe fit, graviora omnia quam essent ab his qui veniebant traderentur (sic); mea quidem sententia multo deteriora quam audieram repperi .... Omnes enim, ut Seneca (ait), illa agnoscunt, et nento succurrit; quaenam erit unquam nostrorum tributorum finis, aut quando civitas tantis oneribus oppressa sublevabitur? Vel quis est qui proprium commodum non anteponat publico? Nemo, crede mihi. Nobiles oppidorum vexant urbem et quotiens eis libet ad ducem Mediolanensium deficiunt ; aliqui oppida loca-que nostra preoccupant et, ut id facilius diutiusque facere possint, singulis mensibus conducuntur : alii vero populares libertatem nostram sibi vindicant, quasi eam sibi ex hereditario legatam a patribus. — 42 — ereditario dagli avi ». Pare a prima giunta un nemico acerrimo dell’Adorno, e non è : non vi si risparmiano per contro le più ampie lodi — « Credimi, inabisserebbe ogni cosa nostra, se non avessimo nell’Adorno un ottimo rettore e duce, che colla sua ineffabile carità, clemenza e virtù ed amore verso i cittadini, siccome figli, ci sostiene » (i). — Per la coltura genovese, nel periodo di tempo che trattiamo, valga il seguente passo, in verità singolare: « Il pubblico denaro si dilapida e ciò solo é controverso in qual modo s’ abbia a spartire. Su tale argomento si fanno le gravi orazioni e gli uni Cicerone, gli altri Catone o Lelio o Demostene adducono come autorità, né temono di menzionare coloro, da cui, se in vita, sarebbero aspramente rampognati » (2). Andreolo nel *45 aveva ad essere già innanzi negli anni, se, come attestano i suoi biografi, egli moriva in età non giovine, appena dieci anni dopo (3). Fece come il Ceba e non si mosse da Scio. L’amicizia con il nostro cancelliere era di più vecchia data. Doveva essere cominciata non molto dopo il 32, poiché di poco posteriore é da credersi il capitolo in terza rima che il Giustiniani dedicava all’amico, ed in (1) Crede mihi nisi ducem rectonmqiu optimum haberemus Raff. Adurnus pcssum-du/ttur res nostra, qui nos sua ineffabili caritate, suaque dementia ei usque tn tives Unquam in Jilios amore, sua quoque virtute sustentat. (2) Si Je paecuniis repetundis agitur, quis est qui audeat pecunias non esse dilapidandas in concionem dicere? Nemo, cride : non reprobatur pecuniae solucio, quin imo quo nam modo dividi debeat id in controversia positum est. Et in hoc genere graves orationes aucloritatesque maiorum, aliqui Ciceronem, alii Catonem, alii Lelium, multi Demosthenem suis orationibus anteponunt, nec verentur eos nominare a quibus quam turpissime obiurgarentur, si viverent. (3) Cfr. Spotorno, op. cit. III, 39:, che ciu Michele Giustiniani , Scrittori Liguri. Questi discendeva da Andreolo per linea femminile. — 43 — cui si narra in una specie di prosa rimata, l’impresa de’ Veneziani contro Scio, cominciata per questi con lieti auspici e finita con grave loro scorno. Direi dall’ intonazione del capitolo che della strenua difesa degli Scioti fosse spettatore e parte anche Andreolo , sebbene negli storici genovesi di lui non trovi fatto cenno. Altri indizi, come vedremo più oltre, ci avvertono della sua dimora colà, assai prima. Restando per ora a’ suoi versi in volgare, per verità essi non valgono gran cosa. Eccone la chiusa per saggio : A li dixsepte giorni de Genaro Nel mille quattrocento trenta e doi Fu quando for del porto si tiraro, Cum dieci galeazze e legni soi Cum tre subtil galee e galeote, E cum le nave ior iestante poi, Col numero de barche, de barbote Ch' en somma furo vele trentasei Quando partiron divise in due frote. Ahimè, povero Andreolo ! E terra terra procede anche il sonetto dedicatorio al Bracelli, caudato per soprappiù, e con un apparato mitologico così pesante nella non voluta imperfezione delle rime, che forse farà sorridere il lettore. È prova per altro del conto che il nobile signore faceva dell’amico ed accettiamolo quindi come tale, sebbene il predicarlo sposo delle muse addirittura dovesse sembrare molto forte, credo, anche al nostro storico. Ecco il sonetto: Poiché tua fama cotanto preconia In ogni parte trascorrendo vola, E tra moderni resta unica e sola Quanti ne calca el bel terren de Ausonia, — 44 — Degnati dunque, o figlio di Tritonia, Alta Pallade, o rcttor di sua scola, Porgermi un motto, un metro, una parola Di tua lingua bagnata in Eliconia. Non imputare torse ad arrogantia Questo mio dimandar presuntuoso Piuttosto a grande amor eh’ ad ignorantia. Se io sono di imparar desideroso Dal tuo bel fonte di tanta abundantia Non mel negare, delle muse o sposo. Io mando a te queste mie rude rime Sotto ’l correger de tue docte lime (i). Il Bracelli probabilmente non corresse né questi versi, né gli altri che paiono per 1’ inspirazione sfiatata e bolsa ripetere il giuoco dell’anitra: un saltarello e uno stramazzone; ma non mancò in ogni occasione di attestargli stima molta ed amicizia. Era un buon amico, non propriamente un letterato, ma colto, nobile di nascita e d’animo, possessore di preziosi codici e cimelii. Ciò spiega i rapporti tra lui e il nostro cancelliere, cosi come con altri illustri umanisti. E il Bracelli lo teneva informato degli avvenimenti del giorno ed era desideroso del giudizio di lui sulle sue operette (2). Con Andreolo faceva scambio di codici e attendeva a farli copiare, tra cui un Tolomeo, di cui egli possedeva una traduzione latina, come ci avverte, assai scorretta, tuttavia richiestagli dal Giustiniani forse per collazionarla sopra uno de’ codici greci rinvenuto in qualche convento (1) Miscellanea di Storia Italiana, VI: Relazioni dtIV attacco e difesa di Scio nel i4jt di Andreolo Giustiniani, edita da Giulio Porro Lambertenghi. (2) Magna in expectatione positus sum, ut ex te cognoscam quodnam de Liguriae nostrae descriptione iudicium feras; nam si te vel diligentiam in opusculo illo lau dasse compertum habeam, non pigebit me lucubrationum mearum, nec videbor libellum hunc temere hominum notitiae commisisse. — Ms. Br. c. 184 , Genova , 10 aprile 1442. — 45 — dell’Oriente (i). Ciriaco fin dal ’26 aveva acquistato in Adrianopoli con altri libri, anche un bel codice di Tolomeo. Dal canto suo il Giustiniani gli faceva parte delle preziose antichità radunate in sua casa e ne era liberale anche ad altri che senza dubbio Io sollecitavano. Nel ’40, siccome pare da una lettera indirizzatagli dal Bracciolini, aveva fatto omaggio di parecchie antichissime medaglie d’ oro e statue al papa Eugenio IV. E il Bracelli gli scriveva : « Mi rincresce l’averti chiesto d’ un saggio de’ simulacri marmorei, delizia tua, ignorando che la tua liberalità verso altri già te n’aveva spogliato. Tralascia dunque di mandarmi la statua che m’ hai destinata. Che se si darà il caso che tu abbia ricchezza di siffatte sculture, allora consentirò che la mia casa, la quale é pur tua, sia da te adornata di alcuna eletta opera di Fidia, o di Policleto » (2). Bene osserva qui il Prof. Belgrano: «l’entusiastica ammirazione del bello antico rendeva corrivi nell’ attribuire alle opere che i viaggi o gli scavi rimettevano in aperto, una paternità rispettata, acciò valesse ancora ad aumentarne il culto » (3). (1) Ptoìomeus tuus absolutus est, verum nec emendatus, nec tempore hoc emendabilis : nam exemplar aliud, praeter id quod me penes est, nolim putes hoc in urbe posse inveniri: liber enim recens traductus est in linguam nostram, nondum disseminatus est. Tu illo qualiscumqiie est utere. — Ms. Br. c. 123, lett. 2 luglio 1440. (2) Ms. Br. c. 123, Genova, 2 luglio 1440. — Piget quod delitias tuas marmorea signa petierim, inopem enim te, quod ignorabam, earum rerum liberalitas fecit. Itaque oro te desinas statuam ad me mittere : si quis vero casus effecerit, ut eiusmodi statuarum copia tibi sit, tunc patiar ut electo aliquo Phidiaco vel Poly-cletico opere meas aedes, quae tuae sunt, exornes. — Questa con altre due lettere ad Andreolo, trovasi anche come appendice in Aeneae Plat., op. cit., Genova 1645. (3) Cfr. Belgrano, art. cit. — 46 — L’amore per le preziose reliquie dell’antichità mi porta a toccare brevemente dei rapporti di Andreolo con Ciriaco, il Bracciolini ed il Traversari. Andreolo conobbe il famoso viaggiatore archeologo fin dal 1425 e '2 6, ossia nel secondo viaggio del Pizzicolli, in cui questi esplorava Scio, Cipro, Rodi, Samo ed altre isole dell’ Egeo. Andreolo è l’amico al quale Ciriaco dedicava nel suo ritorno a Cipro la traduzione di una breve vita di Euripide, come saggio de’ progressi nel greco imparato da lui, senza soccorso di maestri. Il Giustiniani dimorava dunque in Scio fin da questo tempo, ed oltre la liberale accoglienza in sua casa, dovette certo essere al Pizzicolli di grande aiuto nell’ acquisto di antiche monete, bronzi, gemme ed altri preziosi oggetti d’arte (1). E che questa non sia congettura campata in aria, ce n’ avverte la corrispondenza del Traversari e del Poggio al fiorentino Niccolò Niccoli ed allo stesso Giustiniani. Nell’animo di questi dotti uomini aveva sollevato molta speranza un frate Francesco da Pistoia, che il papa Eugenio IV, ciò é dunque dopo il '34, aveva mandato in Grecia. Costui da Scio, ov’erasi fermato, aveva annunciato scoperte mirabolane agli amici fiorentini, che l’effetto smentì ben tosto; ma trasmetteva ad un tempo notizie intorno ad Andreolo, che per noi sono preziose. E ne rendeva conto il Traversari all’amico: Andreolo era possessore di antichissime medaglie, e di altri siffatti preziosi oggetti che si riservava di mandare in dono ad esso Niccoli, quando frate Francesco ritornasse in (1) Voigt, op. cit., p. 272 segg. — 47 — Italia (i). Il cuore del Poggio poi era stato per un momento giubilante. Il greco Kalogeros, quello stesso, credo , che anni prima aveva disseppellito in Rodi una statua di Venere e una figura plastica di Bacco, venduti poi al Pizzicolli che li spedì ad Ancona (2), ora si annunciava che in un certo antro aveva rinvenuto integre quasi cento statue marmoree, opera di mirabile perfezione. Il frate aveva fatto acquisto di tre busti per conto del Poggio, una Giunone, una Minerva ed un Bacco, prodotti dello scalpello di Policleto e di Prassitele, e prometteva portarli seco sino a Gaeta. Per altro, da acuto toscano, il Bracciolini soggiungeva : de nominibus sculptorum nescio quid dicam ; graeculi, ut nosti, sunt, verbosiores et forsan ad vendendum carius haec finxerunt nomina. Non aveva sbagliato, e le speranze di accrescere decoro alla magnifica sua villa valdarnina, mercé alcuno degli antichi capolavori dell’ arte greca, andarono molto deluse. Invano ne scrisse al dotto uomo Andreolo Giustiniani , colti’ egli lo chiama, e ad un Suffreto di Rodi, celebre raccoglitore di marmi, pregando, sollecitando : soltanto un artista supremamente innamorato dell’ arte sua, potrebbe comprendere il fervore d’ entusiasmo di quegli uomini, cui per la prima volta, usciti dal carcere medioevale, si svelava nello splendore del marmo, la serena bellezza idoleggiata da’ greci : « Quando veggo (1) Martene et Durand; Vita, Scrip. amp. coll, III, XV, ep. 14: CeUrum ex alio theologo Jacobo, illius socio, sum factus certior, quod cum frater e:us ex Intuisce locis rediisset dixerit, se vidisse penes Andrtam ipsum nummos aureos vetustissimos et quaedam id genus, quae mittere ille instituisset dono, etc. (2) Voigt; op. cit., loc cit. Rispetto al Kalogeros, il Bracciolini scrive difatti nella sua lettera: qui noviter in quodam antro reperit etc. Non era dunque la prima sua scoperta. - 48 - nel marmo imitata cosi bene la natura, son compreso di riverenza per il genio dell’artista. Ognuno ha la sua debolezza. Io ho quella di ammirare, forse con troppo entusiasmo, l’opera degli eccellenti scultori, ma non posso non rimanere colpito d’ammirazione per 1’ ingegno di chi seppe dare ad una sostanza inanimata 1’ espressione della vita ». Cosi scriveva il Poggio allo stesso Francesco da Pistoia. Ma costui lo frodò delle statue, come un vero furfante, e riuscì a fargliela anche una seconda volta, ché avendogli Andreolo consegnato più tardi alcuni antichi busti per il Poggio, egli li vendè invece a Cosimo de’ Medici (i). Ed ora fermiamoci un istante sul preteso viaggio di Ambrogio Traversari in Grecia e sulla visita da lui fatta in Scio ad Andreolo. Il nipote di questo, monsignor Agostino Giustiniani, nella lettera già citata al Sauli, 10 afferma senza ombra di dubbio, prendendone occasione per lodare la liberalità dell’ avo. « Di ritorno da un viaggio fatto a Costantinopoli insieme col Guarino ed il Filelfo, approdò all’isola di Scio, dove onorevolmente accolto dal Giustiniani, non prima si parti che gli avesse offerto tradotto dal greco in latino il bellissimo libercolo sull’ immortalità dell’ anima di Enea Platonico ». Dietro di lui lo ripeterono lo Spotorno ed altri. E del resto par cosi naturale che monsignor Agostino dovesse esserne informato, e lo scrive con tanta asseveranza, che a prima giunta pare scortesia perfino 11 dubitarne. Ma riflettiamoci sopra un tratto, e ne (i; Poggii, Opera, p. 329, lett. del Poggio al Giustiniani. Cfr. Schepherd, Vita di Poggio Bracciolini, I. 259 segg. ~ 49 — porteremo, credo, la convinzione esser questa una tarda favoletta del signor nipote. Prima di tutto nella lettera con cui il Traversari dedica il dialogo di Enea Platonico ad Andreolo non ve n’ é una sola parola; eppure qual occasione migliore di lodare la liberale ospitalità del patrizio genovese e le statue che accrescevano ornamento e pregio alla sua casa? Si legga l’epistolario del Traversari: egli non fa passo che non visiti la biblioteca di un convento o di un amico e non ne descriva al Niccoli le rarità vedute. Qui per contro nulla. Due parole sulla sottile disputa di Enea, che si fa in senso molto ortodosso, a dimostrare la vanità delle opinioni filosofiche, quando traviino dalla fede cristiana, un raffronto tra questo Enea e 1’ antico, tirato molto coi denti, e non si va più in là. Ma inoltre come si può combinare questo viaggio che non riscontra con nessuna delle date note per gli altri due umanisti a lui compagni? Verifichiamo. Il Guarino dà effetto al suo viaggio a Costantinopoli nel 1395, venticinquesimo di sua età (1). Nel 1408 ne era già ritornato ed insegnava in Firenze, dove rimase fino al 1414. Il Guarino non fece altri viaggi in Grecia. Francesco Filelfo approdava a Venezia, dopo alcuni anni di dimora a Costantinopoli, il 10 ottobre del 1427. Diciannove anni più tardi adunque del Guarino. Soltanto nell' aprile del '29 passava a Firenze. Vediamo il Traversari. Quattordicenne entra nel convento di S. Maria degli Angioli, e volge tutto il fervore giovanile agli studi ecclesiastici. Ma I’ Atene italiana col suo classico splendore l’attira. Nel 1396 vi giunge (1) Per questa ed altre date cfr. R. Sabbadini; Guarino veronese e il suo epistolario edito e inedito, Salerno, i88^. Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIII. 4 — 50 — Emanuele Crisolora e tra gli scolari che si stringono intorno al famoso maestro per imparare il greco, c’ é anche il Traversali. Lo dice chiaro ed esplicito Vespasiano fiorentino. Il Crisolora lascia Firenze nei primi mesi del 1400, ma il Traversari ormai non bisognava più di maestro, e tanto meno d’ un viaggio in Oriente. Francesco di Castiglione, un ammiratore, si stupiva anzi, che egli per fatica ed industria sua, con nessuno o assai scarso aiuto di precettore, avesse imparata quella lingua. Infine, in nessun luogo, tranne nella lettera dedicatoria di monsignor Agostino, si trova notizia di questo viaggio del dotto generale de Camaldolesi. E figuratevi se alcuno degli amici suoi, il Niccoli e il Poggio, per esempio, o egli stesso nelle sue epistole, non ne avrebbero parlato. Difatti de’ viaggi che fece in Italia dal 1431 al 34 per visitare i monasteri del suo ordine, e delle biblioteche da lui esplorate in quell’ occasione egli lasciò precisa memoria nell Hodocpovicon. Perche non altrettanto del viaggio in Grecia, che avrebbe oltremodo soddisfatta la sua vanità letteraria? Invece tranne la lettera già citata al Niccoli, che e poi del 3nuli altro cenno intorno al Giustiniani, si rinviene nella corrispondenza del Camaldolese (1). E quanto al valore di questa, come favorevole argomento, se ne sara persuaso abbastanza il lettore leggendo la citazione da noi riportata.' le monete d’oro antiche non Ambrogio avevaie vedute cogli occhi propri in Scio presso il nobile genovese, (1) Martene et Durand; op. cit., lett. cit., Vi si parla del codice Plautino posseduto dal card. Orsino e richiesto dal Traversari. Il Sabbadini ne fissa la data al 18 novembre 1430. Cfr. Guarino Veronese e gli archetipi di Celso e Plauto, Livorno 1886. 1 — Sima ne aveva dato notizia un compagno di frate Francesco da Pistoia. Il Mehus, che citò il passo istesso, ebbe il torto di trascriverlo monco e di indurre quindi chi legge facilmente in errore (i). Per concludere, anche senza molto acume, si può indovinare forse donde il signor nipote si trasse la novellina. Egli aveva letfò nel Giovio, nel Platina e in altri forse, se inesattamente non occorre il dire, che il Guarino, il Filelfo e Ambrogio monaco erano tutti usciti dalla scuola di Emanuele Crisolora (2). Questi aveva insegnato a Costantinopoli, ed in quella città sotto la direzione di lui aveva studiato il Guarino; il Traversari, pur esso discepolo del Crisolora, aveva dedicata una versione dal greco ad Andreolo; qual ragione ed occasione migliore per far andare il frate camaldolese dal convento di S. Maria degli Angioli a Costantinopoli, e da Costantinopoli a Scio? III. Di una lettera del Bracelli allo stesso Andreolo in cui gli dà conto d’ una di quelle curiose discussioni, che ottennero egual favore si nel medio evo che nel Rinascimento, sebbene con indirizzo diverso, toccheremo altrove. Questi cenni sulla cultura genovese mi conducono ora ad un patrizio antiquario, Eliano Spinola, e ad un virtuoso nel senso che dava il Rinascimento alla parola, ad un uomo singolare con cui il Bracelli tenne un’ amicizia di molti anni. È questi il famoso Biagio Assereto. Comin- (1) Mehus ( Vita Ambr. Traversari, p. 53. (2) Lo ripete il Quirino, Epistolae, 17, citando i passi del Giovio, Elogi, e del Platina nella Vita di Bonifaiio IX. damo da lui, poiché bene si colloca per la parte che rappresentò nell’ umanesimo del suo tempo accanto al Giustiniani. Uomo d’ armi, dalle quali riconobbe tutta la sua gloria, non la pretese certo a letterato, ma indovinò il nuovo moto del si\o secolo, ed amò di sincero amore il classicismo. Ecco il suo merito come privato, ed • • é di esso che noi ci occuperemo specialmente qui, ossia del signore che per genialità di studi mantiene commercio d’amicizia con alcuno de’ dotti più in fama. Dell’ uomo pubblico e politico toccheremo solo quel tanto che sia necessario a delineare il suo carattere morale. Costui che dal tabellionato giunge ad essere consigliere ducale, padrone del feudo di Serravalle, podestà di Milano nella repubblica ambrosiana, costui incarna quel tipo e quelle tendenze peculiari del Rinascimento su cui avremo a ritornare. Non é un modello di cittadino, anzi la sua condotta verso Genova può dirsi sleale prima, oltraggiosa dopo la battaglia di Ponza. Ma egli è un uomo del Machiavelli, egli sa essere in un’ occasione onorevolmente tristo (i), e ciò ben lungi dal procurargli infamia, gli è attribuito a lode. Perchè egli é all’ unisono nel pensiero con i dotti e i politici del suo tempo che fanno la pubblica opinione, egli individualità intera che con vivezza di colorito poetico descrive a’ suoi Signori, il giorno dopo di Ponza, la memorabile vittoria, è il compagno naturale di coloro che lottavano con pari energia a dilargare la religione, l’arte, la scienza, tre raggi della mente divina, e tutto ciò ponevano come decoro di quel principato che essi (i) Discorsi, lib. I, 27. - 53 — favorivano, che in ogni provincia d’ Italia cercava di prendere stabile assetto. Ciriaco Anconitano nella sua Naumachia lo esalta, Enea Silvio Piccolomini, già oltre in quella fortunata via che doveva condurlo alla tiara, gli dedica un carme latino ; il Filelfo, il Bracelli intrattengono affettuosa corrispondenza con lui. Figlio di un banchiere, scrive Flavio Biondo, di un fabbro, dice il Federici e mi pare più credibile (i), comincia ad essere notaio e cancelliere della repubblica, poi cancelliere e padrone ad un tempo di una galera nel 23, nell’ occasione che allestivasi una flotta contro Alfonso di Napoli, poi già in fama di ardito capitano per il fatto contro il fiorentino Pietruccio Verri (2), e finalmente capo di tutta 1’ armata alla battaglia di Ponza. Ecco dunque un altro cancelliere, collega nell’ ufficio al Bracelli, ma la cui attività ha modo di dimostrarsi altrove e in modo inaspettato; così ricca e diversa era la natura di quegli uomini. Usato in tutte le faccende marinaresche, per cui si richiedesse un esecutore fidato, nel 1432 egli riceve già dalla repubblica titolo di prestante uomo e dottissimo (3), quasi preludio a quel coro di lodi e di vituperii, che doveva solo tre anni dopo, levarsi intorno al suo nome. Il Fazio non gli procede così parziale, come il Bracelli, nel giudizio che pronuncia di lui, e da parte dello storiografo di re Alfonso (1) Bl. Flavii; Opera omnia, Basileae 1531, p. 302 segg. Federici, ms. cit., p. 130. Anche il Fazio lo dice humili genere natus. Cfr. Barth. Facii; De reb. gest. al> Alphonso primo Commentlib. X, Neapoli, 1769, pag. 84. (2) Iacobi Bracellei; De bello hispaniensi, lib. III. (3) Lettera del Bracelli indirizzata d’ordine pubblico a Biagio (17 ottobre 1432). Cfr. art, Belgrano in Caffaro a. XII, n. 79, della cui erudizione mi sono valso qui. Tra le lettere del Bracelli trovo due anni prima, anche la seguente, — 54 ~ questo si capisce; ma anche il Biondo rincara sulle accuse ; e l’indignazione dei concittadini, che del resto sarebbe facile indovinare per la condotta da lui tenuta dopo la prigionia di Alfonso, traspare dagli atti pubblici e dall’ epistolario del Bracelli. « Era uomo attivo, loquace, astuto, scrive il Fazio, di animo più alto che non comportasse il suo grado, ed oltre misura avido di pubblici onori » (i); avversato dai nobili aveva ottenuto il comando della flotta contro il re di Napoli a furia d’intrighi in corte di Filippo. Senza dubbio il Fazio alludeva a ciò che é narrato chiaramente dal Biondo. Era egli prigione in Venezia insieme con Francesco Spinola, dopo la rotta che questi ricevette nel 1435. da Pietro Loredano. Lo Spinola si lasciò allora sfuggir di bocca che tosto il potesse saprebbe bene liberar Genova dalla servitù del Visconti. Riseppero quelle parole i Signori veneziani, ed avendolo tentato intorno a’ mezzi da adoperarsi per ciò, fu deciso che Biagio Assereto fosse rilasciato, sotto colore di andare a trattare del riscatto de’ prigionieri, ma in effetto per pigliare gli accordi opportuni con Tommaso Fregoso. Se non che il scritta per ordine del governatore, arcivescovo Bartolomeo Capra, ed è prova della molta fiducia riposta nell’ Assereto. Barthol. Archiepiscopus etc. et Consilium, circumspectis viris Nicolao de Camulio tt Matbeo de Auria, patronis duarum navium, dilectissimis nostris. Dilietissimi nostri, mittimus ad vos egregium cancellarium nostrum BIasium di Assereto, cui iniunximus quedam nostri parti vobis referenda : mandamus itaque vobis ut et relatui eius credatis et mandatis faciendis ab eo sim condictioni pareatis. Data Clavaris 14 iulii 14)0. (Arch. di Stato in Genova. Litterar. } lac. de Br.) (1) Fazio ; op. cit., loc. cit. Erat is quidem burniti genere ortus, coeierum vigilans, callidus, lingua celeri et expedita, animoque supra dignitatem ac praeterquam par erat, honores publicos affedante. - 55 — Fregoso non avendo voluto dar credenza alle proposte dell’Assereto, questi si recò dal duca e gli svelò tutta la pratica. Ecco l’origine prima della disgrazia di Francesco Spinola presso il duca, e del favore che vi godè per contro 1’Assereto. Era storia cotesta, o una malvagia invenzione di costui ? Pare che nel secondo modo la pensasse appunto il Biondo, per le parole almeno che fa dire a Francesco Spinola in un discorso eh’ egli tiene agli aderenti suoi e nemici della signoria ducale. Si cospirava dopo Ponza per davvero contro Filippo, e parlando dell’odio che il tiranno gli portava, malgrado le benemerenze da lui acquistate nell’ assedio di Gaeta, aggiunge : « Ma né i meriti miei, né gli infiniti della mia famiglia, se pure voleva i miei disprezzare, poterono mai persuadere la perfidia ed ingratitudine solita del duca ad alcuna significazione di animo grato verso di me. Anzi 1’ hanno concitata ora ed armata contro la mia persona le calunnie di quel perduto uomo di Biagio Assereto » (i). Di tal maniera si giudicava colui che dopo la gloriosa giornata, esule volontario dalla patria, ora a Milano , ora nel suo feudo di Serravalle-Scrivia, attirava sopra di sé gli sguardi ammirati di alcuno tra i più famosi umanisti. Fu certo in corte del Visconti che egli acquistò lo spolvero, quella vernice di signore colto, passionato dell’ arte antica, dei buoni studi, che gli procacciò le lodi de’ dotti frequentatori dell’aule viscontee. (i) Ipsius (ducis Mediolani) vero perfidia, ipsius solita erga omnes ingratitudine summa est factum, cives, ut quem (quae?) infinita nostrae familiae, si mea contempsisset erga se merita, ad grati erga me animi significationem aliquam adducere nunquam potuerunt, concitaverint nunc (eum?) et armaverint in caput nostrum perditissimi hominis Bhsii Agereli calumniae. Blondus, op. cit., p. 502 segg. - 56 - Prima d’ allora l’ingegno vivo e potente del popolano genovese ebbe, se giudico bene, ad essere dirozzato appena da una certa pratica curialesca. E i panegirici di Ciriaco, del Vegio, del Piccolomini, le cortesi lettere del Filelfo, del Bracelli 1’ avranno consolato della freddezza e noncuranza che i suoi concittadini affettavano per lui. Nell’ informazione che il Consiglio degli Anziani e 1’ ufficio di Balìa indirizzò ad Arrigo VI d’ Inghilterra: « si copre con uno studiato silenzio la memoria dello strenuissimo capitano, e si chiama, è vero, la vittoria di Ponza meravigliosa e al secolo presente inaudita, ma non voluta da umano proposito, non conseguita dalle forze genovesi, bensì donata non da altri che dal Cielo » (i). Di Enea Silvio resta il carme pubblicato, tra gli scritti inediti del celebre pontefice, dal prof. Cugnoni (2). E posteriore di parecchi anni al ’3 5, ma si riferisce a questo tempo, quando il Piccolomini faceva dimora nella capitale lombarda, maturando nella modesta fortuna d’ allora le speranze ed ambizioni future (3). « Tu solo, o Assereto, dice il carme, tra le perigliose pugne su d’un mare infesto e i gloriati trionfi sul nemico, ti fai venire compagna la Musa. Assai diverso da certi magnanimi capitani che son (1) Belgraxo, art. cit. (2) Atti d. R. Accademia dei Lincei, serie terza, voi. Vili. (3) Forse anche prima che in Milano, Enea Silvio ebbe opportunità di conoscere in Genova 1’Assereto, nell’occasione di una visita che egli vi fece tra il '32 e il '35. Di essa porge infatti sicura notizia una lettera dello stesso Piccolo-mini, che per alcuni riguardi mi sembra importante e il cui testo rimando quindi al Documento VI in fine. Parlandovisi delle festose accoglienze, che vennero fatte agli illustri ospiti da Oldrado di Lanipugnano e da Opizzino di Alzate in nome del duca di Milano, era assai facile stabilire la data approssimativa. Debbo comunicazione del documento all’usata squisita gentilezza del comm. Belgrano, che ne chiese per me copia al cav. Lisini, dirett. dell’Arch. di Stato in Siena. Ai due egregi uomini rendo qui pubbliche grazie. - 57 — sempre in bocca al volgo e cui la fama leva alle stelle, i quali scacciano i poeti ed esclamano : chi ormai scriverà versi? chi, se non l’ebbro di vino »? Ed il poeta esclama con risentimento quasi personale: Haui ignota cano, nostraque etate probatum est, Ingenium armato displicuisse duci. Non così 1’ Assereto, e nel carme s’introduce 1’ amico Maffeo Vegio a tesserne un amplissimo elogio. — « Perchè 1’ Assereto pur in mezzo alle armi ama di tanto amore le Aonie »? Così interroga il Piccolomini: ed il Vegio a rispondere : « Biagio vuol correre ambo le vie dell’ antico valore ; or piacesi di Virgilio, or prende diletto d’ Omero, e non manco legge di poesia che di storia. Né paia strano 1’ amor suo verso i poeti, se è vero che ogni uomo brama la società de’ suoi pari : già da gran pezza Minerva non si era mostrata fra lo strepito dell’ armi ; ma il tempo nostro non può trovare alcuno che somigli all’ Assereto. Per ciò appunto gli consacro 1’ elogio : raros vult mea Musa viros » (i). Lettere private del Bracelli al grande capitano trovo due, dello stesso anno 1445, ma l’intonazione del linguaggio attesta che la loro amicizia durava da lungo tempo, costante e cordiale (2). (1) Riporto l’ottimo sunto che fa di questo passo il Belgrano, art. cit, (2) Quod me immodice laudas, quod mea tantopere laudas, eo certe errore fit quo facile falluntur amantes: inde quoque est quod absentia tristis es, quod litteris recrearis. Ego, mi Blasi, praeter eam humanitatem qua caeleris praeis, facile persuadeo mihi, dum te ad illorum temporum memoriam revocas quibus ut adolescentes viximus, dum postea ad sequentium annorum recordationem transis qui tios eodem munere fungentes in curia devinxerunt, tibi videri me et reliquos illorum temporum, si qui medo sunt reliqui, recte ac proprie tuos esse, quos si laudas, non aliena, sed tua laudas. Ms. Br., c. ioo, lett. 5 giugno 1445. - 58 - Il Bracelli era andato nell’ aprile di quell’ anno ambasciatore al duca, e nella corte milanese aveva riveduto il suo illustre amico memore ancora de’ piaceri dell’adolescenza , ahimè tramontata da un pezzo , e della cordiale intimità che li aveva avvinti durante il tempo passato insieme nella cancelleria genovese. E quei ricordi rifiorivano cari alla mente dell’ Assereto , perché li revocava volontieri coll’ amico, e questi soddisfatto della degnazione di lui, a rispondere, com’era naturale: bontà tua. Nel ritorno da Milano, il segretario erasi fermato a Serravalle-Scrivia, amorevolmente accoltovi da Francesco, figlio di Biagio, e descriveva poi a quest’ ultimo le cortesi accoglienze quivi ricevute e la cena interpunta da un certo vino rubinato servito liberalmente , senza però far torto al moscato che si alternava sulla tavola. Tiriamo via: il Bracelli fa altrettanto, sebbene ci avverta che que’ vecchi erano esperti ne’ punti della gola quasi tanto che nel latino. — « Non mancarono a quella cena neppure i funghi » esclama l’umanista, ed eravamo di maggio. Questo sia detto a solo uso de’ buongustai, che radunino documenti per una storia della cucina. Come caratteristica dei tempi abbia invece qui suo luogo il ricordo dei versi in onore della Vergine che in un altro convito, pur esso in casa dell’Assereto, sentì recitare da’ graziosi figliuoletti di un Antonio da Pesaro. Era costui pochi giorni prima passato da Genova diretto alla volta di Napoli, come ambasciatore del duca di Milano, e il doge Raffaele Adorno e i principali cittadini 1’ avevano ricolmo di onori. Forse il sospetto faceva esagerare i riguardi verso di lui. Difatti con lettera del 5 giugno, ossia del dì medesimo eh’ egli partiva, si - 59 — raccomandava agli ambasciatori genovesi in Napoli : cc quid tractet, quid impetret, quid demum perfecerit, curate ut ex vobis cognoscamus » (i). I ragazzi, com’ è probabile, non seguirono nel suo viaggio il padre, e la casa di Biagio Assereto, visconte di Serravalle e consigliere ducale, è ben naturale che venisse prescelta per una breve fermata. È in tale occasione che uno dei convitati, il Bracelli, si era sentito commuovere alle poesie religiose di Simone sanese, dette con tanto garbo da que’ ragazzi. Ed ecco come invece del baldanzoso scolio greco o della canzone convivale — altri tempi ed altri paesi — che bagnasse il sommolo dell’ ala in quelle tazze ricolme, si faceva innanzi in pieno quattrocento il componimento del medio evo ascetico, la lauda, e questa neppure in voce di canto. E vero che al difetto supplivano le vocine infantili dei figliuoli di Antonio. Dell’ autore non si trova nulla più dell' indicazione già riportata, ossia quel tanto solo che ci avverte essere egli uno de’ laudesi toscani, gli eredi ed emuli de’ rozzi e forti poeti dell’ Umbria. Stefanino, un altro figliuolo di Biagio, fu incaricato di prenderne copia; e dalla seconda lettera di Giacomo al padre, sappiamo che questo suo desiderio fu accontentato. Ma che (i) Arch. di Stato in Genova. Litterarum 2, Iac. de Bracellis ; lett. 5 giugno 1445 a Niccolò Di Negro ed ai colleghi ambasciatori in Napoli. Di tutt’ altro tenore era un’ altra del 4 giugno al duca di Milano. Il doge ed il Consiglio erano felici di dimostrare la loro venerazione al duca e la stima che facevano delle esimie virtù di Antonio, solo dolenti di non poter fare di più per la brevità del tempo. Tuttavia mettevano a sua disposizione una galea. Tradidimus illi biremem unam recte paratam atque instructam, nutu et imperio suo regendam, ductoriqtie mandata dedimus ut non modo cum Neapolim devehat, sed insuper, si ille confidat posse intra dies sex expediri ac reverti, sex illum dies prestoletur et revehat. — 6o — ne avvenisse non so: il zibaldone manoscritto, di cui mi valgo per queste notizie sul Bracelli, contiene bensi de’ brutti versi latini e perfino una barbara e assai libera eroide in prosa volgare, con un grosso cuore trafitto da una treccia, — opera certo o di ragazzaccio intraprendente, o di vecchio anche peggio, dimentico del-1 ovidiano : turpis senilis amor —, ma de’ versi di Simone come di altri rimatori italiani, niente. Sul qual proposito penso che il quattrocento genovese poco o nulla abbia tatto nel campo della poesia, e assai scarso interesse abbia dimostrato per 1’ opera fruttuosa degli altri. Non mi si citi qui il Fallamonica. Quegli mostrerebbe di non capire il moto caratteristico che urge e sospinge gli intelletti di quel secolo, e di cui va tenuto conto specialmente. Bartolomeo Gentile-Fallamonica che, sul finire del quattrocento, scrive un poema di quarantadue canti, allegorico filosofico teologico, quando la luce dell allegoria era finita da un pezzo, é un anacronismo nel suo tempo, é uno strascico del passato. Frattanto il Bracelli, sicuro di far cosa grata al suo potente amico, c’incastrava abilmente nella lettera il seguente periodo: « di ritorno da Serravalle in patria molte cose dissi con lode di te al doge ed ai magistrati , e mi pare di aver facilmente ottenuto che mutassero di parere, se la pensavano falsamente sul conto tuo ». Era cortigianeria da parte del Bracelli? Già non era solo, l’abbiam veduto, e alcuno dei citati sarebbe leggerezza imbrancarlo nel gregge degli adulatori volgari. Si dica piuttosto che quando un male é il prodotto spontaneo di quell’ambiente sociale, trova facilmente non che escusatori, ma anche seguaci. L'Assereto non — 6i — aveva tenuto fede ai compagni di carcere, era stato ingrato col suo primo benefattore, lo Spinola, sleale coi concittadini. E che perciò? Non facevano tutti così coloro che calpestavano da padroni questa misera aiuola terrena, se pur non facevano peggio? Ed egli plebeo, figlio di un povero fabbro, era riuscito, senza le sanguinose perfidie di tanti altri, e possedeva la genialità artistica che a tanti altri mancava. Inoltre, già fu detto, l’umanesimo odiava supremamente l’improntitudine ciompa, nè poteva far colpa al-1’ Assereto se erasi affaticato in prò suo e di un principe. Alcuni anni più tardi a Lorenzo de’ Medici cosi consigliava il Platina: « Di grazia, allontana questi paesani che trasformerebbero le nostre sale in campi da lavoro ; sono genti disadatte, pieni di volontà ed incapaci di moderare le loro azioni coll’ uso del mondo e colla grandezza » (i). In verità, que’ braccianti, que’ macellai, che come anziani del Comune o capitani del popolo s’impancavano a legislatori, dovevano urtare parecchio i nervi all’ umanista e al consigliere ducale (2). Qualcuno potrebbe piuttosto chiedere come il nostro Bracelli riuscisse a conciliare la grazia de’ suoi Signori con l’amicizia cordiale verso 1’ antico notaio, che infine, malgrado i forzati riguardi, non era ben veduto. Ma si tenga conto perciò della speciale condizione fatta nel secolo XV al cancelliere di un principe 0 di una repubblica. Quest’ uomo eh’ era destinato fra tante politiche mutazioni, (1) Platina; De optimo cive, dedicato a Lorenzo de’ Medici. Cito dal Ferrari; Scrittori politici. (2) Nel 144.2 tra gli otto capitani del popolo si contava appunto un macellaio. — 62 — ad incarnare in sé la tradizione di governo, aveva l’obbligo di assistere all* avvicendarsi perenne di vinti e di vincitori, senza recarvi alcuna passione personale, con 1’ occhio stesso freddo e scrutatore con cui lo scienziato osserva le patologiche perturbazioni degli organismi. Ne aveva 1’ obbligo, se non voleva correre la sorte stessa dei vinti; ma questo non impediva ch’egli potesse servire con fedeltà ed amore fino alla vigilia gli sconfitti del giorno dopo ed intrattenere con essi, anche di poi, amichevoli relazioni. Cosi originava quell’ indifferenza politica, che doveva essere cagione di bene per i nostri studi storici e di grandissimo male per la nostra libertà. Nel caso speciale poi le cose correvano, per fortuna dell’ Assereto, alquanto diversamente. Non c erano qui né vincitori, né vinti. Il duca era pur sempre lo spaventacelo vicino che gli Adorno accarezzavano per paura, i Fregoso attizzavano per vendetta c cupidigia di dominio; che cacciato ieri poteva domani essere di nuovo il riverito padrone. L’ amicizia del Bracelli e dell' Assereto bene rappresentava, panni, l’identificarsi nel cancelliere della persona pubblica cogli interessi dello Stato, facendo tacere afflitto gli interessi privati. Un onorevole officio che la coltura umanistica, chiamata alla partecipazione degli affari, assunse e soddisfece mirabilmente dal Salutati in poi. Di un altro ammiratore dell’ Assereto ho atteso a far cenno finora, perché ci conduce agli ultimi anni del prode capitano. Amico di mezzo mondo, come dell’altra metà era acerbo e maligno riprensore, in corrispondenza epistolare col Ceba, col Bracelli, con Gottardo, con quanti uomini insigni vivevano in Genova, sarebbe più che strano — 63 — che gli stessi vincoli d’amicizia non avesse avuto con 1 Assereto. Intendo parlare di Francesco Filelfo. Si erano conosciuti dopo il '35 nella corte ducale, nè l’umanista gli era stato avaro di proteste d’ affetto. « Detesto, gli dice, gli uomini i quali nello eleggersi e nel coltivare gli amici si conformano alle norme del proprio interesse ». Ed al Filelfo si doveva crederlo! « É in me vivissimo il desiderio di te, cui giorno e notte ripenso. Lontano dalla persona, mi sei presente allo spirito, e di frequente io richiamo alla memoria i dolci e giocondi nostri ragionari. Esulterà l’animo mio, se avvenga ch’io riceva tue lettere » (1). Si ritrovarono poi sette anni dopo, nei giorni che finita coll’ultimo Visconti la fittizia tranquillità da lui procacciata a xMilano, tutto nella città era tumultuario, di apparecchiato, secondo che scrive esso Hlelfo, nulla, e d’ ogni parte sorgevano potentissimi nemici (2). Ci fu una sosta in cui il Filelfo, che, malgrado le proteste, al tornaconto ci badava, si sarà stretto anche più all’ Assereto nel frattempo divenuto podestà di Milano. Ma era breve quiete, foriera di tempesta. Bacchatur in omnia mucro, scriveva all’ Aurispa, ed a Biagio : « Verrei a vederti ogni giorno, se non me lo vietasse il timore delle spade che corruscano da per tutto nella città, e tu sai che tra il fragore delle armi, la parola della legge non si suol più ascoltare: sicché consenti eh’ io abbia un po’ di riguardo alla mia salvezza, fino a che risplenda un giorno più lieto » (3). Un mese dopo (1) Lett. is ottobre 1440. Cfr. Belgrano; art. cit. (2) Lett. a Giov. Ferufino giureconsulto, Milano, 15 agosto 1447. (3) Lett. i.° gennaio 1450. — 64 — il superbo gladiatore della penna stava per anco tappato in casa e pregava il potente amico a mandargli notizie. Ma quella era la volta dei gladiatori della spada che si agitavano sulla piazza, invece. Finalmente la notte del 25 febbraio Francesco Sforza entrava in Milano (1), e per il dì 11 marzo, l’Assereto sottoscriveva un bando convocante 1’ assemblea generale, onde uscì proclamato duca il fortunato condottiere. E il Filelfo avrà ricoperto di sue rettoriche lodi il nuovo come già il vecchio padrone : gli costavano così poco ! Quanto all’ Assereto, si ritirava, dopo quell’ultimo atto, nel suo castello di Serravalle. Raro è che la dominazione recente si valga degli strumenti stessi della dominazione passata, ed inoltre egli doveva essere stanco di tante agitazioni. In villa attendeva al largo godere ond’ erano capaci quegli uomini e di rado scriveva lettere, tanto che la lingua affilata del Filelfo gliene moveva rimprovero, tra il burbero e l’amichevole, ed ai comuni amici dava già per sicuro eh’ egli fosse irretito in non so quale rustico amore (2). A cinquant’anni suonati, e con madonna Pometta sua moglie, che non aveva ad esser cieca, sarebbe stata forte. Ma una lettera del Filelfo stesso, di poco posteriore (27 maggio 1455), produce ragione assai più plausibile di quel silenzio: una cupa malinconia opprimeva lo spirito dell’ Assereto ; egli forse presentiva il fine. E il Filelfo, in ciò ammirabile, egli che di parecchi anni lo precedeva nella vita (3) , lo esortava (1) Lett. del Filelfo a Niccolò Ceba, da Milano, 26 febbraio 1450. (2) Lettere all’Assereto, 12 ottobre 1450 e i.° gennaio 1455. (3) Difatti ecco le date: per Biagio, 1405 (?) - 1456; per il Filelfo, 1398-1481. — 6 5 — a scuotere da sé quella perniciosa infermità dell’animo, a raccogliersi e provvedere alla gloria. « Stimerò che tu 1’ abbia fatto, se mi manderai, ciò che spesso ti chiesi, una relazione della battaglia da te vinta presso Casalmaggiore, contro la flotta veneta. » Accennava al vittorioso combattimento sul Po, del 15 settembre 1448. Ma Biagio non ne fece nulla, pare: forse l’illustre capitano pensava che anche la gloria, la dea cui tutti si prosternavano nel Rinascimento a prezzo di tante bassezze e di tante colpe, era anch’ essa una grande vanità. Morì il 25 aprile del 1456 (1). IV. Ed ora brevemente di un dotto conoscitore di antichità che ho già presentato al lettore, Eliano Spinola. Non solo egli si conosce perfettamente d’ oggetti d’arte, ma può dirsi principe degli antiquari genovesi: egli che si mantiene in corrispondenza con tutti i paesi del mondo e lui stesso, o mediante suoi incaricati, acquista gemme, medaglie, monete antiche per rivenderle nello stesso modo a’ più ricchi e famosi signori del suo tempo. Ecco il divario tra lui e Andreolo: quello nobile, e per genialità di sentimento, artista; questo patrizio come il primo, ma patrizio mercante, che aveva capito il gusto del suo secolo in quanto esso offriva di più raffinato, e si volgeva con proprio profitto a soddisfarlo. L amore del raro, del costoso, del superfluo, purché squisito come (1) La data è del Prof. Belgrano; art. cit. Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XX11I. 5 — 66 — gingillo, che in diverse condizioni di tempi costituisce il capriccio e la voluttà di una classe speciale di uomini, letterati e cultori dell’ arte, allora forma la compiacenza universale de’ dotti e de’ ricchi, fossero poi questi ecclesiastici, o cavalieri, o capitani. Ciriaco offre a Sigismondo, come già il Petrarca aveva fatto con Carlo IV, una moneta d’oro di Traiano, e nel suo pensiero doveva forse essere immagine di quella maestà imperiale che dai Cesari romani pretendevasi passata nei Cesali germanici. Borso d’Este, il primo duca di Ferrara, dona a Ludovico Vallèe, luogotenente del re francese Carlo VII, e governatore di Genova, alcuni orcioletti di cristallo, volendo forse che fossero, al ritorno di quello straniero nella sua patria, una pallida imagine della bellezza d’ arte raggiunta dal rinascimento italiano. Si eia nel 1460 e la risposta, con tutta probabilità del Bracelli, suona ammirazione pel dono — certo lavoro di un arte-fìce antico, chè non saprei altrimenti comprendere tanto lusso di iperboli per alcuni fiaschetti di vetro comune — ed ammirazione per la splendidezza del duca (1). (1) Ms. Br. c. 34; v. pure ediz. di Parigi, 1520, fol. 61 r. Questa edizione contiene le opere principali del Bracelli colla intitolazione : Jacobi Bracellei Genuensis Lucubrationes / De bello Hispaniensi libri quinq. / De Claris Genuensibus libellus unus. / Descriptio Lyguriae libro uno. j Epistola) utn lib. unus / Adclitumquc diploma mirae antiquitatis / Tabellae in agro Genuensi reperì ae. Segue la lettera dedicatoria di Agostino Giustiniani vescovo di Nebbio a Renato di Savoia, colla data: Parisiis Idibus Aprilis, MDXX. La numerazione incomincia dalla terza carta con numeri romani, in questo modo: fb. IH e seguita fino a fo. LXXI. Al fo. LII si legge : Epistolas quasda prestantissimi Domini Jacobi Bracellei Genuensis / quas dispersas invenimus, hic ordinatim scripsimus. Ed al fo. LIV : Epistolae sequentes quib. nomen Jacobi Bracellei non prae / ponitur, non sunt Questa, come sappiamo dal Filelfo e dal Castiglione, formò per molti anni ancora il rimpianto di tutti coloro che andavano alla ricerca di un Mecenate, sicché ne nacque il proverbio: Non sono più i tempi del duca Borso (i). Così fatti quegli uomini e quegli entusiasmi. « Più la guardo quest’ opera, gli scrive il La Vallèe, e maggior meraviglia me ne prende, però che sebbene la materia di per se stessa ne sia preziosa, tuttavia l’ingegno e l’abilità dell’artefice pare che superi di gran lunga ogni specie di ammirazione e di lode. » E da buon cavaliere avvisa che lo ricambierà col dono di alcuni corsieri, non appena ne abbia degni di esser regalati al duca Borso (2). Il lettore comprenderà da ciò, se pur eius nomine datae, sed quia ab eo dictatae / et scriptae creduntur, Bracelleanis interserentur. Finiscono al fo. LXX colla indicazione: In aedibus Ascensianis, anno MDXX ad Nonas Augusti. Il Panzer, il Mazzucchelli, il Niceron, il Vossio ed Apostolo Zeno citano altre edizioni delle opere del Bracelli. Delle parecchie ricorderemo qui solo quella fatta dagli eredi di Antonio Bladio, Roma 1573 in 4.0, colla dedica di Bartolomeo Gorla a Gio. Battista Bracelli vescovo di Sarzana. Da essa si rileva che Gian Battista, uomo colto e dedito agli studi, vedendo come fosse divenuto raro il libro dell’ avo suo Jacopo, avutone consiglio con dotti letterati, si decise a darne nuova edizione sull’antica stampa, ragguagliata sopra i manoscritti ; librisque iampridem impressis cum aliquibus manuscriptis colìatis. [1 Mabillon trasse poi dal Cod. Vaticano 1979, già della Regina di Svezia, un’altra operetta del Bracelli che inserì nel t. I, p. 227 del suo: Musaeum Italicum, col titolo seguente : De precipuis genuensis urbis familiis relatio ad Henricum Merla, di cui si conserva nella stessa vaticana altro codice, n. 1379, già appartenuto ad Alessandro Petavio. Devo queste indicazioni bibliografiche alla gentilezza dell’ egregio Prof. Neri. (1) Filelfo, lettera a Leonardo Grifo in Rosmini, Vita del Filelfo, II, 181 — Castiglione, Cortigiano, II. (2) Vedi Documento VII in fine. — La lettera mi pare anche esempio notevole dello stile epistolare del Bracelli. Non è inedita , ma leggendosi solo nell’ edizione rara di Parigi 1520 non potrebbe essere a mano di tutti i lettori: mi par quindi non inutile riportarla. — 68 — ce n’ era bisogno, l’importanza dello Spinola che sapeva riunire il culto della scienza antiquaria con la cura de proprii affari. Egli ha libero accesso nell’aula dei Pontefici e del Re d' Aragona: con lui intrattiene affettuosa corrispondenza il cardinale di Pavia, Iacopo Ammannati; Pio II, infervorato nel 1461 della sua guerra contro il # • • Turco, si rivolge a lui, affinché persuada 1 reggitori della Repubblica a por termine alle guerre fraterne, a prendere parte efficacemente , come potevano, nella comune impresa contro il nemico del nome cristiano. Non era piccolo onore per un antiquario, e ciò sentiva anche lo Spinola che ne ringraziava il Pontefice con parole in un tempo modeste e riconoscenti (1). E con amabilità dignitosa di gentildonna, Teodora Vivaldi Spinola, due anni prima, ringraziava la principessa Ippolita Maria di Napoli che le aveva inviato un ricco dono, unicamente perché figlia di Eliano (2). Nè la Repubblica, com era naturale, lasciò in dimenticanza questo benemerito cittadino. Anziano del Comune nel ’3 8, ambasciatore al Re d’Aragona nel *51, nel ’6o con altri sette cittadini ufficiale della moneta, nel ’6i , insieme con Antonio Bracelli e quattro altri, eletto a trattare col legato fiorentino (3). Ma per esser più esatti, il suo nome comparisce fin dal '33 in un atto.di nobile previdenza, in prò de’ suoi concittadini. Difatti il Federici nello Scrutinio della uo- (1) J. Bracelleus; De getiuensibus claris etc., Ms. membranaceo sec. XV, della Bibl. Univ. in Genova (B, i, 32). Vedi Documento Vili, in fine. (2) Ediz. di Parigi cit., fol.• 61 r. e 62 v. (3) Mi valgo per questa data del Cicala ; Ms. cit., ampio zibaldone compilato coll’ aiuto di documenti d’Archivio. — 69 — biltà ligustica, ricorda con onorevoli parole il Signore di Ronco, Eliano Spinola, che in quell’ anno institui un multiplo nel banco di S. Giorgio, con notevole beneficio della Repubblica e dei suoi discendenti (i). Dubito che la lacuna che trovasi nelle memorie di lui, dal 1438 al *51, dipenda da’ viaggi intrapresi intorno a questo tempo da Eliano. La sua fama di amatore ed intendente di preziose antichità probabilmente non venne che in seguito alle sue escursioni in Oriente. Anche il Pizzicolli avea fatta così la sua educazione. E se non bastassero le congetture, ecco qualche indizio. Antonio Astigiano, che ci avvenne già di nominare, tra gli anni 1446 e 1447, desiderando di ritornare in Genova come professore di rettorica ed eloquenza, scrisse una serie di epistole in versi dedicate ai più ragguardevoli personaggi genovesi, collo scopo di propiziarsene il favore. C’ è un po’ di tutto, omni genere musicorum, giureconsulti, medici, cavalieri, giovani baliosi e gravi uomini di Stato e per finirla, due Spinola, Battista e Caccia-nimico, ma punto punto il nostro Eliano. Possibile che la musa parolaia del buon grammatico astigiano ne avrebbe taciuto, se l’antiquario fosse stato in Genova? Non credo, e me ne persuade anche meglio (1) Ecco alcune altre notizie che desumo dal Buonarroti, Alberi Genealogici, Ms. della Bibl. Berio in Genova: Eliano Spinola quond. Carosii; madre di lui Teodorina Spinola di Giacomo — moglie, Argentina Lomellina di Oberti. Testamento di Eliano rogato da Lorenzo Villa fin dal 1439. Era certo parente del nostro quella madonna Eliana Spinola, signora di Ronco, ardente fautrice del duca di Milano, che nel 1429, come scrive Giov. Simonetta , aiutò Francesco Sforza a sottrarsi dalle mani de’ Genovesi, quando il conte salito l’Apennino e credendosi essere tra amici del duca, s’avvide invece essere capitato tra nemici. - 70 - il fatto ch’egli non tacque le lodi del cordiale amico di Eliano, del Bracelli insomma. Quanto siano sciatti cotesti distici dedicati all’ umanista genovese, osserveremo altrove: teniamo ora conto del fatto per giungere ad una conclusione (i). L’indizio è negativo; più attendibile quello che ci è fornito da Papa Paolo II, una specie di orco per gli umanisti romani, imprigionati, torturati da lui, ma non insensibile pare a’ cimelii radunati con dispendio dal nobile genovese, h ben vero che il Papa parla di cose preziose trasportate in Italia dalla Grecia, dall’ Asia e da altre regioni, senza far chiaramente parola di viaggi, ma coni’é supponibile che Eliano si valesse in affari di tanta importanza unicamente di agenti? Ciò poteva fare soltanto un principe banchiere, come Cosimo de’ Medici, che intratteneva corrispondenza con tutti i paesi del mondo e poteva valersi per le sue ricerche degli uomini più insigni allora viventi. La scena con Paolo II è narrata all’amico e principale interessato dal Cardinale di Pavia c merita di essere riferita. Il povero Eliano aveva d’ uopo dell’ interposizione del papa per ridurre al dovere un figlio, incaponito di rendersi nell’ ordine dei domenicani. II padre stesso ne aveva scritto all’ Ammarinati, dolendosi con onesta libertà del fatto e lasciando intendere che lo attribuiva ad un raggiro di quei frati. Si ricorreva ora al Pontefice perchè con l’autorità infallibile che scioglie e lega persuadesse quel buon figliuolo a dare alla Chiesa (T) Epist. di Antonio Astiano ed. da P. Vayra , in Giorn. Ligustico anno XVII, p. 220 segg. c 386 scgg. — 7i — un frate di meno, ed alla famiglia un marito di più. Intercessore era l’Ammannati. — « Eliano? — fece Paolo II, quando il cardinale entrò a parlargliene , io lo conosco. Egli ha radunato dalla Grecia, dall’ Asia e da altri paesi molti preziosi oggetti antichi : egli solo potrebbe, senza danno suo, soddisfare al nostro desiderio e farci cosa gratissima. » — S’intende che il papa voleva comprare, non ricevere in dono, e senza determinare nulla, indicava alcuni degli oggetti desiderati : sacre icone, arazzi, pitture e scolture antiche, ovvero vasi di qualsivoglia forma purché di materia preziosa, monete, medaglie d’ oro e d’ argento. Ma il cardinale Piccolomini doveva conoscere, tanto bene come Eliano, il vezzo della Corte pontifìcia : Curia romana non quaerit ovem sine lana. Si era ricorso alla graziosa intercessione del papa, questi aveva accolto con bontà la preghiera di Eliano, non si poteva andarci colle mani vuote, ed ecco il suo consiglio: « Scegli tra le cose possedute alcun che di elegante da donargli. Né potresti esimertene senza taccia di zotica taccagneria. Il restante invia qui, pei tuoi fidati agenti e quello che abbia incarico di presentare gli oggetti al papa, dica : cotesto Eliano Spinola ti manda in dono; dell’ altre cose stabilisci quel prezzo che vuoi. » Per altra lettera dell’ Ammannati sappiamo poi che il figliuolo se ne tornò ravveduto a casa, coniugium repetens quod tam dure ante dimiserat (i). (i) Epistolae et Commentarii Jacobi Piccolomini Card. Papiensis; Milano, 1506. Cfr. lett. di Eliano, 26 novembre 1464 e segg. - 72 — Tanto nella miscellanea citata, come nell’edizione parigina delle opere del Bracelli si leggono quattro lettere scritte da lui in nome dello Spinola al re Alfonso d’Aragona. Probabilmente il mercante genovese ricorreva al dotto cancelliere perché desse elegante forma latina all’ umile volgare che gli suonava in bocca. E 1’ argomento di esse già s’indovina : lo Spinola procacciava di compiacere al gusto del monarca aragonese per le pietre preziose (i). Ora era un diamante eh’ era piaciuto ad Alfonso per la grossezza e lo splendore, ora un sardonico di cui lo Spinola sapeva mettere abilmente in mostra i pregi. — a Color enim ex rupe, ut aiunt veteri, iocun-dum quendam fulgorem ita emittit, ut sine incredibili quadam voluptate oculus eum contemplari non possit. Forma ea est in qua longitudini adeo latitudo respondet, ut si quis eum ex cera velit effingere, nihil vel addendo vel minuendo possit in melius mutare. Quo fit ut credendum sit ingentem eam gemmam fuisse, ex qua tantae perfectionis lapis excisus est. Intueatur eum quivis oculus peritissimi artificis. Nullum ibi inveniet vel ex foratione, vel ex glacie, vel ex perfrictione vitium » (2). Bensi non tutte le ciambelle riuscivano col buco neppure a lui, e qualche volta gli toccava veder alcun altro averci la mano assai più fortunata della sua, sebbene forse meno consumato conoscitore. Cosi in una lettera del 14 maggio 1457, si scusa col Re di questo che il rubino, su cui avea da tempo messo gli occhi, gli era (!) 11 Fazio, op. cit., lib. IX dice Alfonso ricco di gemme che molte e di varie specie ed a grandissimo prezzo aveva radunate nel suo tesoro, il quale per magnificenza vinceva quello di tutti i re al tempo suo. (2) Ms. Br. c. 22. — 73 — sfuggito sotto mano per l’abile giuoco di un mercante più astuto. Ma neppure in tali casi si smarriva ; se non aveva potuto colla gemma desiderata, egli sapeva solleticare la curiosità del principe artista con alcun altra rarità e per quella volta erano i braccialetti d’ una regina di Granata, a Io li giudico anche di maggior pregio, e perché sono rara opera di arabo artefice, e perchè essi furono già di una regina. » Anche le due perle incastonate avevano il loro valore, per quanto si sarebbe potuto sostituirne due migliori, ma le lasciava, affinché il Re avesse l’ornamento muliebre quale veramente, nella sua origine, era (i). Curioso particolare é il seguente che ci é dato da una di queste lettere. Il signore di Ronco, che doveva possedere non solo rare antichità nel suo palazzo, ma campi molti al sole, aveva provveduto del frumento necessario all’ esercito il famoso Iacopo Piccinino, che nel '56 militava al servizio di Alfonso. Ora il nobile antiquario proponeva al Re, che invece delle paghe dovute al condottiero, si saldasse a lui il conto del frumento; se no, gli tornava impossibile fare acquisto del diamante desiderato (2). Il magnifico Piccinino, dal canto suo, se ne sarà compensato taglieggiando allegramente i fedelissimi soggetti del Re. Ecco dei diamanti che costavano cari al popolo napoletano. (1) Ms. Br. a. c. 24. L’Olivieri; Catalogo ms. della bibl. Univ. in Genova, indica un codice membranaceo romano del sec. XV contenente la lettera del Bracelli e la data: 14 maggio 1456. (2) Ediz. di Parigi cit., lett. Genova, 28 luglio 1456. Ve rum cum precium eius ingens sit, opus est ut in hoc saltem opem mihi conferat benignitas tua, ut pecuniae quae magnifico Jacobo Piccinino debentur ad me perveniant in solutionem tritici mei quo se suosque sustentavit ; namque alioquin precium eius gemmae contrahere ac solvere nullo pacto possem. — 74 — L’ ultima lettera che abbiamo dello Spinola é quella che ci avvenne più sopra di citare del '6i, nell occasione che Pio li, smentendo tutte le speranze latte concepire da Enea Silvio di una specie di età augustea, si -gettava invece con entusiasmo giovanile all’ impresa contro i turchi. La lettera di risposta al pontefice veramente manca della firma di Eliano, ma nella miscellanea da cui la tolgo fa parte di un piccolo gruppo di lettere sue e della famiglia al re di Napoli (i). Quindi e per il posto che tiene nel manoscritto e per l’intonazione del linguaggio, si può affermare con sicurezza essere di Eliano. E la data, come s’é veduto, riscontra appunto con la notizia portata sotto lo stesso anno dal Cicala. Dovette morire poco dopo, perchè manca in appresso, e nella miscellanea e altrove, ogni altra memoria di lui. Questi in somma sono gli uomini rappresentanti della coltura genovese nel periodo di tempo che abbiamo preso a studiare; ritornare sopra le epistole dell’astigiano edite dal Vayra ci sembra inutile, per questo rispetto almeno. Parecchi di quei nomi già li conosciamo, di altri probabilmente egli stemperava la supposta celebrità e il supposto mecenatismo ne’ suoi versi brutti, ma brutti davvero. E il pover’ uomo per giunta dava a conoscere mille miglia lontano il secreto movente di quei panegirici. (i) Miscellanea cit., B, i, }2. Erano raccomandati ad Alfonso cd a Ferdinando i figli di Lucchesio Spinola, che aveva aiutato con notevoli somme di denaro il re durante la sua impresa nel Regno. 11 codice è esemplato di mano di Gerardo Spinola, uno dei figli di Lucchesio, che nel 1468 era capitano di Lanzano per Ferdinando. — 75 — Al Bracelli scriveva: Si faveas nostris, praeclare Bracelle, camenis non potero officii non memor esse tui, Sed tua perpetuo cantabo nomina versu, si tantum faveat pulcher Apollo mihi. Praeterea quantum tribuent mihi numina vires conabor natos ipse docere tuos. Tu modo, quaeso, tuam dignare imponere dextram ut vestra auxilio ponar in urbe tuo. E ingenuità anche maggiore, sto per dire incredibile, la dichiarazione che ricorre cinque distici più avanti, ossia che per virtù de’ suoi versicciuoli 1’ umanista genovese potrebbe conseguire la tanto agognata eterna fama, purché, ci s’intende, lo aiutasse a ritornare professore in Genova. Tu quoque si nobis faveas, ut spero, perenne versiculis poteris nomen habere meis. Sancta simplicitas! Dei nomi noti ci avvenimmo specialmente in quelli della famiglia Fregoso, mescolati alla rinfusa con gli altri degli Adorno. Farisei e samaritani ! Due volte il nome di Niccolò. E veramente egli era tal uomo su cui dovevano appuntarsi gli sguardi si dei letterati che smaniavano alla ricerca di favori, come dei cittadini che ambivano un buono e pacifico governo. Degno nipote di Tommaso, questi, ne’ maggiori negozi della sua patria, raduna, da quel magnifico signore che era, un bel numero di codici preziosi; quegli eroe nella presa del Castelnuovo per Renato d’Angiò, accorto capitano nella guerra di Finale, letteratissimo, siccome di-cevalo il Filelfo, e per genio di famiglia e qualità dell’ingegno protettore di letterati. E della sua gentilezza — 76 — e coltura abbiamo testimonio più autorevole che non sia il tolentinate, voglio dire Enea Silvio che nella sua Storia d'Europa ne scriveva onorevoli parole, compianto insieme per la violenta e prematura sua fine. Parlando del doge Pietro, assai dissimile dal cugino, soggiunge: « Egli, mosso dal sospetto che aspirasse al dominio, fece chiamare Nicolò Fregoso, chiaro per onesti costumi e per filosofici studi e lo fece uccidere da appostati sicari » (i). Anche le donne di questa famiglia erano colte. Nell’ inventario di Spinetta Fregoso, morto nel 1425, tra le ricche vesti e suppellettili preziose si noverano pure tre libri, un Dante, un Salterio, le tragedie di Seneca, e dei due primi é detto espressamente che appartenevano a madonna Ginevra, vedova del defunto (2). Insomma nella repubblica anarchica di Genova, come ebbe a chiamarla il Gebhart (3), e tra le tre o quattro famiglie ducali che si palleggiavano la signoria, un (1) Aneae Silvii, Hist. de Europa, in Opera omnia, Basilea, iS71 > P- 445- Qui et gentilem et patruelem suum, Nicolaum Fregosium honestis moribus prae ditum et philosophiae studiis insignem, ob suspitionem affectari dominii, vocatum a se in palatium paratis percussoribus interemit. Non so se nelle memorie sincrone se ne potrà trovare menzione. Io ho consultato inutilmente il Giscardi, Origine delle nobili famiglie in Genova, Ms. Bibl. Berio, il Della Cella id. Univ., il Giustiniani, il Litta. Eppure il cardinale di Siena alla vigilia di essere eletto pontefice, non è supponibile che ci andasse alla leggiera nell’accogliere la notizia, e dal linguaggio si capisce che per lui non aveva ombra di dubbio. Era anche benissimo informato dei maneggi di Pietro Fregoso : Nunc ambae partes (Genovesi ed Aragonesi) quasi ex integro ad bellum se parant, quamvis fama est Petrum animo fractum, Gallorum implorare auxilia, eorum regi patriae suae principatum, quem retinere non potest, pecunia venditurum. Ossia quel mercato che fu concluso finalmente nel 1458. (2) Giorn. Ligustico, anno XI, p. 350 segg. (3) Gebhart; Les orig. de la Renaissance, p. 109. - 77 — importante luogo tiene quella dei Fregoso e si spiegano facilmente le ampie lodi che l’umanesimo le tributò allora e poi. E non ne fu avaro neppure verso i soggetti meno degni. Difatti sullo scorcio del secolo, con andante più sostenuto che non fosse quello del buon grammatico astigiano, incomodava le sante Muse il carmelitano Battista Mantovano e per chi ! per tessere il panegirico di Fregosino e Paolo Campofregoso (i). Un bel paio ! Al primo fuggito col padre a Mantova dopo il ’64, ossia dopo quell’anno di sfrenato governo di cui serbarono lungamente memoria le storie del tempo, il coraggioso frate dedica una saffica di trentuna strofe, — le più belle d’ Orazio ne hanno meno — di cui ecco le tre prime: Dulce Musarum, decus et voluptas, Patriae splendor, ligurumque princeps, Quem fovet dulci gremio receptum Hospite Manto ; Impio postquam Genuae tumulta Missus ex alto Phlegetontis amne lura subvertit, placidamque pacem Nuncitts Orci, Te decet magnos animi dolores Atque Neptuni salientis aestum Ferre, et accenso Iove fulgurantem Fortiter iram. Per il lettore che desiderasse qualche notizia sulle gesta di cotesto grazioso discepolo dell alma poesia, decoro e voluttà delle Muse, ecco di che accontentailo, dietro la scorta del Giscardi. Questi veramente non parla (i) Bapt. Mantuani; Opera omnia, Bononiae, 1502. — 78 — di carmi, ma in compenso ci informa che nel 1487 Fre-gosino « fece ferire Angelo Ceba perchè parlò per il ben pubblico » (1) — proprio lo stesso anno che sposava Clara, figliuola naturale del duca Francesco Sforza; litigò con Battista Fregoso per Novi, l’anno 1500, e in detto anno tentò che si facesse doge un Fregoso; nel ' 12 uccise il conte Geromino Fiesco, tagliandolo a pezzi con un’alabarda, e ferì nel viso Ambrogio Fiesco che era con lui. E mi pare che basti. Di Paolo Fregoso arcivescovo di Genova, cardinale di S. Sisto e tutto quel che si voglia, tranne buon ecclesiastico e uomo dabbene, non franca il pregio di parlare: le sue gesta sono note. Sarà forse perchè le individualità s’imponevano all* ammirazione del Rinascimento e Paolo ne era una, che Battista Spagnuoli assume per magnificarlo la tromba epica. I versi non son brutti e ricordano inoltre il tratto più bello nella vita dell’ avventurerò cardinale, ossia quando Sisto IV nel 1481 gli conferì il comando della flotta contro il turco, ed egli ebbe fama di valoroso ed Otranto venne ricuperata ai cristiani. Paolo Fregoso parla in persona propria al Cesare Massimiliano e lo esorta all’ impresa contro gl’ infedeli, ma prima si dia fine in Italia al lungo odio civile : SeJ quo coepta magis tibi sint secura memento Pacare Italiam, bellis ut tota se pultis Tuta sit et concors ad rem conspiret agendam. La bottata ultima a Cesare è riservata prò fulgosa propago. (1) Cfr. anche Giustiniani; op. cit — 79 — Et quia post commune, bonum curare salutem Fas est cuique suam, Pauli precor atque parentum Sis, Auguste, memor ; laetos habitare sub umbra Caesaris et nobis liceat, fulgosa propago Nos quoque pars rerum non aspernanda tuarum. Il frate carmelitano, da quel dotto uomo che era, sapeva il fatto suo; uno scambietto rettorico a Cesare ed al Fregoso, la riverenza era fatta e contenti tutti. Chiedo scusa per la lunga digressione, ma essa mostra bene, parmi, l’atteggiamento dell’umanesimo di fronte a questa potente famiglia, anche ne’ casi che meno opportuna era l’ammirazione. Ai Fregoso mancò non la splendidezza della vita, o la coltura o 1’ umanità, latinamente intesa, in parecchi di loro, ma il possesso durevole del principato. Se il presupposto fosse avvenuto, s’avrebbe senza dubbio avuto un coro di lodi più largo e più pieno. Ciò malgrado le simpatie non furono da parecchi punto dissimulate : ma bisognava misura, specie in chi, come il cancelliere, doveva rappresentare non la politica di una famiglia, ma la tradizione di un governo. Chi non l’ebbe, o patì molestie, come Gottardo Stella, od esulò cercando più spirabil aere, come il Fazio, il Curio e l’Ivani. — 8o — CAPITOLO III. Cancellieri e Grammatici. 11 Prof. Belgrano ha già osservato che della fioritura letteraria erudita in Genova va dato merito principalmente ai segretari cancellieri. Ed il Belgrano ha ragione : « • volendo estenderci anche un po’ più, la sua osservazione potrebbe farsi per non piccola parte della coltura umanistica in Italia. Difatti il Panormita ed il Pontano furono segretari dei re Aragonesi in Napoli, il Salutati, Leonardo Aretino, Poggio Bracciolini cancellieri della repubblica fiorentina, taccio i molti celebri segretari dei pontefici. Anche Genova per questo lato può vantare di bei nomi. Oltre Iacopo Bracelli, vanno ricordati Niccolò Stella e Prospero da Camogli occupati nella cancelleria della repubblica, l’omonimo di quest’ultimo consigliere ducale in Milano e poi vescovo, il Curio, il Fazio, 1’ Ivani, Gottardo Stella, Bartolomeo Senarega. Del Fazio sarà discorso altrove, degli altri toccherò solo d’alcuni, restringendomi al periodo di tempo che mi sono prestabilito. Di Niccolò e Prospero può dirsi ciò che il Voigt dice per il primo, cioè eh’essi sono annoverati fra gli studiosi di cose antiche, ma non figurano come scrittori, nel senso più elevato della parola (i). Ed in verità, a solo titolo di dotto antiquario e gentile compagno é ricordato (i) Vgigt; op. cit., I, 4}i. - 8i — Prospero dal Biondo nella visita che fecero insieme al tempio d’Apollo ed all’antro della Sibilla presso Cuma: —.....arces, quibus aJtus Apollo praesidet, horrendaeque procul secreta Sibyllae antrum immane, (En. VI, 9 segg.). E della grande poesia virgiliana erano compresi 1’ uno e 1’ altro nel metter piede in quelle sacre rovine, come si pare dalle parole del Biondo ; ma il merito d’avere riconosciuto nella grotta il famoso recesso della Sibilla cumana, lo storico lo attribuisce tutto al genovese. Ecco il passo del Biondo: Est vero celsus in urbe Cumana collis in cuius cacumine fuit templum Apollinis, de quo Virgilius: Arces etc. Et quidem nunc ea in urbe quam vidimus omni destitutam habitatore praeter rupes saxo stupendas vivo pinnae cernuntur murorum excelsae, et ubi Apollinis arx fuit, sacellum est christianum et ipsum vetustate consumptum, nihilque extat integrum nisi caverna frontespitio decorata manufacto, quam Sibyllae antrum fuisse socius itineris nostri Prosper Camulius vir doctus eam ingressus quibusdam coniecturis affirmavit (i). Cosi di due civiltà la pagana e la cristiana, l’una sovrapposta all’ altra, i due amici potevano d’ uno sguardo solo contemplare le vestigia, non rispettate dal tempo: immutata rimaneva solo l’opera della natura, la caverna, donde la tradizione faceva uscito l’inspirato linguaggio della Sibilla, nunzio del rinnovamento del mondo. Per altro il passo del Biondo lascia pur sempre adito (i) Fl. Biondus; Ital. ili., Basilea 1531, p. 4*3* Atti Soc. Lio. St. Pathia. Voi. XXIII. 6 — 82 — al dubbio se sia qui fatta menzione del notaio cancelliere, ovvero di quel Prospero Schiaffino da Camogli che già dicemmo secretario in corte del Visconti. 11 comm. C. Desimoni, fondandosi sul passo citato, dà come cosa certa che sia il nostro archeologo ; io preferisco lasciare sub indice lis (i). Ciò che mi pare si possa legittima-mente supporre, anche senza giudice, é eh’ egli nel '49 tosse già morto. Ditatti il noto passo del Biondo da noi riportato, e secondo il quale i più noti letterati genovesi erano non più di tre: il Ceba, il Bracelli e Gottardo Stella, è di quell’anno (2). Dopo l’onorevole menzione già veduta e nella stessa opera, di Prospero, il tacerne in quella enumerazione, quando non si dubitava di mettere innanzi il nome del Ceba, illustre viaggiatore, d’accordo, ma non veramente letterato, sarebbe stata grande scortesia. Ma basti di coteste prove negative. Suo padre Niccolò é detto dallo Scalamonti insieme col Bracelli, egregius pubblicete rei secretarius (3), che sarebbe quindi nel tempo in cui Ciriaco visitò Genova, ossia sul principio del 1434. Ma se ne può trovar memoria prima. Pare che anch’egli fosse un ardente fautore, del duca Filippo Maria, e nel 1421, volendo questi impadronirsi di Genova, fu Niccolò da Camogli il cancelliere mandato dai nobili genovesi fuorusciti e dal duca (1) Giorn. Lig., anno III, p. 87 segg. (2) Biondus, op. cit., p. 297. Ecco come si prova : Nello stesso luogo è detto che era allora doge Ludovico Fregoso e che il fratello Giano era morto da poco. La morte di Giano cade appunto nel dicembre 1448, nel '49 il dogato di Ludovico. (3) Non è dunque esatto dirlo, come fa il Voigt, predecessore del Bracelli — 8j — al re d’Aragona, per ottenere il soccorso di otto galere della sua armata. Piccolo soccorso veramente, che tuttavia costò a Battista Fregoso una sconfìtta nelle acque di Porto Pisano, e al fratello Tommaso la perdita del ducato (i). Niccolò era dunque anch’ esso sbandito da Genova ? Ma la Signoria viscontea lo restituì, se così è, in patria quello stesso anno e ad un tempo nel suo ufficio di notaio cancelliere. Nel 1440 Bartolomeo Capra, arcivescovo di Milano e governatore pel duca Filippo in Genova, fidato giustamente nella prudenza e virtù di lui, lo costituiva procuratore e sindaco del comune, presso il ducale commissario Nicolò Piccinino, al fine di risolvere le liti e controversie pendenti tra il comune di Genova e quello di Savona. L’atto di procura era rogato dai notai cancellieri Tommaso di Credenza e Biagio Assereto. Maggior fama levò intorno a questo tempo, per ingegno e arditezza di indole, quel Prospero Schiaffino che già di sopra abbiamo ricordato. Della patria di lui e del cognome siamo informati con sicurezza per un documento notarile (2). Il Giustiniani ce lo presenta come uomo universale e tanto innanzi nell’ astrologia che « molti credevano, come si dice, che avesse costretto uno spirito famigliare » ; della sua natura bizzarra, risentita ed inquieta, ci fa testimonianza una lettera dell’ Ivani a Fi- (1) Cicala; Ms. citato, ad ann. 1421. h dello stesso tempo un documento dell’Osio colla data del 19 novembre 1421, in cui è designato quale notarius et communis lamie cancellarius. Cfr. Voigt, op. cit., I, 441. (2) Trovato dal Desimoni. Cfr. art. Prospero da Canwgli, in Giorn. Lig. Ili, 87 segg * * • • - 84 - lippo Gheri (i). « Non mi maraviglio, scrive l'Ivani, eh’ egli ora macchini non so che presso gli Elvezi. É uomo avvezzo al peregrinare, di acuto ingegno, intollerante dell’ozio. Un giorno in Liguria gli chiesi perché si servisse di una veste tanto umile e dimessa. Sappiate, mi rispose, che una veste magnifica comanda a me, un abito abietto invece mi obbedisce ». Questi lettera del-P umanista sarzanese ci fornisce pur anche sulla vita dello Schiaffino, specie nei primi anni della sua carriera, certe notizie che altrimenti ci resterebbero ignote. Peccato che i cenni che lo riguardano siano al desiderio troppo brevi. Per essa sappiamo che Prospero segui in Genova la fazione degli Adorno, ponendosi sotto la protezione degli Spinola, fino a che vedendo dai moti tumultuari dei Genovesi uscirne per sé poco profitto, passò al servizio del conte Francesco Sforza. E il conte, divenuto in seguito duca di Milano, lo scelse come abile agente a trattare parecchi negozi presso il delfino di Francia, in appresso Luigi XI, e lo condusse seco, in qualità di segretario nel 1459, nelFoccasione di quel congresso di Mantova che ebbe per unico risultato dei bellissimi discorsi da parte degli intervenuti; un bel seguito di variazioni sopra un motivo obbligato, la guerra contro il Turco. Ci si trovava come oratore del duca anche il famoso Francesco Filelfo, e questi vi pronunciò un eloquente discorso, per cui ebbe da Pio II il titolo di ottava musa. (1) Giustiniani, op. cit, ad ann. 1519. — Leiltrt haitiane, ms. cit., Pistorio II, kal. ian. ijjS. - 85 - Che il dotto pontefice applicasse fin d’allora al Filelfo la massima sua favorita, formulata di poi nel verso: Discile pro numeris, numeros sperare, Poetae — ? Da una relazione che Prospero scrisse alcuni giorni dopo agli Otto per le compere del Banco di S. Giorgio, piace meglio invece saper più precisamente che cosa abbia detto lo Sforza, colui che Pio II lodava per militare eloquenza e patriottiche parole (i). Difatti fra tanta rettorica il suo era, come si direbbe oggidì, un discorso alla bersagliera. — « Padre Santo, disse mezzo tra il faceto ed il serio il condottiero duca, troppe cagioni io ci vedo perchè non s’abbia tutti a venerare il tuo santissimo voto. Primieramente se abbiamo riguardo a Dio ottimo massimo e alla salvezza eterna, è obbligo nostro obbedire all’invito del suo vicario; se poi ci volgiamo alle ragioni umane, che avvi di più onorevole? Perché in verità se il nemico ci viene adosso, e termina ciò che ha bene cominciato, l’età nostra avrà da pentirsene e noi da vergognarcene. » Si direbbe che delle sorti del-l’Italia egli avesse chiara percezione, dell’ Italia che non sfuggì di cadere in balìa dei turchi e di rinnovare il destino della Grecia, se non perchè si ridusse, neppure un secolo dopo, alla mercede della Spagna e di Carlo V. Ma chi poteva prevedere nel 1459 tante vicende? Per allora sembrava fatale che dall’ alto di una chiesa cristiana, scambio dello squillo delle campane, la voce dell’ imano invocasse anche su terra italiana il soccorso di Allah. Eppure non si trova che Francesco Sforza mo- (1) Pii li, Commcnt., op. cit., p. 83. — 86 — vcss^, in seguito, un solo dito per dare effetto alle promesse cosi solennemente giurate in quel congresso. La relazione del Camogli (i) é anche documento dell’amore che egli sentiva sempre vivo per la patria, sebbene astretto dalla violenza delle fazioni ad abbandonarla. Egli si doleva che la repubblica genovese non si tosse fetta rappresentare al congresso, gli dispiaceva che • altri avesse notata l’assenza, imputandola a negligenza del comune, mentre fra tutti gli italiani, i genovesi erano quelli la cui testimonianza avrebbe avuta più fede. L Ivani lascia intendere che lu la gelosia per l’autorità sempre crescente di Cicco Simonetta, quella che lo indusse alla sua partita dal duca ; essa ad ogni modo non potè essere prima del 1462. In data del ’61 é difuti una affettuosa lettera dal cardinale di Pavia diretta a lui che risiedeva sempre a Milano. In essa lo spronava a giovarsi de’ suoi buoni uffici e passare tosto in corte di Roma (2). Ma Prospero, sebbene già avanti negli anni, nicchiava, sicché era ancora a Milano il 12 febbraio 1462, come parimente sappiamo da altra lettera già citata di Niccolò Ceba. Né le amorevoli parole dell’Ammannati ebbero forza di deciderlo per allora: forse alla sua indole subitanea ed ardita ripugnavano le vie coperte e i rag- fi) Ms. in Miscellanea Bibi. R. Università di Genova, E, III 28, riportata dal Nigna, Atti della Società Lig. di Stor. Patria, VI, 951. (2) Iac Piccol. , op. cit. — Non ha data, ma allude alla digniti della porpora che I’Ammannati ottenne da Pio II , in detto anno. — Ego quod me oportebam feci, Juissem reprehendendus si secus fecissem. Quando in nostra castra Ictus migraveris, maiorem adhuc animum senties. Pontifex libi afficitur, fgo afficior, eadem erit omnium mens cum cognosci incipies. Incipiendum est autem non sero; ad multam aetatem iam pervenisti et quandiu nos qui te amamus simus victuri, » certum non habes. — 87 — giri della curia, forse la morte del Piccolomini avvenuta due anni dopo e l’elezione di Paolo II, papa vano, violento, e in mala voce presso i letterati, lo sconfortò anche più. La protezione del cardinale di Pavia non poteva essergli di alcun vantaggio per allora; egli si mise al servizio di Federico III. E consigliere imperiale lo troviamo nel *69, al seguito del Cesare tedesco che si travagliava contro i turchi. Il papa, occupato in altre faccende, l’aveva lasciato solo nelle peste sebbene sollecitata di soccorso. — « Fra questo medio, scriveva Prospero a Sagramoro Menclozzo, messer lo papa ne saluta, et benedice de su lo uscio » (1), ossia ne benedice con l’aspersorio dalla parte del manico. Parole singolari per lo meno in bocca ad un prete. Difatti egli aveva fin da quel tempo ricevuto gli ordini sacri (2). L’Ivani, nove anni dopo, pareva dubitarne ancora ; ma l’Ivani procede avverso anziché no al Camogli (3)» L amico era nel novembre del '69 oratore del duca in Firenze, e scrivendo a lui degli avvenimenti di là dalle Alpi si accontentava anche il magnifico Piero de’ Medici che ne era curioso. Sgraziatamente il linguaggio di Prospero si ravvolge spesso in ambagi come quello di una sfinge, ed ancora (1) Le due lettere a Sagramoro Menclozzo da Rimini, oratore ducale a Firenze, trovansi nell'Arch. di Stato di Milano, Carteggio diplomatico, cartella novembre 1469, e mi furono cortesemente comunicate dal Prof. Neri. Il march. d’Adda, tra i mss. della Libreria Viscontea-Sforzesca fa cenno di parecchie lettere dirette a Prospero Camulo da Sagramoro, governatore di Genova pel duca di Milano nel 1468. Bene congetturava il Desimoni (art. cit.) che quella corrispondenza dovesse trattare della politica di quei tempi. Ne sono conferma queste due di Prospero al Sagramoro piene di allusioni politiche. (2) Jo vi accerto per li sacri ordini in li quali io sutn. Lett. prima. (3) Haud longe post a Federico Romam venit ac inde, ut accepi, sacerdotium ingressus aut sacerdotis imaginem gerens, ecclesiastico negocio in Britanniam contendit. dubita non essere cauto abbastanza, desidera corrispondere in citra. « Aspecto risposta de voy, quale vorria tussi in zitra et me mandassi il cifrario per altra via, et così tenirò la magnificentia di Piero advisata et voi del tutto de qua quanto patirà la honestà mia et fìdes in Caesarem ». Tocca brevemente della condizione sua in quel momento e delle cose occorsegli, ma con la concitazione di linguaggio di un uomo nervoso, affrettato, in cui l’idea corre più veloce della parola : — « A Dio, a la natura mia de che più volte m’ ha viti admonito per vostre dulce lettere et ala protession mia, io ho satisfacto per modo che me si debe refare. Solum resta in me che io vadi dal re di Ungaria : io ve adviso che ne sum stato pre-gatissimo da Groffuecher (?) et lo mastro suo de casa, in mille ardori de preghiere; fin a qui non l’ho facto donec intelligam quo animo inter Cesarem et ipsam maiestatem. Et ultra questo non ho potuto farlo per detecto de denari: io me ho perduto et argenti et velluti et libri et vestiti de chamelotto per ducati 224 in Trieste, al sacco de la cità, nec potui reparare. Et ho perduto multe mie scritture che sum mezo desperato ». De’ benefizi ecclesiastici voleva servirsi per acquisto vagheggiato di indipendenza, ed a quelli ricevuti dall’imperatore unirne qualcun altro in Lombardia od in Toscana: — « et a questo modo io porria andar e venir a le spese de la beneficentia loro, et servire eis quando usus esset et ha\er uno retracto quando li cani abaino de qua ». La sollecitudine in servir Piero de’ Medici non era senza il suo perchè. Bensì nell atto che chiede, fa Io svogliato e il grande. « Questo non vi ricordo per necessità - 89 - alcuna mia, iurandovi per Dio che in Ungaria io haria di quelle cose grande che sapiti sono di là, quando io volessi, sed vellem et mihi et meis notum esse ». Ma lasciamo queste miserie e vediamo il nostro Prospero sotto un altro aspetto e migliore. Come tutti i dotti del suo secolo, non sapeva dimenticare, tra il volteggiarsi nei negozi politici del tempo, l’amore pei libri antichi. — « Ricordai a la magnificentia de Piero uno libro de la Cosmographia de Ptolomeo che l’avesse presentato a la maiestà Cesarea per parte sua, nam so chel seria stato utile et honorevole ; Dio sa eh’ io dico bene. A la maestà del rey io ho scritto et mandato dei mei proprii alle spese mie, sicché ho pagato al debito promesso ». Tutti gli storici dell’umanesimo rammentano il codice di Livio regalato da Cosimo al magnanimo Alfonso. Forse per giudicare la diversa natura del moto intellettuale incominciato di qua e di là dalle Alpi, non è inutile comparare al Tito Livio aspettato con ansietà da un re, ormai fatto per abitudini italiano, quel codice di Tolomeo desiderato da un Cesare germanico e in difetto del magnifico Piero, offerto da un povero prete di nazione latina e cultore di quegli studi latini che si guardavano con sospetto ancora ed impazienza dal popolo tedesco. Quanto a Prospero, in mezzo a’ boemi sollevati, di fronte ai turchi minacciosi, pregava Piero gli facesse trascrivere un’ Eneide e similmente Giovenale e Marziale — « tutti tre in uno volume oblongo alla marqua et de littera corsiva dunque bella, minuta perchel libro sia portatile, solacium itineris, iocondwnquc ochiculum (sic). Et per la spesa datemene adviso, perchè in Venetia ve gli provvedere) ... ». — 90 — Gli italiani erano maestri nel commercio librario d allora e bastava per tutti Vespasiano fiorentino. « In lo far arivar de li libri el mio padre Vespasiano, rei de li librari del mondo, credo vi troverà lo modo bono e presto. Fra tre dì vado a Neustadt; udsit Deus ». Ma il fatalismo italiano non nascondeva all’ acuto ingegno il pericolo presentissimo, gli argomenti scarsi, medicine fredde, come chiamavaie Prospero. « Li turchi ne stren-gono mirum in modum, et non dubito in lo anno proximo aut haran questa (Praga) presa, aut seran a le marine de la signoria (veneta) in quello de Hystria ». Non era difficile essere profeta. La morte di Paolo II probabilmente lo decise ad entrare nella curia romana. Anche a lui, come al Piccolo-mini, doveva tornare molesta la zotichezza di quei costumi oltremontani; e poi l'aveva detto con una delle sue trasi bizzarre: « vorrei essere noto a me ed ai miei ». La benevolenza di Federico III tuttavia non gli venne meno. Di- vero nel ’y8 Sisto IV gli commetteva tale incarico in cui la fiducia goduta dall’ eletto è condizione primissima per la buona riuscita. Egli era mandato oratore a Federico III per mettere termine alla lite che durava da un pezzo tra’ due vescovi di Costanza, ciascun de’ quali ritenendosi legittimo, scaraventava pel capo all’altro titolo di intruso, eretico e siffatte dolcezze. La lettera dell’ Ivani si riferisce appunto a questo negozio. Desiderava il papa che coll’autorità di Cesare si facesse un concordato, di maniera che l’eletto di Roma restasse senza contrasto vescovo della chiesa di Costanza ed all’altro si desse un’onesta pensione, o una parte dei benefizi pertinenti al vescovado per toglier via ogni ca- — 9I — gione di litigio. E Sisto IV nelle faccende italiane non andava davvero colla moderazione della quale dà saggio in queste istruzioni impartite a Prospero. Le censure et reliqua opportuna remedia si dovevano minacciare soltanto, ed in caso di pervicacia incorreggibile ; nel fatto attenersi a quanto proponeva l’imperatore e se dopo ogni diligenza ed istanza la concordia riuscisse impossibile, procurasse che almeno all’eletto di Roma, escluso dal-1’ufficio, si concedessero la pensione ed i benefizi che nel primo caso si consentivano al pretendente. Ciò per togliere via ogni scandalo, res licet non sit in honore sedis apostolicae etc. (i). Ma forse la Chiesa di Costanza non era se non piccola parte, o un pretesto della missione di Prospero? Porterebbe a sospettarlo un passo della lettera dell’Ivani. Prosper Camuleius genuensis, Ador-nianae factionis vir Spinularum familiae affectus, quem scribis iussu pontificis Helvetios ad bellum irritasse, mihi quidem notissimus est (2). Teniamo conto della data: si era nel '78, dopo la congiura Pazziana ordita per istigazione del pontefice: fallito il colpo, Sisto IV e Ferrante avevano gettata la maschera e fatto invadere da un esercito la Toscana. Invano Luigi XI di Francia minacciava di appellarsene ad un concilio, invano l’imperatore e 1’ ungherese Mattia ne ammonivano il papa. Questi furioso voleva farla finita con Lorenzo de’ Medici e contro i collegati suoi, tra cui Milano, e maturava sinistri disegni. Per tutta risposta a quei richiami, eccitò (1) Monumenti storici di Sisto IV, Ms. Bibl. Università in Genova, C. IV, io. (2) Lett. cit. a Filippo Gheri, Genova a ribellarsi contro Milano e indusse gli svizzeri a invaderne le frontiere (i). Si servì Sisto IV per la iniqua opera del Camogli? Il Gheri lo scrisse, l’Ivani lo credeva; ma glie l’avrebbe perdonata Federico 111, risapendolo, come doveva pur accadere? Eppure l’imperatore nell’anno successivo lo faceva eleggere a console in Genova per la nazione tedesca (2). Bisognerebbe, se fosse vero, compiangere il Camogli che spendeva un bell’ ingegno al servizio della peggiore delle cause. Ma 1’ umanista sarzanese in questa lettera, oltre che prevenuto, non si dimostra gran fatto informato. Già vedemmo eh’ egli stava incerto se Prospero avesse ricevuto gli ordini sacri, quando invece le istruzioni di Sisto, nello stesso anno, lo indicano col titolo di vescovo catanense. Il Desimoni osserva giustamente che se s’intende di Catania, forse non sedette mai come tale, nè l’Ughelli, né il Gams portano in alcun luogo il suo nome. Probabilmente, affaccendato in negozi politici, non gli avanzò tempo di risiedere nella sua diocesi e di attendere al bene spirituale del gregge affidatogli. Egli appartiene alla schiera di coloro che recitavano da attori sulla scena del bene e del male. L’eco degli applausi é cessato da lunga mano ed é molto se della lode resta una languida memoria. Nella nosrra rapida rivista dobbiamo ora discorrere di taluno cui é debito con più ragione il titolo di letterato. Già m’accadde più volte di far parola di Gottardo Stella. Della sua attività come cancelliere della Repub- (1) Gregorovius, op. cit., VII, 291. (2) Desimoni, art. cit. - 93 “ blica sono testimonianza le numerose lettere da lui scritte per ordine pubblico, della dottrina umanistica l’onorevole menzione del Biondo nell’ Italia illustrala. Era nato a Sarzana ed il suo vero nome era Gottardo de’ Donati; ma accolto nella famiglia Stella 1’ anno 1454, assunse in appresso questo cognome (1). Il Cerini pone la sua venuta a Genova nel 1435 ; e la data si rende credibile, perché lo Scalamonti, nel citare i distinti letterati che Ciriaco conobbe nella sua visita in questa città, ricorda il Bracelli e Niccolò da Camogli, ma tace di Gottardo (2). Il viaggiatore anconitano in fatto di lodi seguiva l’oraziano : haec damusque petimusque vicissim , e c è da scommettere uno contro cento che non sarebbe passato in silenzio il nome del vivace sarzanese, se si fosse in quell’ anno trovato a conversare con lui. La repubblica, per succedersi di signorie e specialmente la famiglia Fregoso, non mancò di valersi dell’ opera sua in pubbliche ambascerie ed in gelosi negozi. Sarebbe cosa lunga fare un elenco delle prime e si starebbe pur sempre a rischio di dimenticarne (3). Piuttosto mi piace toccare dei secondi e di un curioso documento del '48 (1) Cfr. un erudito articolo dell’egregio Neri, Giorn. Ligustico, III, 125, segg. (2) Cerini; Memorie stor. di Luttigiana, I, 55. — Scalamonti; Vita di Ciriaco, cit. (j) Vedine il ricordo passim in Giustiniani, op. cit. e nna ragionata serie in Neri; art. cit. Cui sarebbe da aggiungere una missione del '37 nella Luni-giana per ordine di Tommaso Campofregoso. Doveva radunarvi 500 armigeri da consegnare a Giorgio Grillo per tentare di ricuperare le terre occupate da Niccolò Piccinino (Cicala, Ms. cit., a. 1437. — Cfr. Neri ; Giorn. Lig., a. XV, p. 173). Nel'40 è ambasciatore a Firenze, per informare il sùo governo sulle cose di Toscana e di Forlì segnatamente. Nel '58, con Battista Goano e tre altri cittadini genovesi è mandato al re di Francia, cui si era data la città e dominio di Genova. - 94 — che non trovo citato in alcuno di coloro che discorsero di Gottardo. È questo un’assai misteriosa lettera di Giano Fregoso in data del 6 settembre allo Stella allora in Milano. Per altro la notizia del tempo lascia intrav-vedere ed indovinare il secreto lavorio. Pare che il doge avesse intercettato un documento che comprovava il tradimento del conte Francesco Storza verso la repubblica ambrosiana. Il doge chiedeva ai magnifici capitani un uomo fidato cui rivelare i particolari del fatto, ma nello stesso tempo dava a Gottardo incarico di far doppio giuoco col conte, mettendolo cautamente sull’avviso. Ambagi di quella sciagurata politica e della politica d’ogni tempo. Gottardo si fece esecutore di quelle manovre ambidestri ? Non rinvenni altro documento oltre il presente, e del resto la battaglia di Caravaggio avvenuta il 15 settembre rompeva gli indugi. Lo Sforza agiva ormai svelatamente ; la repubblica ambrosiana, irrisione della sorte, era perduta per le vittorie, anziché per le sconfìtte del suo generale (1). Un altro particolare parimente taciuto é la prigionia sopportata da Gottardo, che nel 1442 fu coinvolto nella caduta di Tommaso Campofregoso e de’ suoi aderenti. Se il manoscritto onde tolgo la notizia non commette errore, ed ho ragione di non crederlo, la sua cattura sarebbe durata due anni circa, avendo egli seguito, per Tommaso solo fu fatta eccezione, la sorte degli altri Fregoso, che soltanto nell’aprile del '44 furono liberati con risarcimento dei danni patiti. Nello stesso luogo si dice (i) Ms. Br. c. 94, Veci. Documento IX, in fine. — 95 - pure che a Gottardo in virtù di detta pace fu restituita per due anni la scrivania di Scio. Il che concorderebbe in parte con la notizia portata dal Serra, ossia che egli fu cancelliere dell’uffizio di Gazaria e di Cipro (i). Come avviene di tutti coloro che ebbero molta parte nelle faccende del loro tempo e si urtarono con molti uomini, egli fu segno senza dubbio di odi ed amori, di ammirazione e di biasimo. Il Panormila in una fiera lettera, per non dirla arrogante, che per ordine d’Alfonso scrisse nel 1456 al doge e all’officio di Balia, ce lo presenta in atto di basso cortigiano. — Aderat quidem Gotardus ipse tunc legatus vester, cum episcopus Atreba-tensis communi omnium legatorum nomine diserta quidem oratione me oraret, ut genuenses quoque in universalem pacem susciperem, cumque ego responderem genuenses pro sua perfidia paena potius quam pace dignos videri, exclamasse Gotardum (quis non viderit genibus provolutum?) tua nos saltem clementia, rex humanissime, hac pace dignos efficiat. — II Panormita allude alle pratiche tentate già più volte, per venire ad una pace generale degli Stati italiani e apj arecchiare la guerra contro il Turco. E come ambasciatore al papa ed al re, la repubblica aveva inviato il cancelliere Gottardo ; ma tanto era F odio di Alfonso contro i genovesi e si vivo ancora il ricordo della vergogna patita a Ponza, che dall’ accordo generale essi vennero nominatamente esclusi, mentre il re si travagliava per balzare dal seggio ducale Pietro Campofregoso e ricondurvi gli Adorno. L’ambasciata che qui si ricorda dello Stella e Fatto suo veramente (1) Cicala, Ms. cit., ad. a. 1444. — Serra; Storia di Genova, disc. IV, § 18. — 96 — non dignitoso per l’oratore di una repubblica, dovrebbero riferirsi all’anno 1455. Ma l’aneddoto sarà poi vero? Il Fazio passa sulle lodi di Gottardo con un meditato e significante silenzio, egli che non la guardava tanto pel sottile a proposito di molti altri : tranne il solito facundum virum, non una parola di più nel libro X della sua Storia, dove ricorda l’ambasciata del cancelliere genovese al re, e nel libro De viris illustribus 1’ elogio di Gottardo é saltato a pie’ pari. In compenso egli godè la stima de’ reggitori della repubblica , di principi illustri, di letterati e statisti autorevoli come Francesco Barbaro. Questo all’amico Bertuccio Negro, che nel *51 veniva ambasciatore della serenissima veneta a Genova scriveva: « Mi fu riferito che e del Bracelli e di Gottardo si possono trovare costi molte orazioni e lettere di grave dettato ed elegante. Mi farai cosa grata, se al tuo ritorno procaccerai che a me pure sia fatta parte delle loro scritture. Quanto e 1’ uno e 1’ altro valgano per consiglio, quanto sia il loro valore e nel dire e nello scrivere, è noto » (1). Il nobile senatore e procuratore di S. Marco intratteneva volentieri corrispondenza di cose genovesi con uomini genovesi. Delle sue lettere più antiche sono quelle del '36, tra cui una a.Tommaso Fregoso che dalla rivolta delia patria contro il Visconti usciva doge. Il Barbaro sperava che mercé la virtù di lui, la città sarebbe liberata da ogni timore di servitù (2). (1) C/terum quia relatum est mihi complures orationes et epistolas utriusque non minus graviter quam eleganter scriptas istic inveniri, mihi gratam rem facies si dederis operam ut in tuo reditu nos quoque particeps facias rerum suarum. Quantum uterque consilio valeat, quantum etiam possit dicendo et scribendo satis constat. Lett. al Negro, 12 dic. 1451. (2) Venezia, 13 aprile 1436. - 97 — E le stesse speranze esprimeva dopo 1’ elezione al genovese Bartolomeo Guasco, il maestro di grammatica che altrove ci avvenne di ricordare, istitutore forse dei nipoti di Tommaso e custode della biblioteca privata da questo radunata, come diremo più oltre. Figuratevi se il buon grammatico non avrà fatto la ruota per tanta degnazione del patrizio veneto. « Mi rallegro teco clic ad illustre capo dei genovesi sia stato designato Tommaso Fregoso, il quale eccelle sovra tutti per consiglio, virtù e grandezza d’animo » (i). Tra i due letterati genovesi ed il Barbaro c’era scambio di cortesi uffici e profferte d’amicizia cordiali, sebbene alquanto in gota contegna da parte del senatore — l’uomo era fatto così — con molta deferenza da parte del Bracelli e dello Stella. Si cerchi da chi n’ è curioso quella corrispondenza nell’ epistolario raccolto dal Quirini (2). Io riferirò qui una breve lettera del Bracelli a lui, che credo inedita, e delle edite ricorderò solo quella che il Barbaro indirizzava a Gottardo, pregandolo scherzosamente a rimandargli un Cornelio Tacito che avevagli imprestato. La lettera inedita accenna, se non erro, a’ rapporti del Barbaro colla repubblica genovese ed in essi il Bracelli, come cancelliere, doveva tornargli certamente utile (3), (1) Tecum igilur laetor Thomam Fregosium qui consilio virtute ac magnitudine animi excellit, illustrem ducem genuensium designatum esse. (2) Fr. Barbari et aliorum ad ipsum Epist., Brixiae, 1843. Cfr. anche: Sabbadini; Lettere inedite di Fr. Barbaro. (3) Ms. Pallavicino, in Arch. municip. di Genova. Cl. militi patri lion. Fr. Barbaro ili. dominii Venetiorum legato apud Mediolanum : Est milii inter summas precipuasque voluptates, magnifice et cl. miles, te non opi nari modo, sed verius experiri quanti tc faciam quum soleam virtutes tuas et mt- Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXlll. — 98 — l’altra allo Stella, dopo gli affari pubblici de’ quali amava intrattenersi con lui, parla di cose letterarie e più precisamente dello storico latino. « Te ne prego, gli scrive celiando, tratta in tal modo Cornelio che costi sia ospite, non concittadino ; né averlo tanto caro che scordi, come si narra dei Lotofagi, l’antico domicilio » (i). Era una copia di quel prezioso codice che il Niccoli aveva gelosamente custodito, non consentendone la trascrizione se non a pochissimi amici, tra cui Francesco Barbaro. La data della lettera ci chiarisce che dodici anni prima che al card. Bessarione , lo storico latino era noto nel circolo dei letterati genovesi. Difatti solo nel '53 questi riusciva a trarne per suo uso una copia. Gottardo ebbe verde vecchiaia e vide gran parte degli avvenimenti del suo secolo: era ancor vivo nel ’88, poiché 1 ultimo atto che ci occorre di lui é appunto di quel- 1 anno. IZ prima di morire ebbe il conforto di sentir le lodi del figlio Giuliano encomiato per il suo animo virile nell impresa di Otranto e da Sisto IV creato cavaliere dello spron d’oro (2). Giuliano era uno dei patroni rari et predicare- unde cultus ille tui et observatio nata est. Letus accepi litteras tuas’ ^tus ^eSl> dedique operam ut rnox illustrissimo domino duci rescriberetur : lit-t/ras magnificentie tue mitto et preter eas breve quoddam cui inscriptio tua inest. Si quid a me ahud curari iubes, indica et vale. Ex Genua, idus febr. 1444- T. de. Br. tuus. (1) Lettera da Venezia a. 1440. Cfr. Sabbadini, op. cit. (2) Elco il breve che Leonardo Grifo, per ordine di Sisto IV, mandava a Gottardo (Ms. Bibl. Università in Genova, copia tratta dal Codice Magliab. 116). Gotardo Stelle cancellario nostro Dilecte fili salutem eie. Redeuntibus Januam patronis trirerniiurn classis nostre visum est nobis specialiter de Iuliano filio tuo, uno ex ipsis patronis, aliquid ad le , ita enim virtus eius et laudabiliter impensa opera requirit, quippe, qui iti cristiane religionis negocio viriliter se gessit, nostreque de eo optimae opinioni - 99 — delle ventun galere, che la repubblica nel 1481 aveva armato per cooperare alla ricuperazione dell’ infelice città presa e menata a strazio dal Turco. Nel 1483 egli é noverato tra i padri del comune. Che cos’é rimasto di Gottardo come letterato? In sostanza poco più che il nome, poiché non bastano ad una durevole fama letteraria, le lettere scritte per ragion d’ufficio, e queste copiose, in parecchi volumi d’Archivio contraddistinti dal suo nome, e l’orazione da lui pronunziata dinanzi a Pio II nel congresso di Mantova. La repubblica, per timore di re Carlo VII che avversava la crociata voluta dal papa, non aveva inviato oratori in quell’occasione. Pio II se ne dolse, instette e finalmente addì 25 ottobre 1459 il re accondiscese che Meliaduce Saivago e Gottardo Stella, da Venezia dov’erano, si unissero agli inviati regi e si recassero a Mantova (1). Fu allora che il cancelliere genovese fece il suo discorso, povero fiore perduto tia’ fioretti e fioracci rettoria che spampanarono allegramente all’ aure propizie di quel congresso. Ed il Serra, ed il Neri più recentemente, lodano coteste scritture, per chiarezza e sapore di lingua classica, malgrado le indispensabili voci moderne, per le appropriate sentenze in cui alcuna volta il lettore s’avviene di Cicerone e di Seneca, non che dei classici greci o de’ Padri della Chiesa. Il marchese Girolamo Serra plene correspoiidit. Nos autem in signum nostri erga eum amoris et propter eius merita ac etiam quia te paterne complectimus creavimus ipsum equitem auratum eumque, sicut ei diximus, in dies commendatum habebimus ; quod pro consolatione tua volumus bis nostris litteris significare. Datum Corneti etc., die IV oclobris 14ÌSI, anno xi.° Pont. nost. (i) Cfr. Neri, art. cit possedeva poi, come nella sua storia attesta, un codice, torse autografo ed unico, contenente di Gottardo un'altra orazione a Galeazzo duca di Milano, una lettera consolatoria ad Ambrogio Senarega in morte di suo figlio, un elogio storico a Gaspare Vimercate governatore ducale ed un’ esortazione agli anziani di Genova dell’ anno 1466. Ed ancor esso, come tanti altri, andò smarrito. Però molto probabilmente, se anche conservato, non avrebbe aggiunto gran cosa al suo nome. La cancelleria, vanto e tormento dell’ umanesimo, assorbiva la parte migliore di quegli uomini. Forse egli non ebbe, come l’amico suo Bracelli, il culto disinteressato e modesto delle lettere; ma è pur vero che né il Bracelli nè alcun altro dei dotti notai cancellieri produsse quanto avrebbe potuto, colpa la penuria di tempo, e gli affari molti che preoccupavano e distraevano la mente. La stancavano anche: e il Bracelli, scrivendo all’Assereto, si rallegrava che fosse capitato a Genova Antonio da Pesaro, poiché la sua venuta gli procurava una vacanza più lunga delle pur sospirate ferie pasquali (1). Se pensiamo che l’ambito segretariato avrebbe, quasi certamente, tolto modo al Machiavelli di scrivere la Mandragola e le sue grandi opere storiche, vien voglia di benedire anche la relegazione a San Casciano e la tortura onde lo regalarono i Medici. Del Curio, per andare in ordine di tempo, avrei dovuto dir prima; ma le poche notizie biografiche, che in questo luogo riassumo, si collegano in qualche parte con il Cassarino, e mi conducono senza salti a parlare di questo fi) Lettera cit. 5 giugno 1445. — IOI — grammatico e degli altri. Mi sia dunque permesso, una volta tanto, di scusarmi anch’ io col verso : Dirvelo prima o poi tant' è lo stesso — e cominciamo. Egli era stato discepolo del grammatico siciliano, col quale mantenne in seguito calda amicizia, sebbene non pare che persistesse molto negli studi. Tra le lettere d’ufficio del Bracelli ve n’ha una, in nome dell’ arcivescovo Bartolomeo Capra, con cui si raccomanda caldamente il giovine Giacomo Curio al re di Cipro. Da essa rileviamo che il Curio si recava colà coll’ intenzione di dimorarvi, e di attendere forse alla mercatura che attirava anche i figli di nobili famiglie in pro-vincie lontane dalla patria. La giovine età di lui non potrebbe giustificare altra congettura (i). Quanta dimora vi facesse e che cosa positivamente, ignoro. Nella vita del Curio rimane una lacuna da quest’anno fino al 1441, che non mi é riuscito di colmare. Certo in quest’ anno trovavasi già da qualche tempo nella cancelleria genovese, o meglio forse al servizio de1 Fregoso, poiché a’ 2 gennaio era mandato dal doge Tommaso ambasciatore alla regina di Gerusalemme e di Sicilia. E da questo tempo, fino alla sua partita definitiva da Genova, gli incarichi pubblici si seguono: nel 1446 ambasciatore a Firenze, nel '48 al conte Francesco Sforza, (i) Arch. di Stato in Genova, Litterarum 3, Jacobi de Brac., 26 agosto 1428. Accedi! ad maiestatis vestre conspectum discretus adolescens Iacobus Curius, civis noster dilectus, eo proposito ut scilicet sub umbra serenitatis vestre eiusque obsequiis intentus vitam agat. Sperat enim ut maiestas vestra in omne humanitatis et tnu-nificentie genus sponte sua proclivis devotissimum affectum eius gratum habitura sit.... torse per il doppio giuoco voluto ed ordinato da Giano con il conte e la lepubblica ambrosiana (i)> ne^ 5° (8 novembre) per rallegrarsi con esso Sforza in quel mezzo divenuto duca di Milano. Ma aneli’ egli forse disperando per sé, in mezzo ai frequenti tumulti genovesi, forse scontento di Pietro Fregoso, assai diverso dal vecchio doge Tommaso, abbandonava dopo quell’anno la patria e riparava a Napoli sotto la protezione di Alfonso. Certo l’esempio e la fortuna dell’amico suo Bartolomeo Fazio dovettero entrarci per molto nella decisione presa. D’altra parte un erudito amanuense e miniatore elegante, com’era il Curio, doveva tornare assai utile al letterato ligure allora già salito al grado di storiografo del re Aragonese. Poiché Giacomo Curio non toccò punto le vette dell’umanesimo, sebbene fosse molto stimato in corte, e l’opera sua di supplemento alla traduzione di Arriano, che il Facio lasciava interrotta per morte, ne dimostri la dottrina (2). Duole che sia per anco inedito e smarrito tra i manoscritti di casa Galliera il poemetto latino, che il Curio scriveva a commemorare la splendida vittoria conseguita da Paolo Fregoso nel 1461 sopra i francesi, presso il colle di Promontorio. Di poesia latina il quattrocento genovese produsse cosi poco che, sto per dire, anche ogni piccolo pruno farebbe (1) Cicala, Ms. cit., ad ann. 1448. — a II doge e il consiglio degli Anziani gli diedero istruzione, nella quale si dice essersi inteso che (il Conte) ha mutato condizione e che ha fatto amicizia con Veneziani, e che lo dica, acciocché se ne possa havere cousolatione e che si escusi da prestare li danari domandati per le spese della guerra con Finaro ». (2) Amicissimi!j fuil Curulus Barlh. Facii et adiutor in supplendii ipsius operibus. Mittarelli, op. cit. — 103 — siepe ; ed inoltre sarebbe questa l’unica opera veramente letteraria di Iacopo, su cui fondare il valore di lui come scrittore (i). Allo stato attuale, il suo ufficio in corte dell’Aragonese segnatamente, è anzi tutto quello di un bibliofilo ed amanuense, di un degno compagno insomma del Niccoli, di Vespasiano fiorentino, che intorno allo stesso tempo levavano di sé tanto nome, pur in questa parte materiale della produzione erudita. Camillo Minieri Riccio ci fa sapere che il nostro Iacopo era uno degli otto amanuensi stipendiati dai re Alfonso e Ferrante, e che percepiva dal regio tesoro la somma di trecento ducati (2). Di alcuno de codici trascritti da lui ci danno poi notizie il Delisle ed il Prof. Mazzatinti. si trovano qua e là sparpagliati, uno nella Biblioteca Nazionale di Parigi, che raccolse in parte le spoglie della ricca biblioteca aragonese di Napoli, ed é una copia della storia di Giustino rilegata colle armi del re Alfonso in fine, scritta in rosso ed in maiuscole, portando questa sottoscrizione : Listini Epithome historiar. Trogi Pompei liber XL1II explicit divo Alphonso regi, Iacobus Curlus ut potuit excnpsit; altri due sono nella biblioteca del seminario di Siracusa ed in quella del principe Torella di Napoli; il primo copia di cinque libri delle istituzioni del Trapezunzio dedicati ad inclitum regem Alphonsum, il secondo, il libro d’ore dello stesso principe, adorno di (1) Anni passati, mi scrive il comm. Belgrano, il canonico Grassi ne dava ragguaglio alla Società Ligure di Storia patria, come di lavoro che egli ebbe la fortuna di poter leggere a suo agio. Peccato che l’egregio canonico non ne abbia tratta una copia. (2) Minieri Riccio; Cenno storico dell'Accademia Alfonsina, p. io, nota 8. — 104 — miniature e con lo stemma aragonese (i). Codici e mi-niaturature che, siccome bene osserva il Prof. Mazzatinti, « illustrano la storia ancora in gran parte ignota della biblioteca dei re d’Aragona ed offrono preziosi materiali per la storia della coltura nel secolo XV ». Un altro lavoro del Curio si restringe ad essere in fine una compilazione: tuttavia é mirabile come in quel fervore di studi quattrocentisti tutte le forze dell’ ingegno, dalle più alte alle più umili, avessero un utile impiego. Il Curio stesso, nella lettera dedicatoria a Ferdinando, ricorda il motivo occasionale del libro. Alcuni mesi prima della morte del magnanimo Alfonso, finito il desinare, questi si era ritirato nella ricca biblioteca della sua residenza di Castelnuovo per ascoltarvi la solita lezione quotidiana di Antonio Panormita. Assistevano il figlio Ferdinando, il Curio ed alcuni altri famigliari, ed essendo stata fatta menzione del commentario di Elio Donato sopra Terenzio, il re commetteva incarico al Curio di ridurlo, per maggior comodità, in forma di vocabolario. Di tali sussidi nel commentare i classici sentivasi allora (i) 11 primo codice trovasi sotto l'indicazione: fondo latino, numero 4956. Il Trapezunzio fu regalato alla biblioteca del seminario di Siracusa dal conte Cesare Gnetani ; è membranaceo con iniziali miniate e consta di ff. 314. In fine, in caratteri maiuscoli, leggesi: Georgii Trapezuntii qnintus et ultimus rethoricum hber explicit: Divi regis Alfonsi iussu Iacobus Curlus excripsit. Il libro porta lo stemma nel recto del fol. 7, con questa nota in carattere maiuscolo nel penultimo foglio : Iacobus Antonius Curlus divi Alphonsi regis iussu exscripsit feliciter. Cfr. Léopold Delisle; Le Cabinet des Mss. de la Bibl. Nationale, Paris, 1868. G. Mazzatinti , La Bibl. Aragonese di Napoli, relazione al Ministro delta Pubb. Istruzione, in Bollet. uffic. anno 1887, n. 1064. De’ codici trascritti e miniati da un Ippolito Lunense al tempo di Ferdinando I dà pure importanti notizie il benemerito Prof. Mazzatinti, Relacit. Nella dedica d’ un trattato sulle pietre preziose da esso Ippolito volgarizzato, egli si denomina regius librarius. — 105 — forte il bisogno e lo nota anche il compilatore: Caeteri, ut Papias, Ugutio, Catholicon et si qui alii huiusmodi vocahularia, ut aiunt, ediderunt, non multi apud literatos habentur, quos ego tamen non dico negligendos (i). Cosi nacque il lavoro; enei modo identico mi figuro, ossia per un autorevole desiderio dell’illustre suo mecenate, avrà avuto origine il commento alle opere di Strabone di cui fa menzione lo stesso Minieri Riccio (i). Questi cita l’opera del Curio insieme con altre del Bessarione, del Bruni, del Bracciolini, come un nobile contributo all’accademia napoletana della quale gli scrittori citati furono decoro, e sarà anche vero se si faccia dell’accademia in appresso Pontaniana e del dotto circolo di umanisti in corte di Alfonso una cosa sola. La lettera del Curio si dilunga con compiacenza sulle parole di consolazione, che gli rivolgeva il re sulla via Capuana in vederlo vestito a bruno per la morte del padre. L’immaginate voi l’augusto principe seguito da uno splendido corteggio di cavalieri, di prelati, di dotti e da un lungo codazzo di popolino vivace e loquace, in ammirazione della severa eleganza del re sempre vestito di nero alla spagnuola, sostare, dico, dinanzi all’ umile grammatico e consolarlo del recente lutto con la famigliarità di un eguale? Penso difatti che tra i maggiori luminari della corte, cioè il Panormita, il Fazio, il Manetti, ed il Curio ci corresse per importanza un bel tratto, sebbene il Tallarigo, fondato sopra non so quali documenti, accozzi il geno- (1) Mittarelli; op. cit. (2) Minieri Riccio; Breve cenno storico intorno all’accademia Pontaniana, Napoli, 1865. — io6 — vese con i primi due nell’ opera ingrata di raddrizzare le gambe al codice di Tito Livio regalato da Cosimo, assai malconcio e scorretto. « Mano mano che progredivano nella correzione, tenevano conferenze con Alfonso leggendo e chiosando il loro testo ». Fu allora che saltò in mezzo, armato della sua terribile clava grammaticale, Lorenzo Valla, e alla presenza stessa del re, menando colpi da orbo a diritta ed a mancina, fece sentire acerbo il dolore delle percosse al Fazio ed al Beccadelli (i). Ma il Curio penso io che mettesse in servizio de due illustri interpreti ed amici non più che la sua grande perizia nel decifrare la scrittura antica; le chiose illustrative saranno state degli altri due e me ne conferma 1 osservazione che il Valla nelle Invettive, dove giostra più terribilmente, si scaraventa bensi contro il Fazio ed il Beccadelli, ma tace sempre di Giacomo Curio. Del quale, non che della sua vita a Napoli, poco più altro potrei dire. Aveva però famiglia, e di essa non era fortunato. In una lettera ad un tale Battista Burgaro, scritta da Napoli il 15 novembre 1456, narra che il figlio primogenito era fuggiasco da casa e vagabondo prima a Palermo, poi a Venezia, sicché la povera madre accorata della morte di un altro figliuolino e di quella fuga giaceva gravemente inferma. Al leggere quel linguaggio addolorato nessuno dubita del suo amore paterno ; eppure troviamo in quella lettera alcuni particolari circa il contegno del Curio verso il figlio, che paiono ripiombarci nell’inciviltà del medio evo. — « Usando, scrive egli, di ogni arte per ritrarlo dalla mala consuetudine, da ultimo presi (1) Taliarigo, op. cit., I, p. 118. — [07 — a batterlo inumanamente, poiché lo volevo piuttosto morto che cattivo. Ma egli di giorno in giorno fattosi peggiore e temendo la severità mia, che avevo deciso per nessuna ragione di non risparmiarlo, se ne andò prima in Sicilia, quindi a Venezia » (i). Non parrebbe davvero un contemporaneo di Vittorino da Feltre; ma il secolo era pieno di contraddizioni, o, per dir meglio, l’età che tramontava sbatteva ancora la sua ombra fosca ed antipatica sulla luce del tempo nuovo. Vedete il Boccaccio ; così voleva il geniale certaldese che si trattasse la donna, egli che pure aveva creato l’immortale figura di Griselda ; così trattava il Petrarca, il gentile il soave Petrarca, il suo disgraziato figliuolo. Il fuggitivo da casa del Curio era con tutta probabilità il trascrittore delle Filippiche che il Fazio aspettava impaziente da Genova, prima che l’amico mutasse co-testo soggiorno per quello di Napoli. N’ é fatto cenno in una lettera che il Mittarelli riporta senza data, ma che dovrebbe cadere verso il ’48, quando il Fazio o aveva già posto mano, o si apparecchiava a scrivere la storia di Alfonso (2). Per altro il triste incidente del figliuolo era occorso come s’è veduto nel ’5 6, ossia nella prima dimora del Curio presso la corte napoletana. Più tardi il re lo aiutò a maritare una figliuola, gli accrebbe lo stipendio, lo lusingò nella vanità o nell’amor (1) Ms. Br., c. 137. (2) Con lettera da Napoli, 26 sett. 1451, il Fazio ringraziava il Barbaro della cortese amicizia offertagli, ed avvertiva aver egli già pubblicati sette libri della sua storia; ora attendeva a vii altri. Cfr. Sabbadini, Lettere inedite di F. Barbaro. Bisognerà quindi per la prima redazione, risalire almeno a tre anni innanzi. — io8 — proprio che é a un dipresso la stessa cosa, con lodi e cortesi profferte. Il vocabolario terenziano compilato sopra il commento di Elio Donato Io scriveva in villa, lungi dal frastuono della popolosa città; ed in sostanza, se forse non potè colle liberali largizioni del monarca aragonese mantenere carrozza e cavalli come il coetaneo Giannozzo Manetti, per lo meno non credo ebbe a dolersi del tramutamento dalla patria a Napoli. Nella lettera dedicatoria a Ferdinando commemora i dotti uomini che il defunto re onorava nella sua corte, e duolsi non avesse potuto intervenirvi per l’immatura fine anche Antonio Cassarino, già professore di grammatica a Palermo, precettore di esso Curio anni prima, e traduttore della Politela di Platone dedicata ad Alfonso. II. Il nome del Cassarino mi conduce naturalmente a ragionare degli eruditi chiamati come lettori pubblici e maestri di grammatica ad insegnare in Genova, o nelle città del dominio. Ma prima occorre premettere poche notizie sulle scuole ecclesiastiche e laiche, rifacendoci alquanto da più alto, ossia a’ secoli medievali. Fu 1’ umanesimo che propriamente fece sentire il bisogno di un insegnamento laico. Certe testimonianze della vitalità e perennità di esso anche ne’ secoli anteriori non mancano, e furono raccolte dal Carducci con quella competenza che a tutti è nota. Ma, per ripetere le sue stesse parole : — « non ostante le testimonianze che finora studiosamente raccogliemmo . . . intorno alla persistenza del sentimento clas- — 109 — sico, pagano nelle lettere e ne’ maestri di lettere in opposizione al genio e allo spirito ecclesiastico e anche cristiano, non si può disconoscere la prevalenza dell’elemento ecclesiastico in tutta la coltura italiana dei secoli IX e X » (r). Le scuole instituite ne’ principali centri d’Italia erano dunque ecclesiastiche, in ispecie episcopali. S’intende che la Chiesa occupandosi del progresso individuale del chiericato, non de’ laici, anche lo spirito di quelle scuole aveva ad essere essenzialmente religioso, come nel sec. VIII era stato intendimento di Garlomagno che fosse. In quel tempo, ecco che cosa dovevano imparare i ragazzi, secondo i moniti del Capitolare diretto da Aquisgrana il 23 marzo 789: psalmos, notas, cantus, grammaticam per singula monasteria et episcopia discant et libros catholicos bene emendatos habeant, et pueros vestros non sinite eos vel legendo, vel scribendo corrumperc. Et si opus erit evangelium, psalterium et missale scribere, perfectae aetatis homines scribant, cum omni diligentia. Tali le prime scuole episcopali che meglio rispondevano all’ ufficio loro. Ma in Genova e nella Liguria generalmente esse attraversano, durante i tre secoli dal IX al XI, tristi giorni di languore, e se pur c’erano scuole di grammatica, dovevano far difetto gli insegnamenti più elevati del trivio, la dialettica e la rettorica. Risulterebbe ciò da un Capitolare di Lotario imperatore, che assegnava a’ genovesi lo studio di Pavia, essendovi maestro quel Dungalo scozzese che mandato colà da Ludovico il Pio a professare lettere, ebbe parte nella grande polemica sul culto delle immagini provocata dal vescovo di To- (1) Carducci; La traditone romana nelle barbarie, VII. — no — . rino (i). Ma già nel secolo XII anche le scuole di ret-torica o episcopali o claustrali, che non era la stessa cosa, si erano probabilmente rilevate e diffuse, se nel duecento il genovese Giovanni Balbi, dell’ ordine di San Domenico, compilava il Catholicon, opera che se incontrò di poi le censure severe del Valla e di altri umanisti, era importante allora e non cessò di essere adoperata neppure durante il fiorire dell’ erudizione. Quando più tardi sorse l’insegnamento laico, questo si collocò accanto all ecclesiastico, che continuò a sussistere. Senza dubbio, per citare tra i tanti un esempio, insegnavano in una scuola claustrale que’ frati Antonio da Barga e Matteo da Viterbo di cui parla il Traversari in una sua lettera al Niccoli, e che da Firenze si erano trasferiti in Genova (2). Si era nel 1433. Sebbene Genova, non ultima tra le città italiane, possedesse fin dal secolo XIII scuole tenute e dirette da laici. Laico pare veramente che fosse quel Pagano, che nel 1248 prometteva a Corrado Calvo banchiere di ammaestrare Guglielmo ed Emanuele figli di lui nel Salterio e nel Donato, così che sapessero bene e competentemente leggere a giudizio di un buon maestro, e ciò mediante il prezzo di lire dodici (3). (1) Carducci; art. cit. (2) Marténe et Durand ; op. cit., Ili, lib. XV, ep. i. Frater Antonius de Barga perpetuus ac praeceps lector , antequam istinc profisceretur, tua omnia quae erant apud te, indicesque librorum mihi diligenter restituit, oravitque ul tibi suo nomine per litteras gratias agerem. Ipse, ut audio, Genuam profectus est, neque ipse tantum, verum et frater Matthaeus Viterbiensis eo transmissus est. Manca al solito la data, ma dalla lettera risulta che Cosimo viveva allora a Venezia: dunque nell’anno 1433. (3) Isnardi; Storia della Università di Genova, Genova, 1861, I, 243 segg. — Ili — Nel trecento, se non prima, é certo che si aprirono scuole di grammatica per opera di maestri non più claustrali, o sacerdoti addetti alle case vescovili, ma di laici od anche ecclesiastici indipendenti, che riscuotevano una tassa dai discepoli, ovvero ricevevano uno stipendio dal comune. E maestri concorrevano da diverse parti d’Italia, fino a che il comune, nell’anno secolare 1400, non ebbe preso il severo provvedimento, citato anche dall’Isnardi, di escludere i precettori provenienti dalle Marche, Ducati, Toscana, Napoli, Romagna e Patrimonio della Chiesa. Si vietava a tutti costoro di insegnare in Genova ai fanciulli, pena ai trasgressori una multa di mille fiorini d’oro, e se non potessero pagarla la fustigazione e il bando perpetuo dal territorio genovese. Cagione n’era quella turpe ricordata dall’Ariosto nella nota satira contro gli umanisti ; e poiché siamo soltanto all’ anno 1400, convien dire che la cancrena fosse vecchia assai più dello stesso umanesimo. Fu soltanto sullo scorcio del secolo XIV che la Repubblica si risolvette ad aprire scuole al tutto dipendenti da essa, dove i professori di grammatica, stipendiati con annua provvisione, insegnassero questa disciplina insieme con le due altre che componevano il trivio. E già sul finire del secolo XIII erasi costituito in Genova un collegio di dottori di grammatica, forse per quella tendenza che fu peculiare al medio evo di far sparire l’azione individuale a benefizio della corporazione vigile sugli interessi comuni e rivolta a formare un ente nel-l’ente ; fors’ anche per desiderio e volere de’ governanti, che credevano tutelare con ciò la moralità della scuola. L’ atto notarile, che ne fa testimonianza, produce pure il — 112 — nome di parecchi tra cotesti dottori, e in tanta scarsità di notizie sicure può essere curiosità non disutile il saperli, e comprovano, parmi, indubbiamente il fiorire verso quel tempo di un insegnamento laico (i)* Uno statuto genovese dello stesso anno 1400 fa, del resto, comprendere meglio che non molte parole, la ragion d’ essere del collegio e le sue incombenze. Chi voleva venire ascritto al medesimo, condizione indispensabile per aspirare all’ insegnamento, doveva farne domanda regolare dinanzi all* ufficio dei sindaci. E questi eleggevano a loro volta una specie di commissione esaminati ice, che doveva inquisire sulla vita e i costumi del maestro e sulla sua dottrina (2). In tal modo forse si evitavano i guai lamentati dall’Ariosto per il suo secolo, ma ne^ tempo stesso il sapere si riduceva ad un monopolio ^ 1 pochi. S’intende che a siffatta regola, se pure il collegio dei dottori continuò a funzionare nel secolo XV, noi erano punto soggetti quei professori che per la ce e^ acquistata, la repubblica chiamava in Genova ad inS^ gnarvi greco e latino, però che la loro elezione, o - a- rnrrado di Stefano (1) Un atto del 27 maggio 1298, registr. nel notulario di ^ ^ Rufinus de da Lavagna (Archiv. dei Notari), p. 59, comincia cosi : Nos waSister ginus , Dertona, magister Thomas de Firmo consules , magister Berthonus , ^us cano- mag. Salvus de Pontremulo, mag. Rollandinus de Rapallo , tnag- Leonj^nne$ nicus ecclesiae S. Ambrosii, mag. Iacobus de Portu Veneris, niag- . j Monte luco, tnus" S. Ambrosio, mag. Gregorius de Senis, mag. Bellengarius eie ilcae Franciscus de Camulio et mag. Pellegrinus de Servo, magistri Grami qtamrri(i' nomine nostro et .. . universitatis et collegii universorum magistrorum nn Guglie*010 u‘ ticae de civitate et suburbiis Ianuae, — tutti costoro deputano u in • Origìne e P Albara come loro procuratore generale alle liti. — Da Passa'n • ^ Jtal., gresso dell’ istruì, popolare in Genova, Genova, 1867. Cfr. anche Arch. terza serie, VI, parte 2.% p. 167. (2) Cfr. Da Passano, op. cit. — ii3 — riconferma nell’ uffizio e nello stipendio, si trova essere sempre devoluta al doge o governatore ed al consiglio degli anziani. "Non mi è riuscito, e si comprende come non fosse facile, di dare la serie continuata e sicura di cotesti pubblici professori durante il quattrocento, e la difficoltà era accresciuta anche più dagli intervalli lunghi e non infrequenti frapposti tra l’una e l’altra elezione. Le raccomandazioni da parte dei cittadini su questo sconcio non mancano e risultano dai fogliazzi d’ Archivio; per altro neppur esse sempre ascoltate (i). Ad ogni modo la nota è abbastanza copiosa per i maestri di retorica nella seconda metà del secolo ed il lettore la troverà tra i documenti messi in fine, come appendice ; per la prima metà citeremo i nomi dei più chiari. Bartolomeo Guasco andrebbe ricordato ancor qui tra i primi, ma io mi scrivo all’ opinione del Prof. Belgrano, eli’ egli cioè non fosse pubblico lettore in Genova, ma semplicemente il precettore de’ nipoti di Tommaso Fregoso , prima che se n’ assumesse l’incarico Giovanni Toscanella. E me ne persuade l’osservare che a lui, come a persona fidata e famigliare della casa, venne da Tommaso commessa la custodia de’ suoi libri; preziosi libri (i) Il decreto del 1474 per cui venne chiamato Giorgio Valla era promosso dalle seguenti considerazioni: — Auditis nonnullis civibus commemorantibus indignum et inutile fore non esse in hac civitate hominem doctum ac probum et bonis moribus praeditum, qui publico praemio legat adolescentibus illosque bonis moribus imbuat et erudiat litteris, quod optimum esse solet in omni statu et republica — stabilivano che si trovasse un soggetto idoneo a quest’ ufficio e se gli pagassero duecento lire genovesi. Ad ogni modo il Valla fu chiamato non prima del 15 luglio 1476, due anni dopo (Arch. di Stato in Genova, Diversorum, filza 39). Atti Sor.. Lio. St. Patria. Voi. XX111. — ii4 — il cui inventario presenterò più avanti come quello che nella storia della coltura genovese, panni abbia molta importanza. Del resto ogni altra notizia sul Guasco ci è maggior riprova della costante devozione di lui alla casa Fregoso. Allorquando nel 1449 il doge Lodovico Fregoso mandò il cugino Gian Galeazzo a governare la Corsica, tra coloro che accompagnarono il giovine nella barbara isola troviamo il nostro Bartolomeo. Il Braccio- lini che gli scriveva meravigliandosi seco lui per quella dimora, lascia intendere che ci fosse con ufficio di po- * 1 desta (in ea quae tibi demandata est praetura); rna 1 pubblico uffizio non esclude che il Guasco rendesse par ticolarmente apprezzata Y opera sua, come confidente e consigliere di colui che , insieme cogli altri nipoti del vecchio Tommaso, egli aveva avuto tempo prima come alunno (1). (1) Gian Galeazzo stette nell’isola dal 1419 al '53; nel qual anno ' ^ vennero ceduti dalla Repubblica di Genova al Banco di S. Giorgio lippini, Storia di Corsica, lib. III). La lettera del Bracciolini cade a^ ,^^esu_ questo spazio di tempo Eccola quale la riporta nel suo Spicilegi11111 ^ y^tjcana mendola, come egli avverte nella prefazione, da un Codice della (.Spicilegium Romanum, Hornae, 1844, tom. X, pag. 366, sotto il nunl « Bartholomaeo Guasco ianuensi. Cum quaererem de te saepius pro mea in te benivolentia ab iis quibus calar te noturn et rarum esse, intellexi te iam dudum et multo longius, q Mirabar cu n fuerat humanitas, esse apud Corsos gentem feram atque inhumanam ■ ^ ^ sis homo nostris studiis, hoc est humanitatis, ab ineunte aetate deditissim ’ sibi vellet tam diutina mora in tanta barbarie hominum, quibus imperai , •77 f'nrìQS V CTS CIT i' praeesse, miserrimam servitutem putarem . Sed existimo te inter iU°s . ^jQC tamquam apes inter dumeta, ex quibus mei colligunt ut compleant alvea ^ua)H. si es animo in ea quae tibi demandata est praetura, propositum tuum ^ ^ ^ quam non censeo aliquid pecuniae solius gratii esse agendum (abiechsstmi - iis — Nell’identica condizione di vita si trovò, per confessione sua, Antonio Astigiano nel 1431, durante la breve fermata eh’ egli fece in Genova, se non che scambio di essere il precettore di una sola, lo fu di parecchie ricche famiglie e le sue lezioni sui classici alternava coi passatempi delle magnifiche ville, o borghesi o patrizie. Civibus a multis pretio conductus honesto, lncoepi natos instituisse suos, In quadam ex villis quas illi tempore semper Aestior cives incoluisse solent (i). Nella borghesia fastosa avida di godimenti e di potere onde fa pittura, se non in bei distici, almeno con animazione di linguaggio l’Astigiano, è degno di nota cotesto favore che incontrava l’insegnamento laico, accanto alla diffusione e preponderanza di cui godeva pur sempre quello impartito dai conventi e monasteri. L’uno rispondente alla religiosità non mentita per anche, non ridotta ad una accorta ipocrisia; l’altro allo spirito, alla moda de’ tempi nuovi. Ma quando tra il \6 e il ’47 egli procacciò di ritornarvi come lettore pubblico, malgrado i molti blandimenti e la cautela cc di non lasciarsi sfuggire qualunque accenno, per quanto piccolo, alle qualità ed alle inclinazioni particolari a et hominis et consilii nummis et quaestui deditum esse) sed hoc dico, leviorem effici provinciae molestiam lucro quod proponitur laboribus nostris, praesertim si tale est quod possit loci incommodum reddere lenius. Id esse solet optimum levamentum aegritudinis animi. Attamen quaecumque causa te detineat, honestam illam ac necessariam puto, neque aliquid a te Jieri iudico, nisi optima ratione et consilio singulari . Scripsi haec ad te non ut reprehenderem quod rebus tuis conducere arbitraris, sed ut elicerem causam loquendi teettm . Ego tuus sum . Vah . Florentiae , XV kal. aprilis. (1) Muratori; Rer. Ital. Scrip., t. XIV. — 116 — • • ciascuno de’ personaggi » (i) desiderati, o sperati suoi patrocinatori, malgrado tutto ciò, dico, non vi riuscì. Prima del '43 eravi invece, ed in tale qualità, il Cassarino col nome del quale ho dato principio a queste brevi notizie sui professori pubblici. Sappiamo anche che stipendio egli vi percepiva, ossia lire genovesi 275 coll’ obbligo di leggere gratis agli adolescenti tutto 1’ anno, di scrivere la storia delle cose genovesi ed ogni inverno leggere al popolo (2). Non c era in verità da scialarla, e lo stipendio del povero Cassarino ci fa capire perchè una vera e larga fioritura umanistica rappresentata da pubblici maestri in Genova non ci fu : la repubblica non largheggiava nel loro trattamento e quel ch’è peggio si pagava talvolta stentatamente anche il poco, colpa i torbidi continui dello Stato. È vero che i professori contavano anche sugli introiti dell'insegnamento privato, e i governanti lo sapevano e ne toglievano pretesto per lesinare sull’ emolumento del pubblico. Nel 1450 a Giovanni Andrea Vigevio si assegnavano per la durata di un quinquennio lire 125 annue, praeter emolumenta quae a privatis percipit. Così sbarcavano essi il lunario nel secolo XV, come su per giù i loro tardi colleghi del secolo XIX, ed è certo prova dell’ ingegnosità di chi piglia e di chi dà tanto scarsamente, dei tormentati e dei tormentatori ; ma ve la figurate voi la giornata del povero umanista obbligato a fare gram-matichetta da mattina a’ ragazzi, un po’ più tardi spie- (1) Vayra, art. cit. (2) Pro annuo salario Antonii Cassarmi siculi, qui obligatus est gratis legere adolescentibus toto anno, item historiam rerum janucnsiuw scribere et singula hieme populo legere, librae 275. — Regulae, anni 144). — i r7 — gare Virgilio e Cicerone a’ più grandi, legere adolescentibus,, salir poi le scale di una casa patrizia per le lezioni da impartirsi a qualche nobile rampollo, leggere finalmente al popolo la sera, colla giunta di farsi storiografo in un caso ? Per fortuna che l’ultima clausola soleva restare lettera morta, né alcuno de’ professori in questi anni, che si sappia, scrisse di storia genovese. Anche il Cassarino era precettore del giovine Prospero Adorno, come abbiamo da una lettera in cui esorta il nobile alunno a studiare e farsi onore. Ci si sente, almeno per me, il vecchio maestro cascante di vezzi rettorici e infatuato della sua classica erudizione che ostenta a proposito ed anche a sproposito: lo stile è ancor quello de’ contemporanei del Salutati (i). Più importante a noi la lettera eh’ egli scriveva al Curio, (i) Arch. Municip. Cod. Pallavicino, c. 61. Eccone qualche passo: Antonius Cassarinus fiorenti et aureo adolescenti Prospero Adurno. Lex apud maiores fuit, Prosper luce mihi ac vita iocundior, ut si quis agrum haberet quem indiligentia sineret silvescere et incullu infructuosum atque inutilem fieri censeret, huic multam irrogarent... Sed illis equius fortasse concedi potest ut agrum magis colant quam inoenium quibus aut natura vires ad hoc agendum denegavit, aut fortuna necessitatem quandam indixit ut aliter facere non possint. Tibi vero, Prosper suavissime, ignosci nullo modo poterit nec facile concedi ut quicquid apud te sit cuius tu curam priore loco ducas quam ingenii, immo animi, immo tui. Nam cura rei comparande que alios solicitat vel occupatos nimium detinet, ea tibi nulla est, nec esse item debet: adest enim tibi parens optimus ac preclarissima domus vestre ornamentum precipuum , qui cum tanta et indulgentia prosequatur et cum in urbe hac facile omnium sit princeps rebus et animi magnitudine, nihil maiore studio compescit quam ut quemadmodum reliquis rebus facile alios superas, ita doctrina superes et ad eam gloriam, quam a maioribus acceperis, ingenii etiam laudem adiicias. Adest item tibi, ul plane perspicio, ingenium aptum velox acre et magnarum rerum capax, ul nullum sit doctrine genus quod facile consequi non possit, adest etas bonis artibus convenientissima, ut si paululum eniti volueris eo te venturum sperem ut nullus in patria tua sit quoi (sic) tu merito anteponi 11011 deleas... — 118 — ancora nella cancelleria genovese, ma assente allora da Genova, forse per incarico della repubblica (i). Lettera importante, dicevo, perché attraverso il latino impacciato del grammatico, ci fa intravvedere per un istante la vita letteraria genovese e 1* ambiente, curioso bensì di novità, ma involto ancora in molta ignoranza, facile a lodare piuttosto i ciarlatani e i prestigiatori che i veri dotti. Si parla, ben inteso, del vulgo. Una compressa amarezza trapela dalle parole del Cassarino, come di uomo desideroso di lode che non sa, o non vuole acquistarla co’ modi tenuti da tanti altri. Certo alle opinioni del maestro partecipava anche il Curio, quantunque più tenero senza dubbio della fama de’ suoi genovesi. Il Cassarino lo loda della sua carità di patria, però che nato in parte dove si ammiravano sconsideratamente , per non dire con intenzione perversa e maligna, le novità forestiere, e gli ingegni paesani si trascuravano, egli avesse sostenuto il domestico decoro, contro tanti che T obliavano, e potendo rimanere presso un re potentissimo con molto onore e frutto, aveva preferito servire col suo ingegno la repubblica. Chi era cotesto re potentissimo? Secondo la congettura più facile e probabile mi pare si debba intendere Alfonso d’ Aragona, il grande mecenate di quel secolo, il principe cui difatti egli ricorse più tardi. In tal caso si dovrebbe per necessità ammettere un’ ambasceria del Curio all’ Aragonese tra gli anni '40 e *46, della quale noi non abbiamo notizia. Gli sfoghi del Cassarino erano (1) É la lettera colla data del 1446, già citata, parlando dell’immatura morte del Cassarino. - ii9 — rivolti contro uno dei soliti nebuloni, che con ampolle e parole sesquipedali si trascinano dietro la folla degli illusi. Anche al Curio era noto costui, che il grammatico nasconde sotto il nomignolo di barbasculus. L’ età aveva una spiccata inclinazione alla disputa. Le forti individualità sorte allo spezzarsi delle barriere medievali, l’amore di gloria vivissima, l’operosità generale di tanti eruditi dovevano produrne di frequente, sebbene non sempre per la materia e la dottrina si staccassero dal medio evo. Inoltre, per le stesse ragioni, era facile trasmodare dalla disputa al litigio ed all’ invettiva. 11 furor letterato a guerra mena. Nel caso particolare però non ce ne fu, grazie alla prudenza del Cassarino, non senza tuttavia duro sacrificio degli spiriti battaglieri dell' uomo. Succhiarsi lo sproloquio di un insulso cicalone intorno al sito delle stelle e dell’anima per tutto il tempo di un desinare e starsene zitto, malgrado la voglia spasimata di rispondere, non ebbe ad essere piccolo sacrifizio. Le vivande imbandite dall' amico amfitrione gli andarono di traverso quel giorno, come egli stesso confessa, e per giunta alla derrata, il suo silenzio venne dai più interpretato, non come segno di moderazione, ma, Dio li perdoni, di insipienza. Frattanto, noi possiamo sorprendere un istante nella vita privata quegli uomini; non dirò nel-1’ abbandono convivale. Ma in fondo, malgrado le querimonie del Cassarino, non si era punto avversi neppure in Genova a’ buoni studi, anzi si traeva numerosi ad udire chi ne faceva argomento di discorso. Che poi non si sapesse sempre vagliare il grano dal loglio, che la ver- — 120 — bosità tenesse assai volte luogo di eloquenza, e non si guardasse tanto pel sottile in quella smania di novità pur che sia onde erano trasportati gli animi, questo avveniva un po’ da per tutto, e nel caso non significa nulla più di ciò, che i genovesi non erano gli ateniesi d’ Italia. Appunto in quest’ anno *46, il Bracelli rendeva conto all’ amico Andreolo d’una disputa eh’ era avvenuta in 1y • aCCanl" mento de’ disputanti, per il mirabile concorso degli spettatori (1). L’umanista genovese calcolava che non ci fossero accorse meno di cinquemila persone, sicché essendo impossibile ottenere la tranquillità ed il silenzio necessario, molti ne erano stati esclusi. 11 campione di quel pugilato dialettico era un giovine di nome Ferdinando e nativo di Cordova che, appena oltrepassato il ventesimo anno, aveva già viaggiato la Britannia, la Germania, la Gallia, da per tutto disputando, e adesso si offriva pronto al doge Raffaele Adorno di sostenere la medesima gara con i più dotti genovesi. Ma le ven-totto questioni proposte e dibattute in quell’occasione, ci avvertono che non si era per anco usciti dai ferrati cancelli del medio evo. Si aggiravano sulla teologia, e come autorità, scrive il Bracelli, citava con somma prestezza Agostino , Tommaso , Scoto et quem magistrum sententiarum vocant; veniva in seguito la fisica, e qui grandi citazioni di Aristotele, Averroé, Alberto xMagno, né un solo passo di costoro, ma tutto ciò che essi (1) Curioso tra le due lettere del Cassarino e del Bracelli il riscontro anche delle date: la prima è scritta da Genova, ili idus iunii 1446, la seconda, XVII kaì. iulii 1446. — 121 — sparsamente avevano detto sull’ argomento ; nella medicina le pietre angolari, gli autori degli autori erano Galeno ed Avicenna, ma non soli, chè trovavano il loro luogo anche i moderni, il Gentile, Jacopo da Imola, Ugone da Siena ed altri. E a stuzzicare la curiosità non erano pretermesse nè l’aritmetica, né la geometria, o l’astrologia; ma la lettera del Bracelli è difettiva di notizie appunto dove la curiosità sarebbe maggiore. Con ciò si concedeva alla vaghezza, alla moda di dilargare il campo dell’erudizione, di esplorare ed inventariare 1’ eredità del passato, e si capiscono gli applausi dei più. Ma si capisce anche il disprezzo non dissimulato dell’umanesimo, per quella indigesta e pretensiosa sapienza, e come l’appellativo di goti dato dal Valla agli studiosi di diritto e di filosofia aristotelica dovesse ritornare frequente sulle labbra del grammatico (i). Il quale d’altra parte non poteva presso il vulgo farsi valere quanto meritava ; l’indole pratica di nostra gente poneva ancora al di sopra dell’ eleganza di forma e del numero oratorio studiosamente ottenuto, T utile ed il guadagno che derivava dalla perfetta conoscenza delle leggi e della medicina (2). Uomo più dotto doveva essere l’ariminese Pietro (1) Valla; Eleg., lib. Ili, Praefatio. (2) Al suo nobile discepolo Prospero Adorno così, con indignazione mal trattenuta, scriveva: Nec ad ea te nane studia cohortor que fortasse vulgus imperitorum magis admiratur quam cognoscit, que merito parens tuus vir sapienti ss imus i ure quodam irrisit, perinde (ac) vana atque inutilia. Sed ad ea que claros viros efficiunt bonos, moderatos, patrie utiles et suis, animi celsi atque invicti, a quibus non solum bene dicendi sed bene vivendi etiam ratio petitur, que nullis molesta, que omnibus iocunda et que liberum hominem nescire vehementer dedecet (lett. cit.). — 122 — Perleone, che pare succedesse verso il *46 al Cassarino nella cattedra di rettorica. Dalla morte del siciliano alla elezione del successore correrebbe quindi un intervallo di più che due anni ; ma io non credo che la repubblica conducesse ad uno per volta i suoi professori, e me ne conferma 1’ osservazione che il Vigevio era chiamato ad insegnare nel '50, quando ancora dimorava in Genova, come vedremo più innanzi, il Perleone. Forse i professori di grammatica si spartivano il lavoro , graduando ciascuno l’insegnamento secondo la capacità diversa dei discepoli. Comunque sia, egli vi era e senza dubbio già da alcuni mesi nel *47, come si rileva da una lettera a lui del Filelfo (1). Vi si era tramutato da Milano, non è detto il perché, e sul principio ebbe a trovarcisi tutt’ altro che bene. Lo stipendio era misero, 250 lire, e, per giunta, soggetto a’ flutti contrari che sbattevano la barca dello Stato, talvolta o non si pagava affatto, o si pagava stentatamente. E il pover' uomo aveva moglie e figliuoli, quando non ci si mettevano di balla anche amici come il Filelfo, che con una mano scriveva a Niccolò Fregoso in favore dell’ amico nobili parole, coll’altra chiedeva in dono al Perleone dei coltelli che gli operai genovesi sapevano molto bene imitare da quelli turchi, e si indispettiva di non riceverli presto, dandogli dell’avaro. Con quella gala di stipendio! « È assurdo, aveva scritto lo stesso Filelfo al Fregoso, é certo assurdo che alcuno possa bene insegnare e ad un tempo combattere colf indigenza. È d’uopo che l’ingegno dell’ uomo erudito, se voglia adempiere al suo (1) Ex. Med., idus maiis, 1447. — 123 — ufficio, sia libero da ogni mercenaria cura ». Ma forse il Filelfo, avvezzo a’ rapidi sbalzi da un lusso smodato e non esente di borie nobilesche all’ estrema povertà, supponeva che il suo antico discepolo fosse egualmente facile che lui a chiedere ed a lamentarsi poi di non aver ricevuto. Il Perleone nel '50 faceva invece pratiche per ritornarsene a Milano, e metteva per ciò in mezzo e il Filelfo e gli amici che aveva nella cancelleria milanese; ma il nuovo principato lottava anch’ esso colla penuria, frutto della lunga guerra, e non se ne fece nulla. Lo Sforza a chi lo sollecitava, aveva risposto bastargli il solo Filelfo, nè la cosa o il tempo consentivano allora altra spesa, specialmente non necessaria. Rimase dunque, ed altri vincoli sottentravano a trattenervelo ; già aveva tolto in moglie una genovese, ed il Comune nel 1451 con onorevoli parole gli conferiva la cittadinanza, volendo che colui il quale genovese era per animo lo fosse di fatto nella sua dimora. Va notato che tra gli anziani proponenti od approvanti cotesta alta testimonianza di stima al Perleone, leggesi anche il nome di Niccolò Ceba (1). Esso ci riprova, se ve ne fosse bisogno, l’esistenza di quel circolo di letterati genovesi onde già tenemmo parola e del quale era parte ed .ornamento precipuo l’illustre viaggiatore. Non v’ ha dubbio che Niccolò dovesse, e tra i colleghi del Governo e presso il doge, caldeggiare la proposta che diede luogo all’ o-norevole decreto. Ma il grammatico, 0 desiderasse più ampio campo dove dimostrarsi, o cedesse alla smania di vita avventurosa allora comune tra i maestri, fatto (1) Vedi Documento X, in fine. Ne debbo comunicazione al Prof. Belgrano. — 124 — sta che non rispose alla fiducia espressa in quel decreto, eh’ egli cioè si fisserebbe stabilmente nella nuova * patria d’adozione, nè alle speranze degli amici suoi ed ammiratori. Nell’ottobre del '52 era sulle mosse per ritornarsene a Rimini, nel ’53 era già partito (1). Fu solo nel ’ 5 7 che venne invitato alla cattedra di eloquenza in Venezia, del che lo felicitava il Filelfo, essendosi eletto, gli scriveva, tal luogo dove la sua dottrina e la virtù otterrebbero il premio meritato. La sua dimora negli anni intermedii, la si indovina. In Rimini non avrebbe potuto non imbrancarsi tra i cortigiani del principe, di quel Sigismondo Malatesta che incarna il tipo della più complessa produzione del secolo XV, voglio dire il tiranno d’ allora. E Malatesta accoglieva con liberalità i dotti che sapevano con arte esaltare il valore di lui, rex Sigismundus, e la bellezza della sua amanza, la diva Isotta. Il Perleone fece come tutti gli altri che s’aggiravano nelle sale di quel curioso tirannello : cioè scrisse discorsi epitalamici e versi. Non v’ è dubbio per me che il carme di cui fa menzione in una sua lettera il Filelfo, non fosse in lode di cotesta coppia principesca, poiché altro argomento fuor di questo non vediamo trattato dai poeti che frequentarono in quel tempo la corte ari-minese (2). Nei discorsi epitalamici, un genere anche più ibrido del sonetto per nozze o monacazione degli abatini arcadi, sópra il fondo cristiano intesse le imagini e le fole pagane imparate dai lirici latini. Cosi negli (1) Lett. del Filelfo al figlio Mario, 27 sett. 1452 e 25 gennaio 145 3• (2) Lett. xiv kal. iulias 1456' — De cannine quod scripsisti curabitur a me diligenter et pro amicitia nostra. - 12$ - sponsali di Giovanna Malatesta con Giulio Cesare Varano invoca dapprima propizi il Signore e la Madonna. E fin qui bene; ma nell’ispirazione dell’oratore seguitano poi i quattro numi patrii protettori di Rimini, e la gioconda Venere, massima conservatrice de’coniugi, e finalmente Imeneo e Talasso. Al vedere, il Perleone, fresco della lettura di Catullo, faceva di Talasso un’altra divinità (i). Ma gli egregi frutti che il Filelfo augurava da lui, dopo tanti travagli giunto in riposato porto, non apparvero (2). In Venezia sembra aspirasse all’ ufficio di storiografo della repubblica; ma non ne fu nulla neppur di questo, e morì nel ’63 non so se a Venezia o a Rimini (3). Gli davano lode di letterato valente sì in prosa che in versi, di gran conoscitore della storia e della letteratura greca. Ma nella corte ariminese, tra il Basini ed il Por-cello che ne scrivevano anche troppi, di lui non si cita un solo verso, né altre testimonianze importanti abbiamo del suo valore. Il Perleone appartiene alla schiera di (1) Vedi Mittarelli, op. cit., p. 845. — Adsis iocundissima Venus et coniu-giorum maxima conservatrix et summum iurgiorum discordiaeque remedium. Adeste Hymenee et Thalasse in nupliis invocati. Adeste omnia caelestia numina quae ullam iti terris ac nuptiis potestatem habetis, etc. (2) Lett. ex. Med., V lai. martias, 1453. — Effice, inquam, ut ex tot tantisque laboribus quos terra marique pertulisti egregius fructus aliquis emanet ad posteros. (3) Il Mittarelli mette come fuor di dubbio la notizia della sua morte avvenuta in Venezia: — Decessit in eadem urbe Venetiarum anno 1463, sepultus S. Ursuhm prope monasterium SS. Iohannis et Pauli 0. ff. Predicatorum. — Il Voigt , op. cit., voi. I a pag. 426, lo fa ritornare nel 1458 da Venezia alla sua città nativa ; a pag. 586 lo dice da quell’ anno in poi occupato ad istruire i figli delle case nobili veneziane e morto in Venezia nel 1463. — Il Battaglimi, Della corte letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, lo fa per contro morire in Rimini prima del 22 aprile dello stesso anno. — Desumo la notizia indirettamente dal Gabotto, art. cit.; e il Battaglini, laus Deo, dovrebbe almeno aver dato la notizia autentica. — 126 — quei grammatici che come il Trebanio, Tommaso Seneca da Camerino, 1’ Aurispa e tanti altri, nella grande officina letteraria erudita della prima metà del secolo, occupano l’umile posto di operai, bravi valenti operai che spendono oscuramente un bell’ ingegno a gettare i semi che dovevano fruttificare negli anni venturi. Di professori che insegnarono in altre città del dominio poco sappiamo, sicché ben lontani da una trattazione ampia e ragionata, non possiamo presentare qui che un piccolo manipolo di notizie. Ad ogni modo, ecco qualche cosa. In Savona, dice il Verzellino, insegnò verso il I4J7 il famoso Aurispa (i). Ma con tutta probabilità il suo insegnamento in questa città va anticipato di due o tre anni. Lo stesso Verzellino nelle sue Memorie aride e spesso monche, ma pure attendibili quasi sempre, ci narra difatti che nel ’i4, per alcune differenze sorte tra la città di Savona e il suo vescovo Vincenzo Viale, il consiglio deliberò spedire Giovanni Aurispa oratore al pontefice (2). Dunque 1’ Aurispa dimorava in Savona per lo meno alcuni mesi prima di quell’ anno, dunque sul finire del '14 egli si recò oratore presso il papa a Costanza. Giovanni XXIII sappiamo appunto che vi (1) Verzellino; Memorie di Savona, ed. dal can. Andrea Astengo, Savona, 1885, voi. I, p. 292. Lo Spotorno, op. cit., II, 380, mentre cita il cronista savonese, porta come data il '19, ma è scorso di penna. Il Tiraboschi , op. cit., per contro l’anno 1415; e forse la data tra il'14 e il '15 èia più credibile. (2) « a. 1414. — Vincenzo Viale genovese, vescovo di Savona,... comparti la spesa del viaggio ai concilio Constanziense fra il clero e la sua persona. Ma perchè non appariva questo vescovo in totale contento de’ cittadini, il consiglio deliberò spedire Giovanni Aurispa oratore al pontefice, acciocché con altro prelato vi rimediasse; ma riuscì vano il pensiero » (pag. 290). — 127 — era andato nell’ottobre. Ma, se capisco bene il lin-guaggio sibillino del cronista savonese, quella legazione non ebbe poi effetto; e d’altra parte dal '14 al 717 nella vita dell’ umanista siciliano ci sarebbe una lacuna che non si sa come colmare. Il Verzellino, senza darsene punto pensiero, scrive poi che nel 1417 egli fu accordato dagli anziani a leggere umanità a’ figliuoli de’ cittadini. Ma una lettera del Traversari ci avverte invece che in quell’ anno egli stava a Pisa, che ivi trovò il Niccoli fuggito da Firenze per la peste e che gli vendette un Tucidide (1). Come mettere d’accordo due notizie tanto discordi? Forse il Verzellino è qui come in alcun altro luogo poco esatto nella data, forse 1’ Aurispa, sebbene invitato da’ savonesi, non vi andò. E in verità tra Savona e Pisa la scelta non poteva esser dubbia: Pisa lo avvicinava a Firenze e a quel circolo di dotti uomini nel cui numero egli ambiva allora di essere ascritto. Dopo il '20 la vita dell’ umanista prese un altro corso, scorgendolo a migliore fortuna; ma le notizie date parmi non lascino dubbio sulla dimora di lui in Liguria prima di quell’anno, sebbene non precisamente nel '17. Tommaso Fregoso intrattenne certo corrispondenza epistolare con lui, come dal tono della lettera da noi riportata è lecito congetturare; e il Bracelli tredici anni dopo, raccomandava all’ epicureo umanista, allora segretario apostolico, Giovanni Andrea Vigevio, un genovese maestro di grammatica, che desiderava collocarsi in corte di Roma. Nel campo delle supposizioni, non credo sia (1) Mehus; Atnbr. Trav. Epist., VI, 8. — 128 — tra le avventate questa, che tanto il Fregoso come il Bia- celli avessero appunto occasione di conoscere 1 umanista siciliano durante la sua dimora in Liguria. Quanto al Vi- • t • * gevio, sembra che riuscisse poi ad acconciarsi al servizio di uno de’ cardinali, o di Sant’Angelo o Firmano (i), ingrossando così quella turba cortigiana cercata e spregiata a un tempo da’ signori, che l’Ariosto doveva più tardi felicemente dipingere in una delle sue satire. Il Vigevio non ne fu, a quel che pare, contento, poiché lo vediamo procacciarsi di ritornare come maestro a Genova, dove già aveva insegnato nel ’5o; e nella pia tica gli era di aiuto il nostro Bracelli, che nelle lettele a lui indirizzate si sottoscriveva affettuosamente suo figliuolo (2). III. Negli anni dal '48 al ’57, per i rapporti segnatamente che passavano tra il vecchio Filelfo e gli eruditi geno vesi, occorre frequente il nome di Giovan Mario, ossia del figliuolo primogenito dell’ umanista tolentinate. Ma in questi Atti avendone già particolarmente discorso il Prof. Gabotto (3), il mio compito è con ciò reso assai più facile, dovendomi limitare alle notizie indispensabili alla mia trattazione e ad alcune poche che mi venne fatto di raccogliere intorno alle relazioni del giovine Filelfo con il Bracelli. (1) Questo nel '52, come risulta da lettera a lui diretta dal Bracelli, addi 6 luglio. — Arch. Civico, Ms. Pallavicino, c. 112. (2) Ms. Br. c. 32. (3) Voi. XIX, pp. 489 segg. 4 — 129 — Giovanni Mario fu professore pubblico in Savona: il Rosmini afferma nel 1446, ventesimo dell’età sua (1), ma io presto più fede al Verzellino, seguito dal Tira-boschi e dallo Spotorno, che all’anno 1444 scrive: « Giovanni Mario Filelfo, figlio di Francesco, . . . eruditissimo nelle più nobili lingue e di veemente ingegno, s’ accordò per insegnar grammatica e rettorica a’ figliuoli de’ savonesi, con salario di lire cento 1’ anno e lire venti per pigione della casa, pagategli dal pubblico . .. » (2). Rimase egli a lungo in Savona ? Il Gabotto crede fino all’ estate del 1450, ma la lettera del vecchio Filelfo eh’ egli cita non é, panni, prova sufficiente , potendo benissimo essere accaduto che Gian Mario se ne partisse e vi ritornasse non una volta sola, con quella volubilità ed incostanza che, del resto, era la norma quasi unica della sua vita randagia. Difatti, se il Voigt non isbaglia, nel ’49 egli fu per alcun tempo presso il duca Borso in Ferrara, ma non si trattenne neppure colà, che dopo pochi mesi era nuovamente a Milano e da Milano sulle mosse per altri luoghi (3). A siffatta natura sei anni di dimora in Savona probabilmente sarebbero sembrati supplizio intollerabile. Partito nell’ estate del '50, ve lo ritroviamo il 26 dicembre di quello stesso anno, tuttavia non per farvi dimora, ma come una breve sosta, prima di recarsi presso il marchese di Finale. E nel castello dei Del Carretto, collocato come un nido d’aquile sull’Apennino ligure, (1) Rosmini; Vita di F. Filelfo, t. Ili, pag. 87. (2) Verzellino, op. cit., I, 308. — Tiraboschi, op. cit., VI, I, 188 — Spotorno , op. cit., II, 380. (3) Voigt; op. cit., p. 530. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII. 9 tra il cielo che s’incurvava azzurro e placido sul capo e il mare, campo aperto alle galere della temuta repubblica, egli fu spettatore dell’ ultima fase della guerra e potè maturare a suo agio le facili ire contro Genova e i Fregoso, ire che sfogò poi nella sua istoria. Era una natura subitanea, insoddisfatta sempre degli altri, perchè presumente troppo di sé, incerta e superficiale. Tutto il ’5i va speso in vani disegni, se ritornare presso il re Renato, siccome ne lo esortava il padre, ovvero a Milano, attraversando il territorio nemico della repubblica. E frattanto si aggirava ora a Finale , ora a Millesimo, in terre mal sicure, seguito della misera fa-migliuola, mal contento del servizio presso il re Angioino, pauroso della peste che sapeva infierire a Milano, e dubbioso de’ genovesi che avevano ragione di sospettar di lui, proveniente da Finale focolare della resistenza, e imparentato coi Del Carretto (i). Litterae autem mittendae sunt opera tua Millesimum quam ocissime, raccomanda il padre a Niccolò Ceba 1’ 8 giugno 1451. E il 13 Sen~ naio dell anno dopo non aveva per anco lasciato la Liguria, come risulta da una commendatizia di Francesco Filelfo a Niccolò Fregoso. Si valse egli poi delle lettere di passo che il padre gli procurò con il favore dello stesso suo protettore e per l’intercessione degli amici, e si recò a Milano, come desiderava facesse il vecchio Filelfo ? Il Rosmini lo crede e lo conduce nella capitale lombarda, dove satireggiò la soverchia facilità dell’imperatore Federico III a conferire titoli di conti palatini, dottori (1) Per la peste in Milano, dr. lettere di Fr. Filelfo al figlio, addì 9 sett. i45r> 30 sett. ed ultimo dicembre dello stesso anno. — i3i — nelle arti e poeti laureati (i). Ma è permesso dubitare se la satira di Mario, cui il Rosmini accenna, cada in quel tempo. O egli non si partì da Finale nel '52 o vi fece, colla smania di vagare che lui e Senofonte avevano ereditata dal padre, sollecito ritorno, perchè lo vediamo il i.° gennaio 1453 presentare al marchese Spinetta la sua storia — probabilmente egli dimorava allora presso il Del Carretto — e già il padre nel settembre del '52 ci avverte che era lontano da Milano, dove non so, ma certo non a Genova, come risulta da una lettera di esso Francesco a Mario : — « Il nostro amico Pietro Perleone mi avvisò in questi dì che tra poco farà ritorno a Rimini, la qual cosa, tempo innanzi, aveva a te pure significato: se adunque desideri ottenere 1 ufficio e l’emolumento che egli aveva in Genova, sarà facile occuparsene e il tentativo riuscirà, spero, secondo il tuo desiderio » (2). Mario 0 non volle, o non potè aveie la cattedra lasciata dal Perleone, come giustamente sospetta il Gabotto, e si tramutò a Torino. Già vi si era accasato nel marzo del 1453 (3) ed esercitava l’avvocatura. — « Godo, gli scriveva il padre, che tu abbia rinvenuto costì un onorevole luogo: forse un giorno anche i torinesi ritorneranno in grazia colle muse. Però che cotesta città è nobile e vetusta, fondata, come credono, da Fetonte ». Ma infine, e non a torto, si doleva che potendo starsi in un ambiente letterario più importante, es:li si fosse ridotto in una città che non contava più O (1) Rosmini; op. cit., Ili, pag. 108. (2) Epist., libr. X, f. 12, lett. in data 27 settembre 1452. (3) Lett. di Fr. Filelfo, addi 22 marzo di quell’ anno. — 132 — di cinque mila abitanti, e neanche con 1’ ufficio che si conveniva a un dotto, ma trasformato in rabula mercenario. Tuttavia il duca Ludovico di Savoia , lo stesso di cui vedemmo pure lodarsi Niccolò Ceba dal suo rifugio di Nizza, lo accolse con molto onore, gli conferì la laurea poetica, lo creò consigliere ducale. Di cotesti onori, tra cui la laurea, parla il maggiore Filelfo, nel trattatello da lui dedicato al pronipote del duca, Filiberto di Savoia, che sia detto per incidenza, non pare emulasse la signorile liberalità del nonno (i), e di nuovo li esalta ne’ suoi carmi latini : Coepisti tandem sua restituisse parenti Munera, vate Mari, quae mihi debueras. Ouod te magnanimus tanto insignirit honore Ipse Ludovicus gloria magna tibi est, Nani tanto placuisse duci, Sabbaudia cuius Imperio paret, fert tibi grande decus. ludico postquam tibi tanti principis ambit Laurea pulchra comam etc. (2). È alla dimora del minore Filelfo a Torino che si riferiscono le lettere a lui di Giacomo Bracelli. Non eccedono il periodo di tre anni, dal 1455 ^ 57> ma un passo della prima di esse, comparato con la lettera di Fr. Filelto, che già conosciamo, ci persuade vie meglio doversi portare al ’53 la partenza di Mario dalla Liguria e dai marchesi Del Carretto per Torino. Si accenna quivi (1) Per quel trattatello, dice il Rosmini, op. cit., II, doc. n. 102, furono regalati a F. Filelfo ducati quattro! (2) Ode VI del libro V. Cfr. Rosmini, op. cit., loc. cit.. — 133 — al lungo silenzio tenuto da Gian Mario verso il cancelliere genovese e alle scuse che quello faceva all illustre amico, il quale, ben inteso, protestava cortesemente. Aspettava invece i suoi libri che dovevano esser cagione di diletto a lui, di lode anche più grande al loro autore. E poiché il Filelfo magnificava i suoi progressi presso la corte di Torino, il Bracelli si compiaceva che per esso fosse smentita la massima : esser sempre rari e contennendi i premi proposti alla virtù, egli, per contro, come a pochi era accaduto nel suo secolo, non dubitava di chiamarli grandi ■ avevano dunque ad essere amplissimi, se misuravansi col suo ingegno e la felicissima memoria, due facoltà di cui aveva fatto singolare e quasi incredibile esperimento. Dopo altre considerazioni, negava poi che egli avesse mai pensato di attendere agli annali genovesi, come alcuno aveva scritto a Gian Mario, e insisteva perché gli facesse parte delle sue opere, specialmente della storia sulla guerra di Finale. La terza lettera (2 marzo 1457) conferma il viaggio da Mario intrapreso nella Gallia cui accenna anche il maggiore Filelto, scrivendone a Tommaso Franco; ma il movente non era stato 1 incostanza abituale, come si sarebbe potuto sospettare, bensì una missione commessagli dal duca e da lui disimpegnata abilmente: gli splendidi doni ricevuti dai maggiori signori di Francia attestavano chiaramente che egli era degno della amicizia dei re, degno della loro liberalità. Un curioso inciso in cui qui c imbattiamo, ci sofferma : ad principem meum delatum non est quod legato apud Senam agenti dedisti carmen. Che carme era cotesto che al doge Pietro Fregoso non era stato consegnato ? E nella quarta ed ultima delle lettere esistenti nel mano- — r34 — scritto bracelliano si ritorna sullo stesso tasto. Dopo le lodi delle poesie inviategli dal giovine Filelto con 1 esagerazione di linguaggio allora tanto comune, soggiunge: « All illustre principe nostro consegnai quelle che erano sue, e non dubito eh’ egli farà di te il debito conto, essendo uso ad amare ed esaltare tutti coloro che son dotati di alcuna virtù » (i). In sostanza, il cancelliere genovese, scrivendo al minore Filelfo nei 145^’ 8^ chiede la storia della guerra di Finale e con queste singolari parole : ea ('volumina) si vis mittito, que P^us laudis et glorie allatura sint tibi, vel mihi plus voluptatis, cuiusmodi futura puto que fìnariense respiciunt bellum. II libro adunque gli era ignoto ancora. E ancora nel 57 il Filelfo^ inviando de’ versi suoi al Bracelli, ne accludeva altri da consegnarsi a Pietro Fregoso, da cui ceito sperava lode, se non anche premio, come promet-tevagli 1 autorevole amico. Le osservazioni che, poste queste premesse, scaturiscono naturali, le indovineià il lettore che conosca solo un poco 1’ operetta del Filelfo. Annales in historiam fìnariensis belli. Inviava versi di panegirico e sperava lode e premio dopo le atroci ingiurie scagliate in quel libro contro i Fregoso ? Gli eruditi sanno difatti che questa storia di Gian Mario é una continua violenta invettiva contro i genovesi e la famiglia in Genova dominante. Pietro Fregoso in ispecie non vi é risparmiato, ed il passo dove lo scrittore pare alludere all’ uccisione di Niccolò Fregoso, cugino del doge, doveva infìggersi acuto come strale (i) Ms. Br. c. 117, lettera da Genova, 7 marzo 1455, c. 7, 3 gennaio i45^> c. 135, 2 marzo 1457, c- 29, 25 maggio 1457. Ved. Documento XI in fine. - 135 - nell’ animo del potente signore (i). Come si spiegano tutte coteste contraddizioni ? Possibile che una storia scritta nel '52 o 53 in Liguria (2), sulla faccia dei luoghi e degli avvenimenti, non fosse ancora nota al Bracelli nel ’ 5 5, malgrado la viva curiosità che doveva produrre la notizia di un libro in cui si narravano fatti, si giudicavano arditamente cose e uomini odierni e per opera di un dotto, di un eloquente umanista? Pairebbe dunque che questo lavoro, se anche presentato il 1. gennaio 145 3 al marchese Spinetta, Mario si guardasse dal pubblicarlo, o forse non era che un primo abbozzo sul quale lo storico venne poi lavorando in Toiino. Sta il fatto che nel ’56 il Bracelli, il Ceba, ed un grammatico (3), che forse era il Maggiolo, non lo conoscevano se non di nome, e sono di parere che ciò fosse anche nel maggio del *57, quando il nostro Iacopo scriveva così calde lodi sui versi fattigli recapitare da Gian Mario. La sfacciataggine di costui si lusingava sino al segno da credei e che il libercolo rimarrebbe sconosciuto a Pietro Fregoso, e che frattanto si poteva pure con lodi mendaci scroccargli qualche donativo ? Sono congetture campate in (1) Eccolo : Non malefactum dixere Frego sii (gli oltraggi fatti da’ genovesi ad un sacerdote). Quid tamen hoc malefactum dixerint, cum aut (non?) vereantur tri sobrinos et fratres parare et venenum et gladios, in cognatasque adulteriis mti? (col. 1197-1198). (2) Cfr. Gabotto, meni, cit., loc. cit., pag. 509. (3) Come in una lettera del Filelfo, addi 22 gennaio 1452, citata dal Gabotto, si raccomanda al Perleone un Laurentium nostrum, così nella quarta ed ultima di queste lettere a Gian Mario, si fa dal Bracelli cenno di un Lorenzo grammatico. Era il Maggiolo? Bisognerebbe riscontrare se nella vita del famoso medico e filosofo genovese sia possibile una cosi lunga dimora in Genova, dal '52 al 57 e spiegare il grammatico, con cui solo lo designa il cancelliere genovese. A me ne manca il modo. Cfr. Gabotto, meni, cit., loc. cit., pag. 500, in nota. — 136 — aria, nè io pretendo affermar nulla; ma poiché le contraddizioni, come appare per queste lettere del Bracelli, sussistono, era pur debito di una monografia che toccasse di cotesta singolare figura di erudito, 1’ accennarle. Sarebbe una delle faccie più scadenti ed abbiette del vario e ricco poliedro umanistico. Ma il fatto, se anche strano, non è però impossibile. Un uomo, la cui vita sregolata e zingaresca spingeva assai volte a mendicare da amici e protettori 1’ elemosina di un soccorso, che nell’ opuscolo Della vita e de' costumi di Dante non si peritò di offendere la memoria del grande poeta con invenzioni ed imposture ciarlatanesche, poteva anche in un caso tramutarsi in impudente cortigiano. Del cancelliere genovese dopo quest’ ultima lettera del maggio 1457 non si trova più nulla indirizzato a Gian Mario. Un silenzio che potrebbe pur essere significativo. Anche più scarse sono le notizie sugli altri professori pubblici in Savona. Il Prof. Gabotto scrive che forse nella sua dimora in questa città Gian Mario conobbe Venturino de’ Priori. Era savonese e la cosa é affatto naturale; che si sappia però, Venturino non tenne insegnamento nella sua città prima del *73. Erra quindi grossolanamente il Bandini, quando afferma che questo fu successore del Filelfo nella cattedra genovese (i)* Nè 1 uno né 1’ altro furono mai professori in Genova , e per quel che riguarda il Priori, egli fu un successole di Gian Mario assai in ritardo. Ed ora per ritornare alla città dominante, questa vanta, oltre i citati, nel pubblico insegnamento di bei nomi : (1) Bandini; Cut. cod. lat. Bibl. Laur., t. III, p. 804. - 137 - Giorgio Valla che lesse grammatica e retorica probabilmente nel '76 e negli anni successivi, fino al *79 (1), Paolo Partenopeo, Gian Paolo Maffei, Iacopo Bonfadio non meno famoso per l’ingegno e la dottrina che per la tragica morte. Ma questi appartengono al secolo XVI e quindi eccedono i confini assegnati a questo lavoro. Una lista di altri assai meno illustri, a .cominciare dal Vigevio verso la metà del quattrocento e giungendo ai primi anni del secolo seguente, il lettore troverà in fine, nell’ appendice di documenti (2). L’ ultimo che ebbe invito di leggere pubblicamente nello studio genovese fu Torquato Tasso nel 1587, e non venne. Poco dopo i Gesuiti ottenevano dalla Signoria licenza di fabbricare la chiesa di S. Ambrogio ed attigua a questa un edificio per il loro collegio, nel quale tenere letture pubbliche su tutte le professioni. Così lo studio del latino e del greco diveniva un loro monopolio, e abbandonato l’ufficio dell’umanesimo che mirava ad integrare 1’ autore con l’illustrazione dei luoghi, de’ tempi, de’ costumi tra cui si svolge 1’ opera sua, si fece senza di que’ cànoni critici; e ridotti i classici ad altrettanti tipi immutabili ed universali dell’ arte, si nascose sotto il lussureggiar delle fiondi la scarsità e 1’ insipidezza del frutto. (1) Da non scambiarsi, come fa il Mehus (Bart. Facii, De viris illustribus, p. xxvi), con Lorenzo Valla. Il mordace e terribile umanista romano non fu mai professore in Genova. Giorgio vi fu invitato con deliberazione del ducale governatore e del consiglio degli anziani in data 16 luglio 1476 e con lo stipendio di 200 lire genovesi all’ anno (Archivio di Stato in Genova, Diversorum caliceli, filza 39). Nel 1480, 9 maggio, Ibleto Fieschi si lagnava che il Valla fosse stato licenziato. (2) Ved. Documento XII. - i38 - CAPITOLO IV. MECENATI, LIBRI E LIBRERIE. Genova non ebbe un libraio principe come il fiorentino Vespasiano e neppure mecenati della splendidezza di Cosimo, per cui l’arte libraria potesse avvantaggiarsi rapidamente, siccome avvenne in Firenze. Ma ^ qualche cosa si fece pur qui, e se non tutto per merito de suoi cittadini, per la posizione geografica almeno più presso ai maggiori centri di coltura, non manco neanche a Genova un movimento librario che potesse competere, per un esempio, con Napoli e fosse un modesto riflesso della mirabile attività e perizia fiorentina. Se non che a Napoli tutto si appuntava nel sovrano aragonese, magnifico e costante protettore di dotti, dal cui favore ne sedici anni eh’ egli ebbe di regno, la città riconobbe tutto il suo splendore. In Genova le cose correvano 1 * i alquanto diversamente, per la capitale ragione cui pi volte accennammo delle politiche mutazioni, che al dire del Piccolomini facevano stupire ad un tempo 1 oriente e 1 occidente (i). La protezione accordata dal capo dello Stato era adunque passeggiera, come transeunte era il suo governo, né i dotti o gli amatori di codici antichi e preziosi cimelii potevano sempre trovarvi quella facilità che rinvenivano altrove. Che per altro, anche in (i) Aen. Sylvii; Historia de Europa, ed. cit., pag. 445. — 139 — uomini dottissimi durasse 1’ opinione che Genova e le altre città del dominio possedessero copia grande di antichi codici, ci é attestato dalle parole del Guarino al Lamola, quando questi nel 1448 aveva intrapreso alcune • • • escursioni in Liguria: — « Non ti stancare, mio ottimo Lamola, di rintracciare i dotti personaggi, ossia gli antichi libri di cui cotesta Liguria dev’ esser piena. Esplora ogni biblioteca ed i sepolti nella polvere e nel sordidume revoca e suscita alla mondizie ed alla luce. Auguro che tu possa scoprire le lettere di Plinio » (1). — Probabilmente fattore principale della favorevole opinione era il grande concetto che si aveva pur sempre della ricchezza e del carattere intraprendente de’ genovesi. E dico pur sempre, poiché esso era antico, come la fama di bellezza delle sue donne. Rambaldo di Vaqueiras per una di costoro che andavano non di rado spose ai re d’ O-riente, scriveva il primo contrasto bilingue della nostra letteratura; ed i versi provenzali malamente attribuiti dal Quadrio a Federico Barbarossa, tra le cose parecchie amate e preferite dal poeta, citavano pur anche l’onorare del genovese: Piacemi il cavalier francese, E la dama catelana, L’onorar dal genovese, E la corte di Castellana, Lo cantar provenzalese, E la danza trivigiana, E lo corpo aragonese, E la perla indiana, Mani e ciera dell’ inglese, E ’l donzello di Toscana (2). (1) Giorn. Lig., anno XII, pag. 391. (2) Quadrio; Della storia edella ragione d'ogni poesia, Milano, 1741, II, pag. in. — 140 — State certi che nell’ onorar del genovese il poeta ci comprendeva anche il maggior bene ambito dagli uomini : la ricchezza e la potenza. Non so se il Lamola abbia atteso di proposito alle ricerche cui lo spronava il Guarino: certo non scoperse le lettere di Plinio. Ma tuttavia non mancavano tra’ genovesi, bibliofili e possessori di biblioteche. Già toccammo di Andreolo Giustiniani. All’ uscire del trecento un Bartolomeo di Iacopo, valente giureconsulto ed oratore, lasciava morendo una raccolta di codici il cui inventario, pur sommario, é segno certo in chi li possedeva di una coltura notevolissima. Oltre le opere giuridiche copiose, la biblioteca conteneva, buon numero di autori classici e medievali quali raramente si trovavano presso un semplice privato (i). Tra libri e letterati troviamo pure un illustre milanese che tenne per quattro anni, ossia dal 1428 al 32 il governo di Genova in nome del duca Filippo Maria, voglio intendere l’arcivescovo di Milano, Bartolomeo Capra (2). Godeva fama di uomo assai versato negli (1) Clr. Belgrano; Della vita privata de’ genovesi, c. XXVIII. Novati, Bart. di Iacopo, in Giorn. Ligustico, 1890, p. 23 segg. (2) Intorno all’ anno che il Capra venne a Genova come governatore, cade qualche dubbio. Dal passo di una lettera scritta dal Traversari al Niccoli, il prof. Sabbadini giunge alla conclusione che 1 ’ archiepiscopus mediolanensis cui in quel luogo si accenna fosse Bartolomeo Capra, e che quindi costui occupasse 1’ ufficio di governatore, almeno sin dal febbraio 1424 (Sabbadini ; Guarino Veronese e gli archetipi di Celso e Plauto, p. 10). L’induzione certo 6 logica, ma invalidata da altre testimonianze che, per ricerche fatte, potei rinvenire. Difatti il Verzellino (Memorie cit., I, 290), un compilatore, come già ebbi a dire, ma che lavorò sopra cronache e documenti, porta l’anno 1428. Ecco l’intiero passo : « Fu ricevuto con onorevolezza in Savona, l’anno 1428, addi 26 aprile, ed a spese del pubblico, Bartolomeo Capra, arcivescovo di Milano, inviato a Genova — I4I - studi ecclesiastici: allorché Ambrogio Traversari fu colto da scrupoli, più affettati che veri, per la traduzione delle vite di Diogene Laerzio desiderata da Cosimo e dal Niccoli, uno de’ due giudici che decise sulla convenienza o no, da parte del pio generale de’ Camaldolesi, di tradurre uno scrittore profano, fu appunto il Capra. O forse l’astuto monaco volle correggere con questa scelta l’austero giudizio che temeva fosse dato da Antonio da Massa, il secondo giudice eletto. Noi sappiamo difatti che anche 1’ arcivescovo Capra era intinto più che discretamente della pece pagana. Al licenzioso poeta dell 'Ermafrodito faceva s.ipere che egli aveva desiderio vivissimo di leggerlo (i), e a chi gli chiedeva perchè avesse cura di tener sempre, come servi suoi, sopra una galera, la quale di ritorno portò a Savona il Cardinal Giacomo Isolani, bolognese, che doveva andare a Milano ». Il Cicala invece (ms. cit.) segna l’aprile dell’ anno 1427- Finalmente nelle lettere dell’Archivio di Stato in Genova (Litterar. registri, n. 1779' cancelliere G. Bracelli) 1’ ultima che rinvenni, scritta in nome del cardinale Giacomo Isolani, governatore ducale, ha la data del 23 febbrajo 1428. Colla data del 3 marzo, stesso anno, esiste una lettera in nome del Capra al vicario di Albenga per un salvacondotto da accordarsi. Del resto, se il viaggio del Parentucelli in Lombardia è da porsi nella seconda metà del 1427 (Cfr. Sabbadini, op. cit., p. 40) e la lettera di lui al Niccoli é in data del 4 giugno 1428, come la fissa lo stesso Prof. Sabbadini, anche per questa via verrebbe ad essere infirmato, 0 sospetto per lo meno, 1 anno 24. Ecco il passo: Cum Mediolani fuimus de Cornelio Celso invento in basilica Ambrosiana investigavi. Inveni esse apud arcbiepiscopum mediolanensem, qui tum Ianuae erat, a quo nescio si obtinere potuissem, cum librum illum iamdiu expectarit (Sabbadini, op. cit., p, 24). Senza pretenderla quindi all esattezza del Bianconi, che pone la venuta del Capra al 28 febbraio 1428 (Lettere sopra Celso, p. 116, n. 9), tuttavia sono io pure d’avviso che essa si debba protrarre fino ai primi mesi di quest' ultimo anno. (1) Voigt; op. cit., I, 478. — 142 — bellissimi giovani rispondeva: perché solo ne’ corpi deformi entrano ad abitare le anime turpi. Disonestà in egregia forma é assai rara (1). Il concetto era platonico, ma ravvicinato alle eleganti lubricità dell’ Ermafrodito che il dotto prelato si dilettava di leggere, poteva esser tratto ad un’ ingiuriosa interpretazione. Piace meglio trovarlo sollecito, anche tra le nuove cure di governo, della ricerca e dello studio di codici antichi e in ciò egli certo deve collocarsi tra gli uomini più benemeriti che avesse allora la repubblica genovese. Quando nel 1427, durante il suo viaggio in Lombardia col cardinale Albergati, Tommaso Parentucelli chiese dell’ archetipo di Celso scoperto di fresco nella basilica ambrosiana, seppe che esso si trovava a mano del Capra in quel tempo appunto mandato al governo di Genova. E nel 27, o nel ’28, credo sia da porsi una visita fatta dal Bracelli a Gasparino Barzizza in Milano collo speciale incarico da parte dell’ arcivescovo di farsi consegnare dall’ umanista, non veramente il famoso co dice di Lodi scoperto anni prima da Gerardo Landriani e contenente i tre libri completi de Oratore, il Brutus o De claris oratoribus e Y Orator indirizzato a Bruto, ma la copia che Gasparino per suo uso aveva fatto di quest ultimo trattato e che volontieri imprestava agli amici. Nel 28 cade difatti il viaggio che Iacopo faceva quale cancelliere de’ sei ambasciatori genovesi incaricati di (1) Aen. Sylvii; Comment., ed. cit., p. 485. — Bartholomeus Caprantis medio ìanetisis ecclesiae antistes idcirco se ministros forma praestantes quaesivisse dicebat quoniam turpes animi turpia corpora incolerent. Improbitatem autem in egregia forma perraro compertam esse. — 143 — complire il duca per le sue nozze con Maria di Savoia. Il buon Barzizza che proseguiva la sua fatica sopra Cicerone dello stesso amore con cui proseguono i padri i loro figliuoli, ringraziava il Capra che avesse scelto per quel geloso negozio un uomo dabbene e negli studi di umanità così addentro qual era il Bracelli ; i prediletti studi onde il Capra sopra ogni altra cosa si dilettava (i). Ma un mecenate di ben maggiore importanza verso lo stesso tempo é quel Tommaso Fregoso che ci avvenne già più volte di ricordare. Egli protettore liberale di studiosi e cultore esso stesso di studi classici, egli certo possessore di una buona biblioteca, avrebbe ad essere appunto il mecenate onde fa cenno il Guarino nel 1428. E che la supposizione di una ricca biblioteca posseduta da Tommaso non sia infondata, me ne accerta T inventario, pubblicato dal Delisle, dei libri che trovavansi nello studiolo di lui e che nel 1425 erano commessi alla custodia di Bartolomeo Guasco (2). Si deve supporre che qui fossero i più preziosi soltanto, o quelli che il (1) Sabbadini; Studi di Gasparino Barbina su Quintiliano e Cicerone, Livorno, 1886, p. 13. (2) Veci. Documento XIII, in fine. L’inventario, mi valgo delle parole stesse dell’egregio Belgrano che volle farmene cortese comunicazione, è inserto alla fine di un bel codice di Tito Livio e d’altri storici della Nazionale di Parigi, scritto ne’ principi del secolo XIV (Lat., n. 5^9°) > e comincia così: Inventarium eorum librorum qui inuenti sunt in pul[c]herrimo studiolo magnifici contini domini Thotne de Campo Fregoso, Sar\ane tunc domini, qui custodie recommissi sunt Bartholomei Guaschi die . xx . novembris . m. cccc . xxv. Cfr. Catalogus codicum mss. Bibl. Reg. Paris., IV, 148; Delisle, Le Cabinet des mss. de la Bibl. Nat., II, 346. Il codice appartenne già a Francesco Petrarca e per la storia di esso è importante la notizia che si legge nel foglio 367 : Emptus Avi-niotte 1351, diu tamen ante possessum: appartenne poscia ai Fregoso, ne quali, come si vede da certe annotazioni, durò almeno fino al sec. XVI. Cfr. Belgrano, Annali Genovesi di Caffaro ecc., Roma, 1890, voi. I, p. xxiv. — 144 — signore desiderava di avere più a mano. E chi dia una scorsa a quell’ inventario, giudicherà non esagerata ne vana la lode data al Fregoso di geniale cultore di classici studi. Quanto di più essenziale in questa parte possedeva il medio evo, e ciò che 1’ erudizione del secolo XIV vi aveva aggiunto per opera segnatamente del Petrarca, ed inoltre in buon numero opere di storia antica e moderna, molta storia, molta oratoria come si conveniva ad un sapiente uomo di Stato, tutto questo troviamo raccolto nell’elegante studiolo del signore di Sarzana. Non esagerava dunque punto coir Aurispa allorché nel 39 gii scriveva che Plauto così colla soavità sua lo adescava che, chiuso ogni altro libro, egli prendeva piacere di quell’unico soltanto. Da cotesto inventario conosciamo difatti che Plauto e Terenzio non gli erano ignoti ed insieme con essi Virgilio^ Livio, il tragico Seneca^ e Cicerone, nelle lettere specialmente ancora rare, e Gellio, Notti Attiche e Plinio, Storia Naturale, libri avidamente cercati da amanuensi e bibliofili, non che Svetonio e quel Valerio Massimo che anni dopo venne felicemente imitato da un altro Fregoso, doge anch’ esso della sua repubblica. Sul prezzo dei libri in Genova riferirò questa notizia per incidenza data dal Bracelli ad Andreolo Giustiniani. Il cancelliere aveva fatto copiare per conto dell amico un codice di Tolomeo, e gli scriveva che la spesa per la pergamena, il libraio, miniatore e legatore ammontava in totale a quindici lire genovesi (i)- ^on era caro. Il povero Perleone che voleva acquistale da (1) Lettera 2 luglio 1440. - r45 - Melchiorre, libraio milanese, un esemplare delle lettere di Cicerone riceveva avviso dal Filelfo che costui pretendeva del volume dieci ducati. Ma osserva giustamente il Voigt che riesce assai difficile segnare una norma generale sui prezzi dei libri in quel tempo (i). Certo non era Genova il paese dove si potesse trovare un ordine di amanuensi abile e bene costituito quale lo offriva Firenze, ed a nessuno sarebbe caduto in mente di cercare qui il libraio che sapesse allestire una biblioteca. Non mancavano per altro menanti ed anche uomini che sapessero elevarsi più in alto di quest’umile professione, ne sia esempio il Curio, e neppure un certo commercio di libri antichi. Se il Bracelli rispondeva a Cipriano De Mari nel ’5 3 : essere difficile trovare allora in Genova un V egezio che fosse ad un tempo abbastanza corretto e venale, gli è perchè libri antichi occorreva anche qui, senza dubbio, di comprarne e di venderne (2). Ed in ciò i maestri vaganti avevano parte principalissima. Il Filelfo, nel 1448, voleva acquistare la biblioteca lasciata dal Cassarino ed in ispecie un codice di Platone, e verso quel medesimo tempo aspettava con impazienza un Ardano che il Perleone gli faceva trascrivere, o trascriveva egli stesso nei ritagli di tempo. Ma il Perleone la tirava per le lunghe; e il Filelfo che amava servirsi di tutti ed esser servito presto, scriveva con un po’ d’impazienza : Cura ut valeas . . . et ad me Arrianum historicum quamprimum des. Ma cinque anni dopo, non scoraggiato, ritornava ancora alla (1) Voigt; op cit., I, 398. (2) Ms. Br. c. 121, Genova, 6 giugno 1453. Atti Soc. Lig. Soc. Patria. Voi. XXIII. 10 — 146 — carica: Reliquum est ne res trahatur in annum: maturato est opus. Il Voigt, che m’ occorre spesso di citare, dice che il Filelfo, bandito da Firenze e rotto co’ Medici, ebbe un bel cercare altrove gli scritti di Arriano e Diodoro. Di vero, dubito assai se il primo di questi due l’abbia mai ricevuto, come desiderava, copiato dal Perleone. Tra queste condizioni ed alti e bassi di favore, versò 1 arte libraria sin verso la fine del secolo : essa seguiva, com è naturale, le vicissitudini della coltura umanistica nel dominio genovese. Malinconico acquisto sarà stato pei il nostro Iacopo quello di cento ottanta sette volumi e di alquante reliquie che dalla perduta Pera passarono nel 1461 a Genova e furono depositati presso i frati della Madonna del Monte, insieme con altri ventiquattro ed una icona di nostra Donna, depositati presso i frati di Santa Maria di Castello. I depositari si obbligavano a restituire quei preziosi avanzi del saccheggio, se mai Pera si ri cuperasse per i genovesi, e tra gli ufficiali che intei ven nero all’ atto di deposito si trova appunto anche Giacomo Bracelli (1). Egli non visse abbastanza per vedere la meravigliosa invenzione del secolo, la potente leva che doveva scalzare tanti rottami del passato, la stampa insomma. I primi torchi in Genova non furono impiantati che nel 1471 ? e in questa parte l’opera di Antonio Mattia di Anversa e Lamberto di Delft fu così attiva, che ben presto 1 arte tipografica genovese si esercitò su larga scala, mandan (1) Belgrano; Documenti della colonia genovese di Pera, in Atti della Soc. di St. Patria, voi. XIII, pp. 279, 280,993; e Appendice allo stesso voi., taV — HI — dosi libri in Lombardia, a Napoli ed altrove (i). Tra il '73 e il ’74 poi usciva in Savona, parimenti a stampa, il Boezio, Consolatio philosophiae, pei torchi di un Bono Giovanni, frate agostiniano tedesco, e nell’officina di costui con ufficio di correttore troviamo un uomo a noi già noto, il maestro Venturino de’ Priori. Secondo il costume del tempo, in testa al volume si leggono alcuni suoi versi che ci porgono un breve saggio dell’ abilità poetica di Venturino, ahimè, assai scarsa. E dopo le prime cure sul Boezio, altre egli ne spendeva per l’impressione del Dottrinale di Alessandro Villa Dei, impressione che certo fu anteriore al 1480, poiché in quest’anno Venturino già era pubblico professore in Alba (2). La soscrizione in fine del volume loda la diligenza spesavi su dal grammatico. « In altri luoghi per difetto de’ librai, il Dottrinale era riuscito scorretto, ma ora per merito di Venturino grammaticus eximius, quam emendatissimum verrebbe a mano dei lettori ». E vi si accenna pur anche alle condizioni disagiate tra cui la stampa erasi fatta. La peste infieriva a Genova, in Asti ed altrove e su quel principio lo stampatore non aveva ancora potuto provvedersi di tutto ciò che era necessario all’arte sua (3). Come si comprende dalle opere citate e prescelte per essere impresse, la nuova invenzione ne’ suoi primordi serviva anzitutto alle necessità della scuola. Alla pari con Severino Boezio che quantunque fosse stato un coti) Staglielo ; Appunti e documenti sui primordi dell’ arte della stampa in Genova, in Atti cit., voi IX, pag. 323 e segg. (2) Spotorno; op. cit., II, 380. (3) Giuliani; Notizie sulla tip. ligure sino a tutto il secolo XVI, in Alti cit., voi. cit., pp. 32 e segg. — 148 — raggioso e sincero rappresentante della classica tradizione pagana, pure agli spiriti cristiani offrivasi cinto della santa aureola del martire morto per la fede, alla pari con esso, dico, veniva il Dottrinale del Villa Dei, un rifacimento in insipidi versi del trattato di Prisciano, ma che pure era riverito anche dalle scuole dell’ umanesimo, e sul quale tempestarono chi sa quanti uomini insigni, tra gli altri Aldo Manuzio, il vecchio Guarino e tutti i suoi discepoli. La grammatica era una potenza anche nel secolo XV, né la scuola sapeva ancora abiurare quella dottrina di cui luci massime erano stati Donato e Prisciano. Curioso riscontro: tra le opere delle quali la stampa si attribuisce al Gutenberg trovasi pure il Catholicon di fra Giovanni Balbi da Genova (1). Ma ormai era il crepuscolo di un’ età che passava. L’ Ivani alle prime notizie de’ torchi impiantati in Roma cosi scriveva da Volterra a Ludovico Fregoso, sollecitandolo a giovarsene per il figlio Agostino : — « Costoro hanno 1 officina loro zeppa di volumi, sicché ti sarà facile concludere con essi un utile negozio e meritevole di plauso. Abbia il nobile giovinetto le epistole di Gerolamo, le opere di Lattanzio, Orazio, Aristotele, e Quinto Curzio, Cesare, Livio, Sallustio, Plutarco, la Ciropedia di Senofonte, gli Opuscoli morali e filosofici dell eloquente Cicerone e le divine, se cosi m’é lecito esprimermi, orazioni di lui » (2). Spuntava l’alba di un nuovo secolo che le conquiste dell’ umanesimo, ristrette fino allora a pochi o privilegiati o coraggiosi e pazienti, (1) Castellani; L'origine tedesca deU’inven\ione della stampa, Venezia, 1889, p. 38. (2) Lettere Ivaniane, ms. cit., I, c. 115. — 149 — propagherebbe a milioni d’ uomini, amplierebbe per milioni di voci. Un dotto francese calcola a due milioni il numero dei volumi stampati in Venezia, nel primo trentennio d’ esercizio dell’ arte tipografica colà (i). E il primo libro, che in Venezia venne alla luce per l’opera dei torchi, fu quello delle epistole ad familiares di Cicerone (2). CAPITOLO V. Epistolario del Bracelli. Questa trattazione sarebbe troppo manchevole, se non considerassimo alquanto più di proposito il valore del nostro segretario in quella parte che costituisce una delle glorie dell’ umanesimo, voglio dire nella corrispondenza pubblica, eh’ egli durante cinquant’ anni tenne per obbligo del suo ufficio, e nella privata dove la dottrina e i pregi dello stile avevano certo miglior campo per dimostrarsi. Il Bracelli giovine faceva le sue prime prove, quando Gasparino Barzizza, dilungandosi dagli esempi del Petrarca e del Boccaccio, sorgeva appunto per lo stile epistolare campione del ciceronianismo, e il Bruni e quel geniale ingegno che fu il Poggio, insegnavano che cosa doveva essere la nuova prosa latina, se voleva accostarsi alla floridezza e alla fluidità del-1’ oratore romano. (1) A. Bernard; De l'origine et des débuts de Vimprimiere en Europe; Paris, 1853, par. II, 197. (2) Cfr. C. Castellani; La stampa in Venezia dalia sua origine alia morte di Aido Manuzio seniore, Venezia 1889. — 150 — Più tardi, negli anni verdi e maturi, potè ammirare il fervore inquieto, assai volte battagliero, di tutta quella gloriosa schiera di dotti che fu prima a dissodare il ronchioso terreno della coltura greco romana, fino a che il Valla non gittó nel campo de' ciceroniani il grido della rivolta. Tuttavia farebbe errore chi di quelle rumorose contese volesse trovare indizio o segno nell’ epistolario del nostro. Non v’ ha nessuna lettera di lui che accenni anche da lontano alla tanto dibattuta questione della forma, nessuna in cui egli lasci pur sottintendere quale fosse il suo criterio estetico. Chi voglia dunque giudicarlo deve sottoporre alla prova oggettiva gli scritti suoi e, poiché qui si ragiona delle lettere , mettere a disamina così le private come quelle eh’ egli scriveva d’ordine pubblico. Panni si possa sicuramente affermare che se anche il Bracelli conosceva, e non v’ ha dubbio, le opinioni espresse dall’ amico Barzizza nel suo trattatello De compositione, non egli tuttavia si ascrisse mai al gruppo de’ ciceroniani, né riuscì tale più che non lo fossero l’amico suo Flavio Biondo ed il Poggio. Rispetto poi alle lettere ufficiali allorché entrò nella cancelleria genovese, vi trovò stabilita la vecchia ti adizione lasciatavi dagli Stella, la quale era pur sempre un notevole progresso in confronto del passato. Essi, gh amici del venerato secretario fiorentino Coluccio Salutati, portavano nel chiuso ambiente medievale come un aura di umanesimo, e facevano presentire, pur nell’asprezza ed aridità dello stile cancelleresco, lo splendore e l efficacia dell’ eloquenza. Ma che lungo cammino rimanesse ancora a fare nel particolare della lingua e dello stile ci é indicato, non che da’ predecessori suoi, anche dalle - 151 - prime lettere di esso Bracelli. Vediamone una all’ imperatore Sigismondo per felicitarsi della sua assunzione all’impero: é del 1411. Basteranno pochi passi perché il lettore si faccia un’ idea esatta di quello stile scadente , della lingua corrotta, del periodo slegato e talvolta senza grammatica: lacebat sine principe orbis terre prostratus et populus christianus — proh dolor! — 5ine eo principe, ad inertiam resolutus et inimicorum nominis lesu Christi, verbera et horrenda mala presensit, et Italia que tot victoriarum decora ipso orbe quaesivit, guer-rarum variis agitata procellis, vertens ferrum ab hostili sanguine, diu in se armata detinuit, et beati Petri navicula , variis collis (?) a fluctibus sine portubus diu errans horruit precipitium (1). Perfino il vocabolo grossolanamente coniato, è indizio puro e semplice della pigrizia da parte dello scrittore nel sostituirvi in cambio il giusto vocabolo latino. Poniamo a riscontro di questa la lettera che il cancelliere in nome della repubblica scriveva al re d Aragona, come risposta a quella del Panormita. Essa è del 1456. Quarantacinque anni di intervallo ci avvertono delle conquiste dell’ umanismo pur anche nella cancelleria genovese. 11 segretario dà principio con una magnifica entrata: Infinitas prope a te, praeclarissime rex, pacis bellique temporibus accepisse liter as meminimus, eam quidem verborum moderationem habentes, ut liquido appareret eas et a rege et a moderatissimo rege profectas esse. Hae vero quas decimo augusti die datas nuper legimus, adeo ab illis omnibus (1) Arch. di Stato in Genova ; Iac. de Bracelleis, Litterarum 1, num. generale 1777, lett. 238, 12 settembre 1411. / — I52 — degenerant, ut si tuum nomen tollas, asseverandum sit eas ncque tuae maiestatis esse nec civilis alicuius viri, tanto enim studio hic eius operis architectus vecordis in maledicendo facundiae gloriam affectasse videtur, ut quod quorno-doque loqut regem deceat oblitus sit. 11 monarca aragonese, implacabilmente nemico della repubblica, aveva rinfacciato a’ governanti di questa la mancata tede negli accordi, ma con un linguaggio cosi violento eh ebbe a riuscir nuovo nelle tradizioni della diplomazia italiana. Questa dalla condizione de’ tempi costretta ad armeggiarsi tra scaltrimenti e ripieghi bassi di sovente e biasimevoli, aveva però acquistato, per virtù de’ nuovi studi classici, finezza di concetto e dignità grande di trase. 11 Panormita con la leggerezza avventata, sebbene elegante e geniale che lo distingue, pareva volerla rompere con le buone regole, sicché non era fuor di proposito , se il cancelliere genovese ve lo richiamava. Del resto, egli aveva troppo buon giuoco, quanto ad argomenti, sul Panormita. Invero anche la politica genovese era incerta e ad un tempo capziosa e violenta, ma era se non altro governata dalla prudenza o dall’astuzia. Alfonso, in cambio, rispetto a Genova, era guidato piuttosto da un rancore personale che da un’ alta ragione di stato. Ed il giudizio che deve pronunciarsi di lui come padrone del regno di Napoli, non parmi che gli torni favorevole. Gli mancava un chiaro concetto delle vere condizioni italiane, né sapeva bene che si volesse: badando solo agli interessi del momento, insospettisce senza sapeile vincere, le due repubbliche che ancora avevano qualche peso sulla bilancia dei destini d’Italia ; collo Sforza non sa essere risolutamente né amico, né nemico; - 153 — ora minaccia i papi, ora si umilia troppo, invocando da essi la riconferma di un diritto che nessuno gli contestava, e da tanti intrighi non raccoglie se non debolezza e disordine amministrativo in casa, ambizioni ed inimicizie mal sopite al di fuori. Era naturale che il secretario balenasse nelle ragioni, quando il reale signore dimostrava tanta volubilità di propositi. Non a torto quindi alla sfilata di accuse ed ingiurie del re, replicava il secretario genovese, rinfacciandogli i balzelli incomportabili imposti ai popoli di Sicilia e di Sardegna, coll’ignobile pretesto di una crociata contro i turchi eh’ egli non mai aveva avuto in animo di fare. E per tre anni i genovesi avevano attesa ed invano la flotta regia strombazzata, magnificata : Nos interim certa spe tuae classis confirmati singulis annis naves, viros, arma, triticum christianis orientalibus suppeditare, utque forti animo calamitates suas ferrent, literis ac legationibus exhortari brevi affuturas vires opulentissimi regis........ Il re non s’ era mosso, il re abbandonava a crudelissimi nemici i cristiani per la cui salute asseriva essersi levato al soccorso. E poiché non contro la nazione genovese egli millantava far guerra, bensì contro i fedifraghi che tenevano sbanditi dalla patria tanti ottimi ed egregi cittadini, così con nobiltà romana concludeva il Bracelli: De civibus nostris, quorum te charitate moveri dictitas, hoc sibi persuadeat Maiestas tua, illi quidem cum saturni mentem resumpserint, redibunt in patriam non suis viribus sed mansuetudine nostra, preoptabuntque aequo iure cum suis agere, quam fidem tuam rursum experiri (i). Restringendoci (I) Giustiniani, op. cit., ad a. 1456; il quale reca nell’originale latino anche la lettera del re, di mano del Panormita. - 154 — allo stile, direi che per gusto latino e sobrio movimento e legatura del periodo il Bracelli si lasci indietro il suo celebre contradditore. Più geniale il Panormita ed agile, ta sentire nel suo latino alcunché dell’ armonia del nostro idioma; più grave, più ciceroniano il nostro, se non nelle parole, che anch’ egli era piuttosto un eclettico, almeno nel colorito. Le altre lettere contenute nel codice e che si collocano quasi tutte tra le suddette due date, rendono bene immagine di quel periodo di tempo che corse dal concilio di Costanza alla presa di Costantinopoli , periodo di maneggi politici assai volte tortuosi per gli Stati italiani, di assidui rivolgimenti per Genova , la quale né sapeva star contenta della libertà, nò rassegnarsi alla servitù. Tutti gli elementi che compongono lo stato moderno, parte de’ quali erano un’ eredità del medio evo, lottavano ferocemente per la preminenza di un solo, o per trovare nell’ organamento politico un modo di coesistenza, ma lo stato non si formava. E di quell’ arruffio di cose, di quella lotta, il carteggio diplomatico de’ cancellieri umanisti è un fedele riflesso. Ora é la lettera di complimento per rallegrarsi dell’ esaltazione altrui, o per annunciare quella de’ propri signori al potere ; e siffatte occasioni nella repubblica genovese non mancavano. Altre volte è l’umanista stesso, che in persona propria supplisce nel suo secolo ai diari di invenzione posteriore, e partecipa a mecenati ed amici gli avvenimenti di cui egli é informato. Forse non mai come in questo tempo 1* epistolografia servi stupendamente all’ ufficio di fornire ad una numerosa classe di persone una copia considerevole di notizie, discusse, - *55 - ventilate, alte insomma a costituire un’ opinione pubblica. Si legga per un esempio la lettera che il Bracelli scriveva a Giovanni Cossa allora, per ciò che sembra, in corte di re Raniero, nell’occasione che Giovanni d’Angiò si apparecchiava con gli aiuti del padre e dello zio , re di Francia, ad assalire il regno di Napoli. 11 nostro cancelliere, forse per incarico del governatore Ludovico la Vallèe, ci fa sapere che teneva informato giorno per giorno il duca di quanto gli paresse degno di nota, e anche in questa soddisfaceva con brevità al suo debito di cronista, cc II re di Francia stava per tenere un consiglio di signori in cui si tratterebbe anche delle faccende italiane; il papa non pareva che fosse quale i regi legati avevano creduto: la repubblica era molestata assai dal duca di Milano, dal grave pericolo che correva CafTa, dalle condizioni della Corsica, dove già si era spedito parte dei cinquecento fanti che la Signoria \i aveva destinato: il re di Francia dicevasi avesse erogato per I’ impresa del regno di Napoli molte migliaia di scudi, ma ancora ignorava quanti fossero ». A sua \olta domanderà un altro giorno notizie al Giustiniani, al De Mari, ad altri, per farne parte ad amici e protettori. Scrivendo a quest’ultimo nel 1453 in Francia, dove viveva, dopo le notizie di Pera assediata e pres.i dal Turco, soggiunge: Tu cum recens partam in Aquitania victoriam pulcre admodum descripseris, cura ut earum quoque rerum exitum ex te cognoscamus (1). (1) A pag. 26 già abbiamo recato la lettera di Giano Fregoso, in cui si rin graziava il Biondo per gli utili avvisi che questi mandava intorno alle nout che accadevano nella Curia romana. — i j6 — Forse è di mano del Bracelli anche la lettera dignitosissima e, nello stile cancelleresco, assai bella, con cui Tommaso Campofregoso annunciava al duca di Milano la sua liberazione dal doloroso carcere di Savona (i). Il codice più volte citato la pone tra quelle senza dubbio di lui e ci si sente la maniera del nostro. Gottardo forse non avrebbe saputo scrivere nulla di cosi misurato e tuttavia, in tanta compostezza, elegante. Di mano certamente del Bracelli, che in suo proprio nome lo indirizzava al re d’Aragona, havvi un curioso documento che direi però inspirato al cancelliere dal doge (2). È in sostanza un ampio elogio di Ludovico Campotregoso da poco successo nel dogato al fratello Giano. Perché poi di tante lodi di umanità, di dolcezza e di devozione verso 1’Aragonese, Dio sa quanto meritate, assumesse incarico il Bracelli, non saprei dire, se non si voglia pur qui ripetere ciò che verificavasi in tanti altri casi, esser debito dell’ umanista, fosse egli secretario di un principe o cancelliere di una repubblica, nascondere sotto l’onda sonora di un bel periodo i procedimenti obliqui della politica. La lettera finisce dando ragguaglio degli avvenimenti nell’alta Italia ed in ispecie nella Lombardia, della quale lo Sforza voleva farsi signore. Della presa di Finale, che era avvenuta alcun tempo prima, certo con dispiacere del re, nella lettera non si fiata. Tutto questo può dare un’ idea de’ tempi e dell’abilità dell’ uomo come secretario e diplomatico. Ma un argomento si porgeva in cui tutti erano sinceri e che (t Fu già pubblicata dal Neri ne! Giornale Ligustico, anno XV, pag. 183. (2) Ms. Br. c. 75; Genova, 2 maggio 1449. Vedi Documtnto XIV in fine. - *57 - strappava accenti passionati di dolore e di sdegno a dotti ed indotti, voglio dire la condizione delle colonie che, dopo l’infausto anno '53, venivano ad essere esposte senza difesa alla brutale scimitarra del Turco. Chi legga le lettere che in questi anni i cristiani d’oriente, i greci scampati all’ eccidio scrivevano a’ papi, o a’ signori di occidente, invocando soccorso, s’incontra in brani di vera e forte eloquenza (1). E anche nella miscellanea che ci sta sott’ occhio parecchie sono le lettere di mano del Bracelli in cui si sollecitano, si scongiurano di aiuto papa Calisto e il re d’Aragona, con un vigore di pensiero, con un’ evidenza di linguaggio che farà stupoie a chi le paragoni con la fredda impersonalità delle storie lasciateci dagli umanisti. Gli é che i modelli qui erano messi da banda e la parola diventava lespiessione fedele dell’animo di tutti, commosso e trepidante per il destino di tanti infelici. Nel 55 Pietro Fregoso raccomanda a Calisto i popoli di Lesbo, Scio, Rodi, Cipio che, se fossero privati dell’ atteso soccorso, o si darebbero alla disperazione, 0 rinnegata la tede di Cristo si sprofonderebbero nelle brutture del culto di Maometto. Ecco, come saggio, la traduzione fedele del passo che tien dietro nella lettera: « Questo se la nostra età avesse a vedere, santissimo Padre, se questo supremo cumulo di mali avesse a caderci sopra nel nostro tempo, quanto sarebbe meglio non esser vissuti? e dall’utero, siccome piangendo disse 1’ antico, essere trasferiti alla fossa ? A siffatte querele specialmente ci muove l’annunzio che la (t) Cfr. Donzellino, Epistolae principum: ex Cbio, die xiv aug. 1455 ; Mao-nenses civitatis et insulae Chii Romano Pontifici. — IJS — flotta turchesca fortissima di navi già sia pervenuta in vista di Scio, della quale se si renda padrona, inutilmente Rodi, inutilmente Cipro e le altre isole verranno poscia soccorse » (i). Non é anche finito l’anno e si ritorna all’ assalto. Il magistrato, che si era istituito per la guerra contro il Turco, rappresenta al pontefice gli sforzi fatti dalla repubblica per salvare le sue fiorenti colonie. — « Non è vile plebe, esclama, quella per cui intercediamo, ma quell’angolo del Ponto contiene l’impero di Tre-bisonda con numerose illustri città, contiene Caffa, se non per l’ambito delle mura, per la moltitudine degli abitanti forse degna che sia anteposta a Costantinopoli, contiene Soldaia e Cembalo, terre non ispregevoli, contiene infine Amastra, città una volta famosa, ed ora anche più per la fama de’ suoi santi vescovi..... » (2). Parole al vento: ed altre più calde, più insistenti e pur troppo egualmente vane, leggiamo nel '56 e negli anni successivi. Era fatale che tanto fervore d’ animo, tanta eloquenza di linguaggio accompagnasse e seguisse gli indegni funerali della grandezza della patria. (1) Ms. Br. c. I, 2; lett. 26 agosto 1455: Hate si ttas nostra spectatura est, sanctissimi Pater, si bec malorum omnium suprema in tvum nostrum eruptura sunt, guanto satius esset non vixisse? tl tx utero, ut Jlens ille cecinit, aJ tumulum esse Iram-latos? Ad boc precipue questus nos nunc movet quod fama est eius regis classem, et quidem prei'aìidam, iam Chium infestam pervenisse, qua si potiatur insula, frustra postea Rhodo, frustra Cypro aliisque insulis succurreretur. (2) Ms. Br. c. 2; lett. 5 novembre 1455: Et ne quis forsitan pulet pro vili nos pUfacuIa verba facere, habet ponlicus ilit angulus imperium Trape-ontinum claris urbibus frequens, habet Capbam, non ambitu quidem moenium, sed populorum multitudine Costantinopoli facile praeferendam, habet Soldaiam , habet Simbolum haud contemnenda oppida; habtl denique Amastram urbem quondam celebrem, sed sanctorum episcoporum fama celebriorem..... - 159 — Gli é il sentimento che si prova leggendo quelle pagine: che cosa resta dell’opera degli umanisti sepolti ne’ polverosi scaffali delle biblioteche e degli archivi e per pietà, a quando a quando, esumati da qualche studioso ? Che cosa resta di tanti eroici sforzi, di tante generose abnegazioni degli uomini attori nel dramma di quel tempo? Perchè non v’ha dubbio, molti di coloro che fanno la loro fugace apparizione di mezzo a queste pagine erano mossi da onesti fini, anche allorquando commettevano il male, e si affaticarono e patirono per il conseguimento della giustizia , o di quella parte di giustizia che a’ loro occhi splendeva come bene desiderabile. Tutti sentivano, senza forse rendersene chiara ragione, che mancavano in quella società i due elementi che costituiscono principalmente un governo, la sicurezza de’ governati, il progresso delle istituzioni. Quelli invece erano in preda ad una perenne violenza, queste si raggiravano in un circolo vizioso e fatale. Occorreva per conservare la tranquillità dell animo una forte dose di stoicismo, e stoici furono molti degli eruditi nel secolo XV, tentando di accordare la dottrina filosofica con quella cristiana. Come vi riuscissero non é qui il caso di ricercare : essi ad ogni modo questa confortante persuasione nutrirono che la rassegnazione raccomandata dalla fede non tosse essenzialmente dissonante dalla impassibilità raccomandata dagli stoici (i)-A Francesco Spinola caduto prigione de \eneziani, mentre combatteva per il Visconti, il Bracelli scriveva. Scio multos ad te dedisse mestas litteras et luctibus plenas. (i) Cfr. Novati, Epistolario di C. Salutati, in Bull, dell' 1 st. stor. ttal., n. 4. — i6o — Ego vero non modo mestus non sum sed gaudeo, quod audio omnia te pro dignitate tua Jacere et calanutatali hanc magno atque eìato animo ferre. Si iocunda nubi est gloria tua, illa dico vera et solida que virtuti seniper inmxa est, quid erit cur qui secundis in rebus liberahtate ac modestia tua letari solebam, idem ipse non leter hac magnanimitate et fortitudine animi tui, fortune impetum continentis ?.... Vera gloria, que nisi a virtute profiscitur gloria non est, magis elucet adversante quam blandiente fortuna. E cita Attilio Regolo, Catone e Socrate (i). Tuttavia negli anni maturi il nostro secretario non sfoderò più con eguale sicurezza tanti inflessibili aforismi, comodi soltanto • • allorché alla simpatia umana, debita agli sventurati, si sostituisce molta aridità di cuore. Ed anche prima degli anni maturi si ravvide di certi traviamenti dello spirito 1 • ne’quali altra volta era caduto, come, per esempio, 1 non aver prestato fede all’esistenza del purgatorio, lascian dosi adescare dagli speciosi argomenti de’ scismatici e di altri increduli. Notevole questo per uno studio de sentimento religioso in quei secoli, che all’amico Giovanni Giustiniani, forse inclinato allo stesso errore, raccoman di leggere le rivelazioni di Brigida, la santa svedese. Anch’egli, come l’amico suo Ivani e come molti allora, aveva grande opinione delle virtù profetiche di lei e quelle visioni trattava come cosa salda: « 1° versava nell" errore e mi trasse alla luce della verità la mag giore delle sibille, la beata Brigida, che non solo la triplice divisione del purgatorio e i tormenti dell anime colà espianti con perspicuo linguaggio descrisse, nia (l) Ms. Br. c. 472: Ex Gtnua, X hai. jan. 14)1. — 161 — anche vide il martirio di taluna che sapeva esservi relegata et divinitus fu ammonita sul modo di porgerle soccorso » (i). Come si pare chiarissimo, 1’ uomo era credente e, se non basti, anche mistico, congiunto, più che non si sospetterebbe in un umanista, col mondo soprannaturale. E la preoccupazione persistente della vita d’ oltretomba legittimava pur anche l’intromissione dello stato laico nelle cose religiose. I governanti non solo si arrogavano la cura del bene materiale de’ soggetti, ma altresì la direzione dei loro cuori e 1’ ufficio di guidarli al conseguimento dell’eterna felicità. Nel 1445 Raffaele Adorno pregava il pontefice di collocare Bernardino da Siena fra i beati; nel 1453 Pietro Campofregoso esaltava a Nicolò V i digiuni, l’aspra penitenza, i mirabili effetti ottenuti dai frati dell’ osservanza presso il popolo genovese, e pregava il papa a favorire ed amplificare gli ascritti a quel pio ordine (2). Individuo e stato la intendevano dunque ad un medo in questa gelosa parte del sentimento religioso. Allorché le navi che nel 1412 dovevano sferrare dal porto di Genova per soccorrere Bonifacio, incontrarono insuperabile ostacolo nei venti contrari, Tommaso Fregoso (1) Ed. di Parigi cit., fol. 53, lett. da Bogliasco, 13 agosto 1438: Quo in errore cum aliquandiu et ipse versarer, explicuit me et ad veritatis lucem deduxit omnium sybillarum clarissima, beata Brigida, quae non solum triplicem purgatorii stationem et animarum cruciatus perspicuis verbis descripsit, sed etiam plerasque animas sibi cognitas ibi torqueri conspexit, et quibus auxiliis iuvari possent divinitus monita fuit. Quod ideo dixisse volui, ut siquid esset quod te in hac materia legere iuvaret, scias revelationes eius hic esse penes me, quibus arbitrio tuo uti possis. (2) Ms. Br. c. 106, e Arch. Municip. Ms. Pallavicino, c. 27, lettera di Raffaele Adorno, 15 sett. 1445; ediz- Parig' c!t-’ f- ^°> lettera di Pietr0 Fre‘ goso, 6 marzo 1453. Atti Soc. Lig. St. Patri*. Voi. XXIII. 11 si recò devotamente a supplicare Nostra Donna dell’incoronata ed il miracolo avvenne. Non mancarono naturalmente i derisori ; ma il Bracelli, una delle menti illuminate del suo secolo, anni dopo ancora, narrandolo esclama: « garriscano quanto lor piace e ci scherniscano coloro che negano Dio aver cura delle cose umane » (i). Tuttavia sapeva a tempo usar libertà ne’ giudizi, un po’ di quella libertà che inspirava il santo sdegno di Gioacchino calabrese, di santa Caterina, di santa Brigida, de’ fautori della primitiva povertà evangelica, in una parola. A proposito di un convento di francescani fondato in Genova nel 1440 e dell’ accorrere di devoti d’ogni banda per acquistarvi indulgenze, soggiunge : « Certo é che da questo affollamento quasiché incredibile, poiché ciascuno dava un tanto in ragione de’ suoi mezzi, senza le spese largamente fornite ai frati raccolti, venne ad arricchirsene fuor del dovere la chiesa di quel san Francesco che si fece glorioso dallo spregio delle ricchezze » (2). Il moto degli Ussiti significò, nel secolo XV, la riforma popolare religiosa fuori della Chiesa , santa Brigida ed altri nobili spiriti la riforma popolare in grembo alla medesima. Quando il Bracelli negava l’esistenza del purgatorio risentiva, forse senz’ avvedersene , alcunché degli ardimenti del moto religioso in Germania. Egli però si affrettò a rientrare nel dogma e fu naturale. L’Italia, in complesso, non partecipò neppure nel secolo seguente alla riforma germanica, e, dopo il concilio di (1) Bracelli, Dilla guerra di Spagna, testo e versione di F. Alizeri, Genova, >8$6, p. 34. (2) Bracelli, op. cit., ediz. cit., p. 274. — 163 — Costanza in ispecie, gli italiani furono per la Chiesa cattolica che, senz’armi proprie, aveva tuttavia sfolgorata-mente vinto e domo ogni tentativo di ribellione. Inoltre il papato appariva ancora una forza, e non era stolta utopia 10 sperare che da esso uscisse la salvezza d’Italia. Sembrerà congettura nostra campata in aria questa e non è : tra alti e bassi cotesta fede risorse ancor viva nel Bracelli, quando assunse la tiara un dotto e celebrato umanista, 11 Parentucelli. Citiamo: « A noi farebbe d’uopo un nuovo Ercole che il secolo nostro liberasse da tante fiere e mostri, e come troppe volte fu augurato avrebbe ad essere il romano pontefice, il quale, nel vergognoso torpore degli altri principi, unico rifugio è rimasto al-l’Italia ne’ suoi grandissimi mali. Questi la cui clava domò mostri maggiori di quella d’ Ercole, dovrebbe costringere tra ferrei ceppi gli scellerati che, siccome fossero prorotti da sforzato carcere, imperversano liberamente ». La lettera è del 6 luglio 1452, a quel Vigevio che viveva allora in Roma (1). Il Piccolomini alcuni mesi prima aveva chiesta per il suo signore la corona imperiale al papa, che egli diceva la sorgente vera e genuina dell’ imperium (2); durava ancora l’eco dell’ incoronazione di Federico III, da cui l’autorità ed il credito dell’ imperatore era uscito menomato, e l’amico Gottardo Stella in quei giorni inviato come ambasciatore al papa, certo aveva magnificato la splendidezza della cerimonia (3). Il Bracelli e gli amici suoi poterono dunque per un istante illudersi (1) Arch. Municip., Ms. Pallavicino, c. 116. (2) Gregorovius, op. cit., VII, 133. (3) Giustiniani, op. cit., V, 381. — 164 — che il pontefice umanista, collocandosi tanto più in alto di quella larva d’imperatore germanico, riuscisse col braccio secolare e colla potenza morale sopratutto, a farsi autore e moderatore della pace d’ Italia. La caduta di Costantinopoli appena un anno dopo e le successive vittorie dei turchi, essendo spettatore inerte il papato, avranno senza dubbio destato gli illusi dal dolce sogno. II. Il Bracelli confessava di non aver grazia alcuna né ispirazione per far versi. Non conosco di lui altro di poetico, tranne pochi distici in morte del doge Giano ch’egli dettava per espresso desiderio del cugino Niccolò Fregoso ed ancor essi inviati piuttosto per correggerli che per pubblicarli: rectius egeris si emendaveris quam si edas (1). Vediamolo almeno attendere alla lettura dei poeti ed affaticarsi per la loro giusta interpretazione. Era il gusto del tempo e vi partecipavano anche gli ecclesiastici, coloro che un secolo prima si sarebbero fatto scrupolo di leggere uno scrittore profano. La lettera di (I) Si trovano nell’edizione di Parigi cit., fol. 6j v. Ad ogni modo non dispiacerà leggerli qui: Hit Itimi al Utmi fmlfosé lìirpi intimi Qmrm rjfmil imtimim pttttlpiltu Hit, Hmit itdi'él mirmm ftrmti •(Ini ditortm, S4J pimi camiti, fimi JfJrrttfmi taimi, Firrié «n tttrt, fiUp •«< tra furtnlii, hlripitU filai! Jtmtn fernsilimm. Ptuftil kit ptlrUi kimjt Jmj imitimi tornei, Dijrmijt étUrm» fmi fmil impiria, Qmi miti Mimi rnmmei km,; faU Mganrwf, Impilali L*limm limitami firn mi tmìt. — i6j — cui parliamo è diretta infatti a Raffaele Pornassio, domenicano insigne, maestro di teologia e, dal 1430 al *50, generale inquisitore nella Liguria e nelle Marche. Un personaggio ragguardevole, come si vede, e il Fazio e il Quetif ne enumerano i meriti come scrittore (1). Per richiesta del Pornassio, sembra, il Bracelli toglie a ragionare sulla quarta egloga di Virgilio, argomento di tante disparate interpretazioni nel medio evo. E ben vero che l’austero domenicano non credeva con ciò uscire della materia a lui prescritta, però che egli faceva sua l’opinione accolta con tanto favore dagli scrittori cristiani del IV secolo, cioè che Virgilio fosse stato in quel carme veridico profeta di Cristo. Così in una sua opera radunava opportune sentenze di Platone, Aristotele ed altri filosofi, a dimostrare vie meglio il consenso di essi con la religione cristiana. L’ umanesimo, sul proposito di Virgilio scrittore della famosa IV egloga, ritorna alla interpretazione oggettiva reale, senza lasciarsi traviare da pregiudizi di esegesi in senso cristiano. Anche tra le lettere di Francesco Filelfo, avvene una a Mario in cui l’opinione recisamente opposta a questo senso è dichiarata in modo esplicito. Questi aveva parlato dell’egloga, attenendosi alla vecchia tradizione ed il padre ribatte : « Ciò che scrivesti di Virgilio è del tutto favoloso. Però che egli non intese parlare di Cristo, ma del figlio di Pollione e dice di lui quello che molto innanzi la sibilla, per certo afflato divino, aveva di Cristo vaticinato » (2). Così che per il (1) Barth. Facii, De viris illustribus, p. 42- - Quetif et Echard, Scriptores ordinis praedicatorum, t. I, p. 831. (2) Lettera a Gian Mario, Milano, XIV kal. martias 1454- Filelfo la sibilla cumana aveva bensì profetato del redentore, ma il mantovano con quel carme non aveva voluto annunciare se non lo splendido pronostico del figlio di Pollione. Più diffusamente il Bracelli: — « Tu mi chiedi quando quei vaticini s’hanno dunque ad avverare, se in Virgilio non si parla punto di Cristo venturo. Io nè penso che Virgilio sia stato profeta, né che egli volesse passare agli occhi nostri come un vate informato del futuro. Difatti, che c’é in tutto quell’elogio del secolo aureo che chiaramente non suoni come lode di Cesare Augusto, o di Pollione? » — Ed oppone alcune delle difficoltà che si incontrano, ove si voglia torcere l’interpretazione di que’ versi ad altro senso, soggiungendo: io toccherò di alcune, ma più di venti altre potrei addurre che tuttavia lascerò indovinare a chi mi legge. In sostanza, ecco le sue obbiezioni: « La materia del carme bucolico è umile di sua natura; non si può dunque supporre che un grande poeta come Virgilio lo eleggesse a trattare il soggetto più sublime fra quanti ve ne sono. Egli incomincia: Sicelides musa e, paulo maiora canamus. Aveva parlato sin allora di greggi e di pastori: gli pareva ora di assurgere alquanto più alto. Ma che saravvi allora di grandissimo, o se possibile é un grado maggiore di esso, se questo profondo arcano della divina sapienza si dica essere solo alquanto maggiore ai buoi ed agli agnelli." Coloro che, scambio di Astrea o la giustizia, vogliono nella vergine riconoscere Maria che riede, insegnino in che modo può ritornare chi ancora non é stato. Nam redire testatur aliquem venisse, abisse et postea iterum venire. Né per saturnia regna s’hanno da intendere gli aurei — 167 — secoli che sono una favola de’ poeti. Basti per tutti il testimonio di Mosé che nel Genesi, discorrendo de’ discesi dai due primi padri, novera anzi tutto un fratricida ed una vittima innocente. In conclusione, Virgilio non fu profeta, Virgilio, prima ancora che Pollione, intese a celebrare magnificamente Augusto; e quella pace, che sotto costui toccò in sorte al mondo romano, ben poteva dirsi procedere dal cielo, quasi ombra ed imagine di quell’ eterna pace di cui stava per essere nunzio il redentore » (1). Il Bracelli probabilmente aveva cognizione esatta delle dottrine de’ messianici e sibillisti, che vennero poi ad appuntarsi nella leggenda medievale che conduceva 1’ apostolo delle genti al sepolcro dell’antico poeta, e nell’episodio di Stazio che Dante introdusse nel canto XXII del Purgatorio (2). Ma la lettera dimostra pure che l’umanesimo, anche se professato da uomini ortodossi di fede come il nostro cancelliere, aveva ormai preso altra via. Notevole é la negazione recisa dell’età del-l’oro, ossia di quello stato di natura che presso i pagani fu immagine di un vivere civile più perfetto, e di cui si compiacquero in seguito tanti scrittori, comin- (1) Ms. Br. c. 37; lettera ex suburbano meo, -V kal. octobris (manca 1 anno). — Vedi Documento XV in fine. (2) In certo inno che ancora durante il secolo XV si usava di cantare in Mantova ad onore di S. Paolo, sono i seguenti versi che esprimono 1 accorato dolore dell’apostolo per non esser giunto in tempo a convertire Virgilio alla fede cristiana: Ad Mnronis mausoleum Ductus, fudit super cum Piac rorctn lacrymae; Quem te, inquit, reddidissem, Si te vivum invenissem. Poetarum maxime ! Cfr. Graf; Roma nella memoria e nellt immaginazioni del medio evo, II, 206 — léS - ciando da' cinquecentisti italiani per giungere sino al sentimentalismo rivoluzionario di Rousseau e di Saint Pierre. Passiamo alle lettere che toccano dell’ argomento più gradito al Bracelli, le storie. Intorno a questa materia sonvene nel codice da noi tolto in esame parecchie, e tutte hanno il fine di dissipare le tenebre addensate da tanti secoli d’incuria e d’ignoranza, di sbrogliare la selva aspra e forte de’ pregiudizi e degli errori. Glie ne dava occasione il Biondo, che nel 1454 lavorava intorno alle Decadi. Come per l’Italia illustrata aveva nel "48 avuto ricorso all’umanista genovese, che gli inviava l’opuscoletto : Descriptio orae ligusticae, cosi ora chiede-vagli notizie storiche intorno a Genova. E il Bracelli a rispondere: « che nutriva speranza di potergli mandare l’istoria genovese dall’anno 1100 al 1405, dopo il qual anno stimava che quanto avevano operato i suoi concittadini era tanto noto, da non abbisognare alcuno scritto; tuttavia, se necessario, avrebbe volontieri supplito. Circa poi a’ fatti prima del 1100, nessuno scrittore nostrano avevali mandati a memoria, sicché bisognava ricorrere ad estranei per le notizie di quel tempo che gli fossero mancate » (1). Gli inviava dunque, com’é facile inferire dalle sue parole, gli annali di Caffaro e de’ suoi continuatori, forse la cronaca di Iacopo da Varagine e senza dubbio quella di Giorgio Stella. Il Biondo era ricorso anche al doge, forse stimando poter avere, senza più, in imprestito il codice posseduto dal Comune, ma la cosa non era cosi facile. Vcrutn haec quae ita recipio, exscribenda erunt, nam nulli sunt annales publici, qui 1) Ms. Br, c. 19, Genova, 14 novembre 1454. — 169 — mitti possint et qua dixi exemplaria privatorum sunt. Finalmente, due mesi dopo, la copia promessa fu in pronto; e, nell’atto di trasmetterla all’ amico, il segretario genovese faceva dello Stella onorevole encomio. « Non troverai in lui, scrive, eleganza di parole ed ornamenti, o precetti di rétori, ma ciò che massimamente si conviene ad uno scrittore, la cura e il desiderio della verità, cosi che tu non avrai a rimproverargli nessun parziale amore di patria, nessun odio del nemico. Curioso scrutatore del vero, egli narrò con eguale candore le vittorie e le sconfitte » (1). A me piace ravvisare in queste parole un elogio all’onestà del buon cronista, a quella probità letteraria che senza dubbio Giorgio Stella ebbe, e che per brillare non bisognava de’ lenocinii dell’ arte umanistica. Era insomma il motto di Tacito sine ira et studio, che il nostro cancelliere parafrasava in lode dello Stella e che ogni scrittore dabbene è in debito di osservare. Io mi sono chiesto più volte leggendo questa lettera del Bracelli se fosse ragione sufficiente quella da esso addotta di sopra, ossia che dopo il 1405 le imprese dei genovesi erano a tutti note, per non mandare al Biondo anche gli annali di Giovanni Stella, o se nell’ esclusione di costui dall’ elogio eh’ egli tesse per il fratello, non ci fosse una riposta intenzione. Risposta sicura, o almeno assai probabile potrebbe forse ricavarsi da una più esatta cognizione della vita dei due cronisti genovesi e dalle relazioni eh’ essi intrattennero co’ dotti del tempo loro. O non avrebbe forse a congetturarsi che lo smaccato (1) Ms. Br. c. 117, Genova, 4 febbraio 145 s- — 170 — adulatore di Giovanni Lemeingre non riusciva gran fatto simpatico al nostro Bracelli? (1). Gli studi del Burckhardt, del Villari, non che di altri benemeriti eruditi, hanno rivendicato il posto onorevole che va dato al Biondo, per il concetto nuovo ed ardito in allora di scrivere una storia universale che dalla caduta dell’ impero romano giungesse sino a’ suoi giorni, illustrando tanta mole di lavoro con istudi pazienti sulle fonti degli autori in ogni secolo, e recandovi sempre il soccorso di una buona critica. L’importanza di essa poco venne compresa, se non fu disconosciuta affatto, dalla turba de’ dotti contemporanei infatuata unicamente della torma. Nell’ingiusto oblio in cui il suo autore venne lasciato da molti, ed anche dal papa umanista tanto esaltato da’ letterati del suo secolo, Niccolò V insomma, piace che i meriti suoi fossero compresi almeno da un eclettico geniale, il Piccolomini (2), e da un grave istorico, il nostro cancelliere. Questi apprezzava, com’era dovere, quel vasto cumulo di pazienti ricerche e lo ascriveva ad insigne merito del Biondo, dolendosi che i principi della loro età non facessero almeno de’ belli ingegni stima eguale a quella che facevano delle armi (3). Eguale ammirazione aveva attestata nel '48, al ricevere dal- (1) Cfr. Giustiniani, op. cit., ad a. i \02. (ì) Aen. Sylvij ; Hisl. de Europi, in Opera omnia, Basilea, 1571 , p- 4S‘)-Unum tamen e doctis ab eo neglectum miramur, Blondum Flavium ForolivUnsem qui tes a declinatione Romani Imperii usque ad aetatem nostram foto orbe paratas, mirabili ordine in tres digessit Decadas. Romam describendo instauravit, Italiam illustravit, deinde triumphantem Urbem scribere adorsus, omnem nobis vetustatem aperuit. Sed ita fuerunt hominum mores, nam perraro quemquam extollit pontifex quem praecessor amavit. (3) Ms. Br. c. 19, lett. cit. — I7I — l’amico suo l’opera De Roma instaurata. 11 lavoro con felice successo da lui condotto a termine era tale da spaurire ogni dottissimo uomo; le membra del-l’aeterna Urbs, mercé sua, risorgevano al sole latino, belle di gloria: per lui si rivedeva come in immagine la vecchia Roma. Quante fatiche e difficoltà non aveva incontrato per sottrarre alla caligine del tempo tanti nomi di luoghi, né soli nomi, ma il ricordo ormai illanguidito de’ gloriosi fatti ivi accaduti ! E rifare la storia di quelle rovine che nel volgere de’ secoli si erano succedute, le une sulle altre, e che ora i nipoti, o avidi o noncuranti, riducevano in cenere e calce ! Però egli non poteva tenersi dall’esclamare che al Biondo il suo secolo, ed ogni classe di persone, dotti ed indotti, nonché la stessa posterità, andavano di moltissimo debitori (i). Ha ragione il Villari di dire che la critica storica nasceva allora spontaneamente, prima che gli scrittori i quali la promuovevano ne fossero pienamente consapevoli (2). Non è minore perciò il merito di coloro che consapevolmente si studiarono di giovarsene nelle loro dotte ricerche. Un terreno pressoché inesplorato era ancora la Geografìa storica: il medio evo aveva fatto pochissimo nel campo geografico, si descrittivo come storico. Persino della Siria e della Palestina, paese tanto frequentato dall’ epoca delle crociate in poi, si avevano notizie incomplete ed inesattissime. Il Biondo tentò, per quanto i tempi glie lo consentivano, la geografia e l’ar- (1) Ms. Br. c. 89, Genova, 30 dicembre 1448. (2) Villari ; N. Machiavelli, III, 201. — 172 — cheologia della nostra penisola, mediante l’Italia illustrata; l’amico suo ebbe il disegno di un lavoro anche più coscienzioso da farsi per la Liguria e lo esponeva in chiari termini al Biondo. Ma se ne esagerò fuor di modo le difficoltà, o forse nella condizione degli studi archeologici d’allora esse erano veramente gravi : fatto si é che il disegno rimase pur troppo allo stato di disegno. « Un giorno, egli dice, i limiti della regione ligure furono larghissimi, però che da Oriente vi appartenessero Pisa e il territorio de’ Liguri Apuani, e da occidente Pompeo Trogo ponesse Marsiglia come confine tra Liguri e Galli ». Ecco adunque il compito che uno scrittore avrebbe dovuto proporsi: rimettere in luce quelle antichissime divisioni geografiche ormai abolite e quasi, per cosi dire, sepolte, stabilire entro quali precisi confini trovavasi la Liguria, quando PApuano e il Marsigliese si annoveravano tra’ Liguri : ma, soggiunge, non havvi uomo del nostro secolo, quantunque dottissimo, ch’io riputassi idoneo a quest’opera » (i). Si restrinse quindi a fare, (l) Lett. ad Bl. FI. ap. secret, 144S prima aprilis in ediz. cit., Parigi, 1S20. Questa lettera, raffrontata con un'altra ad Andreolo Giustiniani di cui riprodussi un passo a pag. 44, di luogo ad una curiosa contraddizione. Parrebbe da essa che il Bracelli, sul finire del 1447, 0 nei primi mesi del '48, scrivesse P opuscolo Descriptio orae ligusticae, consentendo all' invito di Andrea Bartolomeo Imperiale tornato allora da Roma, e in servizio del Biondo cui abbisognavano quelle notizie per la sua grande opera, PItalia illustrata. Di vero il Giscardi (Origine e fasti della nobiltà ligustica, ms della Civico-Beriana, voi. Ili, p. 1105) segna sotto Panno 1448 una ambasceria delPImperiale al papa. Per contro la lettera ad Andreolo mette fuori di dubbio che la Descriptio gii era finita nel 1442, non solo, ma nota a molti. Non potendo, tanto meno, dubitare della veriti delle due date, è forza dunque il supporre che fin da quest’ anno il Bracelli avesse terminato il suo opuscolo, salvo a ritornarci sopra, raffazzonandolo per adattarlo alle esigenze dell'amico, sei anni dopo. - 173 — ciò che nei primi del secolo seguente con larghezza anche maggiore rifece il Giustiniani, ossia un’ accurata d esenzione del paese compreso, come voleva Plinio, tra il Varo e la Magra, unendovi pochi cenni intorno alle cose più memorabili. 11 Biondo, cui fece parte dell’ opuscolo, certo glie ne fu grato, perchè inseri nella sua opera la descrizione del Bracelli quasi con le stesse parole, solo colorendo in piccola parte il disegno del nostro mediante notizie storiche desunte da Livio e citazioni di Virgilio, di Lucano e di altri poeti latini. Riassumendo, al Bracelli più che di vera e grande operosità propria va data lode qui di un’ intuizione chiara ed acuta. Egli intuì tutto il valore di quell’investigazione illuminata dall’esame critico dei fatti discussi, vagliati attentamente. Dal canto suo, pur concedendo al gusto degli umanisti per la storia considerata prima di tutto come opera d’arte, non vi rimase estraneo, ed i suoi libri sopra la guerra di Spagna lo attestano, come vedremo, e lo attestano queste sue lettere. Siamo agli inizi, ben inteso, e si tratta unicamente di rettificare o impugnare fatti particolari, istorici o geografici. Le idee grandi e giuste, le massime politiche originali che costituiscono un sistema e preludono ad una vera scienza storica e politica, faranno la loro apparizione mezzo secolo più tardi, con il Machiavelli. Cosi nella lettera citata a proposito dell’ Instauratio Urbis, corregge un errore dell’ amico, che attribuiva il promontorio Miseno alla Lucania (i); e confuta l’opinione che l’apostolo Pietro sia perito tra’ supplizi indetti da Nerone contro i cri- (i) Ms. Br. c. 89. — 174 - stiani designati come autori dell’incendio di Roma, se-condo che narra Tacito negli Annales (i). E ben vero che cita aneli’egli quale argomento favorevole alla sua tesi le supposte epistole di Seneca a Paolo — e allora chi non avevaie per autentiche? — ma si vale pur anche di un opportuno riscontro tra la durata dell’ incendio che fu nella maggior violenza di sei giorni, come esso Tacito afferma, e il di nel quale ogni anno la chiesa suole commemorare l’apostolo, per concludere che tra le due notizie di tempo avvi troppo forte disaccordo, che la detta opinione per conseguenza ó insostenibile (2). Così appurava date e fatti, scrivendo ad altri amici. A Cipriano De Mari, che in una fortezza presso Ambiodura (forse Ambiani, da cui l’odierno nome di Arniens?') credeva di riconoscere un’ antica costruzione di Cesare, cosi risponde: « Che lo sia davvero, come ti piace credere, stento assai a persuadermene : non ricordo di aevr veduto in nessun luogo notata la costruzione di cotesta fortezza. Tuttavia se tu ti fondi sopra la testimonianza di qualche scrittore, gli si deve aver fede, se sopra quella del volgo, muta, prego, di parere; non fu la Gallia privilegiata della felicità di cosi lunga pace, né tanto rare furono in lei le calamità prodotte dalla guerra, che abbia potuto durare fino ad oggi un opera compiuta mille e cinquecento anni sono ». E delinea a grandi tratti la storia del paese, movendo da epoche più vicine e più note. « Dapprima barbari tiranni, quindi duci romani anche più feroci che ora lo ricuperavano, ora lo (1) Libro XV, 38, 44. (2) Vcd. per le lettere del Bracelli al Biondo, il Documento XVI in fine. — 175 — perdevano,, con indicibile strazio de’ miseri popoli, e poi svcvi, vandali, goti, alani, borgognoni che misero quella regione a ferro ed a fuoco; non diciamo nulla delle gueire a memoria nostra; ma durerai fatica a credei e, dopo questo, che possa pure apparire traccia di una costtuzione eseguita da’ soldati di Cesare, non che una fortezza allora costruita si veda incolume tuttora » (i). E dallo stesso De Mari vuol sapere se l’affluente che sbocca nel Rodano presso Lione sia l’Arari e che nome gli diano i francesi (2); dal Poggio desidera notizie sopra un orrendo saccheggio che Genova, secondo una tndizione, avrebbe sopportato da’ saraceni nel 935 del- 1 èra volgare e di cui mancavano sicure prove. « Però che, osservava il Bracelli all’illustre amic'o, sebbene quella calamità non sia cosi antica da essere affatto dimenticata, ché anzi ne rimangono presso noi alcune memorie, tuttavia esse ci furono tramandate dagli scrittori. con tanta, non so dire se ignoranza o negligenza, che essa è più simile ai sogni ed alle favole che al vero » (3). È lo stesso fatto che leggesi nel Giustiniani portato sotto l’anno 936, e lo storico, pare, si riferisce al ricordo fattone da Flavio Biondo ; ma cade in un maggiore abbaglio, quando nello stesso 936 dà come regnante in Italia Berengario II che venne in ritardo nientemeno di quindici anni (4). (1) Ms. Br. c. 121, Genova, 6 giugno 1453. (2) Lett. citata. (3) Genova, 8 aprile 1449. Vedi ms. cit. a pag. 12 di questa memoria. (4) Lo Shepherd (Vita di Poggio Bracciolini, Firenze, Ricci, 1825) che pure si valse di questa lettera del Poggio, accumula in poche linee parecchie inesattezze. Accetta la sbagliata determinazione di tempo dell’ umanista fiorentino , secondo il quale la strage accadde nel decimo anno dell’ impero di — 176 — 11 Bracciolini compiacque con prontezza alla preghiera dell’amico. Due erano le fonti della notizia, la cronaca compilata da Sigiberto Gemblacense , nell’ unico manoscritto che gli venne trovato rovistando nei monasteri inglesi, e la storia di un frate Colonna che sopra diversi scrittori aveva condotta la sua compilazione fino al pontificato di Bonifacio Vili. Questi asseriva ciò che dall’altro era narrato diffusamente, ossia che nel 935 una fonte in Genova gettò sangue e, nell’ anno istesso, sopravvenne una flotta di saraceni che prese la città con grande strage de’ cittadini, solo fatta eccezione delle donne e dei fanciulli che furono condotti schiavi. Il Bracelli notava, per suo conforto, la rapidità con cui seppe la sua patria sanare cosi gravi ferite. Difatti Genova che nel 935 era stata distrutta, cento sessanta quattr anni dopo già era potente in mare e soccorreva di numeroso naviglio 1’ esercito cristiano alla prima crociata. Quest’amore della ricerca e della speculazione storica gli venne compagno fino all’ ultimo. Già vecchio cadente, nel 1460, trovava tempo e lena per intrattenersi col-l’Ivani sul prediletto argomento, questa volta a proposito della Ciropedia di Senofonte che egli, consentendo coll’amico, riconosceva essere anziché un istoria, un romanzo storico, in cui l’autore rappresentava un suo tipo ideale di principe guerriero. E ribatteva sopra alcuna Enrico I, il che la porterebbe all’anno 929; confonde Giovanni XI con il decimo che cessò di portare la tiara nel 928 e, finalmente, pone per il fatto data del 939 ebe non è giustificata da nulla c contraddice esplicitamente al parole del Bracciolini. Vedi per le due lettere del Bracelli e la risposta del Poggio, il Docutiiento XVII in fine. - 177 — delle condizioni necessarie ad una storia ben fatta, condizioni che, a suo parere, l’ateniese in quell’opera non aveva osservate. Il Bracelli non vi riconosceva la diligenza e perizia militare solita allo scrittore delVAnabasi e delle Elleniche. — Illud facile animadvertet quisquis Zeno phontem attentius legerit, quedam ab eo bella narran bellorumque victorias que quibus locis, quibus hostium ducibus , quo perduelli sint parte nusquam invenias, quae, lege historiae, nequaquam silentio praeteriri licuit, quod profecto homini doctissimo non contigisset, si animus ei fuisset historiam complecti (i). È vero per altro che se anche ci sono, non bastano siffatte doti a formare una bella e buona istoria. Queste sono le lettere più notevoli di lui, che mi venne fatto di rinvenire: altre forse potrebbero trovarsi rovistando nelle raccolte manoscritte, se pure non sono copie di quelle già conosciute, o inedite o a stampa (2). (1) Ms. Br. c. 36, Genova, 29 agosto 1460. (2) Oltre la miscellanea della Bibl. Civica in Genova indicata coll abbreviazione Ms. Br., il ms. Pallavicino dell’Arch. Municipale e le lettere d ufficio esistenti nell’Archivio di Stato, mi valsi per la compilazione di questa monografia delle seguenti lettere a stampa: Di un’ appendice di trenta lettere che trovasi nell’ edizione più volte citata di tutte le opere del Bracelli, fatta in Parigi 1’ anno 1520, pe torchi dell Ascensi. Queste lettere vanno dal foglio 52 al 70, ove si legge: Finis XXX elegantiarum epistolarum ab excellentissimo viro lacobo Bracelleo genuensium secretorio aut scriptarum aut dictatarum. Altre cinque lettere, e non due come afferma il Mazzucchelli sulla fede del Giustiniani, tutte dirette ad Andreolo, sono impresse in fine del libro d Enea Platonico, De immortalitate animorum, nella ristampa fatta in Genova da Francesco Maria Farroni l’anno 1645, in 4.0; ed una è stata pubblicata dal Cardinal Quirini, a carte 193 delle Epistolae di Fr. Barbaro. La lunghissima lettera inserita dal Giustiniani a pag. 207 de suoi Annali, in risposta ad una del re Alfonso di Napoli, già venne citata. Taccio delle riproduzioni parziali da alcuni fatte, come p. e. dall Argelati Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIII. 12 — 178 — Dal lato archeologico avrebbero forse potuto tornare importanti quelle che il Pizzicolli diceva essergli state scritte dal nostro secretario, e eh’ egli giudicava elegantissime (1); ma, e nei due codici esaminati, e nelle altre pubblicazioni che in maggiore 0 minor numero inserirono lettere del genovese, non mi riuscì trovarne una sola diretta al viaggiatore anconitano. Tuttavia quello che abbiamo veduto finora, basta, io penso, per assegnare un cospicuo luogo al Bracelli nel movimento umanistico che si verificò nella sua patria durante il quattrocento. Egli fu non ultimo rappresentante di quel sapere che venne man mano acquistando sempre maggiore importanza, perché seppe entrare nella corrente d’idee del suo secolo e farsi pratico, nell’ atto che affermava la più alta ragione raggiunta dal genere umano. Ed ognuno ammirerà, credo, la coerenza strettissima che corre in lui tra l’uomo ed il letterato. L’uno completava l’altro, sicché il lettore s’incontra con piacevole meraviglia in un umanista, ossia in uno di coloro che (Bibl Script. Med., t. I, par. II, col. 709), che ristampò dall’edizione di Parigi una lettera diretta dal Bracelli a Leonardo Grifo. Il Soprani (op. cit.) fa menzione di un Liber epistolarum del nostro Bracelli, ma forse è l’appendice stessa che trovasi nell’edizione di Parigi; l’Oldoini (Athenaeum Ligusticum) cita pari-menti cinque lettere edite in Roma nel 157}, anche queste, pare, non altro se non le Epistole scritte dal secretario genovese d’ordine pubblico ed inserite a c.66 nell’edizione della sua storia fatta in Roma, appunto nel 1573, colle parole: Jacobi Bracellei Epistolae quinque de magnis rebus aliorum nomine conscriptae. Infine il Mazzucchelli (Scrittori d’Italia, t. II) menziona un codice della Biblioteca di S. Marco in Firenze, che conteneva parecchie lettere del nostro, e l’opuscolo Descriptio orae ligusticae. Non ne ho notizia: probabilmente andò smarrito, se pure il Mazzucchelli stesso, citando di seconda mano, non ripetè l'errore 0 1’ equivoco commesso da altri. (1) Vedi il passo dell’ Itinerarium, a pag. 27. — 179 — meritarono, non a torto, il nome di gladiatori della penna, la cui vita e la cui operosità vanno del pari scevre da ogni macchia e da ogni rimprovero. Gli é che la misura e la forza che si palesano nel suo carattere, il nostro Iacopo le trasfondeva senza ostentazione, naturalmente, nei suoi scritti, alcuni de’ quali li diresti non indegni della gravità e dell’ eloquenza romana. Solo una qualità ti avviene, leggendolo, di desiderare in lui, ossia un maggiore ardimento, una partecipazione più franca alle questioni che agitarono nel suo tempo la società politica e la repubblica letteraria. Fra tanta eleganza e facondia latina, gli mancava la genialità artistica posseduta in cosi alto grado dal Bracciolini; fra tanta dignità misura e imperturbato dominio di sé medesimo, gli faceva difetto il coraggio del Salutati e del Valla. CAPITOLO VI. Dei cinque libri sulla Guerra di Spagna E DI ALTRE STORIE ERUDITE. La sua perizia in quell’ arte istorica che con studio ed amore coltivò, e che venne raffigurando nelle lettere vedute, il Bracelli volle dimostrarla in questi libri sulla guerra di Spagna, 1’ opera a cui specialmente si raccomanda il suo nome. Ne formano argomento la lotta che Genova ebbe per molti anni con Alfonso re d’Aragona, divenuto in seguito fortunato possessore del reame di Napoli. Il Bracelli lo considera, e non ingiustamente dal suo punto di vista, come uno spagnuolo conquista- — i8o — tore di una provincia d’Italia e nemico acerbo della sua repubblica; quindi il titolo di Guerra di Spagna. Premesse alcune brevissime notizie sull’Aragona c sui re che la tennero, lo storico narra la guerra dei genovesi con Alfonso per il contrastato possesso di Bonifacio nella Corsica, e quindi quella lunga odissea napoletana che ebbe come episodi principali la battaglia di Ponza e l’assedio di Napoli. Il Bracelli scelse dunque un soggetto di storia contemporanea, né pare si curasse degli ostacoli che impaurirono il Guarino. Anche 1’ umanista veronese era tentato di scrivere la storia de’ suoi tempi ; e tuttavia osservava: se essa voglia essere luce di verità, conviene che non conceda nulla, o al favore o alla passione, che non blandisca e non offenda, ed infine deve aprire le cagioni della guerra, mettere a nudo i costumi, la tede, la probità degli interessati ed i vizi contrari. Ma queste qualità dello storico un tempo odiose, ora gli sono apposte a delitto capitale (i). Il buon vecchio Guarino metteva il dito sulla piaga. Anche il Machiavelli sospettò che il Bruni ed il Poggio fossero stati impediti di scrivere la storia civile di Firenze dal timore di « offendere i discesi di coloro, i quali per quelle narrazioni si avessero da calunniare » (2). Considerazione cotesta che potrebbe spiegare molte delle deficienze che riscontransi nella storiografia del quattro-cento, e principalissima la seguente: che vera storia civile allora non ci fu. Ma restiamo per ora alle idee del Bracelli. La definizione ciceroniana di questa disciplina (1) Cfr. lettera del Guarino a Battista Bevilacqua, in Carlo Rosmini ; Vita e disciplina di Guarino Veronese, Brescia, 1805. (2) Proemio alle Storie Fiorentine. — 181 — era ben fìssa nella mente degli umanisti, e da essa procede anche il nostro storico : Historia est testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis (i). Citazione, sebbene scritta in su tutti boccali di Montelupo, qui forse non oziosa, perchè ad essa dovremo riferirci più d’una volta in questo capitolo. Del suo tenore era persuasissimo anche il Bracelli, che nella prefazione alla sua opera scrive: « La storia apprende non tanto l’ordine de’ fatti e de’ tempi, ma quel che più vale, per quali arti e consigli siano cresciuti gli imperi, per quali vizi all’opposto rovinassero,... insomma non v’ ha nulla che sia per noi a desiderarsi 0 a schivarsi di cui tu non rinvenga sicuri esempi presso gli storici. Ma fra quante utili lezioni essa può darci, le più desiderabili ci sono somministrate dalla nostra nazione. L’esempio dei nostri desta più viva e più forte l’emulazione ». Anche il Fazio riputava dovere dello scrittore rinunciare a’ greci e romani da tanti preferiti, rivendicando invece dall’oblio le memorie del suo secolo, se vogliasi tar opera fruttuosa a contemporanei ed a concittadini in ispecie. Ben inteso era fermo che ufficio della storia fosse anticipare e prevenire le dure lezioni dell’ esperienza. Parlando del libro del Bracelli, io lo raffronterò, quando mi venga in acconcio, con i Commentari del Fazio, sia perchè l’argomento è in molta parte identico, sia perché 1 loro autori, tra gli storiografi umanisti della repubblica genovese, occupano meritamente il luogo più onorevole. Il Muratori, nella prefazione agli Annali del Senarega (i) Cicerone, De oratore, lib. II. - 182 — da lui inseriti nella sua grande raccolta, professava ammirazione per la egregia schiera degli storici sincroni genovesi che emularono degnamente nel dire i fatti della loro repubblica (i). In un lavoro dedicato all’ umanesimo in Genova non sarà dunque fuor di proposito, penso, determinare con qualche ampiezza il carattere che i due maggiori umanisti genovesi diedero alle loro storie. Troveremo ancor qui le caratteristiche universali : interesse puramente letterario ed astratto, diletto nello scrittore e nell’ opera di una viva coscienza de’ tempi e delle loro necessità politiche, sociali o religiose; amore dell’ individualismo, tendenza moralizzatrice. Sarà dunque discorso inutile il nostro, un’ uggiosa ripetizione di cose dette e ridette a sazietà? Mi lusingo che ciò non sia: alcuni caratteri generali mal possono convenire sempie ed in tutto ad ogni singola storia: sarebbe ingiustizia confondere in un mazzo buoni e cattivi, esageratori di un vizio e studiosi di qualche virtù non ispregievole ; né storia letteraria completa e sicura potrà tentarsi finché tutti i monumenti del nostro passato non siano ben noti e giudicati. In attesa di Pigmalione che infonda la scintilla di vita nell’ inerte statua, non isdegniamo la modesta parte che può toccarci nell’oscura fatica dello statuario. Ma il nostro compito sarebbe assai facile a disimpegnarsi se ci attenessimo all* usanza di parecchi critici, e vecchi e recenti, alcuno de’ quali anche va per la maggiore. Li ho consultati per il Bracelli: in verità non ne francava il pregio. I più si fermano sulle qualità dello fi) Rtr. Ilal. Script., t. XXIV. — i83 — stile, ed ancor questa sarebbe utile ricerca, se dello stile e della lingua giudicassero storicamente, e non in modo così astratto. Ma che conto si ha a fare di giudizi che si restringono alle parole : bello, aureo, elegante, adorno? ovvero, se si muta solfa, è per ricorrere ad un termine di paragone. Il Giustiniani, per un esempio, dice la storia del Bracelli scritta al modo di quella di Cesare e cita il Beroaldo, un giudice credibile come sa ognuno: lo Spotorno contonde, e pur citando il Beroaldo stesso, paragona il Bracelli nello stile a Sallustio. Il Giovio c’incastra un bel periodo senza compromettersi (i), il Foglietta, il Soprani, lo Zeno ecc. si ripetono. Quanto al Fazio è fuori di contestazione, un felice imitatore di Cesare : lo dicono tutti e ha da esser vero, ma come si convenga la veloce evidenza di Cesare alle mortali lentezze e alle minuziosità stucchevoli dello storiografo d’Alfonso, nessuno dice. Così procede cotesta critica monca ; e ciascuno di essi esaltando fuor misura una specie di mignone, fanno tutti insieme stupire che tante siano le stelle nel firmamento letterario; se non che la provvida luce del sole avvisa che le importune lucciole sono vili bruchi e l’esperienza rende i lettori sensati diffidenti o increduli del vero. È risaputo che un fenomeno letterario per essere compreso nella sua interezza vuol essere studiato come fatto storico, come fatto psicologico, come tatto estetico. Sotto il primo di questi aspetti, la storiografia si venne (i) Scripsit enim Alpbonsi Regis res bello gestas, omnium scriptorum collatione, qui nuper antecesserint, longe gravissime, si eius seculi nondum perpolitam eloquentiam cum ea conferamus quae demum, inducta subtiliore antiquorum imitatione, candidior evaserit. Pauli Jovii Elogia. - i84 - adattando, lungo il secolo XV, alle condizioni già dette: un contenuto tutto eleganza e vuota esteriorità, un’ osservazione acuta dell’ individuo che sapeva emergere dalla folla, osservazione recata non solo negli atti della sua vita politica, ma negli indizi più reconditi del suo carattere morale; l’esaltazione della torza. Tale il fatto storico, ma la spiegazione psicologica qual era? Non deve essa cercarsi nell’opinione pubblica di quel tempo e nell’ educazione dell’ umanista ? Gli italiani del rinascimento ebbero agio di conoscere il predominio che le individualità potenti esercitano sopra i loro contemporanei, sicché finirono per ravvisare in esse quasi un’ ineluttabile necessità che non è mossa mai da circostanze esteriori, ma che al contrario imprime il suo impulso alle circostanze stesse e costringe gli avvenimenti ad un corso inaspettato. Cosi fatto é pur anche l’amore del volgo, della moltitudine che adora sempre il buon successo. L’uomo che riassume in sé una fase dello spirito eterno dell’ umanità, che costringe nel suo il pensiero di tutti e lascia sulla terra un’orma profonda di sé, sia coll’altezza dell’ingegno, sia col valore del braccio, o coll’uno e l’altro insieme, non dura gran fatica a persuadere le turbe fanatiche esser egli un prodigio e gli avvenimenti un semplice balocco della sua volontà. Per tal modo il prodotto di un’ epoca diventa ii fattore e l’arbitro dell’epoca stessa. Questa puerile illusione si vede in ogni tempo. Ma nello stato della società politica durante il quattrocento era inevitabile che essa possedesse del pari il volgo ed i letterati. L’azione della provvidenza, che il medio evo aveva veduta in ogni fatto della vita, era cessata per i più; la - i85 — legge naturale che governa il fenomeno politico e storico era ancora di là da venire; non sussisteva se non il motivo personale, ed un uomo, o più uomini, che incarnavano le ragioni del loro tempo. Specchio di quelle idee, anche la storia riducevasi a subordinare tutto alle cause individuali, a tessere il panegirico del tiranno, il virtuoso per eccellenza del rinascimento, i cui tratti caratteristici, di ferocia o di astuzia diplomatica, si possono riconoscere in tutti gli attori di quel complicato dramma, da Cosimo de’ Medici e Francesco Sforza a Cesare Borgia, e che non obbediva a nessuna necessità dell’ ambiente sociale, anzi, come la sacerdotessa d’Apollo violentata da Alessandro, quelle obbedivano a lui. Inoltre, molta parte in questo modo d’intendere e di scrivere la storia aveva l’educazione speciale all’ umanista. Il maggior numero di essi erano notai cancellieri, secretar! di una repubblica o di un principe. Nessun posto più di quello invidiato, e tuttavia nessuno dove più pungenti fossero le spine. Come cancelliere, per riuscire, bisognava rinunciare ai gusti ed alle abitudini proprie, trasformarsi a modo e grado del padrone; come storico, l’uomo consapevole di tanti intrighi, di tanti tenebrosi raggiri, doveva procedere colla massima cautela, quando metteva mano a scrivere. 11 vecchio Guarino aveva ragione : certe verità suonavano come tradimento e delitto capitale. Si potrebbe forse citare, quale prova del contrario, il Machiavelli, che privato inerme scrisse pur dei Medici onestamente il vero; ma l’esempio del Machiavelli non tiene. Prima di tutto, la forza dell’ opinione a’ suoi giorni aveva preso tale sviluppo, che certe verità erano universalmente sentite e proclamate ; secondo, — 186 — Firenze, la città degli esperimenti politici e de’ modi civili di governo, era specialmente adatta a produrre non uno storico soltanto, ma una intera pleiade di storiografi indipendenti. Ciò non si verificava facilmente altrove, e, nel secolo XV, Genova in particolare aveva mala voce per la violenza e ferocia con cui si combattevano tra loro le fazioni; e nel *51, mentre appunto il Bracelli attendeva alla storia della Guerra di Spagna, era occorso il caso di Galeotto De Mari, eloquente nel suo processo sommario e sbrigativo. Cito dal Giustiniani : « 11 doge Pietro Fregoso, il quale era assai molestato dia principi italiani e dai fuorusciti genovesi, e ebbe sospetto di Galeotto De Mari,... lo fece impiccare sulla piazza di S. Francesco, togato, con le pianelle in piedi, e con una polizza ai piedi che diceva : Hic homo locutus est ea quae non licent ». Veniva in secondo luogo il preconcetto per gli antichi modelli. Quegli immortali esemplari di Livio, Sallustio, Cesare, scambio di rinvigorire la mente dello scrittore, di aggiungergli ala, lo impacciavano, come avviene sempre a tutti coloro che, 0 parlando o scrivendo, vogliono parere diversi da quel che sono. La legge che essi s’imponevano di non raccontare se non fatti capaci di decorosa esposizione, di magnificenza oratoria , li portava inconsapevoli ad una rappresentazione iperbolica, ad avvolgere nell’ampio panneggiamento degli eroi romani que’ signori e que’ capitani di ventura che erano tutt’altro, li portava necessariamente a falsare i criteri morali, perché e fatti e personaggi già erano falsati. Cosi sbagliata strada, la rettorica imperversava. E a che si riduceva difatti la preparazione storica di quegli — 187 — uomini se non alla rettorica? La quale poi mi par di sentire più artificiosa, più eccessiva in coloro che facevano specialmente professione di letterato: per rimanere nel caso nostro, mi par maggiore nel Fazio che nel Bracelli. Direi insomma, che nello storiografo di Alfonso molti fiori posticci provengano dalla scuola del Guarino, del quale fu discepolo, e dai modelli oratori preferiti dal maestro; che nel Bracelli per contro il senso della misura e la severa eleganza siano come un’ eco de’ grandi giureconsulti romani da lui studiati in giovinezza. Osservazione sulla quale per altro non intendo insistere molto, però che so benissimo che i vantaggi derivanti dallo studio della giurisprudenza romana sotto il rispetto del gusto estetico erano poi distrutti dagli innumerevoli barbari giuristi e glossatori, i goti frustati dal Valla a Pavia. La corrispondenza epistolare del Fazio con Francesco Barbaro dà una chiara idea di questo modo rettorico di considerare la storia presso i più: poco importava che essa fosse veridica, purché fosse bella, e la modestia non impediva che si chiamassero al paragone gli ammirati greci. « Comprendo benissimo l’opera mia non esser cosi fatta che si possa dire di lei ciò che Cicerone della famosa Minerva di Fidia: potersi essa esporre nell’ arce ». Così il Fazio, e il Barbaro a rispondergli: « Te fortunato più di Apelle, Lisippo e Pirgotele, poiché non l’effigie del corpo d’Alessandro, come que’ valentuomini, ma l’effigie dell’animo d’Alfonso e i consigli e le virtù di lui fosti stimato degno di consecrare a memoria sempiterna ». Si affrettasse dunque, tale il consiglio, a narrare le azioni c i costumi di quell’illustre principe, perché - iSS - dalla varietà dei casi, dalle vicissitudini della fortuna cotest’ insegnamento scaturisse a’ lettori : essere le cose umane soggette a mille traversie . . . Apelle, finito il capo di Venere con arte meravigliosa, lasciò incompiuto il restante del corpo: s’affrettasse egli ad impartire altrui ed a procacciare a sé l’immortalità del nome ». Con siffatti criteri Bartolomeo Fazio incastrava non meno di dieci concioni tra dirette e indirette soltanto nel primo libro de’ Commentari, e la massima parte dell’opera taceva consistere nel racconto di espugnazioni e battaglie, dove, s'intende, campeggia eternamente una figura sola, quella di Alfonso. Lo scrittore vorrebbe darle il rilievo di una statua colossale, e non riesce se non a rimpicciolirla e guastarla: pur tuttavia riscuoteva applausi e ricompense da’ contemporanei. Narra Vespasiano che alla lettura di un capitolo dove si descriveva con vivi colori la presa fatta dal re di un castello, Alfonso rapito d’entusiasmo donò al suo istoriografo in un tratto mille e cinquecento fiorini d’oro. E facciamo grazia al lettore de’ soliti aneddoti narrati da tutti per dimostrare l’ammirazione accordata allora all’antichità, non esclusa la letteratura storica. Ciò non avviene mai se l’opera dello scrittore non trovi una larga corrispondenza nel pensiero del pubblico e un consenso, direi quasi, universale. Si plutarcheggiava nella storia, perché facevasi altrettanto nella vita ; si glorificava da quella la forza, perché la politica egoistica del tempo non conosceva più altra legge, e l’insegnamento che ricavavasi era pur sempre il seguente: tutto essere nelle mani della fortuna, che leva alle stelle o travolge a suo capriccio nel tango: però la gloria che si acquista con forti fatti vince il potere — 189 — della fortuna. L’errore stava in ciò, che chiamavansi latti gloriosi le miserabili gesta di alcune schiere mercenarie e di alcuni ladroni fortunati. Forza e fatalità: ecco la doppia nemesi che governa la vita, lo spirito e la storia del rinascimento. II. Così nel Fazio come nel Bracelli — es’ intende che circoscriviamo a questi due un carattere comune più o meno a tutti — si osserva benissimo l’incedere e il progredire di cotesta forza egoistica e fatale, che si espande simile ad un’ enorme e mostruosa fioritura sul giardino d’Italia. Riassumo dai Commentari del primo. Dopo tanto travagliarsi l’Aragonese abbandona ad un tratto, l’anno 1423, in aspetto di fuggiasco, il regno di Napoli, senza che la sua partenza sia giustificata da veruna torte necessità. L’edificio da lui eretto con tanti stenti in breve cade. Per via assalta Marsiglia, più ladrone di mare che re, e la saccheggia orrendamente: poi non sapendo che far di meglio va a combattere i mori d’Africa, non ne ricava nessun profitto e ritorna. Ancor questa una vera avventura di condottiero vago di pericoli, coperta dalla maschera dell’ interesse religioso. Dopo di ciò vorrebbe tentar di nuovo l’impresa di Napoli, ma l’animosità di Giovanna contro di lui lo persuade a concedere al tempo, e ritornarsene in Ispagna. Conseguente alla risoluzione presa, fornisce di vettovaglie la sua flotta di Sicilia, afferra Trapani, per di là sciogliere le vele alla volta della patria. Ma che? non lo permette — 190 — il mare, e, sul punto di levar l’ancora, conviene star tre mesi immobili in attesa di un vento favorevole « come se un arcano fato prescrivesse non essere lecito partirsi d’Italia al destinato conquistatore del regno napolitano ». Difatti, quasi ad un tempo, muoiono Ludovico d’Angiò e Giovanna II; Giovanni Caracciolo, il favorito della regina, l’aborrito nemico dell’Aragonese, era stato assassinato alcun tempo prima. Pareva fosse pensiero degli dei togliere di mezzo chiunque potesse far contrasto ad Alfonso. Ma imparino gli uomini a non rallegrarsi o dolersi sconsideratamente, poiché l’esito del cose umane, é nascosto alle nostre povere menti. Un sasso scagliato dalle navi regie aveva guasta in modo irreparabile la trireme genovese, che doveva trarre in salvo da Gaeta Francesco Spinola ed Ottolino Zoppo insieme col presidio posto alla difesa dalla città. Preclusa quindi qualunque via di scampo: bisognava aspettare con fermo viso la potente flotta che guidava dalla Sicilia Pietro d’Aragona e difendersi disperatamente. E la difesa, in effetto, si prolunga tanto che sopraggiunge l’Assereto con l’armata genovese, si appicca la battaglia di Ponza, la flotta del re é rotta e presa, cadono prigionieri Alfonso stesso, due de' suoi fratelli, il re di Navarra e i principali baroni di Spagna e delle due Sicilie. Ecco dunque tutto perduto; e lo storico si sofferma a lungo sul fatto memorabile. Ma no, non é perduto nulla. — Non 1’ abbiam detto che questa storia é una fantasmagoria prodotta dal caso, signore dalle mille sorprese? Il cristiano mette in quiete la sua coscienza tacendo servire il caso o la fatalità a Dio, e la lezione di morale che ne scaturisce resta pur sempre la stessa. « I miseri — I9I — mortali, sciama l’autore, si crucciano delle avversità, né sanno che a sé solo Iddio riservò 1’ esito delle cose le quali vanno accolte in buona parte, comunque siano »(i). Per essere logici gli uomini avrebbero dovuto adagiarsi in un comodo quietismo, lasciando che il caso se ne incaricasse; ma com’era possibile ciò se tutto suonava ammirazione del grande, dello sbalorditoio, adorazione del buon successo, se tutti si prosternavano dinanzi alla fama? Frattanto, quali furono i motivi che indussero Filippo Maria Visconti a guerreggiare il re Alfonso? quali le potenti ragioni che gli fecero mandar libero l’augusto prigioniero, che egli teneva nelle mani per un caso insperato ; né basta, che lo mossero a spianargli egli stesso la via del regno? Lo storico non lo dice. — « Filippo era impaziente di quiete ed avido d’impero ; in pace guerra, in guerra cercava pace » (2) — si era preso di simpatia per Alfonso; ce n’era di troppo per ispiegare una condotta inesplicabile in un uomo di stato. L’autore, nella sua assoluta indifferenza politica, non sembra sospettare mai che anche un’ ombra di dubbio possa cadere nell’animo di chi legge. Vi par di assistere all’ ultimo atto di una commedia del Goldoni, con la sua brava didascalia alla scena ultima del quint’atto: tutti contenti, e Deus ex machina è la forza che conquideva tutti, umili e grandi, che serena e fatale guidava la società italiana alla gloria, alla ricchezza, alla potenza, dicevano i saggi del momento ; all’ ignoto, forse pensarono (1) Fazio; op. cit., lib. IV. (2) Fazio; ivi. — 192 — i saggi di mezzo secolo dopo. Nessuno saprà mai lo strappo doloroso che si nascose sotto l’arguto sorriso degli spiriti magni del cinquecento, consapevoli in cuor loro che tutto precipitava, né proposito umano poteva farvi riparo. Teniamo pur conto al Fazio che gli toccò trattare da principio alla fine di piccoli fatti dove la misura é difficile, il valore dell’autore non ha campo di dimostrarsi ; il lettore stenterà però a perdonargli la freddezza che intirizzisce continua lungo quelle eterne pagine, la noia che piomba sul cuore al leggere la descrizione di tante battaglie ed assedi che solo differiscono tra loro per il nome. Dubito se anche uno scrittore militare potrebbe trovare qui il fatto suo. Nel Bracelli eguale é l’erudizione, eguale in fondo il concetto ch’egli porta della letteratura storica; ma l’apparato rettorico é più sobrio, il movimento della narrazione più passionato, la prosa più mossa, più colorita. Ed inoltre lo studio di penetrare per entro le cause dei fatti lo si sente qua e là, come non mancano le prove di quell’indagine critica, onde gli accenni furono veduti nelle lettere al suo dotto amico Flavio Biondo. Per un esempio, le ragioni che, secondo il Bracelli, indussero Filippo a mandar libero il re di Napoli prigioniero sono valide e persuadono, non si tratta più di un puro capriccio personale. Era il timore de’ francesi che messi nel reame avrebbero pres sato da due parti opposte il Milanese, con presente pericolo che infine se l’ingoiassero; era la coscienza dell’errore commesso fin allora, seguendo gl impL|lsl dell’ odio e dell’amore, anziché la seria politica di Gian Galeazzo padre suo, il quale non faceva grande stima — i93 — degli altri principi, ma sempre aveva temuto il nome e le forze dei francesi (i). Ludovico il Moro, se n’avesse avuto notizia settantanni dopo, le avrebbe dette parole profetiche. Così, per citare ancora, il Fazio non ha un passo che faccia riscontro con quello in cui il cancelliere genovese spiega l’etimologia del nome Catalani, o dà notizia sull’origine delle fazioni guelfa e ghibellina. Sono due pagine come in quel tempo era solito di scriverne, tra la grande turba degli eruditi che sfaccettavano frasi, soltanto un altro, voglio intendere il Flavio. Era documentata quella storia? Sì, come poteva esserlo la storia contemporanea e tenendo conto dell’idea che essi se ne formavano. Avrebbero dovuto ricordare e giovarsi di quanto era risaputo per riferto d’amici, visto, giudicato; giovarsi dei mille discorsi che correvano per la folla, vagliando il buono dal cattivo; giovarsi dei giudizi che avevano udito pronunziare dagli intendenti, non solo, ma poiché lo storico presso il suo governo era a secretis, consultare le relazioni degli agenti, valersi dei documenti che solo i governi allora erano in grado di procurare. Ma per ciò sarebbe occorso uno studio di verità così ardente da tramutarsi, sto per dire, in una specie di apostolato. Ahimè, già lo sappiamo, le verità che infamano, spiacenti in ogni tempo, erano allora pericolose. Quindi tratto tratto una premura di nascondere, di dissimulare, di attenuare, che toglie tede anche alle pagine sincere; quindi la tendenza, tra due versioni discordi o contradditorie, ad accogliere quella che lusingasse (i) Libro III. Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIII. — r94 — di più l’orgoglio o la vanità de’ propri padroni. Di Filippo Visconti, tenebrosa e strana figura di tiranno, il Fazio, che pure doveva conoscerlo, fa il seguente ritratto: Erat in primis ingenio peracri ac callido, in largiendo profusus, in parcendo facilis, in colloquio mitis, cultus corporis cl munditiarum, omnisque lenocinii negli gens, venandi cupidus ; caeterum quietis impatiens, ac imperitandi avidus, in pace bellum, in bello pacem quaerebat; simulandi ac dissimulandi egregius artifex ; in milites quam in cives indulgentior: copiarum duces maxime extollebat. Ad haec sive fortitudinis amore, sive periculi metu, se ab omni omnium consuetudine sequestraverat, praeterquam quorundam paucorum, quos ille sibi solitudinis socios delegerat. Legatos ad se. missos per suos plurimum audiebat; quin et Si-gismundum imperatorem romanum, Mediolanum aliquando profectum, ut inde Romam peteret, videre non sustinuit: et tamen in tanta solitudine vitam agens omnem Italiam arnus territabat, concutiebatque ut, non inscite, quidam dixerit: Philippus sedendo vincit. Questa non é menzogna, ma non é neppure intera la verità. È il vero posto sotto la luce più favorevole che venne fatto allo scrittore di ottenere, e lo stile con 1 antitesi frequente, con la frase vibrata e colorita, maschera, anziché palesare il pensiero. Dall impresa di Toscana nel 1448, e più precisamente dall assedio di Piombino, il re si levava in aspetto di \into « quasi che rotto da campo » dice il Machiavelli (1); ma che fare se l’eroe non pativa la vergogna di una sconfitta, e, in qualunque modo andasse, nome (1) Storie Fiorentine, VI, 16. — 195 — di vinto dallo storico non lo doveva avere ? Presto dunque un compiacente fascio d’ombre, che nasconda le parti deboli del quadro: il mare tempestoso non lasciava toccare il lido alle navi regie, le vettovaglie minacciavano di penuriare, prudenza consigliava di rimandar la guerra a miglior tempo: é tutto vero, ma delle infermità che serpeggiavano nel campo, frutto della mal aria, non si fiata; de’ due mila morti che ci furono, tanti ne conta il Machiavelli, meno ancora; e il re ritorna a Napoli, dove l’aspettavano feste tanto più strepitose quanto più meschini erano i risultati della spedizione. Dissimulare era vezzo per una falsa idea della dignità e gravità storica, era necessità talvolta imposta da’ riguardi. Dal famoso Sergianni, il favorito della regina, il Fazio non sa ricavare nessun partito, egli che pure ne’ ritratti era abile : certamente quell’ eroe di alcove reali gli parve indegno di lui. Il Bracelli, giunto colla narrazione al 1442, racconta della cospirazione di Giovanni Antonio Fieschi contro Tommaso Fregoso; ma non dice una parola delle indegne minacce che questi ebbe a patire nella torre dell’orologio, nè della crudele prigionia in Savona per ordine del doge Raffaele Adorno (1). Eppure il Bracelli scriveva gli ultimi tre libri dopo il '50, essendo doge della repubblica Ludovico Fregoso (2). Circa alle fonti, ecco l’opinione che parmi si debba formare chi ha letto quelle storie. In molti casi non v’ ha dubbio che lo scrittore ebbe ricorso alla tradizione, (1) Lib. V, pag. 295, ediz. cit, (2) Ce ne informa egli stesso nel libro 111, dove parlando di Francesco Sforza soggiunge : ed ora è duca de’ Milanesi. — 196 — fosse poi scritta od orale. Il Bracelli, per un esempio, riporta i discorsi che si facevano alla giornata prò e contro il re, dopo la battaglia di Ponza (1). Lo stesso si dica de’ documenti che facilmente aveva a mano il secretario di una repubblica, o di un principe: lettere di cancelleria, o di agenti e ministri presso corti straniere, istruzioni relative impartite ai medesimi, notizie che anche in via privata egli riceveva. Il racconto della presa di Napoli, e nel Bracelli e nel Fazio, porta l’impronta della relazione scritta sopra luogo, eco dei mille spettatori e partecipi al fatto. E le due narrazioni in sostanza collimano, sebbene il Fazio si piaccia per molti particolari farne un episodio romanzesco; il Bracelli, più lontano dagli avvenimenti, si restringe alle circostanze essenziali e parla sempre in modo dubitativo (2). Cosi pure il Fazio non lavorava, penso, di memoria nelle tante descrizioni di assedi e di espugnazioni che riferisce, ed anche meno allorché riporta in istile che vuol gareggiare con la maestà liviana i termini (1) Ecco il passo: Ferunt, cum in familiari sermone quidam regis consilium, ut fit, cum exitus rerum infelix est, damnarent, quod se, fratresque omnes, totque regias prope parts principes velut aleae obiecerit, respondisse regem: Rationem se, non impetum secutum esse, et quisquis opulentissimum regnum victoriae praemium recte expendat, haud profecto negaturum esse, magnitudinem periculi a praemii magnitudine longe superari. Quippe, expugnata genuensi classe, extemplo Caie tam, velut spe sublata, deditionem facturam Juisse, nec ullos post eam maritimos populos inventum iri, qui victori regi portas obstruere ausuri fuerint. Pentiores tamen sententiam eius improbasse crediti sunt, idque non tam quod infausto eventu pugnatum est, quam quod affirmabant, si paullo concitatius mare fuisset, maximam regiarum copiarum partem iacentes ac nauseantes, sine ullis armis capi potuisse, nec quicquam rebus eius matis favisse quam immotam illam , ac vere aestii'am pelagi malaciam. Bracelli, op. cit. lib. III. (2) Il Giustiniani scarta il Fazio e segue il Bracelli, talvolta traducendo alla lettera. — 197 — della pace stipulata tra i genovesi ed Alfonso (i). Uguale osservazione potrebbe farsi per l’autore del De bello hispanico. Non è dunque l’ignoranza dei documenti originali che sia più da rimproverarsi agli storici umanisti. Ma è anche vero eh’essi se ne servivano male, perché non riponevano in ciò il merito precipuo del loro lavoro: essi non intendevano punto fare il processo degli avvenimenti politici, non pronunciarne la sentenza; volevano scrivere belle istorie, emuli dell’eloquenza latina; e chi non li giudica sotto cotesto aspetto necessariamente deve fraintenderli. A noi, in fondo, piace meglio la rude semplicità dei primi cronisti: d’accordo. Oh la bella cronaca di Caffaro, di meraviglia erodotea, oh l’ingenuità del Varagine e il semplice racconto degli Stella ! Se confronto Giovanni Stella con i due dotti umanisti nella descrizione della battaglia di Ponza, per citare un solo passo ai tre comune, confesso che il primo mi commove per la sincerità dell’affetto, gli altri, di tanto a lui superiori nell’ arte di raccontare, mi lasciano freddo. Come si sente in quella pagina, dal vecchio cronista dettata poco dopo la memorabile vittoria, l’orgoglio della nazione genovese vincitrice di tanti superbi re e baroni, e il fremito d’ira che invase ciascuno, osservando l’indegna condotta di Filippo Visconti ! E come balzan dal vivo quelle figure! Il buon cronista, senza saperlo, é artista assai più potente de’ due illustri suoi concittadini che lavoravano e martellavano con tanto studio la loro prosa. Biagio Assereto è vero uomo del quattro-cento. Vedetelo in quel rozzo latino . . . Quietis impatiens (ij Fazio, op. cit., lib. Vili. — 198 animosus Capitaneus noster, vir quidem togatus et militaris, qui optime novit hortari suos, orationem unam ornatissimam, quam profecto eius simiUm diceres quam Catilina cum Antonio dimicaturus suis exorsus est, ad naves singulas maternd linguil conscriptam transmisit, quae magno fuit adiumento exercitui nostro. Nam etsi verba Principis in subditos virtutem non addant, neque ignavos strenuos efficiant, compertum tamen habemus ad exercitium gerendarum rerum et vivacitatem animorum illa pertinere. Filippo Visconti é il capitale nemico del nome genovese; già da un pezzo ei guardava con occhio torvo ed animo infesto i nuovi sudditi; non contento dell’umiliazione, anche l’insulto ora aggiungeva, costringendo il vincitore ad accogliere con applauso il re di Navarra rimandato Genova e scortarlo sotto baldacchino (sub pallio) sino al palazzo a lui destinato per residenza. Eppure se costoro avessero vinto, avrebbero incrudelito nei nostri, ché lo si sapeva ed era chiaro più del sole — quod luce clarius compertum est. — Queste cose sciamava il popolo: Heu inauditum facinus! perfidus inimicus et plusquam hostis, tanta cum nostrorum sanguinis effusione et impensis, iusto bello vincitur et detinetur et libertati donatur . . . Sed et celestis ingenii poeta ait: stat sua cuique dies. Questom isto di antica semplice buona fede nel cronista con l’ammirazione ingenua per la nuova eloquenza — quell’ orazione di Biagio, osserva egli, l’avreste paragonata al discorso che fece Calilina a’ suoi, poco prima della battaglia — quel come presentimento delle nuove fortune che aspettavano le lettere e l’arte storica, senza però pretenderci, perché il buon notaio apparteneva al passato che se n’andava, tutto ciò, dico, a noi piace, - 199 — come dopo il prodotto dell’innesto, il frutto che si spicca dall’ albero natio. Ma pensiamo invece alla viva impressione che dovette produrre sui contemporanei la storia erudita, essa che si distaccava tanto dai modi soliti, che nella sua compagine organica sapeva lumeggiare -con arte i fatti più rilevanti, collocare, nella penombra gli altri di minor conto, raggruppandoli per un determinato effetto, e introdurre tante concioni magnifiche di stile, tante vive descrizioni d’imprese militari, tanti ritratti di celebri personaggi. Il Burckhardt (i) osserva che « anche fuori del campo della poesia gli italiani hanno avuto, primi fra tutti gli europei, una decisa propensione e attitudine a descrivere esattamente l’uomo storico ne’ suoi tratti e nelle sue qualità intime ed esteriori », ed assegna cospicuo luogo tra i biografi del secolo XV al Fazio, che però non conosceva. La lode pare un po’ esagerata. Ma chi legga il libro di questo, De viris illustribus, e le Storie, non può non osservare la sua perizia nel disegnare i caratteri, sicché si direbbe che prenunzi non indegnamente i bei modelli nel genere del Machiavelli, Niccolò Valori, Guicciardini, Varchi ed altri. Tuttavia nelle biografie é molto sobrio ; per lo più sono schizzi anziché ritratti o vite, sebbene la brevità non tolga che talvolta si lasci andar la mano ad imbellire troppo la medaglia. 1 ra la pittura eh’ egli fa dell’ ultimo Visconti a tinte tutte rosee e quella di Pier Candido Decembrio di verità stupenda, ci corre un bel tratto. Meglio quei quadretti non scarsi (i) Op. cit. I, 203; 11, 73. — 200 — di efficacia si collocano nel contesto della sua storia (i). Il Bracelli nervoso, perspicuo con minori pretensioni, non eccelle nel ritratto; si potrebbe anzi dire che propriamente ritratti non ve ne siano nel De bello hispanico, ma, a mio parere, è assai più valente del Fazio nello scegliere tra la minutaglia de’ fatti ciò che gli giova, respingere il resto nel fondo del quadro, fondere insieme i materiali raccolti, e dare unità allo stile, e alla sua prosa una fisionomia, direi quasi, originale (2). (1) Parmi meriti di essere riferito il breve parallelo che stabilisce tra Niccolò Piccinino e Francesco Sforza (op. cit., lib. VII). Cum eo (Niccolò) de rei militaris principatu qui posset concertare, unus ex omnibus copiarum ducibus suae tempestatis inventus est Franciscus Sfortia, vir in annis plurimum excellens, fecitque dubium uter alteri anteponendus esset. Nam cum scientia rei militaris atque auctoritate pares putarentur, diversa tamen utriusque consilia in bello erant. Nicolaus utique dimicare paratior, praelium ex occasione protinus sumere, hostem celeritate praevenire, excursione fatigare, levis armaturae equite, magis quam pedite uti, fortes modo atque asperos milites amare, hostium numero non terreri. Franciscus vero arte et soler lia magis nitens, raro, nisi ex destinato, confligere, sedendo atque obsedendo hostem frangere : peditatum multifacere, argento atque auro cultos milites habere, potenlwrem se hostem non temere aggredi. Denique Nicolaus in milites indulgentior, Franciscus saevior habebatur. * (2) Era tuttavia impossibile che le forti individualità della sua repubblica non facessero colpo sopra un intelletto acuto e partecipe al vivo moto del suo secolo, come il Bracelli. Ed egli pure scrisse un opuscoletto sopra alcuni degli illustri genovesi (De claris genuensibus, Parrgi, 1520, fol. 4$ e segg.); ma essendosi astenuto di parlare de’ viventi, perchè non paresse concedere in parte anche minima all’amore 0 all’odio 0 ad altro affetto meno lodevole, e d’altro canto poco rinvenendo del passato, però che gli annalisti, contenti di aver fatti da narrare, non s’erano curati di tramandare il nome degli uomini al loro tempo insigni, per tutto ciò era forza che riuscisse molto breve. L'opera è dedicata al padre Ludovico Pisano dell’ordine dei predicatori, e vorrebbe essere una rapida commemorazione di quanto ebbe di più notevole la genovese repubblica per sapere, bontà, verecondia, inflessibile giustizia. A differenza del Fazio, non sempre ha cura di darci il ritratto, ma vuole che dai brevi cenni, dagli aneddoti sobriamente narrati, dal tutto infine, il lettore si formi un’idea adeguata degli uomini per la cui virtù la sua patria ebbe ad acquistare nominanza e potenza. Nello Il lettore lungo quei cinque libri non prova mai stanchezza, perché sente che 1’ autore ha sbandito le inutili lentezze, che non vuol dir tutto, ma dir bene il poco trascelto. Faceva egli stesso professione di brevità; e di dilungarsi nella narrazione di un prodigio si scusa come stile, nel modo di colorire mi ricorda Valerio Massimo, che forse, come Battista Fregoso anni dopo, l’umanista aveva presente nello scrivere. Citiamo. In lode di Lamba D’Oria non spende più di un periodo; ma per severa bellezza ed evidenza lo direi non inferiore a’ passi più riputati dello scrittore latino: Aurius Lamba in siitu illirico bellum gerens, devicta iam prope Venetorum classe, cum nunciatum ei esset filium fortiter dimicantem caesum fuisse, undis, inquit, eum commendate : nobilissima enim ipsi sepultura continget, quod pro patria strenue pugnantem et iam victorem maria servabunt. — Nella trattazioue tiene l’ordine seguente : dapprima tre santi vescovi, Romolo, Felice, Siro, un cenno di quattro righe; quindi alcuni monaci, e poi i letterati, tra cui Giovanni Balbo, l’autore del Catholicon, e Andalò di Negro, il precettore del Boccaccio. Ancor questa non più di una semplice menzione. Seguono guerrieri, e cittadini celebrati per alcun nobile fatto e per uffici sostenuti. Della tenacia ligure, che popolava di fiorenti colonie le sponde del Corno d’oro e del mar Nero, diffondendo da Pera a Sa-mastri terrore e riverenza pel nome del gran comune, notevole esempio è il seguente: Simon Vignosus cum, perdomita insula, Chium urbem obsideret, edixerat ut si quis in vineis aut pomariis, invilo domino, deprehenderetur virgis caederetur. Cum agrestes ignari quisnam esset Franciscum filium eius adolescentem in vineis inventum patri obtulissent, nullis precibus exorari potuit quin natum, uvis a collo pendentibus, flagris caedi iusserit. Idem moriens testamento legavit aureos quingentos inter egenas virgines chias viro tradendas in dotis auxilium distribuendos, tanti arbitratus ea damna quae indigne agrestibus intulisset. Maluit vir ille patrie charitatis oblitus se iustum imperatorem quam indulgentem patrem videri. — E la giustizia di quegli uomini di ferro, sarà certo piaciuta a più d’uno. Pareva di ravvicinare cosi il superbo ideale della patria ad un altro ideale ben più superbo, ben più alto, l’ideale che aveva guidato per tanti casi e pericoli i dominatori del mondo. Heu lieti, quam mutatus ab ilio! Dei dogi non parlò. Paventava dei viventi un giudizio che avversari ed amici non avrebbero ascoltato equanimi, e d’altronde non voleva veder condannata come frutto di passionata prevenzione 1’ opera che, esaltando le virtù degli uni, passasse quelle degli altri sotto silenzio. Quam oli causam seponendi mihi omnes erunt, ne suspecta scribentis fides, famae eorum quoque quos 'memorabimus aliquid officiat. In tempi di servitii, scrupoli di un’ anima onesta. — 202 — di tallo in un passo del suo libro. 1 discorsi, per tal modo non diventano lo scopo ultimo dell’opera, ma una digressione, un sollievo alla mente di chi legge, su per giù come gli episodi in un poema. Anch’ egli, é vero, lascia sovente desiderare ciò che a’ moderni piace di più, lo studio delle ragioni intime, e quella chiara coscienza istorica che é destinata a diventare, o presto o tardi, la coscienza del genere umano. E aggiungerò anche che certe volute dimenticanze dispiacciono: perché tacere, là dove veniva naturale il dirlo, delle perfide arti con cui Filippo acquistò ed ingrandì il ducato? perché tacere la tragica fine della povera Beatrice di Tenda? Ma se anch’ egli concede troppo all’ apparato esteriore che poteva permettere sfoggio di eloquenza, si redime per alcuni pregi che nel Fazio assai più lodato di lui non si trovano, che si rinvengono solo in pochi degli storiografi umanisti. Il Machiavelli, levando la mano dal primo libro, annunciava che « di oziosi principi e di vilissime armi sarebbe piena la sua istoria ». Gli umanisti per vezzo, per la necessità de’ tempi, per l’indole de’ loro studi, le magnificarono invece quelle armi, come se avessero operato le gesta degli Scipioni e di Cesare. Ecco il loro torto. Sicché, per restringermi ai due, tra i cui scritti venni cercando finora riscontri, l’uno, dopo il trionfo di Alfonso in Napoli, un brano felice di genere descrittivo che rispecchia la compiacenza e la coscienza universale del tempo, non sa aggiungere più nulla di interessante (i); l’altro termina con l’avvilimento della patria (i) In pochi luoghi di scrittori del tempo, potrebbe, credo, vedersi meglio che in questo l’amore tutto pagano, tutto romano del Rinascimento per la — 203 — costretta dalle fazioni intestine e dalla prepotenza del-l’Aragonese a concludere una pace disonorevole. Ma che pensava frattanto lo storico della sua repubblica, ridotta dopo tante speranze a tanta iattura e vergogna, e che pronostici faceva nell’avvenire per lei? Lo scrittore non ne fiata: delle due faccie che al pari di Giano dovrebbe avere la musa storica, egli non aveva guardato che alla prima, quella rivolta al passato: aveva dimenticato la seconda, quella rivolta all’avvenire. Era stoica indifferenza? o piuttosto, col fatalismo entrato negli animi, il lamento sembrava inutile a mali che si giudicavano inevitabili ? gloria, confuso in ibrida mescolanza con la devozione cristiana. E quei napolc-letani che ancora pochi giorni prima non volevano saperne nulla di Alfonso, che, per ciò, avevano tollerato un lungo assedio, ora fanno una breccia nelle mura, perchè il re vittorioso entri in città a modo di trionfatore ! È la felice spensieratezza meridionale che si concede, dopo tante melanconie, la voluttà sognata, aspettata di una festa non più veduta. E nulla mancava al trionf : il carro, regalmente adorno, la processione composta de’ più potenti signori del regno e dinanzi i preti che salmodiano, ostentando reliquie di santi e le indispensabili, in tutte le feste d’allora, figure allegoriche. Proximi ibant complures, partim fiorentini, partim Impani punico babitu, bique varia spectacula edentes, alii moralium, alii sacrarum virtutum, cum titulis atque insignibus, ex quibus dignoscerentur; alii Caesaris et aliorum quorundam, qui floruere, principimi personam referebant, regemque pro dignitate alloquentes, ac laudibus in coelum certatim extollentes, cum incredibili circumstantium voluptate . . . (libro VII, in fine). Cosi il fasto spagnuolo e il fine gusto della nostra gente, congiunto con la festività per cui non ha emuli il popolo napoletano, si sposavano nel celebrare una delle feste più ammirate del secolo XV, come un lieto intermezzo per cui quegli uomini potevano illudersi di veder rivivere sotto nuove spoglie gli eroi di Roma. Ar. B. — Non so finire questo capitolo senza un cenno almeno sopra un’altra operetta del Fazio, comunemente lodata, forse perchè niun altra ritrae tanto delle qualità e dei difetti della storia umanistica, voglio intendere il racconto della guerra di Chioggia (Barth. FacII, De bello veneto clodiano, in Graevii, Thesaurus antiquitatum, t. V, par. 4.*). Pare dal proemio a Giov. Giacomo Spinola ch’egli la scrivesse in Genova e che passato a Napoli le desse poi l’ultima mano. Da Napoli, per me è fuor di dubbio, ne faceva invio all’ amico, il quale « poiché aveva espresso il desiderio di avere alcuna cosa delle sue istorie, nè gli era lecito mandargli quelle, questo che poteva gli mandava ». Parole del proemio e per verità sibilline, ma che potrebbero voler significare aver egli in quel tempo appena abbozzato qualche libro della storia di Alfonso, nè, così informe com’era, potergliene dare un saggio. L’epoca dell' invio sarebbe dunque da porsi tra il 1449 e d 1450 (Cfr. Voigt, op. cit., pag. 489; Sabbadini, Lettere inedite di F. Barbaro). Nel luogo citato anche lamenta 1’ imperizia degli annalisti genovesi, i quali avevano tramandato il ricordo delle guerre con Venezia in modo così breve e mutilo, che neppur Livio o Sallustio, se rivivessero , potrebbero convenientemente illustrarle. Egli si propone di adornare il racconto introducendo ciò che essi avevano omesso, le ragioni dei provvedimenti , gli apparecchi delle guerre, le descrizioni de’ luoghi, 1 ordine e l’esito delle battaglie, « nelle quali cose principalmente ci diletta la varietà della fortuna ». E l’amico da esso avrebbe fatto giudizio del suo stile nello scrivere istorie, sebbene sia la grandezza de’ fatti che ingrandisce il dire, nè le cose nostre possano venire a paragone con quelle de’ romani. Per raggiungere la sospirata eloquenza egli ricorse quindi al mezzo solito, ossia è una fitta gragnuola di discorsi introdotti senza garbo nè misura nel lavoro, e preceduti quasi sempre da un locuti sunt in hunc fere modum. È vero però che trovandosi qui la mano più libera, tratteggia qua e là breve, ma bene, le discordie intestine della repubblica genovese ; oltre che nella narrazione si ravvisa il pregio che acquistò nome a questo scrittore: una certa ingenua chiarezza che, fortunatamente, i limiti dell’operetta impedirono diventasse prolissità faticosa. Il Giovio insinua che in essa si desidera la buona fede (PaULI Jovij Elogia). Parlava di corda in casa dell’impiccato; ma inoltre l’accusa pare gratuita. Il Fazio procede egualmente imparziale a’ vinti ed a’ vincitori, — 205 — nè di indulgenza può dirsi che pecchi verso i suoi genovesi. Anzi non risparmia loro i rimbrotti. Accennando alle virtù di Luciano D’Oria, con altre parole amare, esce nelle seguenti: « Rimaneva a quel tempo alcun ombra di libertà e l’affetto alla cosa pubblica, che ora, sprofondata, la città nell’ambizione, nell’avarizia e nel lusso, s’è condotto al nulla ». E l’accusa del Giovio parrà tanto più infondata in seguito ad un’ osservazione che mi venne fatta, raffrontando questo storico con Giorgio Stella agli anni della guerra di Chioggia. Dal principio alla fine del suo lavoro, egli procede parallelamente con lo Stella, anzi talora ripete con quasi le identiche parole. Mettiamo a riscontro due passi dell’uno e dell’altro per saggio : G. Stella. — Hic dux (Nicolaus de Guarco) bene et honorifice tractabat nobiles, et satis eorum adhaerebat consilio. Similiter bene* tractabat et Guelfos.. .. Ipse autem Nicolaus de Guarco Dominicum de Campo-fregoso olitn ducem et Petrum germanum eius duris carceribus detinebat. Sed ipse Petrus, qui remotus a dicto Dominico alieno carcere tenebatur, sagaci contexto ordine fugit etc. — Rer. ita/, script., t. XVII, coi. 1109. G. Stella. — Nicolaus de Guarco dux Januae, timens, ne Antoniotus A dumus gibellinus ex iis, qui dicuntur de populo, aliquid contra suum dominium perpetraret, mandavit ut ipse Antoniotus ad eum ducem adiret ; volebat enim, ut ferebatur , eum in Tusciam mittere, ut acciperet pro Janua ad stipendium armigeros, sic fingens. Quod sentiens idem Antoniotus occultum se fecit, unde Dux cum suis amicis in armis F AZIO. — Nicolaus iam ab initio principatus nobilitatem in honore habere, eaque maxime uti in administranda republica, divisis in aequas partes honoribus, quorum prius tertiam partem nobilitas ipsa capiebat, Guelfos quoque benigne habuit. Horum favore subnixus dignitatem suam facile tueri, Dominico ac Petro Fregosis, ne quid adversus se molirentur, in custodiam traditis. Cae-terum Petrus, decepto custode, elapsus est. — GraEVII, Thesaurus, loc. cit., coi. 8. Fazio. — Nicolaus Goarcus qui princeps genuensem rempublicam obtinebat,suspicatus Antoniotum Adur-num contrariae factionis hominem, adversus se quippiam moliri, vocatum ad se sub honoris specie, hoc est, conducendorum militum gratia, mittere in Tusciam velle simulabat, ea ratione existimans, aut illi manum iniici, aut certe eum urbe expelli posse. Caeterum Antoniotus sive conscientia permotus, sive quod — 20 clamantibus: Vivat populus ct dominus Nicolaus de Guarco, equitavit et pervenit contra Fossatellum sub monasterio sancti Syri, et perquisita ibi domo ipsius Antonioti, idem Antoniotus non inventus est. — Ibid., coi. 1118. 6 — suspectam haberet Nicolai fidem, edicto non paruit, sed ex urbe clanculum se proripuit. Nec defuere qui Nicolai iussu domus suae latebras perscrutarentur, ut sicubi lateret, inventum ad se protraherent. — (Ibid., coi. 24. Parrebbe quindi che il rimprovero fatto alla storia del Rinascimento, di trascurare i documenti originali cavando i fatti da scrittori anteriori, si convenga specialmente al Fazio ed a questo suo lavoro De bello veneto clodiano. Tuttavia la convenienza di qualche ricerca per appurare la verità anch egli la sentiva. Nel proemio più volte citato, e nell’ atto che dichiara di seguire gli annalisti genovesi, intendi lo Stella, soggiunge : « togliendo però o cambiando parecchie cose, che, per indagini fatte, i^n mi parvero nè vere nè simili al vero ». Non la conoscenza dunque delle fonti mancava, ma la voglia di servirsene. $ APPENDICE Bartolomeo Fazio e le sue opere minori. In un appendice sul Fazio sarebbe inutile ed inopportuna una ripetizione delle notizie già date da’ biografi che mi precedettero. Il poco che si conosce della sua vita fu ormai narrato dallo Zeno, dal Mehus, dal Tira-boschi: scrittori più recenti, come il Burckhardt e il Voigt, si studiarono di vagliare e stabilire il merito dell’ umanista. Tuttavia, ancor qui come in tante altre cose di questo mondo, non tutto é stato così esaminato che non occorra qualche lacuna da riempire, qualche inesattezza da correggere. Il Mehus é accurato nella notizia bibliografica, ma non fa conoscere quanto si vorrebbe 10 scrittore ed il valore dell’opera sua; il Tiraboschi amalgama così il certo con il probabile o l’inesatto, che 11 lettore non discerne più i limiti dell’attendibile. Il Burckhardt, che, per l’indole stessa del suo lavoro, non poteva fare più di un cenno del Fazio e solo in quella parte che gli giovasse a notare i caratteri e le tendenze peculiari al secolo del Rinascimento, contessa tuttavia egli medesimo di non conoscere se non di nome l’opera — 2oS — di lui, De viris illustribus: il Voigt, acutissimo nella rappresentazione dell’ambiente, non potrebbe soddisfare chi desideri intorno a que’ grammatici ed umanisti, che egli fa rivivere nell’aria agitata delle repubbliche o in quella pesante delle corti d’allora, copia di particolari. Quest’appendice però non altro vuol essere che un modesto contributo per uno studio completo sullo storiografo di Alfonso, se ad alcuno non parrà questo soggetto troppo frivolo ed aggiungerà al già fatto le ricerche e la meditazione necessaria. Comincierò dalle due operette morali del Fazio che tutti menzionano, senza però darsi pensiero d’informare il lettore sul loro contenuto. Ora pare a me, che anche in piccoli interessi, come son questi delle lettere, la precisione e la sicurezza nella conoscenza che poi guida alla sicurezza nel giudizio, sia sempre da preferirsi all’indeterminato od approssimativo. Vediamo dunque che cosa siano precisamente e che posto occupino nell’erudizione umanistica il De humanae vitae felicitate e il De excellentia ac praestantia hominis di Bartolomeo Fazio (i). Ecco l’argomento del primo scritto. Essendo in Ferrara il Panormita ed ospite di Guarino, per visitare il quale anche 1’ umanista genovese erasi recato colà, cade il discorso sulla condizione dell’umana vita, e pare ai presenti mirabile che adoperandosi tutti con ogni potere per conseguire la felicità, nessuno ancora l’abbia potuta ottenere. Su tale argomento si aggira il dialogo. Il Guarino si propone di dimostrare che nessuno quaggiù (i) Barth. Facii; De vilae felicitate, seti sunniti boni fruitione liber; Antver-pi.ie, ex officina Christ. Plantini, 1556. — De excellentia ac praestantia hominis, Hanoviae, typis Wechelianis, 1611. — 209 — può essere perfettamente felice, si dedichi egli alla vita attiva o alla contemplativa. E gli argomenti che adduce sono i soliti : l’insaziabile desiderio che è congenito alla natura umana, il facile fastidire ciò che si possiede per correr dietro a false immagini di bene. Il Lamola, uno de’ discepoli di Guarino, prende le difese della vita attiva; il Panormita della contemplativa. Il primo pertanto comincia ad enumerare i vantaggi di colui che ha grado di re, oppure è cittadino opulento, oppure è ascritto alla milizia, la quale può esaltare glorioso il nome sopra quanti uomini vivano, ovvero attende al-l’agricoltura, al sacerdozio e cosi di seguito. Il Guarino confuta le asserzioni del discepolo con ragioni che razionalmente considerate non hanno nulla di notevole, a cui per altro il Lamola facilmente s’ acqueta. E cosi si passa alla seconda parte del dialogo, che tratta del sommo bene. Comincia il Panormita con questo patto, che quando egli avrà provato non potersi dare assoluta felicità nelle cose umane, il Guarino mostri dov’ella sia e quale sia. Espone con alcune generalità le opinioni degli antichi filosofi intorno al sommo bene, e brevemente le confuta. Non la voluttà può essere il sommo bene, poiché da essa non possono venire determinate molte tra le azioni dell’uomo: non la privazione del dolore, poiché sommo bene non é ciò che l’infermo può chiedere al medico, ed inoltre sarebbe in tal caso a desiderarsi il dolore per meglio godere della felicità dopo; ma ne verrebbe allora che sarebbe poco felice chi poco avesse sofferto, felicissimo chi molto, conseguenza manifestamente assurda: non la virtù di cui alcuno stoltamente fa una cosa stessa colla voluttà, frigidis callida, e neppure la virtù Atti Soc. Lio. St. Patma. Voi. XXI11. «4 propriamente detta, o la robustezza del corpo e i commodi procacciati dai beni materiali. In tutto ciò non può consistere il sommo bene; onde conclude coll’autorità di Lattanzio, Agostino ed Isidoro, che esso é Dio, da cui solo é la felicità incommutabile, e quella vita che é la vera, immortale, scevra da ogni sollecitudine e desiderio, dove l’animo ottiene contentezza e pace in comunione cogli dei. Il Guarino riassume e conclude, infine, ponendo questa beata vita nel cielo dei credenti, nel cielo additalo dagli asceti e dai teologi. L’accenno alla virtù che per alcuni é una cosa stessa col piacere, era un’obliqua bottata al Valla, 1’autore del celebre dialogo De voluptate. Diremo più oltre del valore di questo scritto, a parer nostro: diamo qui la precedenza alle acute osservazioni del Valla, che, parlando del Panormita e del Fazio, é difficile disgiungere. L’iracondo grammatico non entra scopertamente nella critica degli argomenti, forse per quella stessa legge di prudenza che nel dialogo menzionato gli faceva tentare una conciliazione tra Cristo ed Epicuro. Bensì egli, nelle invettive, morde severamente l’incoerenza dei personaggi ed in ispecie del Lamola. Un giudizio del ferrarese Roberto Strozza gli veniva per ciò molto opportuno. Anche a costui pareva che il Lamola si mostrasse troppo facile nell’ acconsentire a Guarino, quasi vinto che porge supplichevoli le mani. E la critica ebbe a parere seria anche all’autore, poiché in una lettera apologetica premessa al lavoro e diretta al ferrarese, egli si difende, o piuttosto si scusa del difetto con questo, che la trattazione delle diverse parti del dialogo lo costringeva alla brevità. « Se io avessi introdotto, osserva, Lamola a — 211 — Guarino, Guarino a Lamola troppo spesso repugnanti e contraddicenti, il dialogo non avrebbe mai più veduto il fine; e quando lo tentai, il fastidio di una lunghezza non necessaria mi fece lasciar in asso il lavoro. E poi, tu sai bene che la dignità e l’indole di ciascun personaggio si devono sopratutto mantenere nei dialoghi. La-mola conveniva adunque che anche nel disputare fosse tale quale la sua egregia indole lo palesa, facile e cortese , non ostinato contradditore della verità, in questo caso segnatamente che la disputa era tra discepolo e maestro ». Il Valla non poteva certo acquetarsi a cosi fatta difesa. — « Chi ti obbligava, risponde egli, alla scelta di un personaggio che si dichiara vinto anche prima di combattere? Tu parli di convenienza, ma che cosa meno conveniente dell’ introdurre in una disputa chi disputare o non sa, o non vuole? Aggiungi che in un dialogo, come il tuo, poco o punto importa chi dica, ma che cosa si dica, sicché non il discorso all’ interlocutore, ma noi adattiamo l’interlocutore al discorso. E per ciò che riguarda il Lamola, tu calunni un dotto uomo ch’io conobbi d’animo costante e geloso della sua dignità e nelle dispute caldo e virile. Incredibile demenza, davvero! Il personaggio foggiato da te, non soltanto é puerile e fiacco nel difendere le questioni proposte, ma anche nel proporle. Ed in verità, chi mai, e fosse pure più ostinato che tu non sei, vorrebbe presentare e discutere seriamente ciò che tu gli fai dire? Che se alcuno affermi suprema felicità dell’ uomo essere l’attendere all’agricoltura, o alla milizia, o farsi cortigiano, o sacerdote, vorrà egli proprio persistere a lungo nella sua opinione? Il che anche solo provarsi a confutare parmi cosa da inetti, se già non si debba dire che la remissione, anzi stoltezza dell’oppositore é una buona astuzia per far brillare vieppiù il patrono della buona causa, l’oratore della beatitudine celeste ». — Sulla scelta poi del licenzioso autore dell’ Ermafrodito a perorare intorno alla virtù, il sommo bene ed il paradiso, si scaglia con ingiurie che il lettore, informato della virulenza del Valla, forse immaginerà, ma che noi non ripeteremo. Conclude dicendo esser quella non la conversazione di tre dotti e gravi personaggi, ma di una zitella e di due vecchie chiacchierone (i). Così il Valla nelle sue sarcastiche invettive; diciamo ora la nostra, secondo abbiamo promesso. Certo uno scritto condotto con gli intendimenti che a prima giunta riscontriamo nel De vitae felicitate, sembra un anacronismo smarrito in pieno secolo XV. L’autore, salvo la cura della bella forma latina per cui rientra nella scuola umanistica, si direbbe che per le idee voglia camminare a ritroso di parecchi secoli. Egli oltrepassa Severino Boezio e si perde nel cielo grigio sconsolato degli anacoreti. Di vero, Severino, nelle ambascio del carcere, nell’acerbo rammarico che trae con sé la caduta da un’ alta fortuna e nel presentimento di una tragica fine, cerca e trova conforto nella filosofia, la sola religione ch’egli dichiari di professare. Ed essa, rinnegata da tanti, gli inspira nella sventura un sentimento di morale dignità, di virile e serena rassegnazione non indegna di Socrate. Che cosa conclude invece lo scrittore del Quattrocento, dopo una (I) Non gravium doctorumque hominum, sed unius puellae et duarum anicularum mihi videris fecisse colloquium. — 213 — seorsa assai superficiale delle principali dottrine filosofiche e cristiane ? — « Che saremo felici in questa vita se ci parrà di non esserlo punto, 'se vivremo ne’ travagli e nelle miserie, che sono esercizio di virtù, conforto ad essa; se infine terremo la via aspra ed ardua che ci è aperta per il conseguimento della beatitudine ». — Parole che sant’Anselmo non avrebbe esitato ad accettare per sue ; ma il notevole si é eh’ esse ci vengono dal Panormita, dall’epicureo impenitente; e chi lo fa parlare cosi non è un avversario, un maligno derisore di opinioni ch’egli condanna, ma é l’amico fidatissimo, il compagno di tanti anni nelle peripezie ed altalene della corte. Come si può rendere ragione di tutto ciò? È un anacronismo davvero? O non piuttosto la significazione di una delle molteplici tendenze che presenta il Quattro-cento, e la più tenace come quella che complicata d atavismo , rappresentava l’eredità di molte generazioni passate? Parlo della tendenza ascetica. Nè il fenomeno, ad una rigorosa meditazione paia strano. Poteva lo spirito umano abbandonare d’ un tratto quell ordine d idee e di sentimenti, nel quale pure avevano trovato dolcezza di speranze immortali tante anime? E sull ascetismo dei primi secoli era passata, senza però farlo dimenticare, l’operosità dei comuni italiani, affermantesi nelle cattedrali gotiche e nelle madonne dell Angelico ; era passata la mistica ed eterea poesia de rimatori dal dolce stil nuovo. Si poteva rinunciare così ad un tratto all’ideale dei padri, quando tanti monumenti rimanevano a ravvivarne la memoria? Il Quattrocento italiano, specie nei primi cinquant’anni del secolo, fluttua fra due ■ poli ; da un lato gli splendori ed il fascino di un antico — 214 — mondo che sepolto da tanto tempo risorgeva, e quindi un senso più vero più reale della vita ; dall’ altra le dubbiezze di un avvenire mal fido e un piegarsi di spiriti contriti, come di chi traviatosi per vie ignote e di cui non vegga un termine, si ritrae spaventato. Contrasti psicologici e tragiche battaglie, che rivelano non soltanto due tacce opposte della rinascenza, ma non di rado due aspetti diversi di un medesimo uomo. Se noi svolgiamo, per un esempio, le vite di Vespasiano Fiorentino, ci si fa innanzi, tra molti altri, un signore famoso e prode guerriero, maestro di cortesie e di eleganze cavalleresche, rotto a tutti i maneggi politici del suo tempo, e che tuttavia é studioso della teologia e di san Tommaso d’Aquino, voglio intendere Federico da Àlontefeltro. In Alfonso d’Aragona poi diresti che sono alle prese due uomini: da una parte il principe avido di potenza e di gloria, avido di piaceri; egli protegge 1 odiato autore della Falsa donazione di Costantino, favo-reggia il concilio di Basilea, l’antichità pagana ha in lui un fautore convinto ed entusiasta: rovesciate la medaglia e durate fatica a riconoscerlo: il dotto principe si trasforma in un mistico fervente, che sa a memoria la Bibbia con i commenti di Niccolò di Lira, che ode ogni di tre messe, due piane ed una cantata, che nell’ufficio di Natale resta ginocchioni da un’ora di notte fino a ore quattordici, e parve cosa meravigliosa anche al buon Vespasiano; che dice ogni giorno l’ufficio del Signore e digiuna tutti i venerdì dell’anno con pane ed acqua, non escluse le vigilie comandate, ecc. ecc. Chi é curioso di maggiori notizie, prenda in mano il volume dell’ ingegnoso libraio fiorentino alla Vita di Alfonso ed - 215 — avrà di che contentarsi. Nell’ ultimo della sua vita, sfidato dai medici, si fa leggere le Meditazioni di sant’ Anseimo e sentendo che tutto era finito, si prepara a morire. Gli uomini tutti d’un pezzo, gli onesti o scellerati perfetti, conseguenti in ogni loro atto come la premessa e la conclusione di un sillogismo, sono rari in ogni tempo, ma molto più nella rinascenza, che è rude battaglia di potenze diverse e scomposte, balestrate per tutte le vie della vita. D’altra parte una figura come quella di Sigismondo Malatesta che rappresenta, direi quasi, l’ideale incarnazione del male, e, concedasi pure alle esagerazioni inevitabili nella diatriba contro lui del Piccolomini, doveva riempire d’orrore anche uomini che non avevano sempre un retto sentimento della giustizia, e sospingerli, come a porto di salvezza, verso le minute pratiche della religione. Il dialogo del Fazio colla mistica sua intonazione, accarezza cotesta tendenza del secolo, in quel modo che i dieci libri sulle imprese del re d’Aragona lusingavano la tendenza opposta di un nome universalmente riverito e tramandato ai posteri glorioso. Si direbbe che il De vitae felicitate ritragga alcun che del vuoto che verso la fine circondò il monarca aragonése, se per molti riscontri non dovessimo riportar questo scritto ad una data molto anteriore, ossia al secondo anno della dimora del Fazio in Napoli. Rade volte voi sentite un’ eco del mondo in cui 1 autore viveva, o se avviene, gli è che sopra le intenzioni di lui, prevalevano, suo malgrado, le necessità dell ambiente. Tali sono le lodi manifestamante ironiche, che il Lamola fa degli ecclesiastici, per opinione sua, da ritenersi come beati; « Essi ricca casa e lauta mensa, essi in grado di soddisfare tutti i punti della gola, servi splendidi, bei cavalli, inule insigni, freni d’oro, vasi d’argento, preziose suppellettili, vesti di porpora, onde non solo adornano sé stessi, ma fanno letto alle loro cavalcature. Haec cum ita sint, cur hos beatos esse abnueris? » . E la risposta del Guarino é anche più mordace, ma sono accenni fuggevoli. I diritti della vita e della realtà contro le malinconiche aspirazioni del misticismo non da lui erano rivendicati, ma dal Platina nell’opuscolo Del falso e vero bene, dal Valla nel dialogo Del piacere. Quello tentava una conciliazione tra Epicuro e Zenone, questo delle dottrine cristiane si serviva come di copertina per tessere in effetto il panegirico della voluttà considerata come il vero bene, come 1’ unico bene. Cosi pur concludendo in favore della morale cristiana, il Valla si era messo agli antipodi del Fazio. Ma se questi intese con il suo scritto intraprendere una confutazione del primo, è forza riconoscere che vi riusci assai male, ed il Valla lo comprese benissimo, e nelle Invettive ebbe facile giuoco a rimbeccarlo acremente. Le timide argomentazioni del genovese erano assai distanti dal ruvido e fiero attacco promosso dall’ umanista romano contro gli stoici. Orazio aveva deriso argutamente: costui leva la pelle, e la differenza nel modo si capisce. Nel trionfo augusteo lo stoicismo significava la protesta di pochi solitari, a cui di contro il dotto, il ricco ed il patrizio vulgo guardava sogghignando; nei contrasti psichici ed etici del Quattrocento, durando l’accordo, tentato almeno, tra le dottrine della Stoa e la morale cristiana, lo stoicismo era una larvata riproduzione delle rinuncie ascetiche, una maschera del — 217 — medio evo in ciò che esso aveva di meno sociabile, e come tale la coscienza del Valla era provocata a combatterlo. Perciò, mentre il Fazio viene fiaccamente cercando dove sia in terra felicità, senza trovarla, il Valla pone nettamente e con mirabile sicurezza la questione. — « La natura pose il piacere in tutte le cose, ed insieme ci mise nell’ animo una secreta propensione verso di esso : ora quel che natura formò non può non essere lodevole e santo, imperocché esso sia lo stesso o quasi lo stesso che Dio... Errano gli stoici quando tirano in campo le colpe della natura ed asseriscono essere nel-l’uomo un pernicioso amore del vizio anzi che della virtù. Io non dubito di asserire non esservi mai stato uomo che, non dico il suo, ma abbia pur veduto o desiderato con animo lieto il male degli altri. Nè importa se nel desiderare un bene sperato, o nel rallegrarci di uno conseguito, il giudizio erri, e chi non erra? Basti che la volontà umana sia liberamente ordinata al bene, siccome gli occhi al vedere la luce; la quale se alcuna volta da essi non può tollerarsi, ne è cagione unica la loro debolezza. Ma questo bene non é la virtù, bensì il piacere che noi inseguiamo pur sempre, anche se la sua fallacia diventi poi fonte di nuovi dolori o di colpe. Esempio Socrate e Bruto. Certo il male esiste, ma il dolerci che la natura talvolta ci sia cagione di affanni, é quanto dolerci di non esser nati immortali. Quaggiù carceri, vigilie, lame, sete, freddo, costituiscono una rete inestricabile di dolori, e non sono che i fisici : vi aggiungi i morali, e vedrai ineffabile miseria che si compone. Ma i filosofi del rigido onesto non possono additare a ciò nessun compenso: ciò che essi dissero sommo bene appare chiaramente — 2 iS — essere sommo male. L’uomo, se ossequente ai diritti della natura, cercherà non le difficoltà, ma i diletti che gli sono consentiti, ripensando al detto di san Paolo: Se in questa vita riponiamo la speranza nostra solo in Cnsto, siamo i più miseri di tutti gli uomini. L’ uomo, se cristiano, aspirerà al premio della beatitudine celeste che è in fine la perfetta e suprema voluttà ». Con siffatta conciliazione tra Epicuro e Cristo, quell’ intelletto audacissimo chiude i tre libri De voluptate, o De summo botto, come gli piacque d’intitolarli più tardi. La conclusione non differisce in sostanza da quella a cui viene il Fazio, ma quale immenso divario nella via percorsa! Nell'uno l’aura sen^a tempo di un cielo ascetico, la solitudine di anacoreti che mutano in fine le desolate vigilie del deserto o del chiostro per la visione celestiale; nell’altro, pur tra le esagerazioni e i paradossi onde apertamente si compiace, una più umana e più lieta concezione della vita. Quindi anche nel descrivere il Paradiso, ciò che sorride al Valla é sempre la festa dei sensi da caduca tramutata in eterna, é la dilettosa attività di spiriti redenti dai pigri terrori dell’ascetismo, che assaporano il piacere ultimo né desiderano oltre. E i suoi beati partecipano al divino riso delle cose, aggirandosi a volo per il libero cielo, o nelle secrete convalli come l’allodola del mattino, ovvero, simili a Camilla, discorrono sopra le tenere spighe senza incurvarle e sopra i gonfi flutti, non imprimendo, ma sospendendo le asciutte vestigia di un piede non terreno (i). (i) . . . superqtu tumentes fluctus sicca vestigia non imprimere, sed suspendere (ivi). — 219 — II. Il dialogo De vitae felicitate credo debba porsi, per il tempo della sua composizione, nell’anno 1445; ed ecco le ragioni. Il Panormita, accennando all’incarico dato al Fazio di scrivere i Commentari, soggiunge che il re fu massimamente allettato dalla soavità del libro, che tempo prima l’autore aveva composto per lui, De vitae felicitate (1). Se nel 1451 il Fazio aveva finito di pubblicare sette libri della sua storia (2), è chiaro che la prima redazione di essi dovrà farsi risalire almeno al '47, ed é parimenti chiaro che il dialogo menzionato è degli anni anteriori. Ma c’è di più: una lettera del Fazio all’ amico Iacopo Spinola, edita dal Mehus, dà notizia dello scritto dedicato al re e ad un’ ora de’ fatti suoi con queste parole : Accepi iam salarii partem et domum conduxi (3). Siamo dunque nel '45, perchè venuto il Fazio a Napoli l’anno precedente, come risulta fuor di dubbio da parecchie testimonianze, solo nel 1445 lasciò l’ufficio di cancelliere e venne ammesso da Alfonso tra i dotti della sua corte con un’ annua provvisione. Del (1) . . . maxime eius libri suavitate allectus quem de vitae felicitate regi ipsi antea dictaverat. Cfr. De dictis et factis Alphonsi, Basileae, 1538, lib. II, cap. 61. (2) Cfr. Sabbadini; Lettere inedite di Fr. Barbaro. L’ umanista genovese andò assai lento nel comporre , anche perchè impedito da altri lavori. Difatti nel-1’aprile 1455 non aveva ancor levata la mano dal decimo libro (lett. al Poggio, 14 aprile di detto anno). Se dunque egli spese tre anni interi a scrivere i tre ultimi libri, non sarà irragionevole contarne quattro per la composizione dei primi sette. (}) Cfr. Appendice di lettere [i] nel De viris illustribus, ediz. del Mehus. — 220 — 1447» 0 dei primi mesi del '48, dovrebb’essere l’altra sua operetta morale De hominis excellentia. Proviamolo. Egli scrive allo Spinola (1) che desiderava recarsi a Roma, e fa grandi lodi del papa Niccolò V. La stessa cosa scrive pure al Poggio, e non gli nasconde il motivo: « Spero mediante la tua amicizia tornar caro al pontefice, il che mi persuado che umano come sei mi otterrai facilmente » (2). Dal contesto si capisce che eravamo agli inizi del pontificato di Niccolò V; ma inoltre in essa lettera si fa parola delle Invettive contro il Valla, che furono scritte subito dopo l’andata di costui a Roma, ossia nei primi mesi del nuovo pontificato. La lettera cade dunque al più tardi nei primi del 1448. Dello stesso anno dev’essere, per conseguenza, anche quella a Iacopo Spinola. Il che risulta pure da un altro riscontro. Il Fazio promette d’inviare all’amico parecchi quinterni delle sue lettere, non appena fosse di ritorno a Napoli, unde propter pestilentiam discessimus (3). Combinando questa circostanza con l’altra della recente elezione del pontefice, siamo portati a stabilire appunto l’anno sopraddetto, durante il quale, secondo ciò che afferma il Muratori, la peste infierì in parecchie città d’Italia, recando grande mortalità (4). Ma se il 48 é la data della lettera allo Spinola, sarà pur quella dell’opuscolo, poiché in essa il Fazio gli aggiunge che (1) Lettera citata. (2) Mehus, op. cit., p. 24. (3) llaque pro denis fortasse epistolis, quas ad te, toto hoc tempore superiore, scribere potuissem, ad centum quinquaginta a me accipies. Andarono per la massima parte smarrite. (4) Muratori; Annali, ad ann. 1448. — 221 — oltre alle epistole cercate e raccolte, per compiacerlo, in un quaderno avrebbe spedita anche l’operetta morale da lui poco prima edita, opusculum a me nuper editum de honiinis excellentia, III. Verso lo stesso anno che il Fazio al papa, anche l’eruditissimo Giannozzo Manetti scriveva quattro libri De dignitate et excellentia hominis, offerti ad Alfonso. È un segno de' tempi. Il re aragonese che, qualunque cosa ne dica il Manetti (i), non era rimasto soddisfatto del lavoro del primo, prega il fiorentino a ritornarci sopra, a trattare un’ altra volta quell’ argomento. Il medio evo avrebbe guardato stupito ed incredulo. Come ! la carne ribelle e peccatrice sempre, malgrado i cilizi e le macerazioni , diventava soggetto di panegirico ! Era un mondo antipodo a quello di S. Bernardo, del mistico d Assisi e d’Innocenzo III. Apriamo dunque fidati il libro del Fazio ; ed osserviamo l’evoluzione operatasi in questa parte nello spirito umano Ahimè, anche qui, fin dalle prime pagine, sottentra alla curiosità una grande delusione. Voi vi aspettavate forse dal titolo una trattazione che, se non risovvenire, facesse desiderare almeno i mirabili versi di Ovidio sul primato dell uomo, o gli altri non meno belli del Monti inneggianti alla divina bellezza del creato (2). Niente di tutto ciò: (1) Cl. viri Janocii de Manetis, Equ. ac Jurecons. florent., ad inclitum Arra-gonum rcgem Alfonsum, de dignitate et excellentia hominis, lib. IV; Basileae, 1S 32* — Praefatio. (2) Monti; La bellezza dell’universo. — 222 — l’uomo é eccellente sopra tutti gli animali per un solo rispetto, perché niuno tra gli esseri animati, tranne esso, fu destinato alla beatitudine celeste. Tutto il resto é un risibile accessorio. Cosi si dilunga con manifesta compiacenza a noverare i gradi celesti, siccome materia che, sebbene divisa dalla nostra vista e dai sensi, tuttavia non può essere messa in dubbio da’ sinceri cristiani, essendo fondata sull’autorità di tante irrepugnabili testimonianze. Io non andrò oltre in quest'esame, bastandomi trovare ancor qui la riprova d’un giudizio già espresso: il ri-nascimento, fenomeno assai complesso, non vuol essere giudicato da pochi fatti che toccano le cime isolate del- 1 umana ragione; tra il vulgo che ride spensierato oggi, per piangere e piegarsi contrito domani, inconseguente sempre, e i sommi che nelle serene concezioni, e negli ardimenti dello spirito, divinano gli ideali di altri secoli, havvi la gran turba dei mediocri, degli ingegni di secondo ordine, che pure danno l’intonazione ed il carattere al secolo. Sono essi che a volte rievocano gli idoli già abbattuti del passato, ovvero altalenano tra il dubbio e la fede, tra le aspirazioni del presente e il rimpianto di un mondo senza ritorno. Né quell’ altalena era finzione, ma necessità. Giustamente osserva il Fiorentino: (( Il dubbio era profondo e doloroso, come il distaccarsi da qualcheduno con cui abbiamo lungo tempo fatta vita assieme e da cui intanto il dovere ci sforza a dispiccarci » (i). È ben vero che per molti segni ci avvediamo esser vicino il risveglio da quell’ inerzia senza quiete, vicina una irradazione più feconda di idee {i) Fiorentino; Pietro Pomponacci, p. 147. — 223 — rinnovellatrici. Apriamo il libro del Manetti. Anch’ egli ricovera come a porto di salute tra i teologi cui fu rivelata da fonte divina la verità, e biasima i filosofi che confidano nel solo lume naturale; anch’egli vanta la dignità umana per questo, che solo all’ uomo fu sortito il privilegio di avere accanto a sé un angelo custode, e di legare e sciogliere dal peccato come vedesi nei vescovi e nei papi, non che di salire infine all’eterna felicità. I cattivi saranno destinati all’inferno; e però utile e necessario è l’esercizio della virtù, ch’egli raccomanda a tutti i lettori in generale, ed a’ principi in particolare. Eppure qui noi ci accorgiamo subito di essere in un ambiente ravvivato, compenetrato da idee nuove: il Manetti spende un libro ad enumerare, prolissamente per verità, le doti del corpo umano — ciò che non fece l’umanista genovese — ed un altro a trattare dell’armonico accordo nell’ uomo dell’ anima col corpo: il Manetti ha parole severe per Innocenzo III. « Se non mi tenesse la reverenza delle somme chiavi, siccome dice il poeta nostro, dimostrerei gli argomenti di lui leggieri, puerili, indegni della pontificia ed apostolica gravità ». Ed egli ed il Fazio dichiarano tutti gli uomini, natura duce, desiderare la felicità (i). Ma il Manetti non s’accontenta di additare il cielo, come porto ultimo; egli vuole che anche quaggiù si viva lieti, bene operando, nè dubita di affermare: « Quantunque siano innegabili i mali della presente vita, tuttavia alle molestie prevalgono di gran lunga i piaceri, se pure non (i) Eosdem quoque homines, natura duce, felicitatem appetere xidemus. Manetti, op. cjt., lib. II, p. 84. — Videmus primum omnes homines, natura duce, felicitatem expetere. Facius, op. cit., p. 153. — 224 — vogliamo mostrarci fuor d’ogni misura queruli, ingrati, permalosi. Ogni atto dell’uomo, se è conforme alla natura, schiude una fonte di non mediocre diletto, e strumenti di esso divengono tanto i sensi esteriori, il vedere, 1’ udito, l’oliato ecc., quanto i sensi e le facoltà interiori; l’intelletto, il giudizio, la fantasia sono produttori dì piaceri purissimi. Inoltre la natura, madre provvida, addita contro il caldo, il gelo, le fatiche, le infermità certi opportuni antidoti, non aspri ed amari, come suole avvenire delle medicine, ma in quella vece grati, dolci, piacevoli ; la natura, maestra accortissima e quasi unica delle cose, pose in tutti gli esseri animati il bisogno dell’amor sessuale, certo non stoltamente od a caso, ma da evidenti ragioni indotta, per cui sopra l’individuo ella colloca la conservazione della specie » (i). Così ragione e fede concordava tra loro il Manetti. Negli uomini e nelle opere che noi esaminiamo vuoisi cercare appunto la felice temperanza tra la pietà religiosa e la speculazione filosofica. È questa la conquista più vera e più importante del secolo. Le dottrine umanistiche poterono per tal modo, malgrado le inevitabili dubbiezze, vincerla finalmente sopra i rappresentanti della tradizione. Il Fazio, invece, tra tanta luce intellettuale e quando i maggiori rappresentanti dell’ umanismo additavano alle lettere ed alla critica storica ben altro ufficio, volle deliberatamente chiudersi nel passato. Ciò fa onore senza dubbio alla sua pietà, ma non egualmente all’acume del suo ingegno. (i) IbiJ., lib. IV, p. 191. — 22J — IV. Il padre Labbé ed il Montfaucon avevano dato notizia di un altro libro del Fazio, dal titolo De differentiis verborum latinorum, aggiungendo che il manoscritto si conservava nella biblioteca regia, ora nazionale, di Parigi : il Mehus cita lo stesso libro, che insieme con le Invettive contro il Valla sarebbe contenuto iu un codice della Vaticana (cod. 2906, p. 26). Io ne trovai una copia ms. nella Universitaria di Genova; e mi varrò di essa per dare del libro una notizia sommaria al lettore (1). Precede una lettera, molto scorretta, all’amico Giovanni Iacopo Spinola, nella quale é data ragione dell’opera. Lo Spinola da un pezzo era molto desideroso di conoscere esattamente la proprietà dei vocaboli latini. Il Fazio loda il proposito, ne dichiara l’utilità, ed essendo per il momento ozioso vuole soddisfarvi. La sua compilazione, se così può chiamarsi, comprenderà quindi una breve definizione de’ sinonimi ed inoltre una serie di modi diversi per esprimere una stessa idea. Dal che, egli soggiunge, nasce la copia del dire, la floridezza dello scrivere. Né egli vuole perciò ringraziamenti dall’amico : ne sia grato al suo maestro Guarino veronese da cui aveva appreso quelle cognizioni, e per opera e diligenza fi) Sta nel cod. cart. miscellaneo F. VII. 37; è anepigrafo, ed incomincia colla didascalia: lesus. — Bartholomeus Facius lohanni lacobo Spinole, claro discreto viro, salutem plurimam dicil. Per i caratteri e la grafia, credo che quest'apografo si debba ascrivere al secolo dell’autore. Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIII. 15 — 226 — del quale specialmente, gli studi di umanità, da si lungo tempo sepolti, erano stati risuscitati. Non saprei in qual anno preciso porre la redazione di questo lavoro, ma da chiari segni apparisce opera di un giovine; probabilmente il Fazio lo scrisse in Genova, lasciata appena la scuola di Guarino e in attesa di recarsi a Firenze per meglio impararvi la lingua e la letteratura greca. 11 padre Spotorno certo non lo lesse; se no, non avrebbe scritto le seguenti parole che sono frutto di fretta e leggerezza: « A trionfare pienamente del Valla, grammatico valoroso secondo que’ tempi nelle cose teoriche , restava che Bartolomeo entrasse egli ancora nel fatto della lingua latina; ed alY Elegante dell’avversario contrapponesse un libro dello stesso argomento. Ed egli il fece, scrivendo un trattato De differentiis verborum latinorum... » (i). Tra le Elegante e cotesto imparaticcio che farebbe assai torto al Fazio, se scritto dopo la famosa contesa, troppo ci corre. Lontano assai dall’altezza di vedute e dall’acume del Valla, il Fazio non volle fare se non un prontuario elementarissimo in servizio dell’amico e di tutti quelli che come lui intendevano addestrarsi all’ uso del latino. Eccone come saggio, qualche paragrafo tra i primi del manoscritto: Inter agnatos cognatos et affines hoc interest. Agnatos a patre, cognatos a matre: affines vero ab uxore coniunctos nobis dicimus, quos comuni nomine propinquos appellamus, inde affinitates connubia dicimus. Inter amiciciam familiaritatem et necessitudinem hoc interest. Familiaritas plus est quam amicicia, idest ex eadem (i) Spotokno, Stor. Lett. cit., II, 44. — 227 — familia; necessitudo plus quam familiaritas: significat emm certam amicitiam vel strictam propinquitatem, interdum etiam necessitatem. Inter moratum et morigeratum hoc interest. Moratum moribus preditum, morigeratum vero vel morigerum dicimus qui aliene voluptati morem gerit. Inter fabulam et historiam hoc interest. Fabulam rem fictam, historiam vero rem veram dicimus. E la definizione di fabula, per lo meno, pecca d’inesattezza. Del resto la qualità del suo ingegno il Fazio la rivela per intero nella lettera allo Spinola. Egli é innanzi tutto un umanista, innamorato della forma: un rétore nel senso dei greci. Il Valla sacrifica alla precisione ed al rigore logico, non rade volte, 1’ eleganza ; il suo competitore é sempre pronto per l’ambita eleganza a sacrificare alcuno dei pregi più seri e desiderabili dello stile. La natura diversa di questi due uomini, e per conseguenza anche l’abitudine letteraria del Fazio, non potrebbe meglio esser rappresentata di quel che il primo abbia fatto nelle celebri Recriminazioni. Anche a rischio di parer lungo, non so tenermi dal tradurre un saggio di critica filologica come il Valla la faceva, rimbeccando acremente il suo censore. La contesa, com’ é noto, si aggirava sopra i pretesi errori commessi dal Valla nei tre libri della storia di re Ferdinando. Lo scrittore si era servito, tra l’altro, della seguente frase: Diversabatur regina in propinquo monasterio cum sanctimonialibus. 11 Fazio aveva corretto con un po’ di sufficienza magistrale : Diversabatur regina apud virgines divo Dominico dicatas, quae a regia non procul aberant. Cosi sarebbe stato forse più bello, notava il correttore. Sentiamo la risposta, - 228 - riassumendola in breve, ossia sfrondandola della acredine polemica. Il Valla appunta, per prima cosa, l’epiteto divo; quindi distingue, opportunamente, tra proprietà ed eleganza. Lo si era biasimato d’incolto ed orrido stile — sordes orationis — occorreva dunque opporre un dire più terso e non già parlare stolidamente di bello. Esamina quindi le due trasi : — « Io taccio che la regina abiti entro mura certe e determinate; egli, il Fazio, tanto si dà pensiero di una precisa determinazione che coteste monache paiono piuttosto le vergini di Diana, le quali abitavano nella solitudine e nelle spelonche. Anche peggio l’aggiunta apud illas - presso di loro - come se la regina fosse da esse ospitata, mantenuta, protetta; ma la regina aveva stanza nel monastero, non presso le suore ». Al Fazio, che, per non venir meno al vezzo delle dottissime villanie, il Valla chiama sempre fatuo, dava noia il vocabolo monasterium come non antico ; ma esso è invece antichissimo e di origine greca , al pari dell altro coenobium. — Non l’usarono Livio e Sallustio. — Chi potrebbe asserirlo, quando tanta parte di questi scrittori é perita; come similmente avvenne di Varrone e di molti altri? Inoltre sopprimerlo per sostituirvi che cosa, poi? Ma lo si sapeva ciò che piaceva al Fazio, ossia la frase che gira intorno all’ idea, senza coglierla mai, e, per non inciampare nella barbarie, urtare non una, ma mille volte nella stoltezza. Pur di non usare sanctimoniales, il suo Aristarco aveva introdotto dopo virgines la zeppa : quae a regia non procul aberant. Ma sanctimoniales, replica il Valla, è tanto latino come sanctimonia, che é di Cicerone (orat. pro Rabirio); né la parola é foggiata — 229 — nuovamente, bensì la leggiamo più d’una volta negli scrittori latini. Vediamo invece il nome virgines che tu gli hai sostituito. O che forse, le sole vergini sono ammesse nel chiostro? e non anche le mogli e non anche le madri ? non anche quelle che furono impudiche ? — E dopo una velenosa frecciata diretta al Panormita, conclude che il vocabolo sanctimoniales fu adoperato da Giustiniano ad indicare 1’ universalità delle pie donne che si consacrano alla religione; che la circostanza introdotta del santo alla cui regola esse erano ascritte, diveniva quindi inutile, non solo, ma, nel modo usato dal Fazio, anche falsa. E chiede : An quia veteres homines consecrabantur diis quorum nullus non homo fuerat et quidem nequam, Christianos fas sit consecrari diis {sic enim sanctos et bonos interdum appellatos invenio') et non Deo soli? Obbiezione quest’ ultima che consiste infine in un arzigogolo sul verbo consecrari, e che per conseguenza manca di serietà. Così fatti sono da un capo all’ altro i quattro libri di Recriminazioni ; nè da meno avevano ad essere le Invettive, eguali in numero, con cui il Fazio incominciava primo la battaglia (i). Egli è vero che questi attesta di scriverle di mala voglia, provocato dall’emulo, contro la natura e consuetudine sua, ma sono lustre: il Valla, più franco, gli diceva di rimando : aut non descendendum est in certamen aut acriter decertandum. Così il Cellini, che per tanti rispetti ricorda nel carattere 1’ umanista romano, a (i) Tutti sanno che delle quattro invettive contro il Valla non è a stampa se non una sola, quella che incomincia : Linguae tuae petulantiam, edita in V e-nezia da Tommaso Bettinelli nel tomo VII delle Miscellanee —sed manca ac crudeliter lacera, come scrive il diligentissimo Mehus. — 230 — distanza di un secolo dichiarava argutamente che i colpi non si danno a patti. E l’uno e l’altro non ci andavano scarsi, con questo divario però, che il Fazio la vince sull’avversario in ciò che è eleganza di frase, arte oratoria, concinnità di stile; il Valla é insuperabile nel rigore logico delle idee, nella ricerca del valore della parola; il primo darà, se occorre, suoni vuoti di pensiero, il secondo investigherà il pensiero nella parola e dalla filologia si farà strada alle più ardue questioni filosofiche (1). (1) Del Fazio pare anche una serie di esametri a monsignor Giov. Antonio Campano. Per lo meno l’Amaduzzi li pubblicò come tali , e la sottoscrizione B. Lunensis tuus porta a crederlo , sebbene il padre Spotorno ne dubiti (Stor. Lett. cit., II, 49). E per l’onore dell’autore sarebbe assai meglio che non fossero. In una forma esausta il poeta non seppe versare dramma di iluovo, sicché si direbbe della mediocrità d’invenzione e di pensiero e sua, assai contento. Per dirne in breve, i settantaquattro esametri, che non costituiscono punto un poemetto, come inesattamente asserì il Tiraboschi, ci danno una specie di visione, nella quale il poeta è da una voce arcana ed irresistibile chiamato a conoscere un fortunato pastore, un altro Titiro che col dolce canto già vinse Dameta e quanti altri sono custodi d’armenti e abitatori de’ campi. Cotesto pastore, che viceversa non è tale, ma bensì lo stesso Campano, sarà un altro Arpinate, decoro della lingua, anzi onore insigne d’Ausonia , nè vecchiezza, nè livore potranno oscurarlo, lìn che il sole s’immerga nell’onde, finché le stelle dell’ Orsa rischiarino le plaghe del cielo e i Trioni coi geli indurino gli scitici colli. Ma citiamo, per saggio della maniera dell’autore: .....Comperici pastorem lata tenentem Arva, greges, armenta iimul, cui fistula collo Pendet, et Aonidae gratantur carmine nymphae. Tytirus hic alter, qui quondam tectus ab umbra Faginea superavit ovans cum dulce cicuta Dametam ac reliquos pastores rura colentes ; Alter et Arpinas linguae decus et decor ingens Ausoniae, quem nulla unquam violare vetustas, Nec livor poterit, dum sol se merget **« undis, Dumque plaga coeli lustrabunt sidera septem, Dumque Trion scythicos astringet frigore colles. Cfr. Anecdota litteraria ex mss. codicibus eruta, voi. III, p. 431 e segg. Passiamo ad un singolare conto leggendario, il cui argomento il Fazio dichiara di aver desunto da un rozzo e sciatto testo volgare, opera di un popolano affatto digiuno di lettere. Se esso fosse scritto in italiano o in un’ altra lingua romanza, non si capisce bene dalle parole del genovese, che gli diede veste latina, pubblicandolo col titolo: De origine inter Gallos et Britannos belli historia. E questa pare che delle italiane sia la redazione più antica. Iacopo di Poggio Bracciolini, ed il Molza più tardi, rifecero lo stesso racconto nella nostra lingua, forse giovandosi del Fazio, come vi è ragione di credere per il primo, o attingendo direttamente alla fonte popolare, come lascia intendere il secondo (i). Motivo principale del conto è una persecuzione amorosa, della quale è vittima una figlia del re d’Inghilterra, andata di poi sposa a quello di Francia. Esso rientra dunque, nel ciclo della fanciulla perseguitata, che ebbe nel medio evo cosi larga fioritura di pie leggende, canzoni popolari, (i) Barth. Facii ad Carolum Vintimilium v. cl. de origine belli inter Gallos et Britannos historia. Trovasi ms. nel Codice Bracelliano più volte citato, e tu pubblicata nella Biblioteca del Ciacconio : Libros et scriptores ferme cunctos (sic) ab initio mundi ad annum 158], Amstelodami., 1744- — Novella della pulzella di Francia, Lucca, Baccelli, 1830, in 8.» (per cura di S. Bongi e col nome di Iacopo Bracciolini). - La novella del Molza fu riprodotta sulla rarissima edizione del 1547, da Fr. Zambrini nel libercolo: Tre novelle rarissime del secolo XVI, Bologna, Romagnoli, 1867. Per la bibliografia del nostro racconto, cfr. Wesselofski, Novella della figlia del re di Dacia, Pisa, Nistr;, 1866, p. 190. — 232 — drammi sacri e novelle borghesi. Le letterature popolari di Francia, Germania, Russia e Serbia porgono tutte, sebbene diversamente, il loro contributo. Non ci occuperemo quindi, e sarebbe il farlo molto tuor di proposito, di questa primitiva redazione che voi trovate in tondo identica, tanto nella Novella della figlia del re di Dacia, e nel Cantare della bella Camilla, come nelle rappresentazioni devote di Santa Uliva e di Stella, ovvero nel Roman de la Manchine di Filippo di Beauma-noir (1), o nelle novelle del Boccaccio e di ser Giovanni Fiorentino. Cito versioni e amplificazioni assai distanti 1 una dall altra. Il Wesselofski vorrebbe ravvisare in questa diffusissima leggenda che ha steso in Europa tante ramificazioni gli elementi d’ un antichissimo mito cosmogonico indo-europeo; opinione in cui non consente il Puymaigre (2). Il prof. D'Ancona, a sua volta, enumera in una dotta introduzione alla Santa Uliva alcune delle trasformazioni subite nella lunga via dal motivo fondamentale, e delle differenti versioni cui esso diede luogo, secondo i sentimenti e le ragioni diverse che movevano i suoi numerosi rimaneggiatori (3). Significazione del disprezzo incivile medievale per la donna nelle vecchie leggende, il tipo diventa nella novella borghese del Decameron e del Pecorone segno della redenzione dall’antico indegno giogo, é vero, ma ricorrendo però a’ bassi espedienti dell’ astuzia con cui essa, la debole creatura, solo poteva lottare contro i forti e (1) Ed. da Francisque Michel, Parigi, 1840. (2) Comte de Puymaigre; Folk-Lore, Paris, F. Perrin, 1885, pag. 258 sgg. (3) D Ancona; Sacre Rappresentazioni, v. Ili, pag. 283 sgg., prefazione alla Santa Uliva. - 233 — i soverchiatori. Non dunque della forma primitiva, ma della versione dataci dal Fazio e della tradizione storica, che vi si è introdotta, sarà questione per noi in questo luogo. Anche prima del Fazio, uno scrittore spagnuolo, che però è del secolo XV, Gutierre Diaz de Games, narrando sotto il titolo di Victorial gli avventurosi casi di don Pero Nino, inseriva con qualche variante cotesto racconto, da lui appreso in Francia, a spiegare le cause che avevano prodotta la lunga guerra tra questo regno e 1’Inghilterra. In esso un duca di Guienna concepisce dopo la morte della sua donna una turpe passione per la propria figliuola, ma costei si sottrae all’ infame seduzione, facendosi da un servo recidere le mani: gettata per castigo sur una nave in balìa de’ venti, per intercessione della Madonna è condotta in Inghilterra e la donna degli Angioli compie il miracolo, poiché le mani recise ritornano al loro luogo naturale, come prima. Frattanto un fratello del re d’Inghilterra, che è presente all* arrivo di lei, se n innamora e la sposa, e nel seguito, essendo morto il duca di Guienna senza lasciare eredi, viene colla consorte nel ducato per reclamarlo; ma i Francesi ne lo scacciano e dal canto suo il duca padre, inflessibile nell’odio verso la figliuola, ne aveva fatto un dono al re di Francia. « Tale, conclude il Games, fu il principio della guerra che dura ancora oggidì » (i). In questa versione e, per conseguenza, nelle appartenenti al gruppo medesimo del Fazio, del Bracciolini, del Molza, crede il Puymaigre che sia (i) El victorial, o historia de D. Pero Niiio Conde de Buelna, compuesta por Gutierre de Gamez su escudero, traduz. di Circourt e Puymaigre, Parigi, 1867, p. 258. — 234 — romanzescamente raffigurata la storia di Eleonora di Guienna. Innanzi di dichiararci pro o contro, riassumiamo brevemente la narrazione del Fazio. Sebbene, per la storica tradizione che contiene, essa si raffronti con quella del Gamez, appartiene però, quanto agli incidenti che l’arricchiscono, ad un altro ramo della leggenda. Inoltre il particolare delle mani tagliate è omesso, per dar luogo in cambio alla nera perfidia che la suocera commette a danno della nuora, soggetto ancor questo di tante varianti , e italiane e straniere. La situazione odiosa del padre amante della figlia é la stessa qui come nel Gamez; ma nella versione del Fazio le mani restano illese e la perseguitata si limita a lasciar di soppiatto la reggia e la terra natale per ricoverarsi, con l’aiuto dello zio, duca di Lancaster, in un monastero di Vienna nel Del-finato. Ma colà alla persecuzione paterna succede tosto quella degli amanti : un cavaliere ne muore, il delfino di Francia più fortunato la sposa; non però cessano i guai, ché il crudele odio della suocera, trama la rovina e la morte della innocente. L’inganno cui ella ricorre è ben noto ai cultori di questa leggenda popolare. Essa finge lettere dei governatori al re lontano (il delfino in questo mezzo era divenuto signore del regno), le quali accusano di gravissime disonestà la regina; finge lettere del re ai governatori, per cui egli ordinava che questa fosse tosto uccisa. Ma ai luogotenenti non regge l’animo di dannare a morte la misera donna: l’aiutano quindi a partire, ed essa col figliuolo, che da poco aveva partorito al re, si avvia alla volta di Roma. Quivi giunta ed entrata in un altro monastero , la sua santa vita dà in breve a ciascuno tale e tanta opinione — 235 - di lei, che Enrico imperatore romano la chiama come balia di un suo bambino. Frattanto il re, da Parigi tornato a Vienna, scopre la frode della madre, e venuto in una terribile collera ne fa giustizia esemplare: ma dell’eccesso non tarda a pentirsi, e s’incammina verso Roma coi suoi gentiluomini per rendersi in colpa al papa. Quivi riconosce la moglie ed il figliuolo, e felice li riconduce in Francia. Tale sommariamente il racconto, che nelle sue linee essenziali rientra nel vasto ciclo della fanciulla persegui-tara. Bensì é notevole il particolare che sul tronco della vecchia leggenda si innestò nelle tre versioni italiane, e in quella anteriore del Games. Ecco come ad un dipresso lo narrano il Fazio ed il Bracciolini. Ritornando il re in Francia colla consorte ed il figlio, approda nel porto di Marsiglia dove era giunto con un’armata bellissima il duca di Lancaster venuto, dopo la morte di Odoardo d’Inghilterra, a cercare la nipote. Lo scioglimento lo si indovina. Il duca ritrova la perduta figlia del defunto re, sua nipote e regina ad un tempo ; il marito riceve doppia gioia dalla notizia che la ricuperata consorte non solo era di origine nobilissima, ma erede di un regno. Dopo le indispensabili feste ed allegrezze, i reali sono incoronati magnificamente a Londra come sovrani della monarchia inglese. E poiché in processo di tempo nacque un altro figliuolo, il re già innanzi negli anni volle nel suo testamento che il maggiore fosse parimenti re di Francia, il minore d Inghilterra , disponendo, perchè si conoscesse che i due regni erano stati d’un solo, che il fratello minore e i suoi discendenti ogni anno il dì del Santo Natale e di — 236 — Pasqua mescessero il vino alla tavola del re e gli prestassero omaggio. Finché vissero i due fratelli le cose andarono assai piane; ma essi morti, i successori sul trono d’Inghilterra sdegnarono cotesto atto di vassal-laggio, e dal rifiuto nacque la lunga e crudele guerra che travagliò per tanti anni i due paesi. Due domande si affacciano naturali al leggere i particolari suddetti, e sono le seguenti: Quando e come nacque questa curiosa tradizione? Si appone al vero nella sua congettura il Puymaigre? Io invertirò l'ordine per cominciare da Eleonora, che, secondo l’erudito francese , sarebbe stata dalla leggenda trasformata nella casta principessa onde parla il Gamez. Per conto mio m’ affretto a dichiarare che non credo punto a questa spiegazione. Vediamo brevemente i fatti de’ quali fu pars magna la famosa duchessa d’ Aquitania. Figlia del vecchio conte di Poitiers, essa va sposa a Luigi VII re di Francia; ma, caduta in sospetto d’infedeltà, é divorziata sotto onesta cagione di parentela. Giovine di vent’otto anni, leggiadra, focosa e fastidita delle minute, esagerate devozioni del re, non si accora gran fatto dell’affronto, se affronto era, e alcun tempo dopo sposa Enrico, allora duca di Normandia, tre anni appresso re d’Inghilterra (anni 1152-1155). E costei avrebbe ad essere la povera reietta, la perseguitata che incarna una delle creazioni, se non originali del medio evo europeo, per lo meno delle più ammirate e soggetto di centinaia di racconti devoti? Il Puymaigre concederà che una rispondenza, per essere credibile, deve avere nella realtà storica qualche consonanza con la situazione della leggenda. E chi è che non sappia la fama onde godeva - 237 — Eleonora, per cui, stando alla nuova interpretazione, sarebbe occorso in modo tanto visibile e miracoloso l’intervento della Madonna? Guglielmo di Tiro dice che essa era imprudente, leggiera, dimentica persino della fede dovuta al letto coniugale. Vincenzo di Beauvais é più esplicito. Essendo la regina in Terra Santa, ov'erasi recata col primo marito resosi crociato, cc questi seppe che Eleonora aveva ricevuti doni da Saladino; sicché al ritorno in Francia non solo per questa cagione, ma p'er la cattiva condotta di lei, volle far divorzio. E, secondo che dice Elinando, essa non si diportava come regina, ma come cortigiana » (i). Mi si potrebbe obiettare che le sono queste testimonianze di chierici letterati, e che però il vulgo ignaro di tante cose poteva benissimo trasformare a sua posta una principessa assai libera di costumi in una santa circonfusa dell’aureola del martirio. Se non che 1 obbiezione cade dinanzi ad altri documenti di altra natura. Ecco qua un aneddoto, che si narra nel Roman de Jean d’Avennes, di una grande regina innamorata di Saladino. Nessun dubbio, almeno per me, cosi son chiari gli accenni , che non si tratti di Eleonora di Guienna. « La reine avoit connu Saladin pendant ses voyages en Europe, et elle en etoit devenue amoureuse, elle le fi) « Alienor fille du vieil comte de Poitiers fut la première femme du roi Loys, et en eut le roi deux filles, cest assavoir Aalis et Mane. Et comme ìlz furent allez ensemble oultre mer, il ouyt, ainsi comme leu dit, que la dame eut prins dons de Salehadin. Et donc quant iis furent retournez en France, il voulut departir delle, et non pas tant seulement pour celle cause, mais pource que elle se demenoit follement. Et, ainsi comme Helinand dit, elle ne se portoit pas comme reyne, mais comme femme folle ». Vincenti! Bellovacensis; Speculum hystoriale, lib. xxviii, cap. 129. — 238 — retrouva dans le Levant, et n’en fut pas moins éprise. Il se montra à elle sous les murailles de la ville d’Acre, ou elle étoit débarquée; il defioit les chevaliers chrétiens au combat. Elle le réconnut, et lui fit taire des complimens. Le soudan répondit d’une fa$on si galante, que la reine désira infinement de revoir cet aimable mahométan. Elle s imagina, ou fit semblant de s’imaginer, que, si elle pouvoit avoir avec lui une conversation particuliére, elle le convertiroit à la foi chrétienne, et l’engageroit à rendre aux chretiens la ville sainte et le Saint Sépulcre. Elle le persuada si bien au roi son époux, que ce foible monarque lui permit de se rendre (au moyen d un saut-conduit) à Jerusalem, pour avoir une conférence avec Saladin et le convertir. La belle missionaire part magnifiquement parée, et va chercher son néophite, qui vient au devant d’elle hors des portes de la ville. Par bonheur le roi avoit mis auprés de son epouse, pour gentilhomme d’honneur et capitaine de ses gardes et de son escorte, un chevalier fran<;ois de la plus grande bra-voure et du plus grand mérit, nommé Chauvigny. Celui-ci est témoin de la première entrevue de la jeune reine et du jeune soudan, et n’y voit rien qui l’edifie, mais au contraire reconnoit le stransports de deux amans, qui ont le bonheur de se retrouver aprés une longue sepa-ration. Il fait là-dessus ses reflexions. Peu de momens aprés la reine declare qu’elle va s’enfermer avec Saladin, pour raisonner sur les grands intérèts qu’ils ont à dé-mèler ensemble. Elle veut renvoyer son escorte et son cortége, comme inutiles au succés d’une négociation dont la base de voit èrre une confiance réciproque. Le brave Chauvigny sent toutes les consequences d’un pareil - 239 — arrangement, il s’y oppose ; et saisissant le moment ou Saladin s’étoit écarté et donnoit des ordres pour la reception de la reine, il s’approche d’elle. Pardon, madame, lui dit-il, mais je ne souffrirai jamais que vous vous preniez ainsi pour convertir un chevalier pa'ien ; avec ces fa^ons, au lieu d’amener des àmes à Dieu, vous pourriez bien envoyer la vótre à tous les diables. En disant ces mots, il prend la reine à brasse-corps, 1 enleve de dessus sa haquenée, la place sur le col de son chevai, reprend à bride abattue le chemin du camp des chrétiens, et remet la belle souveraine entre les mains de son epoux, qui, à son retour en Europe, se sépara d avec elle » (i). E dopo la prosa di romanzo, che doveva correre per altre mani che non fossero quelle di chierici soltanto, diamo luogo ad un rozzo quaternario che accusa da lungi la sua origine e fattura plebea: La raina de Franca — co ’Nrigo Curt Mantello per questo mondo sonase — qual eia fe $anbelo. a cui qe fosse laido — a liei fo bon e belo q’ela pianti le come — al re soto ’1 capelo (2). Ma anche senza di ciò, che non dissero le leggende e cronache inglesi degli amori di Enrico II con Rosmunda, la bella figliuola di Gualtiero Clifford, e dell odio geloso di Eleonora che, scoperto il secreto ritiro della rivale, la faceva morire di propria mano? Concludendo, troppo nota era la duchessa d’Aquitania, troppo nota cotesta (1) Cito dal Bartoli; Storia delia lett. ita1., IH, 63 e segg. (2) Tobler; Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, in Rivista critica della lett. ita!., anno IH, n. 2. Sebbene sbagli nel nomignolo attribuito ad Enrico, il quaternario allude però evidentemente agli amori di questo con Eleonora. — 240 — casa di Plantageneti che parve rinnovare in alcuna parte i tragici casi degli Atridi, perché prendesse cosi grosso abbaglio la leggenda popolare. Eleonora, cui un cronista attribuiva per madre un diavolo che sotto vaghe spoglie muliebri aveva sedotto il duca d’Aquitania, non poteva tramutarsi nella creatura, che pur nell'alta fortuna riassumeva in sé la sublime rassegnazione degli afflitti diseredati in cospetto della ingiustizia soverchiatrice. Per quanto si voglia concedere alla fantasia dei volghi, un punto di rassomiglianza tra la finzione e la storia ci ha pur da essere; tanto più se si ammette che la versione sia originaria della Francia, e di quella parte di essa su cui i Plantageneti più lungamente dominarono. Ma questa supposizione richiede, per essere comprovata un più lungo discorso. VI. Io credo realmente che il nostro conto nascesse nella Francia occidentale, e più precisamente nelle provincie di là dalla Garonna signoreggiate dai Plantageneti ; credo che realmente esso si riferisse alla storia di questa famiglia , sebbene non nel modo inteso dal Puymaigre. Tuttavia, per non affermar nulla senza prove — altri dica se di esse v’ é la realtà o l’apparenza soltanto — premettiamo la notizia di alcuni fatti. Eleonora era già passata a seconde nozze con Enrico II, allorché, per reciproco accordo, una delle figliuole di Luigi VII chiamata Alice, fanciullina ancora, venne affidata alla custodia del re inglese, essendosi prima convenuto che essa diverrebbe moglie di Riccardo cuor di leone, non appena i due — 241 — fidanzati fossero in età capace al matrimonio. Ma Riccardo non la sposò ; e corse fama che Enrico, abusando vilmente della facilità che gli era data, seducesse la giovinetta destinata sposa al suo figliuolo. Si noti, che qui importa, come la capacità a delinquere, per dirla co’ legulei, è confermata al re libertino dalla storia e dalla fama universale. Le ballate popolari e leggende e cronache, citate poc’ anzi per Eleonora e la bella Rosmunda, valgono anche meglio per il marito infedele. Quanto ai letterati, alcuni lo esaltavano come dotto, e valgano ad esempio le lodi che gli tributava Pietro di Blois (1); ma non mancavano altri, ed ecclesiastici in ispecie che avranno trovata larga eco presso il popolo, i quali vituperavano 1’ uccisore di Tomaso Becket come un tiranno più lascivo e crudele di Nerone. Si sentano i versi: Ut qui quaeris alium tibi praecursorem Quum illum Britanniae perversum rectorem, Qui triplici gladio' conira ius et morem, Impudenter messuit sacerdotum florem ? Quid fuisse facinus dicis in Symone ? Quid Neronem ventilas de seditione? Rex qui perdit praesulem in perditione Revera neronior est ipso Nerone (2). Ciò posto, ecco, a mio parere, in quale rapporto starebbero i personaggi della leggenda con quelli della (1) Egli scriveva ad Offamill : « Nani curii rex vester (Guglielmo II il Normanno) bene litteras noverit, rex noster (Enrico II) longe litteratior est. Ego autem in litterali scientia facultates utriusque cognovi. Scitis quod dominus rex Siciliae per annum discipulum meus fuit, et qui a vobis versificatoriae atque litteratoriae artis primitias habuerat, per industriam et solicitudinem meam beneficium scientiae plenioris obtinuit v. Cf. Bartoli, I primi due secoli della Ietterai. ital., p. 39. (2) Du Méril ; Pois. pop. lai. du tnoyen dge, Paris, Didót-Franck, 1847» P- !45-Atti Soc. Lig. Soc. Patria. Voi. XXIII. — 242 — storia. La casta principessa che, figlia cl’ un re d’ Inghilterra, si ricovera in Francia per sfuggire alla turpe passione paterna sarebbe Alice, la giovinetta promessa sposa a Riccardo cuor di leone; Enrico II il padre insidiatore; Riccardo, il delfino che diviene marito della fuggitiva; Eleonora di Guienna, la malvagia suocera. Chi sa poi in che maniera le leggende si formino e si traspongano, non stupirà che nel racconto del Gamez la principessa sia condotta, per un cammino opposto, dalla Guienna in Inghilterra. La Guienna, recata con altre provincie in dote da Eleonora, non era divenuta un possedimento del re inglese? non costituiva coll’Inghilterra un unico dominio? E i Plantageneti usavano dimorare ora di qua ora di là dalla Manica. La versione, che introduce nel suo libro lo scrittore spagnuolo, è spoglia di parecchi incidenti che costituiscono invece lo sviluppo principale di altre, non solo francesi, ma europee. La parte che riguarda la suocera, per un esempio, il suo tradimento, il suo castigo é interamente taciuta. Cotesta brevità dovrà ritenersi, come vorrebbe il Puymaigre, quale segno della sua antichità, anzi priorità verso tutte le altre, o non piuttosto é indizio di una redazione posteriore che divenne più schematica, per i molti particolari lasciati cadere in oblio? Non é possibile asseverare nulla in componimenti che si tramutano e confondono senza posa, ed ora si abbreviano con un processo che non é punto logico, ora si sviluppano per l’aggregazione di altri conti leggendari. Ritornando alla versione del Fazio ed alla spiegazione di essa che ho tirata in campo, una difficoltà sarebbe rappresentata da Riccardo che non fu delfino di Francia e che non sposò Alice. Ma non s’ ha — 243 — a pretendere, ben s’intende, che una leggenda si adatti parte a parte al fatto storico, purché una rispondenza C1 sia; e nel caso speciale il popolo che la pensa e ragiona a suo modo, poteva, non a torto, considerare come effettivo lo sposo promesso di tanti anni e come principe francese colui che, se non di grado, lo era almeno per origine, per dimora, per lingua e perché infine si protestava tale. Riccardo non sposò Alice, come narra la favola, ma lunghe trattative ci furono per questo scopo, e vivendo Luigi VII e dopo la sua morte, con Filippo Augusto. Ancora nel 1189, ossia pochi mesi prima che spirasse in Chinon maledicendo i figliuoli e 1 ora stessa in cui aveva veduta la luce, Enrico II prometteva di consegnare Alice sorella di Filippo ad uno dei cinque baroni che Riccardo sceglierebbe per custodirla. Che cosa fosse in seguito di questa fanciulla non risulta (1). I figli di Enrico, tutti più o meno ribelli al padre, ricorsero successivamente per ottenervi protezione a Luigi VII ed a Filippo Augusto. E non si rifiutarono presso la corte francese a quegli uffici che, anche secondo le idee del tempo, significavano l’omaggio di un vassallo o di un cortigiano al suo signore. Per esempio, Enrico dal mantel corto, il re giovine di Dante, cui era stata assegnata la dignità di siniscalco di Francia, avendo accompagnato' nel 1169 il padre a Parigi, adempiè all’ufficio del suo grado nel giorno della Candelaia, portando in gran cerimoniale vivande sulla tavola del re (2). (1) Sismondi, Hist. des Franfdis, Paris, Treuttel et Wurtz, 1823, voi. VI, p. 61. (2) Sismondi, op. cit., voi. V, p. 468. — 244 — Eleonora, madre di Riccardo, francese di nascita e già moglie di un re francese, gelosa, violenta, a volta a volta nemica del marito e dei figli, tenuta dal primo prigioniera per parecchi anni dopo la morte di Rosmunda, così narrano le cronache, ben si conviene colla malvagia suocera del racconto leggendario. In questo essa trama la morte della nuora innocente: nella realtà storica chi può dire che cosa non avrà dovuto patire l’infelice principessa sedotta da Enrico II? Del duca di Lancaster tacciono il Gamez ed una versione catalana che reca il Puymaigre, ne parlano i tre italiani che abbiamo menzionato; anzi il Bracciolini va più in là ed aggiunge il nome di Giovanni. Io lo credo un personaggio vero e reale, di introduzione assai posteriore, della fine, cioè, del secolo XIV. La casa di Lancaster era imparentata colla famiglia reale, e tra gli zìi di Riccardo II (a. 1366-1400) che, sebbene esclusi dalla reggenza, pure trassero in loro mano la somma del potere durante la minorità del re, si trova difatti Giovanni di Gaunt, gran duca di Lancaster. VII. Giunti a questo punto, se il mio cortese lettore ha avuto la pazienza di seguirmi, sarà anche chiarito, spero, sul perché io pure, cercando i riscontri reali più probabili a questa finzione, abbia ricorso ai Plantageneti. Gli é che io pure, accordandomi in questo con il Puymaigre, giudico che la nostra tradizione storica risalga al tempo dei dominatori inglesi di tal nome. E - 245 — le prove che si possono raccogliere, tanto interne dallo stato delle differenti versioni, quanto esterne, rendono del tutto legittima la congettura. Per prima cosa si noti che delle versioni conosciute, nessuna è anteriore al secolo XIV. L’illustre erudito francese, il cui dotto studio sulla fanciulla dalle mani tagliate già più volte m’ accadde di citare, ne riporta, come dissi, anche una catalana, Historia del rey de Hungria, ricavata però da documenti letterari in essa lingua de’ secoli XIV e XV. Lo direi un germoglio della tradizione francese, nato in un terreno non suo e quindi stremenzito assai. Ci si ritrovano difatti quasi tutti gli incidenti che costituiscono la leggenda nella sua ramificaziofte principale, più un fugace accenno, per ragione di nozze, ai due regni d’Inghilterra e di Francia, cui il narratore catalano unisce anche quello di Castiglia. E i nomi de’ luoghi e de personaggi sono francesi, tranne l’introduzione di un re d’ Ungheria, padre della fanciulla, forse per ismania nel-l’ingenuo narratore di sfoggiare erudizione geografica. Non manca neppur qui la suocera, una contessa di Provenza, che dà effetto nel solito modo alle meditate ribalderie contro la nuora. Costei, abbandonata a sé stessa sopra una fragile nave, arriva per gran ventura ad un monastero di donne; la badessa 1’ accoglie pietosamente, ed ella nel tranquillo asilo conduce 1’ usata vita esemplare. Qui ricorre la storia delle mani tagliate che si rappiccano miracolosamente a moncherini. Finalmente capita al monastero il marito che da tredici anni andava in cerca di lei, la riconduce a Marsiglia, e \ ivendo insieme d’amore e d’accordo ne hanno parecchi figliuoli. Una delle figlie va sposa al re di Francia, un’ altra al — 246 — re di Castiglia, la terza al re d’Inghilterra. Né vi si dice altro. Io recherò, come aggiunta, un passo del Barberino che non fu ricordato da nessuno, ch’io sappia. B un breve aneddoto, che si legge nella parte deci-masesta del Reggimento e costumi di donna, dove l’autore tiatta delle cure necessarie al corpo: « La reina di Francia a\e\a maritata una sua figliuola al re d’Inghilterra, la quale avea pochi capelli, e quelli tuttodì le cadeano; e per questo maritaggio si facea pace d’una gran guerra. Il ie d Inghilterra udendo questo difetto non la volea » (1). Il Barberino riduce la cosa ad una piccola astuzia di fem-minette volta ad ingannare il reale fidanzato. Difatti egli continua: « La madre, ciò saputo, faciea raccogliere del capei venero e seccare, e poi ardere, e faciea mettere la cienere innun drappo a bollire in la liscia per mantenere i capelli e moltipricare ; con la qual liscia la faciea lavare, sicché non tocasse dove pelo non volea » , ecc. ecc. Noi sappiamo ora che l’espediente dei capelli tagliati, per cui la ragazza si priva del suo più caro ornamento muliebre, ritorna in più luoghi di questa letteratura popolare; espediente al quale in altre versioni si sostituì 1 assurda e brutale storia delle mani mozze. Il D’ Ancona e il Puymaigre hanno prodotto su questo particolare riscontri importanti. Ma frattanto il fatto, che a noi importa, di una grande guerra nata tra i due popoli per cagione di un matrimonio, é esplicitamente accennato, e mi pare anche curioso che la versione del Barberino, meglio di altre, si avvicini ne’ suoi termini al fatto sto- (i) Del lecrgnneuto e eostumi di donna, di messer Francesco da Barberino, per cura di Carlo Baudi di Vesme, Bologna, Romagnoli, 1875, p. 381. - 247 — rico. Anche il Brantóme, più tardi, nelle sue allegre Memorie delle dame galanti, chiamava la moglie di Enrico II nostre reyne Leonor duchesse de Guy enne (i). Alice figliuola di una regina francese andava in effetto fidanzata al futuro re d’Inghilterra. Assai più dubbiosa è un’ allusione che per incidente occorre nel Dittamondo e che, tuttavia, direi non estranea a questa popolare tradizione. Il poeta e la sua guida s’avviano verso Parigi, e da per tutto vedono arsa e guasta la contrada : Le larghe strade venute sentieri E i campi senza frutto e senza biada. Incontrano un corriere che, interrogato della causa di tanti danni, risponde: Degàte tout et malemeue ainsi Par sa valeur Odoard d’Angleterre Et de Galles et d’Essex et de Derby. Ed io: Pourquoi on comen^a la guerre? Pourquoi? — fitz-il, pour son heritage Il domandait Paris et toute la terre. Dont notre roi se tint à grand outrage, Et pour telle chose on commenda le trif, Que France a gàté et detruit son bernage. Bien la guerre dure vingt six ans Tant fiere et forte entre ces rois ensemble, Quant jamais fut entre Carthage et Romans. De tout Calais chacun déjà s’assemble, Et il veut rnourir, voyant le roi h.irdi, Six mille lanciers et plus barons ensemble. (i) Brantóme; Mémoires des danies gaìantes, t. II, p. 311 se8§- — 248 — LA notre roi s’enfuit desconlit, Après s’en vint Odoard et les Bretons Tres tòt ardentes jusque près de Paris. Une autre fois se montre à ses barons Le roi de France, et fait son garniment, Pour se venger de ce triste abandon. Je te dirai qu’il ramassa grand gens Forts et hardis , mais le ciel fit son arrèt, Car vaincu (ut il et pris enseniblement. Pour vrai te dis-je que celui de Calais M’était assez fort mon roi pour sconfire, Si propre Dieu ne l’avait arrété. Or je te conte en bref notre martire, Encore te dis que j’ai peur de pis, Si Dieu à tems n’entends nos soupirs. Après un long siège on lui rendit Calais, Et te dirai-je, sur la mer de Bretagne Tant que tenoit mon roi, s’en est allé (1). Il passo nelle sue allusioni è assai chiaro. Calais fu presa, dopo non lungo assedio, da Edoardo III d’Inghilterra, il 4 agosto 1347. 11 principe nero, suo figlio, vinse e fece prigione Giovanni I re di Francia, nella battaglia di Poitiers, combattutasi il 10 settembre 135^* Dirò più oltre la ragione di queste date. Ecco ora il fuggitivo accenno al quale poc’ anzi mi riferivo. I due viaggiatori hanno lasciata l'isola di Francia e la valle del Rodano, e da Avignone passano nell’A-quitania, nel paese bagnato dalla Loira ed infine nella vecchia Armoricana. (1) Fazio degli Uberti; Il Dittamondo, Milano, Silvestri, 1826, lib. IV, cap. 17. - 249 — Acciò, disse Solin, che non rimagna Terra di qua che non ti sia scoperta, È buon cercar per la minor Bretagna. Io fui in Gaunes, dove ancor s’accerta La morte di Dorens, e la donzella Che il corner lassò al re di là deserta (i). La tradizione é stronca, secondo il vezzo dell’ Uberti, ma pure non mi pare che la congettura sia del tutto infondata. Nella Bretagna, che, insieme con l’Aquitania e l’altre provincie occidentali della Francia, era stata in ispecial modo il campo delle gesta dei Plantageneti, (i) Uberti, op. cit., cap. 23. — Non mi venne fatto di trovare il Gaunes menzionato dall’ Uberti. 0 forse si ha da leggere Gaure, piccola contrada che corrisponde a quella già abitata dai Gales, o Garites, un popolo dell’Aquitania nominato da Cesare? (De bello gallico, lib. Ili, 27). II cammino tenuto dall’Uberti non contraddirebbe a questa supposizione, sebbene non vi sia nulla di cosi irregolare ed illogico come il modo di viaggiare descritto nel Dittamondo. Tuttavia, riassumendo, il poeta si parte da Avignone e cerca la Guascogna e le Turonc Le quai provincie son d’Aquitania. Entra poi nella Turenna e visita una città che nella contrada siede; Turonia è detta eh’ è tanto vetusta, Che prima alla provincia il nome diede. Se non che a questo punto, non si sa perchè, torna indietro a circoscrivere l’Aquitania, assegnandole i confini di Cesare: Tutta Aquitania si chiude e si lista Tra la Narbona e il paese di Spagna, E tra il mare Oceano si regista. Fanno seguito i versi Ji sopra riportati. Niente più naturale dunque, da parte dell’Uberti, poiché aveva citato allora allora l’Aquitania, che ricordasse una tradizione ancor viva nel Gaure, ossia nella contrada appartenente a quella provincia, e per di più posta sulla Garonna, il fiume che egli stava per varcare, volendo di là recarsi nella Guienna, nel Poitou e nella Bretagna. Ciò che è più singolare in questo passo del Dittamondo, si è che il poeta salta dall’ una all’altra provincia, dall’Aquitania all’Armoricana, senza darsi pensiero delle intermedie ; circostanza che però rende vie meglio credibile la nostra congettura. — 250 — ancora in questo tempo si certificava della donzella che il corriere, — forse colui che doveva preannunziare l’arrivo di questa principessa? — lasciò deserta dei suoi, abbandonata nelle mani del re inglese. Il poeta nel passo precedente dipinge con foschi colori la desolazione portata sul suolo francese dall’insolente vincitore: era naturale che, giunto in quei luoghi, raccogliesse volentieri il ricordo del triste dramma onde attori erano stati i Plantageneti, gli antenati di quei re che allora incutevano alla Francia tanto terrore. Il fatto era popolare, quindi di esso il semplice ricordo che leggiamo. Io comprendo benissimo l’obbiezione che mi si potrebbe muovere. — Alla fin fine cotesta non sarebbe se non un’ allusione al fatto storico; e non è meraviglia che ne rimanesse un’ eco in una regione che aveva veduto e vedeva tuttora cosi di frequente questi dominatori suoi e dell’Inghilterra. L obbiezione è giusta ; ma giovi ripetere qui che era 1 eco di una tradizione popolare, e l’attesta il verso: Io fui in Gaunes dove ancor s’accerta. » L Uberti tralascia ciò che non era confacente al suo tema e non ci dà più di un tocco rapidissimo. Ma come non ammettere che la tradizione di una lunga guerra che nacque tra i due popoli, non fosse parimenti nota nella Bretagna? Il Barberino, che, desumendolo da memorie francesi o provenzali, l’aveva ricordato, era morto il 1348, ossia per lo meno nove anni prima che 1’Uberti scrivesse i versi di sopra citati. 1 due cenni si completano, a parer mio, sicché possiamo senza tema di avventatezza giungere alla conclusione, che nella prima metà del secolo XIV questa tradizione già esisteva. Ma — 251 — v é egli alcuna probabilità che la sua origine rimonti ad un’epoca anteriore? Vediamo se é possibile dare una risposta soddisfacente a questa domanda. Se noi leggiamo con un po’ d’attenzione il racconto leggendario, nell’ultima parte specialmente, ci appare chiarissimo che scopo precipuo di esso era stabilire la superiorità della Francia rispetto all’ Inghilterra, quella stessa superiorità che intercede tra il fratello primogenito ed il minore. Ciò é detto quasi ad un modo dai tre italiani che narrarono la leggenda, ed è implicitamente fatto intendere dal Gamez: l’avere i re inglesi disconosciuto cotesta superiorità del re di Francia, fu cagione, come abbiam detto, di guerra. Il Bracciolini, toccato dei gravissimi mali che ne nacquero, soggiunge : « Imperò che con grande exercito passati e Franciosi in Inghilterra, mossone guerra agli Inghilesi, la quale con incredibil ruina di ciascuna provincia, senza mai aver trovato medicina atta a curare gli animi loro, anzi per ogni minima cosa accesosi, per infino a’ tempi nostri è durata », ecc. 11 Fazio usa a un dipresso le stesse parole; il Molza é più breve, sebbene la sostanza non muti. « Ne nacque, egli scrive, tra 1’una e l’altra natione odio grandissimo et anchor vi dura ». Da tutto ciò, come dal complesso della narrazione, traspare evidente l’orgoglio nazionale francese, che reputava come debito quell’atto di vassallaggio prestato ai suoi re e che si doleva non fosse più mantenuto. Ma questo lagno sarebbe stato ragionevole muoverlo prima di Giovanni serica terra e della Magna Charta da lui accordata (a. 1215)? No; per un secolo e mezzo dalla conquista di Guglielmo il Normanno, la nazione inglese non ha storia propria: — 252 — i re stranieri che siedono sul trono d’Inghilterra, malgrado le frequenti contese col popolo vicino, riconoscono tuttavia i re di Francia siccome loro signori feudali. Abbiamo veduto 1’ ufficio di obbediente vassallo prestato per Enrico dal mantel corto alla mensa del monarca francese nel giorno della Candelaia. Le condizioni mutano con l’avvento al regno di Giovanni senati terra. Per la concessione della Magna Charta, il popolo inglese cessa di essere Un volgo spregiato che nome non ha. L unione fra i due popoli,.sassone e normanno, si viene gradatamente compiendo : i conculcati aspirano ormai al nome di nazione e s’avviano risolutamente a diventarlo. Due generazioni ancora ed Edoardo I metterà in armi un esercito di centomila uomini, col quale strapperà la Guienna alla Francia ed aggiungerà la riluttante Scozia al suo dominio. Il popolo inglese, fin dal principio del secolo XIII, comprende di avere interessi diversi da quelli del vicino di là dalla Manica, e cessa di considerarsi come suo vassallo. Infine la condotta subdola e crudele di Giovanni precipita gli avvenimenti. Citato dalla corte dei Pari di Francia, come autore dell’ uccisione di Arturo duca di Bretagna, egli nega di presentarsi, e viene dichiarato colpevole di fellonia e di assassinio; le provincie possedute dai Plantageneti sul continente sono riconquistate da Filippo Augusto; per la contesa sul diritto di nomina dell’ arcivescovo di Cantorbery, il papa Innocenzo III scioglie i sudditi dal giuramento di fedeltà ed offre la corona d’Inghilterra al re francese: questi si apparecchia a discendere nel- - 253 - l’isola — una minaccia vana per allora — ; ma le armi francesi vi entrano in effetto poco dopo, allorché Giovanni tenta violare le concessioni fatte colla Magna Charta e distruggere i baroni ribelli. Questi incitano a passare in Inghilterra Ludovico figlio di Filippo Augusto; e il giovine principe, sostenuto da un esercito del padre, va a prendere possesso de’ suoi nuovi stati. Ecco, a mio parere, il primo de’ monarchi inglesi che denega il consueto officio al re di Francia — Giovanni sen^ct terra —; ecco il grande exercito di Franciosi che, provocato al castigo, passa nell’ isola contro gli inglesi — l’esercito di Filippo Augusto. Concludendo, la versione narrata dal Fazio e dal Bracciolini si formò, per opinione mia, durante il regno di Giovanni senza terra, ossia nei primi anni del secolo XIII; nacque in Francia, come rivendicazione dei diritti che il popolo francese vantava sopra l’isola vicina, e le cui ragioni la coscienza popolare intendeva e spiegava a suo modo, rannodando al nome dei Plantageneti un vecchissimo conto diffuso e ripetuto diversamente in tutta l’Europa. Non occorre dire che i successivi avvenimenti e le grandi vittorie di Edoardo III e del principe nero, i due re che a Crécy (a. 134^) e a Poitiers (a. 1356) misero più largamente il loro ferro nelle vene dei francesi e — fecer l’erbe sanguigne — avranno dato più frequente motivo di ripetere e amplificare l’ingenua narrazione. Portiamo ora nella favola del Gamez questo criterio di luogo e di tempo, e vedrassi come anch’ essa si rischiari e riconfermi le nostre congetture. « Allorché il duca* di Guienna mori senza lasciare eredi, scrive il — 254 — Gamez, il signore inglese che ne aveva sposato la figlia venne nella Guienna a reclamarvi il ducato; ma i trancesi non glielo cedettero, al contrario lo scacciarono dal paese, però che tra essi era sempre stata inimicizia ». — Ebbene, il' regno di Odoardo I, il fortunato conquistatore della Guienna, dura dal 1302 al 1307; la leggenda dev’ essere posteriore a questo tempo, e ricorda a suo modo, coi motivi che le son propri, questo avvilimento; se non che, come la boria nazionale dei romani raffigurava nelle loro leggende in aspetto di v e fuggitivi i Galli vincitori, cosi la boria nazionale dei francesi ci dà come scacciato dalla Guienna colui che in realtà 1’ aveva conquistata. Vili. Osserva giustamente il Pitré: « Nella sua infanzia un popolo non racconta, ma favoleggia; il racconto nasce nella civiltà, quando cioè vi hanno fatti da ricordare » (i)- Il vecchio mito cosmogonico, se dobbiamo credere al W esselofski, qui si è trasmutato man mano in un racconto che rispecchia le credenze, le passioni e le illusioni pur anche ond’ era animato il popolo che ripigliava, trasformandola, la novella primitiva. Naturale quindi che in quest’ultima forma il soprannaturale sia sparito, e che al miracolo per cui Santa Uliva e la figlia del re di Dacia, per un esempio, si trovano rappiccate (1) G. Pitré; Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, Palermo, Pedone-Lauriel, 1875, voi. I, p. 67 segg. - 255 - a moncherini le mani ch’esse stesse eransi mozzate, si sostituiscano invece mezzi del tutto umani. Pur siamo sempre nel mondo mistico, fantastico della leggenda; ma s’indovina che ad un lieve soffio il tenue velo si strapperà e, scambio di essa, avremo un racconto borghese , grassoccio nell’ invenzione ed allegro nella morale. Gli è vero però, che dell’ esclusione dei miracoli e delle apparizioni celesti va dato merito, se merito è, alla redazione letteraria. 11 Fazio, che dei tre italiani che raccolsero e narrarono lo stesso fatto, è il più antico, traduce bensì da un rozzo testo volgare, com’egli dichiara, ma soggiunge tosto : Correxi inter scribendum quae mihi verissima videbantur, quo sibi [idei vindicet labor meus. Con intendimenti anche più profani, scrivono il Bracciolini ed il Molza. Eppure quest’ ultimo si valeva e poteva fare suo prò della tradizione orale. Citiamo le sue parole. — L’imperatore Enrico in sul finire del racconto si rivolge al re di Francia e gli dice : « Monsignore, tempo é ormai che v’attendala mia promessa et molto più di quello eh’ io vi promisi : voi solamente mi domandaste il figliuolo, et noi insieme la madre vi doniamo ». E l’autore a questo punto espressamente avverte : « benché un cert’ huomo da cui hebbi questa novella, mi affermasse che lo Imperadore, che non era il più dotto huomo del mondo, haveva detto : vi doniamo la vacca e ’l vitello, et che il re di Francia s’ era però stranamente addirato, ma ciò non è da credere in modo alcuno » (i). (i) Alla tradizione orale attingeva più tardi anche lo Straparola, che nelle Piacevoli Notti e più precisamente nella seconda parte della novella I. Notte I, r — 256 — L’arguzia villana imprime il suggello del tempo alla rozza novella udita dal Molza : cotesto é bene evo medio incivile, nemico alla donna che esso odiava come strumento diabolico di perdizione. E probabilmente il racconto popolare riteneva altre caratteristiche e più importanti per noi del tempo e del luogo d’ origine ; ma il Molza non vi bada, contento di sfringuellare discorsi boccacceschi di stile, come se i personaggi fossero altrettanti oratori saliti in ringhiera, e di ripulire concettini ne quali, egli cinquecentista, ci mette molto dell’ orpello del Marino. Il seguente periodo può esserne un brevissimo saggio. Conviene premettere che Odoardo con una lunga diceria ha messo in opera tutti gli argomenti per l’infame seduzione. « Tinsero le purissime nevi del volto della vezzosa fanciulla le abbominevoli et scelerate parole d’Odoardo, et d’alcune stillette di riporta, a mio credere, una sfigurata versione di questo conto sulla Pulzella di Francia. Eccola in riassunto : « La moglie di Tebaldo, principe di Salerno, essendo per morire, fa giurare al marito che dopo la sua morte egli non sposerà che colei a cui starà nel dito il suo anello. Tebaldo rimasto vedovo e cercando rimaritarsi, non trova altra donna cui l’anello convenga, fuorché Doralice, sua unica figlia. La vuole egli per moglie, ma la fanciulla inorridita vi si rifiuta: persistendo il padre nel suo proposito, essa si fa rinchiudere in un armadio e portare altrove. Cosi capita in Inghilterra, ove scoperta da quel re Genese, è da lui sposata. Ciò appreso, Tebaldo perseguita la figlia nella sua nuova dimora; travestitosi da mercante, s introduce nel palazzo reale, vi uccide i due figlioletti di Doralice e incolpa lei stessa del delitto presso il re. Questi vuol trarne aspra vendetta, ma alla fine si svela l’innocenza della donna » (Cfr. Giorn. stor. della lett. it-> voi. XVI, pag. 224). La fonte cui ebbe ricorso lo Straparola evidentemente era assai corrotta o piuttosto contaminata, se posso cosi esprimermi, di elementi diversi. Essa però ci è riprova che la storica tradizione consertatasi sopra il vecchio conto era entrata ormai nel patrimonio popolare; ma, se non erro, essa dimostra pur anche che cotesto motivo secondario andava nel Cinquecento rapidamente alterandosi per cadere forse affatto dalla memoria poco dopo. — 257 - tersissimo cristallo soavemente irrigarono, di cotali quali dal cielo nodrite cosperser alle volte leggiadrissimi fiori che s’aprono in contro al giorno et di porpora sì viva s’incoronano, che movano dubbio spesso a’ riguardanti, se l’aurora da quelli la tolga in prestito et se ne ingemmi et tinga le guancie, o se pur essi stessi all’ aurora la involano nascosamente ». E in sostanza per i letterati del XV e XVI secolo questa tradizione, come ogni altra somigliante, non é se non un piacevole soggetto di novella, una curiosità opportuna, poiché l’odio tra i due popoli era ancor vivo e verde al tempo loro. O forse l’umile virtù di quelle povere maltrattate Cenerentole, parlava mite al cuore con la soavità del ricordo, e quegli uomini si compiacevano di rendere in elegante latino, ovvero in magnifico volgare, una delle faccie meno antipatiche dell’ antipatico, per essi, medio evo. Che un’ aura de’ nuovi tempi spiri, e la povera fanciulla dal profilo vago indefinito, che si perde nella tenebra di un evo incivile, si affermerà nelle divine figure di Gretchen, di Ofelia e Desdemona. Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIII. ‘7 ' DOCUMENTI . . DOCUMENTO I. (pag- *s) Lettere ducali con cui si dispensa Iacopo Bracelli dall’ uffizio di cancelliere dello Stato in Genova, a beneficio del figliuolo Stefano. 1465, 3 settembre — 1466, 14 e 21 luglio. [Cod. Diversorum Concellariae, a. 1466-68, n. 1020: Arch. di Stato in Genova] mcccclxvi, die xxi iulii. Magnificus dominus Baldasar de Curte, in Ianua viceregens, et magnificum consilium dominorum antia-norum in undecimo numero congregati, auditis hodie claro legum dectore domino Antonio de Bracellis et Stephano eius fratre, filiis viri spectati Iacobi de Bracellis cancellarii comunis Ianue, super presentatione literarum ducalium per eos facta, quarum tenor talis est: Franciscus Sfortia Vicecomes, dux Mediolani Papie Anglerieque comes ac Ianue et Cremone dominus. Perspectas satis semperque habentes cum ingenuas animi dotes summamque et literarum peritiam et bonarum artium disciplinam viri egregii Iacobi de Bia-cellis, cancellarii nostri in Ianua predilecti, tum eius in rem ipsam publicam nostram Genuensem benemerita, ac eius ipsius filiorum universe denique eius familie singularem inconcussam integram in nos statumque nostrum fidem pietatem observantiam; teneri quidem videmur ac libenti ipsi animo ad illum filios eiusque familiam dignis favoribus atque beneficiis prosequendos honestandosque ultro inducimur. Cum igitur is, gravis iam senio confectus, huiusmodi cancellarie officio commode satis vacare nequeat, concedendum atque — 262 — dispensandum decrevimus quod vel sapiens et circumspectus legum doctor dominus Antonius aut Stephanus eius filii id ipsum cancellarie munus, nomine dicti Iacobi eorum genitoris, exercere possit, eo maxime quod utrumque ad id muneris peridoneum esse omni ratione censemus. Et ita tenore presentium , ex certa nostri scientia, proprio concedimus et dispensamus quod alter ex supranominatis dominis Antonio et Stephano , dicti Iacobi filiis, ipsius eorum genitoris vice et nomine, dictum cancellarie officium ab odierna die in antea usquequo in humanis gerit, et postea-quam e vita discesserit ad nostrum quoque beneplacitum exercere valeat, cum salariis honoribus oneribus emolumentis immunitatibus commoditatibus prerogativis et exemptionibus dicto officio debite spectantibus et pertinentibus et hactenus per ipsum Iacobum licite percipi solitis et haberi. Mandantes denique gubernatori et locum-tenenti nostro, ac antianis eiusdem nostre civitatis Ianue, quod vel dictum dominum Antonium aut Stephanum ex suprascriptis dicti Iacobi filiis in cancellarium loco patris admittant atque suscipiant, et pro cancellario habeant et tractent et tractari faciant, in ipsoque officio ponant et inducant, positumque tueantur et defendant, ac dictis de salariis emolumentis commoditatibus ut supra congruis temporibus illi respondeant et faciant cum integritate responderi. In quorum testimonio presentes fieri iussimus et registrai nostrique sigilli munimine roborari. Data Mediolani, die tertio mensis septembris, 1465. Blancha Maria et Galeatius Maria Sfortia Vicecomites duces Mediolani etc. Iohannes. Spectabilibus viris domini Baldasari de Curte doctori et gubernatori nostro, Ianue locumtenenti, ac antianis ibidem nostris dilectissimis. Dilectissimi nostri. La felice memoria dell’ ill.m0 quondam signore nostro consorte et patre concesse et dispensò,' per soe lettere patenti de’ dì tre de septembre de l’anno proxime passato, che lo egregio doctore domino Antonio da Berce (sic), 0 veramente Stephano suo fratello, podesse exercire l’officio de la cancellaria in — 263 — loco del loro patre etiam vivendo lui, attento che, per la infirmità ne la quale se ritrova dicto loro patre, male a le volte po attendere ad dicto officio. Et cosi mancando dicto loro patre, che qual se voglia de dicti soi fioli possa succedere in dicto suo loco, corno, in diete letere a le quali ne referemo se contiene. Il perchè, intendendo nuy che quello che una volta lo predetto signore nostro ha concesso habia loco, siamo contenti e volemo debiate exequire et mandare ad effecto quanto in diete lettere se contene. Data Mediolani, die xmi iulii, 1466. Iohannes. Illisque perlectis et tenore earum discusso ; consyderantes que in his litteris de prefato lacobo dicta sunt vera esse, nec indignum censentes quod qui cum virtute vivens in dignitatibus atque utilitatibus nequaquam deficiat etiam si laboribus vacare non posset, ubi maxime sufficere eius loco possit filium bonis moiibus imbutum , quive patri scientia ceterisque virtutibus similis aut nunc sit vel futurus videatur, ipsoque preclaro domino Antonio dicente placere ei quod Stephanus frater eius huiusmodi officium nomine et vice patris eius exerceat; predictas ducales litteras in omnibus prout iacent comprobaverunt, ac reverenter susceptas in omnibus obtinere locum voluerunt atque decreverunt quantum pro persona et in personam Stephani de Bracellis filii ipsius Iacobi, quem ad officium canzellarie, nomine et vice patris sui viventis et post vitam loco eius, admiserunt et admittunt in omnibus prout in eis continetur, ita tamen ut non prius cancellarie officium exerceat ipsoque fruatur, quam sit ingressus pro more collegium notariorum civitatis Ianue et in eorum societatem receptus. — 264 — DOCUMENTO II. (p“g- 15) Lettere di Tommaso Fregoso a Francesco Aurispa. 1439 1 3° luglio- [Cod. Litterarum communis, a. 1437-39, num. 8, 1784: Arch. cit.] Aurispae. Quamquam, doctissime vir, parva admodum nobis ocia sunt, quan-tulumuimque tamen id temporis est, libenter in lectionem conferimus. In presentiarum autem plurimum nos suavitate sua illexit Plautus, ita ut clausis ceteris libris omnibus hoc uno nunc oblectemur. Relatum nobis est esse tibi plus quam duodecim huius poete co-medias in lucem nuper revocatas: preter octo illas que vulgo in usu erant. Et quod nobis desiderium auget, opinamur illas quandoquidem apud te sunt, aut emendatissimas esse aut inter inemendatas satis emendatas. Gratissimum nobis fieret, si eo pretio quo liber a te comparatus est vel alium tibi parare potes, hunc nos haberemus: modo petitio nostra voluptati tue non obstet. Qua de re tecum sermonem conferet reverendissimus pater magister Iohannes de Montenigro. Tu nihil contra animum facito. Iuvabit tamen litteris tuis cognoscere comediarum et numerum et nomina. Vale et rescribe si quid ex nobis optas. Data penultima iulii, 1439. Thomas dux etc. DOCUMENTO III. (Pag- 29) Due lettere della Signoria di Genova a Nicolò Ceba. >432 » 31 gennaio e 18 febbraio. [Cod. Litterarum communis, Iacobi 'dfBracellis, a. 1431-34, num. 1781: Arch. cit.] Oldradus locumtenens et officium balie ac Romanie civitatis Tanue, nobili viro Nicolao Scipioni Ceba nobis carissimo, Andrianopoli. — 2 6j — Carissime, annexe littere quas nostris qui in Chio sunt obsessi scribimus unius sunt et eiusdem tenoris. Vehementi autem desiderio cupimus ut earum (i) ubique salve Chium ingrediantur. Non ignoramus terras obsessas intrari non posse sine difficultate: parte alia scimus prudentes ea que difficilia videntur arte et ingenio superare. Ex quo statuimus per tam longos terrarum tractus eas litteras ad vos mittere : onerantes vos quantum possumus ut varias vias tentantes enitamini eas vel earum aliquas Chium perferri, sive a greco, sive a tureo, sive mari, sive terra ut prudentie vestre videbitur. Et quia spectabilis genitor vester capitaneus navium armatarum (2), qui iam mense uno hinc recessit, iam debuit in terras illas pervenisse, si quid de illo persenseritis aut de Chio, id omne nobis nunciate et quiquid nostra cognitione dignum putabitis. Existimamus enim quod stante in Italia gloriosissimo imperatore, multi ob eam causam deberent Italiam petere, per quos facile erit scribere : possetis namque ordinare ut littere vestre primum illustrissimo domino nostro mitterentur, qui illas ad nos ocius mitteret. Itaque apponite in hoc studium et diligentiam. Data ultima ianuarii, 1432. Iidem. Carissime, mittimus vobis his annexas aliquot litteras, partim directas potestati et nostris qui sunt Chii, partim genitori vestro, ubicumque sit; alie magnifico domino Mitileni (3) scribuntur. Non ignoratis hec omnia fieri pro liberatione Chii, que quanti sit momenti ac ponderis facile est intelligere. Oneramus itaque vos ut eas litteras patri vestro et suas Chiensibus, viisque que tutiores videantur, mittere curetis, adhibita solertia ac diligentia quantum res .desiderat. Suas autem domino Mitileni mittere, scimus non esse difficile. Data xvm februarii, 1432. (1) Omesso navium. (2) Tommaso Scipione Ceba, corae risulta da precedente lettera nel codice ai Maonesi di Scio. (3) Dorino Gattilusio. . — 266 — DOCUMENTO IV. (P«g- 3») Genova, descritta da Francesco Filelfo, nella « Hecatostica Decima » della nona Deca della « Satyrae ». 14... [Cfr. Francisci Philelphi Satyrarum etc., Mediolani, per Christophorum Val-darpher, 1476; di pagine non numerate: nella Bibl. Nazionale di Milano] In Ligurum primam spectatum venimus urbem , Care Ceba,............ ......Genuam decus aequoris ingens Ausonii, veterem cupientes ponere flammam, Venimus, hanc scopulo postquam speculatus ab alto Occiduas qui frangit aquas, turimque superbam Sustinet obscuris tendentem lumina nautis, Specto: maius opus, quam mens humana putarit: Sum visus vidisse mihi, mirabilis urbem Nam situs excelsam, quam quisque triangulus hosti Terribilem reddit, toto facit orbe verendam. Nulla domus civilis inest: regalia late Undique nubiferas tolluntur tecta sub auras. Nec laterem monstrat paries, sed marmora miris Insignita modis latis insculpta fenestris: Mille quibus spatium decorant aequale columnae. Aedes quaeque suam referunt praegrandibus arcem Molibus: hostilis quae nullos horreat ictus. At superant cives animis et corpore culmen Omne superbiferum ; nec is est Genuensis habendus Qui se posse neget terraque marique potiri. Foemina, si formam spectes, Venus aurea: si rem Atque animi robur, coram micet ipsa Minerva. Nam quid templa Deum memorem, quibus instar Olympi Splendet honos? Nihil est non m.ignum, nobile, pulchrum — 267 — Urbe, Ceba dilecte, tua. Sed vera fateri Si licet, atque nihil penitus reticescere tecum, Sunt duo quis angor, quibus et te suspicor angi. Primum nulla tuos servat concordia civis, Sed varios semper tenduntque foventque tumultus. Id facit ambitio demens aurique cupido. ......Capite arma, feri, peregrina petentes Regna; nec hostiles in vos convertite poenas. Inde locum nimium quod me, vir amice, secundo Offendit, paucis, aures si adverteris, aedam. Omnibus in terris mos est quaesisse recessum Prostibulis (1): oculos ne laedant lustra pudicos. Vos, decus Italiae, servas carasque ministras In media prostare via plateaque frequenti Sole sub illustri permittitis? Unde pudendi Flagitii ratio? quae vos tam dira fatigat Causa mali? clunes agitantis vidimus ipsi Ad portum qua latus agit venalia vicus. Hic tergo spectabat eam: surgentia cuius Terga nates Veneri reddebant inguine gratas. Haec pedibus superos sublatis ridet, et ipsum Tollit curva caput: reor, ut male perdita mersum Ad reducem spectet rabida tetigine penem. Quae dum monstra gerunt, resonatque per ampla cachinnus Scamna tabernarum quae preteriere, puellae Ingenuae risere, Ceba, dum mille tuentur Nequicias hirqui. Veneris documenta protervae Barbaries quae tanta valet perferre nefandos Urbe sub Herculea mores, quos nulla priorum Saecula viderunt, qua Phoebus surgit Eous Usque sub Antipodas, quoscunque tuetur Iberus. Haec exempla domi servatis? qualibus uxor (1) Sic, — 268 — Cara ministrarum manibus, quae mille Priapos Tractavere die, potuque utatur et esca? Nonne putas famulas dominae narrare procaces Quae gessere toris? totiens me presserat ille, Hic totiens, quantam consurgat quisque sub'hastam? Quid natas primis iam secum reris ab annis Iis verbis versare animo? nam foemina semper Improbiora cupit, docilesque accomodat aures Turpibus obscaenis; nec sunt exempla patentis Dedecorosa probri de gente petenda molossa. Istic fama recens totam vulgata per urbem Nunciat ut tonsor celebri de stirpe puellam Egit in amplexus, domibusque abducta paternis Dum moechum sequitur, multum secum abstulit auri. Nec modo serva domi narrat quae gesserat audax, Nuncia sed moechi dominae tenerisque puellis Accedat; scelerisque nihil corrupta negavit. Haec ego sim tecum modice, vir amice, locutus, Quae graviore tuba referens atque ore tonanti In popolum Genuae facito; ne corpora naevi Candida liventes reddant deformia visu. DOCUMENTO V. (Pag- 33) Descrizione di Genova e dei suo porto, fatta da Antonio Ivani, accompagnando a Donato Acciaiuoli una carta della città e delle sue valli. *473 . 29 aprile- [Lettere Ivaniane, ms., I, 228 : Archivio Comunale di Sarzana] ......Videbis mollem (1) opus arduum manufactum qua portus efficitur. In eius ingressu turres duas noctu facientes duo magna luminaria, portus ingressum ostendentia, quarum sublimior (1) Sic. — 269 — in promontorio sita uno aut pluribus velis clara luce solet ostendere civitati tot naves aut triremes quot ex alto se offerunt in conspectu. Cernes in ipso portu lapideos pontes, triremium et cimbarum stationes. In molle columnas quibus onerariae naves alligantur. Extra portum vero ultra turrim illam sublimiorem , quae caput faris appellatur , alium sinum cum suburbio quidem oblongo , ubi naves ipse fabricantur. Pars illa in occidentem vergit, aliud urbis caput petit orientem. Quo in capite haud penitus per picturam expresso, suburbium est magnum, distans a littore in convalle quae a fluminis nomine Bisanne dicitur, locus ortorum apricus et villis frequens. Haec pictor et alia plura loca insignia velut abdita educere nequivit. Videbis insuper arcem in superbo colle moenibus iunctam et arces quoque sublimiores in montanis extra moenia, quae accessum ex Gallia cisalpina, ut quidam putant, tutiorem faciunt, quum esset urbis arci succurrendum. Cerni Pulcifera non potest, vallis ab amne nomen ducens. Est enim a latere occidentali frequens populo et villis, ducitque ad montana, incipiens a suburbio ubi naves onerariae fabricantur. Vallis ea planitiem habet amenam , non amplam admodum, sed oblongam millia circiter decem passuum, quae in Galliam quoque cisalpinam ducit. Numerus est undique villarum longe maior quam pictura ostendit. Sunt enim frequentes et amenae, utiles parum, utpote carentes amplitudine agri et ubertate. Singula quarum predia murorum ambitu cinguntur Difficillimum esset mihi edocere te urbana aedificia et aqueductus mirandi operis, fontesque per urbem scaturientes, et cuniculos in viis publicis urbanis pluviales aquas et sordes ad portum expurgantes: quanquam ipse palatium publicum discernere poteris vexillo crucis rubee signatum, et cognoscere viam illam memoratu dignam, quae, ubi apparent lapidei pontes, longo itinere portum ambit. Referta est enim officinis, tectaque domorum primis contignationibus cemento factis. Haec a latere maritimo lucem excipit per fenestras et transversas vias ex urbe ducentes ad portum. Si quem istic illius urbis peritum inveneris et picturam secum discusseris, te Genuam vidisse putes..... Sarzanae, m kal. maii, 1473. DOCUMENTO VI. (pag- S6) Lettera di Enea Silvio Piccolomini, vescovo di Siena e poi papa Pio II, a Tommaso della Gazzaia, per ragguagliarlo del viaggio fatto per mare da Piombino a Genova. 1431, 28 febbraio. [Dall’ autografo , nell’Archivio di Stato in Siena] Prestanti et.......... viro domino Tornine legum doctori famosissimo et Plumbini dignissimo potestati. Maior mi honorande etc. Promiseram me tibi relaturum litteris quoad possem omnia que tam domino meo quam mihi contingerent itinerantibus nobis, atque etiam, si qua viderem, relatu digna audiremque: sed meum consilium est nihil in presentia ad te scribere, nisi que oculis non vidissem tetigissemque manibus ; nam si me ad aliorum referam auditum , oportebit mendacio uti, quod mihi numquam placuit. Hac de re omnia que a me habes verissima arbitreris. Navem igitur ingressi, ventorum importunitate Corsicam partemque Sardinie circuivimus nocte non amplius una, et summo mane applicuimus ad Portum Veneris. Ibi galeam invenimus armatam, cum magna civium comitiva et commissario ducali, quam princeps illustrissimus Philippus Maria pro r. domino meo armaverat, iusseratque illam Plumbinum autem petere pro eodem r. domino. Cum ergo patronus galee, commissarius cete-rique cives obviam navi venerunt, a patrono nostre navis certiores facti uti cardinalem illuc traducebat, summo gaudio, atque ingenti affecti letitia clamitarunt, iusseruntque tubas cavere ac omnia instrumentorum genera que, pro honorando r. domino, dominus Epizinus miserat: tendebat quoque ad celum usque clamor nauticus. Conscendimus tunc galeam ; sed quia intractabile erat mare, in ipso Veneris Portu atque in Spetie tribus diebus moram fecimus; denique quarto die, placato mari, horis ante diem tribus viam fecimus ita felicibus ventis ut infra diei quartam horam Ianuam profecti essemus, invenimusque duas alias galeas armatas pro tuenda — 271 — illa que nos traduxerat. In portu vero ipso lanuensium subito occurrit r. domino meo Ianue gubernator locumquetenens Oldradus et dominus Epizinus atque ingens civium multitudo nobilium , et ipsum sotiaverunt usque ad sanctum Iohannem cum magno et campanarum sonitu et instrumentorum dulcedine, ubi domum egregiam omni apparatu hornatam sibi providerant; regio quidem luxu atque magnificentia, hoc in loco a prioribus civitatis copiosissime presentatus, ut et vini suavissimi et cere et confectionum omniumque aromatum quantitatem vix homines quinquaginta vehere possent. Ensenia etiam non minora a domino Oldrado suscepit, pariterque a domino Opizino, a nobilibus vero innumeris innumera dona sibi missa sunt. Hec sunt que huc usque possum tibi de r. domino meo referre. Ceterum miranda parantur sibi Mediolani, ut accepimus a plerisque qui omnia sciunt negotia illustrissimi principis, que cum videro ad te scribam. De me autem si qua velis audire, scias me incolumem Ianuam petisse, et quamvis maris insolentia turbatum, ilarem tamen atque iucundum, quoniam domino r. meo cedere omnia aspicio secunda. Postremo et scias que hic geruntur. Armata indubitanter paratur, triremes quotidie fabricantur , sed numerus galearum, crede mihi, minor est quam diceretur: navium vero maior, si vera sunt que ista aiunt. Naves que in portu fiunt armari omnes sunt circa quindecim, galee quidem xx; sed noli existimare armatam adeo in promptu esse ut dicebatur, nam credo prius martium currere quam portum exeat. Habent tum aliunde plures galeas et naves, et tu ipsé nosti iam quinque ad orientales partes ivisse, unamque esse in Portu Pisano. Ista ego et scio et vidi ; que autem audivi, videlicet miranda et pro statu illustrissimi ducis utilia, silere propositum fuit, ne quid veritati contrarium dicam. Vale. Ex Ianua, die xxviu februarii (1431). Eneas Silvius Picolominis senensis. Salutate ser Mino et tucti quei che sonno con voi da una parte. Orlando Palavisini è accomodato col Duca et qui è facta grande festa di ciò. — 272 — DOCUMENTO VII. (pag. 67) Lettera del Bracelli, in nome del regio governatore di Genova, Ludovico La Vallèe, al marchese Borso d’Este duca di Modena. 1460 , 8 luglio. [Cfr. Iac. Bracellei Lucubrationes, ed. Parigi, Ascensi, 1520, car. 61 r.] Illustri et excelso principi domino Borsio duci Mutinae comi-tique ac marchioni Estensi in primis observando. Crystallinas lagunculas mirabili arte celatas, dona vere regalia, pertulit ad nos, illustris et clarissime Princeps, spectatus legatus tuus Bonvicinus. Quarum opus quo magis intuemur, eo maiore admiratione capimur. Nam quamquam preciosa est admodum ipsa per se materia, ingenium tamen manusque artificis omne admirationis omneque laudis genus longe superare videntur. Accedit horum munerum precio, quod ab celsitudine tua profecta sunt, Princeps clarissime ac celebratissime, cuius famam eximiasque virtutes nullus est tam abditus orbis angulus qui ignoret. Nos ut gratitudinem animi nostri aliqua ea parte testaremur, circumduximus per stabula nostra Bonvicinum , precantes ut si qui essent ibi vel sonipedes vel alterius generis equi, ex iis quos animo tuo iocundos fore putaret, aperiret id nobis. Deinde quotas formosas ac proe-stantes mulas urbs hec habet, percenseri iussimus. Cumque nihil inter haec omnia inveniretur quod desiderio tuo satis responsurum crederetur, tunc demum nos pauperes esse agnovimus. Sed ne pauperes simul et ingrati videri unquam possemus, conversi sumus ad amicos, ut quae urbs haec non habet, ab his sumamus qui habent, et ex familiaribus nostris quosdam in remotiores terras misimus conquisituros aliqua quae fastigio tanti Principis, si non ex omni, aliqua tamen ex parte digna putentur, quemadmodum satius referre poterit idem Bonvicinus, cui super his et aliis renunciandis nomine nostro haberi cupimus indubiam fidem. Interim,. celeberrime Princeps, eas habemus agimusque liberalitati ac benivolentiae tuae gratias, quas prae magnitudine non satis digne - 273 — scribere aut eloqui possumus, longeque melius concipiet sapientia tua quam nos verbis aequare possimus, deferentes excellentiae tuae nos, hunc statum, et quicquid opera nostra possit, in omnem dignitatem tuam cupide semper paratos. Genuae, 1460, die octavo iulii. Ludovicus de Valle regius locumtenens et ianuensium gubernator. DOCUMENTO VIII. (pag. 68) Lettera di Eliano Spinola a papa Pio II. 1461, 15 aprile. [Membranaceo del sec. XV, in Miscellanea B, I, 32, della Bib. Univ. di Genova] Ad S. Patrem Papam Pium. Maximum apud me fuerunt argumentum bonitatis vestre et humanitatis, beatissime Pater, littere vestre Sanctitatis nuper mihi reddite, quae et singularem declarant affectum ad hanc rempublicam, et oblationes adiiciunt pro quiete et commodis eius quantum sublimitas vestra prestare possit. Ego, si is essem auctoritate et opera quem apud Sanctitatem vestram quispiam predicasse creditur, ea effecissem que Beatitudinem vestram ex me expectare credidissem, presertim ab hortationibus Sanctitatis vestre permotus. Cum vero ab eo quod persuasum est humanitati vestre procul absim , quod licuit effeci, senatum adivi, studium et affectum vestrum ad quietem et bonum ianuensium declaravi, amplissimas oblaciones aperui, et que dictu profutura putavi in medium adduxi. Hoc idem apud graves et primarios cives feci, et quantum persuadendo humilitas mea potuit curavi, ne iussis Beatitudinis vestre, que nihil aliud querunt quam quietem patrie, ulla ex parte deessem; presertim cum verissimam putem sententiam vestre Sanctitatis, posse hanc rempublicam communi christiani nominis bono multum conterre. Atti Soc. Lig. St. Patri*. Voi. XXIII. 18 — 274 — In quo aut me mea fallit opinio, aut certe conterre plurimum potest, si vobis permiserit Deus hanc novam pacem presidio vesti e Beatitudinis stabilire et ^id pietatis ac virtutis amorem converteie. Cui me meaque omnia supplex omni tempore commendo. Data Ianue, 1461, die xv aprilis. DOCUMENTO IX. (pag- 94) Lettera di Giano Fregoso a Gottardo Stella in materia di un segreto di Stnto. 1448 , 6 settembre. [Ms. Bracelliano , p. 94 : Civica Bibl. Berio in Genova] Ianus dux spectato ac doctissimo viro Gotardo Sarzanensi, commissario et cancellario nostro carissimo. Pervenit nuper ad manus nostras et quidem inopinata via id quod tibi his litteris inclusum mittimus, quam rem adeo cupimus reticeri ac supprimi, ut quid ea sit vix nominare audeamus; et tamen, si volumus ex ea fructum elicere , necessarium est ut qui sub spe bone pacis obdormiscunt, pericula sua et insidias sibi paratas non ignorent. Leges tu quidem id quicquid est, deinde si compertum habebis tractatum pacis in iis terminis situm non esse, ut intra pauculos dies concludenda sit, adibis magnificos dominos capitaneos, illisque referes nostro nomine pervenisse ad nos cognitionem rei que, si ab eis ignoretur, sit saluti ac statui suo pericula et letales insidias paritura: si vero eius habeant cognitionem, possint qui sit archana celaturus patefacere sibi quicquid nos exploratum habemus. Id cum sue Celsitudini proposueris, instato, moderate tamen, ut qui venturus erit, sit ea gravitate et fide ut possimus omnia tuto sibi committere. Is posteaquam Mediolano discesserit ad nos veniens, quarta inde die mittito illustri comiti, nostro nomine, exemplum hoc quod his litteris clauditur, ut et ipse sciat quid agendum sibi, quidve vitandum sit. Si vero magnifici domini capitanei rem negligerent, nec quemquam mitterent ad nos, - 275 — tunc petito ab eis ut vir deligant cui sub iuramento committas hec quae ad salutem suam pertinent, cui iurato leges semel et pluries hoc ipsum quod tibi misimus cum obtestatione perpetui silentii, ne fiamus nos cantilena et fabula eius rei: postea, sub eodem monitu, per hominem fidissimum comiti id ei mittito. Nobis tamen utilius longe videretur ut magnifici domini illi virum qualem diximus ad nos mitterent, qui non exemplum sed exemplar oculis ipsis inspiceret. Cuiusmodi ea res sit iam probe nosti, quid optemus verbis nostris patet, quale silentium res desideret, ipsa pre se fert: tu arte et qua soles prudentia omnia curato. Si autem pacis perfectio propinqua crederetur, recisis dilationum causis, hominem ab sua Celsitudine postulato qualem prediximus eique rem indicato, et posthac confestim ad comitem mittito. Ceterum nihil est aliud quod tibi digne scribamus. Abs te autem et cupimus et expectamus horatim cognoscere que isti domi milicieque gerantur. Data 1448, die vi septembris, vespere. DOCUMENTO X. (P»g- I23> Patenti di cittadinanza conferita dalla Signoria di Genova a Pietro Perleone ed alla sua discendenza. * 1451, 26 marzo. [Cod. Diversorum communis, a. 1450-51, nutn. 52, 547: Arch. di Stato in Genova] mccccli, die xxvi martii. Illustris et excelsus dominus Petrus de Campofregoso, Dei gratia dux ianuensium, et magnificum consilium dominorum antianorum comunis Ianue in pieno numero congregatum, quorum hec sunt nomina : Iacobus de Palodio prior, Georgius Grillus, Iacobus de Benissia, Nicolaus de Grimaldis Ceba, Petrus de Fo, Hyeronimus Calvus, Andronicus de Francis, Nicolaus Italianus, Donainus de Marinis, Marcus Cataneus, Petrus de Maiollo et Raphael de Auria; — 276 — Considerantes hinc doctrinam et multarum artium cognitionem, inde virtutes quibus egregius ac doctissimus vir Petrus Parleo, ariminensis, magnam apud bonos ac doctos viros famam haud immerito consecutus est, ac singulare preterea eius studium, quo ianuensi reipublice semper affectus fuit, adeo ut amore eius attractus natale solum reliquisse credatur, ut inter ianuenses vitam ageret, et qui ianuensis animo erat, incolatu quoque ianuensis esset. Intelligen-tes nihil prope equius esse quam benivolenti aliquo (r), insigni beni-volentie testimonio responderi; omni iure, via et forma quibus melius et validius potuere, et ex omni arbitrio ac potestate eisdem, illustri domino duci et consilio utrumque coniunctim vel divisim melius attributis, ipsum Petrum eiusque filios, nepotes, pronepotes totamque ipsius et eorum et cuiusque ipsorum posteritatem quemcumque procreandos et descensuram, in cives Ianue ex'nunc admiserunt, eosque omnes ac singulos ianuensi civitate et omni eius iure donaverunt , cum adiectionibus etiam ac declarationibus inferius annotatis; ita ut deinceps idem Petrus ceterique filii, nepotes, pronepotes , omnisque ipsorum et cuiusvis eorum posteritas quando-cumque gignendi ac propaganda , habeantur et sint in omnibus dignitatibus, honoribus, privilegiis, conventionibus, immunitatibus, exemptionibus, commodis, emolumentis, favoribus ac iuribus ad omnia tam Ianue et in omni eius dicione cismarina et transmarina, quam ubique maris ac terrarum, ut veri originarii cives Ianue. Nec inter eos et veros originarios ianuenses ulla disparitas aut differentia in quovis rerum eventu habeatur, eoque minus quod idem Petrus iam sibi domicilium in ianuensi urbe constituisse videtur, subitque onera, et ex coniugio mulieris ianuensis prope iam factus est civis. Ex quo sanxerunt ac preceperunt, et auctoritate huius privilegii et gratie precipiunt universis et singulis rectoribus ac magistratibus et quibuscumque sub quolibet dignitatis nomine ius dicentibus sive intra urbem sive extra ubilibet maris ac terrarum constitutis et constituendis, ut eundem Petrum et suos ut supra pro ianuensibus habeant ac in omnibus pertractent ut superius declaratur , servantes omnino privilegium ipsum, nec patientes contra illud quicquam prorsus attentare. (1) Sic. — 277 — DOCUMENTO XI. (Pag' ‘34) Quattro lettere di Iacopo Bracelli a Giovanni Mario Filelfo. f >455-1457- [Ms. Bracelliano cit., pp. 117, 7, 135, 29: Bibl. Civica, cit.] Preclaro artium doctori ac poete Iohanni Mario Philelpho, apud Taurinum. Iacobus Bracelleus preclaro artium doctori et poete Io. Mario Philelpho s. p. d. Multis ex causis iocundissima mihi fuit epistola tua, iv idus februarias data, qua et te valere et dignitates plerasque cumque his gratiam illius clarissimi principis consecutum esse cognovi, et quod in ultimis habendum non puto, quod in Taurinensi studio con-ductus, oratoriam legas. Hec mihi cognita eam voluptatem contulerunt quam amico afferre equum est subitam et accumulatam amici felicitatem. Et quanquam ingenium ac virtutes tua polliceri semper viderentur aliquando fore ut premia et laudes se dignas invenirent, ego maiorem tamen in modum laetatus sum, et quod ea tibi contigerunt et quod me eiusmodi iudicium meum non fefellit. Quum causas memoras quas propter tam diu a scribendo cessasti ? quod me mihi omnia de te spondere iubes, facis tu quidem pro humanitate tua perhumane. Verum nihil est cur te mihi excusatum esse magis velle debeas quam ego me tibi: libellis tuis, si quando in manus meas delati fuerint, neque magna legentis voluptas deerit, neque maior tui commendatio. Id enim habent amantum iudicia, ut in laudandis amicorum virtutibus parva sibi semper et nimium sobria videantur. Tu vale. Genua, nonis martiis, 1455. Clarissimo poete Mario Philelpho, ducali consiliario, apud Taurinum. Iacobus Bracelleus clarissimo poete Mario Philelpho ducali, consiliario, s. p. d. Multarum epistolarum quas ab amicis accipere in dies soleo, nulle me tam oblectaverunt quam hec tua posterior nonis decembribus data. Habuit enim multa, que sane absque ingenti voluptate legi a me nequeant. Sed illud vel maximum apud me fuit, — 278 — quod cura publico queri nomine soleam rara eaque admodum tenuia proposita esse virtutibus premia, sis tu nunc mihi inter perpauca seculi mei exempla, cui ee dignitates.....contigerunt quas tu ipse magnas arbitreris, quamquam amplissima sit necesse est ea merces, que ingenii ac memorie tue, quarum rerum singularia ac prope incredibilia experimenta dedi[sti], queque tam multiplici doctrine ceterisque virtutibus tuis par videri possit. Gratularer et quidem merito tibi pro iis, que ab humanissimo principe accepisti, nisi a sapientibus didicissem verius ac rectius gratulandum esse pro iis bonis que in te sunt, que, ut confido, admiratur et predicat princeps ille et tantis honoribus digna censet. Ea enim vere tua sunt, cum intra te sint. At que dantur, quum non dari et data eripi possunt, aliena verius quam nostra dixeris. Neque enim non pulchre dictum est, quod dari bonum potuit, auferri potest. Ego, mi Mari, ne reliquam epistole tue partem silendo preteream, nullos Genuensis populi annales scribere aggressus sum; qui, si qui fuissent, te vel in primis consuluissem an eos ederem, iudicium tuum, quod semper plurimi feci secuturus. Nolim tamen quum nihil opusculorum meorum ad te mitto, te ideo occasionem arripere non ea mittendi volumina quorum ingentem mihi cupidinem iniecisti. Sunt, ut concipio, codices tui prope dixerim sine numero, quam ob rem non sum adeo immodestus, ut ea omnia mitti postulem. Sed cum multa tuis litteris pollicereris, iniuria foret nulla misisse. Quod si dubitas quenam perferri ad me malis, quamquam omnia iudicio tuo relinquere equissimum est, ea si vis mittito que plus laudis et glorie allatura sint tibi, vel mihi plus voluptatis; cuiusmodi futura puto que Finariense respiciunt bellum. Ceterum binas litteras quas meis colligasti cum fide reddi curavi. Hec raptim. Tu vale. Genua, m nonas ianuarias, 1456. Iac. Bracelleus clarissimo ac doctissimo viro Io. Mario Philelpho s. p. d. Magna me voluptate affecit epistola reditus tui nuncia, non ex eo tantum quod peragrata Gallia sospes reversus es, sed quod insuper confectis prudenter, ut mihi persuadeo, negotiis, magnum inde nomen et ampla dona retulisti: ampla, dico, non tam pon- — 279 — dere vel predo, quam quod a regibus et qui regum splendorem prope obtinent ducibus data sunt; neque enim, si vere iudicare voluerimus, tam cogitandum est quanti sit quod datur quam quis det et quo animo. Accepisti a clarissimis toto orbe terrarum viris munera quibus te regum familiaritate, regum liberalitate dignum testati sunt: in te admirati, ut puto, cum ingenium, tum memoiiam et multiplicium doctrinarum erudicionem, que, in uno viro congesta, haud immerito nobis stuporem incutere solent. Codices quod aliquando pollicitus es, cum accepero, scio a nemine (i) magis laudatum iri, a nemine cupidius lectitandos esse. Nolo tamen tibi videri molestus extortor ; cum tuo poteris commodo mitti cupio. Ad principem meum delatum non est quod legato apud Saenam agenti dedisti carmen. Si penes te manet exemplar eius, habes quo possit huic iacture succurri. Hec raptim. Tu vale, decus meum. Genua, vi nonas martias, 1457* Preclaro ac doctissimo artium et utriusque iuris doctori, poe-teque atque equiti, d. Iohanni Mario Philelpho, ducali consiliario, apud Taurinum. Haud facile dixerim quam iocunda fuit mihi epistola tua cum suavissimis metris nuper accepta, quam tanta certe \oluptate pe legi, quantam ex poeta aliquo percepisse non memini. Habent enim magnam in se gratiam et facilitatem, habent orationem materie pe-rapte inservientem, et quod ingenii tui testatur ubertatem, cum 1 versa rerum genera scribendo aggrediaris, talem te singulis exibuisti, ut quodnam aptius executus sis, iudicari vix possit. Ex us carissimo principi nostro sua reddidi, a quo te magni haberi non dubito, cum omnes soleat qui virtute aliqua prediti sunt et amare et ma-gnifacere. Quod iubes Cebe et Laurentio gramatico tuas litteras mitti, facile impletum esset, si ulle in fasciculo invente fuissent; sed aut soluto eo subtracte sunt, aut, quod potius arbitror, non adiecte. Tu quid rei sit probe iudicabis. Curavi tamen ut epistolam cum carminibus ipsis Ceba legeret, ut voluptatisque mecum particeps fieret. Hec hactenus et iterum vale. Genua, vn kal. maias, 1457. (1) Sic. — 28o — DOCUMENTO XII. (P»g- <37) Lettori pubblici stipendiati dalla Repubblica di Genova. 1450-1514. [Dai codici Diversorum communis: Arch. cit.J Andrea Vigevio. . . . decreto del 1450, 14 maggio Div. n. 13 Marco da Rimini. . . » 1469, 20 gennaio » 38 Giovanni da Viterbo. » 1472, 13 gennaio » 98 » » » 1475> 18 gennaio » 104 » » » 1476, 16 maggio » rio Giorgio Valla..... » 1476, 16 luglio » 39 » » » 1478, 17 settembre » 119 » » » 1479, 22 aprile » 119 Camerte Achate . . . » 1485 > 19 dicembre » x33 » » » i486, 21 dicembre » 137 Battista Squarciafko da Acqui...... » 1494, 21 novembre » 1091 Bernardo Granello . . » 1498, 19 dicembre » 159 Francesco Pasino. . . » 1499, r.° marzo » 159 Battista Squarciafico . » 1500, 6 aprile » 139 Martino Betullio » 1501, 18 marzo » 1055 Battista de Luminario » 1503, » » 165 Bernardo Granello. . » 1506, 26 maggio » 171 Martino Betullio . . ( Alessandro Rotingo j » 1506, 31 dicembre » 172 Martino (Betullio) . . » I5°7> 20 marzo (1) » 177 Battista Luminario. 1 Martino Betullio . . \ » 1508, 31 agosto » 179 (r) Con provvedimento del 29 maggio stesso anno 1507, la Signoria donava al Betullio un luogo delle Compere di San Giorgio, quod eius potissimum cura et opera in lucem venerit ea Tabula enea mire vetustatis que nuper in divi Laurenti tempio collocata est, che è quanto dire la celebre Tavola di Polcevera. Ved. Atti della Soc. Lig. di storia patria, voi. XI, p. 17. Detti. . . . decreto del 1509, 26 marzo Div. n. 182 Martino Giustiniani . » 1509, 26 aprile » 182 » » » 1511, 12 dicembre » 183 » » » I5I3» 13 gennaio » 184 Benedetto Tagliacarne » I5i3> 13 maggio » 184 Martino Giustiniani . » I5I4 j 11 15 maggio dicembre i » 188 DOCUMENTO XIII. Cpag- 143) Inventario dei libri di Tommaso Fregoso. 1425, 20 novembre. [Cfr. Delisle , Le Cabinet des manuscrits de la Bibliothèque Natiouale, tome II, pag. 346 seg., Parigi, 1874] • Inventarium eorum librorum qui inventi sunt in pul[c]herrimo studiolo magnifici domini Thome de Campo Fregoso, Sarzane tunc domini, qpi custodie recomissi sunt Bartholomei Guaschi die xx novembris mccccxxv (i). 1. Titus Livius trium decarum, corio vestitus, magni voluminis. 2. Liber de proprietatibus rerum, corio vestitus, magni voluminis. 3. Cathalicon (2) vocabulista, corio, etc. magni voluminis. 4. Plinius de naturali hystoria, corio, etc. magni voluminis. 5. Joxephus de hystoria iudaica, corio, ete. magni voluminis. 6. Tragedie Senece, coperte viiuto nigro. 7. Virgilius Maro heneidos, corio, etc. [Hunc habet dominus Baptista]. 8. Affrica Petrarce in metro, coopertus viiuto cremesino. (1) Nota il Delisle: « J’ai distingué chaque article par un numéro d’ordre et mis entre crochets les additions qui ont été notées par une autre main. — Les articles 2, 4, 6, 8, 9, 12, 15, 16, 20, 22, 24-28, et 30, ont été biffés ». La biblioteca del Fregoso, con la notizia di questo inventano, e pure citata da Theod. Gottlieb, Ueber MitUìalUrliche Bibliotheken, Lipsia, 1890, pag. 246. (2) Corr. Catholicon. 9- Franciscus Petrarcha de viris illustribus. 10. A. Gelius noctium atticarum. 11. Tullius de officiis, coopertus viiuto nigro. [Hunc habet dominus Andreas canonicus. Restituit et est in domo]. 12. Orationes Ciceronis sive Tulii, magni voluminis, corio operte. 13. Vita multorum Romanorum, per dominum Leonardum Are-tinum de greco in latinum redacta, corio, etc. 14. Quintus Curcius unus in bona littera in pergameno, alter in papirro, ambo corio, etc. 15. Iustinus hystoriografus, corio, etc. 16. Paulus Oroxius, corio, etc. 17. Seutonius de duodecim Cesaribus, corio, etc. 18. Plautus comicus, corio, etc. 19. Terrendus comicus, corio, etc. [Hunc habet magister Ioseph. Restituit, et est in domo]. 20. Titus Livius vulgaris, corio, etc. [Hunc habet domina Caterina]. 21. Comentarium Caesaris, corio, etc. 22. Valerius Maximus, corio, etc. 23. Epistole Ciceronis ad Atticum, corio, etc. 24. Epistole ad Lentulum Crassum Brutum, etc. corio, etc. Ciceronis. 25. Epistole communes familiares, corio, etc. Ciceronis. 26. Petrus Crescentis de commodis ruralibus, etc., et simul de cosmografìa et alia, corio, etc. 27. Ludus scacorum, corio, etc. 28. Omne bonum scolla de iniuriam passo, corio, etc. 29. Cronica Ianuensis, corio, etc. 30. Recollecte Iohannis Stelle, corio, etc. Plures meo tempore in dicto studiolo inventi non sunt (1). 31. Opus Ciceronis de senectute. [Nunc est]. 32. Rhethorica Aristotelis translata per Filelfum. [Nunc est]. 33. Liber alcorani. 14. Liber cinigie equorum. [Nunc est]. (1) t Les quatre articles suivant sont été ecrits par une autre main » (Delisle). — 283 — DOCUMENTO XIV. (pag. 156) Lettera di Iacopo Bracelli al re Alfonso d’Aragona. 1449, 2 maggio. [Ms. Br.icelliano cit., p. 75: Bibl. Civ. cit.] Regi Aragonum. Si qua legatio, preclarissime et excellentissime princeps , vel a maiestate tua huc ad nos advenisset, vel a nobis ad eam profecta esset, postea quam illustris dominus dux noster in principatu fratti successit, non fuisset profecto satis cause cur ego de illo apud sublimitatem tuam verba facturus essem. Nam quicumque legatoium prudentiam tuam adiisset ea renunciare potuisset ex quibus summa sapientia tua cognovisset, si quis ideo amari meretur quod alium amet, quod colat, quod observet ac plurimi faciat, hunc ducem nostrum inter primos esse, quem ab humanitate tua amati vero affectu equum sit. Nam, ut alias virtutes que in eo multe ac preclare sunt preteream, quoniam id non agitur nunc ut laudes eius predicemus, est in hoc viro mansuetudo incredibilis ac prope inaudita. Est animus fortis ac in[per]territus, qui tamen sempei pacem preferendam armis putaverit. Mirus virtutis amor, adeo ut quibus aliquas inesse virtutes cernit, ii maximo in honore omni loco ac tempore apud eum sint, multaque eiustnodi de quibus, ut dixi, non est nunc mihi disserendum. Is qua primum die regimen publicarum rerum accepit, de tua maiestate perhonorifice inter domesticos locutus, inquisivit an quic-quam agendum superesset quod respiceret excellentiam tuam. Et cum rerum statum perdidicisset, pateram auream donum regium statim absolvi iussit, que ideo nondum perlata est quoniam cum latrones plerique mare infestum reddant, noluit eam periculis oblici. Decrevit etiam unum suorum potentiam tuam petere, cuius profectio perdifficilis visa est, cum et terras per quas transeundum fuisset pestilentia infecisset, et mare inaccessibile redderent orientales hau-stralesque flatus qui navigaturis ad orientem pertinaciter obstiterunt. — 284 — Quibus de rebus non absurdum putavi ad sublimitatem tuam pauca scribere, cumque scio virtute preditos ab tua magnitudine summo in honore haberi, tum ut, cognito huius principis nostri in eam animo, non ignoret quam equum et nature lege debitum sit ut ei in amore respondeatur. Que his in regionibus nostris gerantur haud dubito excellende tue nota esse omnia: post Piccininorum discessum, non tamen mediolanensis populi obsidio soluta est. Apud vicum Mainerium, qui inter Vercellas Novariamque positus est, pugnatum est die martis, xxn mensis aprilis, fusi fugatique sunt Sabaudiam Galli a Bartholomeo Collione uno Sfortianarum partium duce, captis ex hostibus equitibus ad mccc. Mittitur ad maiestatem tuam vir egregius et principi nostro perfamiliaris, Franciscus Caitus , qui , si mari accedere tuto potuisset, data fuisset ei cura patere perferende. Verum prima in navi mittetur, quandoquidem terra satis commode ferri nequit. Hunc tua humanitas audiet citoque intelliget hunc nostrum ducem inclitum ex iis esse qui digni sunt ab tua benignitate peculiarius amari, que soleat nihil tam magni facere quam veram virtutem. Ego autem qui me meaque omnia, captus admiratione virtutum tuarum, iam dudum sublimitati tue dicavi, hec ipsa mansuetudini tue supplex commendo. Vale, decus regum, gloria seculi nostri. Genua, die 11 maii, 1449. DOCUMENTO XV. (pag. 167) Lettera del Bracelli a Raffaele da Pornassio, inquisitore generale. 14.., 22 settembre. [Ms. Bracelliano cit., p. 37] Reverendissimo ac doctissimo patri domino magnifico Raphaeli de Pornasio. Mirifice oblectavit me, reverendissime pater, epistola tua. Nam nec illi cultus orationis deest, et ea est maceria que figmenta poetarum sacris etiam litteris admisceat. Memoras plerosque doctos — 285 — viros, quibus sententia fuit prophetasse Virgilium egloga praesertim quarta ubi dixit: Iam redit et virgo, redeunt saturnia regna. Iam nova progenies celo demittitur alto — et que eam legenti plurima occurrunt, et cum ab ea me opinione procul abesse videas, queris ea vaticinia quando implenda sint, si adveniente Christo salvatore nostro impleta non sint. Ego neque Virgilium prophetasse arbitror, neque voluisse nos opinari eum ut vatem futura predicere. Quid enim habet tota illius aurei seculi commendatio, quod non ad laudes Augusti Cesaris et interdum Pollionis planissime referatur ? Que si ad Salvatoris nostri adventum detorquere velis, multa profecto invenias adeo reluctantia ut se ad eam trahi sententiam nequaquam patiantur : ex quibus si unum aut ad summum duo in transitu degustavero , nolim propterea putes vicena aut plura deesse huic se interpretationi opponentia, que curioso lectori animadvertere haud difficile fuerit. Buccolici metri materia de rebus humilibus est. Quis autem credat doctissimum poetam unitatem Dei et hominis quo nihil sublimius cogitari potest, immo que adeo sublimis est ut nec cogitari satis possit, prenunciare volentem, buccoli cum carmen quo rem omnium altissimam caneret indocte ac perinepte delegisse ? Sed videamus quibus verbis rem eximiam et ingenia nostra tiascendentem exordiatur. Sicelides, inquit, muse paulo maiora canamus, de gregibus scilicet et armentis loquutus et ad illud insci utabile divine mentis consilium ascensurus, paulo maiora sibi aggressurus videbatur. Que ergo erunt maxima, vel si quid est supra maximum, si hoc divine sapientie profundissimum archanum bobus aut agnis paulo maius esse dicatur? Sequitur paulo post: Iam i edit et virgo, redeunt saturnia regna. Qui hunc locum intelligere creduntur, uno plane consensu affirmant virginem hanc Astream esse per quam poete iusticiam significari volunt. Quod si quis est qui de virgine matre Salvatoris nostri accipiendum putet, doceat quomodo ìedit illa que nondum fuerat. Nam redire testatur aliquem venisse, abisse et postea iterum venire. Non ergo de matre Salvatoris nostri id accipi ulla ratione' potest. Si saturnia regna aurea secula interpretemur , que fuit poete mens, quale erit illud Virgilii vaticinium ? quomodo redeunt aurea secula que constat nunquam fuisse? Nemo historicorum hactenus inventus est, qui ea secula unquam fuisse di- — 286 — cere ausus sit. Mihi autem sanctus Moses unus pro omnibus satis est, qui primorum parentum sobolem numerans e duobus primis fratribus alterum parricidam, alterum parricidio cesum tradit. Quomodo ergo hec redeant si nunquam fuerant, hec cum ex se satis manifesta sint, fateri necesse est ea in laudes Cesaris Augusti Virgilium cecinisse, quo imperante, clausis Iani portis, mira et insolita pax toto prope orbe terrarum diffusa est, quam si quis aliter interpretari velit, desinat et ipsum audiat Virgilium has laudes ad Augustum nudis verbis referentem : hic vir, hic est, inquit, tibi quem promitti sepius audis; Augustus Cesar, divum genus, aurea condet secula rursus. Quibus verbis quum prophetasse dicitur, affirmat non se prophetare, sed exquisitis preconiis Augustum laudare. Quanto autem et credibilius et verius sensisse mihi videntur fidelium quidam, qui scripserunt eam pacem que sub Augusto contigit, celitus demissam vere et eterne pacis umbram quandam et imaginem fuisse, que regem superne pacis advenientem ut precursor ac testis merito anteivit. Sed addis sanctos quosdam et doctos viros plane fateri poetas interdum divino spiritu afflatos esse ; quorum sententie nihil est cur repugnem. Verum non ex hoc infertur Virgilium prophetam fuisse, vel ut propheta futura previdisse ac cecinisse. Distinguens apostolicas quidam operationes, Spiritus sancti novem enunciat dona eius speciei quarum que in ordine sexta est prophetiam dicimus. Sit sane Virgilius inter afflatos a Spiritu sancto; contigit ei sermo scientie, contigit forsitan et sermo sapientie : his contenti simus, nec, quod ostendi non potest, cum his quoque prophetandi donum illi tribuamus. Nec illud negaverim quod affers conveniens fuisse divine bonitati ut qui pro salute utriusque populi mittebatur, haberet in utroque vates suos; namque habuit in gentibus plerasque sibyllas quarum ea vite sanctitas, ea pietas fuisse perhibetur, ut mirum non sit multa illis divinorum miste-riorum reserata fuisse. Hactenus de Virgilio. Que vero de adversis valetudinum causis eleganter a te collecta sunt admiror et laudo , etsi a me satis digne ea laudari non posse inteìligo. Ex suburbano meo, x kal. octobres. Iacobus filius tuus. — 287 — DOCUMENTO XVI. (pag- 174) Cinque lettere del Bracelli a Flavio Biondo. 1484 — I4SS- [Iac. Bracell. Lucubr., ediz. cit., p.49; Ms. Bracell. cit. ,car. 89, 19, 117,119] Iacobi Bracellei genuensis ad Blondum Flavium, apostolicum secretarium, descriptio orae ligusticae; prima aprilis, 1448. Reversus in patriam clarissimus vir Andreas Bartholomaeus Imperialis ab ea legatione qua apud Romanum Pontificem aliquandiu moratus est, cum multa de te non sine magna tui laude saepius loqueretur, in sermonem aliquando incidit eius historiae quam tu magno labore nec minore omnium expectatione scribere aggressus es. Inter quae ait cupere te, ut Liguriam cum suis populis quispiam regionis eius peritus exacte describat, ab eo haud contemnenda laboris portiuncula te levatum iri, modo is esset qui quod tibi praestari optabas posset implere, meque multa oratione quam plurimum valet hortatus est negotium ut susciperem. Ego cum scirem huit. regioni latissimos aliquando terminos fuisse, quippe cum Pisas in Liguribus conditas et Apuanos Ligures, quos agri Pisani populos esse constat, a probatis auctoribus traditum legamus quodque longe plus admirationis habet, Massiliam Pompeius Trogus inter Ligures et feras Gallorum gentes positam dixerit, operis difficultate deterritus pedem retuli. Neque enim quempiam seculi nostri quan-tumcumque doctissimum virum satis idoneum putavi, qui vetustissimas illas orbis divisiones iam prorsus abolitas vel (ut ita dixerim) sepultas, ita possit eruere, ut ex illa vetustatis caligine in lucem proferat quinam fuerint Liguriae constituti fines tunc cum Apuanus et Massiliensis inter Ligures annumerabantur. Verum posteaquam ex eo cognovi satis fore tibi si ora Liguriae, quam Plinius et qui eam divisionem secuti sunt Varo et Macra terminari voluerunt, accuratius describatur, haud invitus laborem suscepi, quippe qui a te et recte fieri et aequum postulari arbitrer, quum uniuscuiusque regionis urbes, populos, flumina caeteraque memoratu digna malis ab indigena quam ab externo cognoscere. Erit aliquod — 288 - praeterea operae precium, si in ea ora quae ut fertilitate plurimis ita salubritate amoenitateque paucis admodum cedit, pleraque invenias quae tibi res italicas dicere aggresso sine laude praeterire non liceat. Illud vero ante omnia mihi concedas velim, ne si diligentius omnia scrutatus fuero, minima persequi parvisque nimium immorari arguar. Aliud enim terrarum orbem dicturo proponitur, longe alia lex eius est quem unius tantum provinciae labor fatigat. In quo tamen si rationem legemque excessero, dum me ornandae patriae cupiditas longius rapit, scio huic facile amori meo veniam dabis. Iacobus Bracelleus preclaro ac doctissimo viro Biondo Foroli-viano s. p. d. Delati sunt tandem in manus meas ii libri quos sub instaurato Urbis titulo recens edidisti, quos ea ego aviditate percurri ut maiore certe nullo modo potuerim. Posteaquam vero ad exitum festinans perveni illosque rursum in manibus sumens omnia cepi attentius considerare, haud scio maiore ne voluptate an admiratione affectus sim. Et iam dum mihi tua scripta oculis animi su-biiciebant non modo Romam ipsam , sed singula membra singu-lasque regiones eius, fruebar voluptate ingenti ac prope incredibili : quod qui numquam intra terminos Latii pedem posui quasi in speculo Romam videbam, et ita quidem videbnm ut iam possem de singulis eius partibus ac edificiis eloqui et cum ipsis romanis civibus disputare. Accedit huic voluptati meae, quod quotiens ad roma-narum rerum historias transeundum est, iam habeo conceptas animo quasdam velut imagines montium portarum regionum locorumque celebrium quorum nominibus historiae ipsae refertae sunt, cum antea preter sonum nudumque nomen reliqua omnia ignorarem; quanto vero acrius ad animum penetret lectio illa in qua quicquid legimus intelligitur quam ea quae trans aures non evadit, magis perspicuum est quam ut in probatione laborandum sit. Verum me nihilo minor cepit admiratio cogitantem quantum laboris ac difficultatis superandum tibi fuerit dum ex illa immensa vetustatis caligine contendis eruere locorum nomina, nec nomina tantum sed quicquid quoque loco celebre ac memorabile fuerit. Post quae alium quoque offerre laborem et eum quidem arduum ac formidabilem necesse fuit, ut — 289 — quae supersunt operum vestigia .... queque edificiorum partes fuerint, posses ostendere. Nec te parum desudasse oportuit in acervis quibusdam ruinarum describendis. Nam cum quaedam fuerint vetustissima opera quibus vel sponte collapsis vel vi deiectis alia postea edificia successere, et tamen priora sequentiaque in iis fere ruinis prostrata conspiciantur : quanti laboris fuisse putemus post longas seculorum series tamquam crassam rerum ignorationem legentibus aperire quibus temporibus quibusque auctoribus et prima et succedentia extructa sint, ac postea ceciderint. Ego quidem haec et eiusmodi ita admiror, ut pro labore proque diligentia tua et operis utilitate non possim non clamare plurimum Biondo secula nostra, plurimum doctos, plurimum indoctos, plurimum posteritatem debere. Duo tamen iis libris annotavi in quibus a te dissentio : unum est quod Misenum, quem montem portumque Campaniae cosmographi omnes esse voluerunt, tu Lucaniae attribuis, ubi libro primo de duabus classibus ab Augusto constitutis sermonem habes, quamquam id esse potuit scriptoris vitium, cum Lucania Campa-niaque pauculis inter se litteris differant. Reliquum quod tu, Taciti historiam sequens, opinari videris Petrum eius incendii tempore quo sub Nerone Roma conflagravit cum reliquis christianis ad abolendam eius cladis infamiam, iussu Caesaris, absumptum fuisse, cui sententiae multa repugnant. Extat epistola Senecae ad Paulum, cuius haec fere verba sunt: centum triginta duo domos et insulae quatuor sex diebus arsere, septimus pausam dedit; quae cum probent Pau lum incendio superfuisse, testantur et Petrum, qui simul cum Paulo postea supplicio affectus fuit, etiam post incendium vixisse. Illud quoque certissime argumenti vim habet quod cum, lege universali ecclesiae, memoriam Petri celebremus tercio calendas quintiles, idemque Cornelius posteritati prodiderit incendii ortum mitium xmi kalendas quintiles, repugnat ratio temporis ut sex illis diebus flammae sevientis in turba christianorum Petrus tortus et cruci afflxus credatur. Tu pro tua summa rerum omnium peritia cum haec per-sensueris rescribe, oro, qua in sententia maneas. Namque ego auctoritate tua commotus facile accedam iuditio tuo. "V ale. Genua, die penultima decembris, 1448- Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XX111. i? — 290 — Clarissimo ac doctissimo viro Biondo Foroliviano, apud Urbem. lac. Bracelieus Biondo Foroliviano, viro clariss. et doctiss., s. p. d. Litteris tuis ad inclitum principem nostrum prius, deinde multo post ad me datis, facile cognovi rem haud magnam magno studio a te peti eamque huiusmodi ut accipienti parum admodum, danti plurimum conducat. Neque cogitantem me hinc suscepti a te operis magnitudinem, vigilias inde ac labores exhaustos non in tradendis modo ìebus, sed etiam in conquerendis, fallit quantum tibi debeat Italia, quantum Cesares, pontifices, quantum denique christianus 01 bis, quorum omnium laudes, paucis alioquin seculis interituras, eternitati commendes. Atque utinam in eos reges eosque civitatum principes etas nostra incidisset, qui quanti arma faciunt, non minoris saltem ingenia penderent. Habet militia propositam sibi mer-cedem, novit eques, novit pedes quantum petat, novit rex quantum depromat. Ingenia laude et admiratione contenta sint. Nam didicit iam dives avaius tantum admirari, tantum laudare disertos, ut pueri Iunonis avem. Sed respiciet credibile est aut Deus aut homo aliquis labores aliquando tuos, nec sinet eorum nulla esse premia. Quod autem me respicit, spes est posse ad te genuensem historiam ab anno circiter millesimo et centesimo usque ad quadringentesimum et quintum mittere, citra quae quicquid a nobis magnificum ac preciarum gestum est, id omne ita notum esse arbitror, ut scriptorem non desideres, et tamen si quid esset minus cognitum scripto supplebitur. Ante vero annum ipsum millesimum et centesimum nullus nostrorum genuensis populi res gestas litteris mandasse inventus est. Itaque si quid ante ea tempora ad rerum cognitionem defuerit tibi, ab alienis petito. Verum hec, que ita recipio, excribenda erunt, nam nulli sunt annales publici qui mitti possint et que dixi exemplaria privatorum sunt. Ex quo vix trimestre satis erit ut possim que polliceor prestare. Fu, litteris acceptis, quam primum rescribito hec ne tibi satis sint vel si quid aliud optes fac certiorem. Utraque epistola tua adeo ad nos lente perlata est, ut intra mensem reddita non sit. Ex quo erit animadvertendum ut non nisi homini diligenti post hac litteras commendes. Tu vale et de me tantum tibi sponde quantum prestari posse cognosces. Genua, xvm kal. decembres, 1454. — 291 — Preclaro doctissimo viro Foroliviano, apud Urbem. Iacobus Bracelleus Biondo Foroliviano, viro preclaro ac doctissimo , s. p. d. Litteris tuis permotus susceperam pridem curam mittende ad te historie genuensis ab anno millesimo et centesimo usque ad quadringentesimum et insuper quintum, modo trimestrem moram equo animo ferres. Verum quamquam secunda epistola, quarto idus decembres data, id te tempus expectaturum pollicereris, veritus sum ne parum diligens haberi possim, nisi maiore festinatione maturassem ut quod petebas acciperes, cum ea presertim petitio tua dignitatis ac gloriae plurimum genuensi populo esset allatura. Quam ob rem homini ceteris curis vacuo, qui neque noctu neque interdiu nisi quantum cibo somnoque indulgendum foret, laborem remitteiet, describendum codicem delegavi, cuius assiduitate factum est ut longe ante trimestre opus absolverit. Tradet igitur illud tibi qui has litteras reddet tabellarius. Auctor est historie Georgius Stella genuensis, quem hec aetas nostra senem vidit, qualem tu primorum versuum lectione statim cognosces, in qua non est ut verborum elegantiam fucosque aut rhetorum precepta conquiras, sed quod vel maxime scriptorem decet, curam et amorem veri. nullum enim deprendes in eo affectum patrie, nullum in hostes odium. Curiosus veri scrutator, victorias cladesque pari simplicitate narravit. Quibus fit ut res gestas huius populi memoraturus non modo permittaris, sed lege etiam suscepti muneris iubearis has estollere illustrare exornare ad quas excolendas nulla eloquentia, nulle umquam artes acceperunt. Alioquin egregii laudatoris inopia, res sane preclare ac memorabiles paucis seculis interierint. Et de his quidem hactenus. Ceterum est cur cognoscere cupiam quo tempore quorumque armis el ad quos Egyptus primum ab imperio romano defecerit: posteriorum scriptorum inopia qua laboro facit ut hec magis inquiram quam inveniam: oro igitur te, apud quem horum copiam esse non dubito, ut quod ad eius historie cognitionem pertinet, velis me ex te discere, ita quidem ut a quo res ipsa tradita sit edam non ignorem; parvo labore haud parve cupiditaa mee feceris satis cui magnos pro te subire voluptas foret. Vale. Genua, pridie nonas februarias, anno 1455. — 292 — Preclaro ac doctissimo viro Biondo Foroliviano, apud Urbem. Iacobus Bracelleus Biondo Foroliviano, viro preclaro ac doctissimo , s. p. d. Iuvit plurimum eam litteris tuis defectionem Egypti cognovisse quam sub Heraclio Cesare contigisse traditum video, quamquam non adiecisti Arabesne an indigene an reges aliqui, excusso romano iugo, provinciam obtinuerint, an calipha potius macome-tice legis pontifex summus, tanto mox honore sit habitus ut, quod vero simile non est, in ipso nascentis supersticionis initio etiam opulentissimo regno potitus sit. De bis cum fuerit otium tibi siquid scripseris, ingentes habebimus gratias tibi. Annales genuensis populi redditos tibi fuisse gratum est. Siquid esse potest aliud in quo mea desideretur opera, paratum habes cui pro arbitrio tuo imperes. Vale. Genua, xvn halendas maias, 1455. DOCUMENTO XVII. (Pag- '7«) Due lettere del Bracelli a Poggio Bracciolini, e risposta di questo al Bracelli. 1449-MSS- [Da un apografo, presso il Prof. Achille Neri; Cod. Pallavicino, num. 913, car. 113, in Archivio Municipale di Genova; Mai, Spicilegium Romanum, tom. X, p. 365 seg., Roma, 1844Jj Iacobus Bracelleus viro claro et doctissimo Pogio, apostolico secretario, s. p. d. Etsi mihi non est incognita curarum laborumque tuorum magnitudo, qua te pontificalis aula impeditum detinet, audebo tamen a te petere ut quod liberaliter pollicitus es id tu liberaliter solvas. Meminisse te puto quod cum apud Bononiam ageremus, et aliquis de patria mea sermo incidisset, dixisti invenisse te apud Gallum quendam multarum gentium historiam complexum, Genuam fuisse a Poenis direptam quadringentis annis vix dum evolutis. Id ego cum certius nosse cuperem, negasti eiusmodi librum tecum Bo- — 293 — noniam attulisse, atque obtulisti, cum primum te patriae reddidisses, huius rei copiam te milii tuis litteris facturum fore. Domum regressus es, ego huius rei cupiditatem non remisi, quodque me studiosiorem facit, qui hac in urbe paulo doctiores sunt, cum ex me promissum tuum audissent, urgent ut curem a te consequi quod ultro spopondisti. Quamobrem oro te, ut, alio negociunculo paulisper seposito, huic meo intendas, et quidquid ad huius historiae cognitionem pertinet ad me mittas, nomenque ante omnia scriptoris, quo anno, quibus in orbe regnantibus, quantaque classis eam nobis cladem intulit, et demum quidquid tu cuperes ex ignota historia cognoscere, parvo labore multum tibi gratiae apud multos paraveris. Ex me autem tantum tibi spondeas volo, quantum scias pro mea mediocritate me posse prestare. Ex Genua, xn kal. martias, 1449. Pogius s. p. d. Iacobo Bracelleo v. c. ac d. Non tantum in re parvula, mi Iacobe, sed in maioribus etiam quae mea cura vel diligentia effici possent, libenter satis facerem desiderio tuo : honesta enim ac laudabilis rerum gestarum cognitio, patriae vero ferme necessaria, iis praesertim qui cum aliqua doctrina et dignitate in sua republica versantur. Neque est quod parcas occupationibus meis, quae nullae sunt : nam si essem occupatissimus , levissima tamen essent quae mihi abs te, qui sum tibi deditissimus, mandarentur. Non autem respondi prius suavissimae epistolae tuae, propterea quod historia illa, de qua tecum fueram locutus, ruri erat. Memoriae autem non adeo confidebam, ut ea auderem pro libro uti. Misi postmodum pro libellis uno et item altero, qui in eandem urbis tuae ruinam consentiunt. Sigebertus monachus Gemblacensis, homo curiosus, et ut apud Gallos admodum eruditus, imitatus Eusebius de temporibus, historiam a Theodosio imperatore usque ad aetatem suam (hic est millesimus et centesimus annus) ex variis auctoribus excerptam complectitur. Hunc ego librum cum in Anglia in monasterio quodam repertum legerem, transcripsi nonnulla, quae mihi caeteris praestare videbantur, in quis est, anno nongentesimo ac tricesimo quinto Ianuae fontem sanguine fluxisse futurae prodigium calamitatis. Nam eo anno classem ex Africa advectam, urbem cepisse Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII. 19* — 294 — evertisseque internicione omnibus occisis, praeter parvulos ac mulieres, quos cum cetera praeda secum Afri asportarunt. Hoc idem et alter historicus asserit ordinis Minorum, ex familia Columnensium, qui diversis ex libris collectam historiam usque ad Bonifacium octavum pontificem contexuit. Accidit autem ea vastitas decimo anno imperii Henrici primi, qui primi Conradi filius fuit (i). In Italia vero, post Berengarium regem interemptum, Rodulphumque qui post eum triennio regnaverat pulsum , regnum tenebat Hugo Arelatensium comes in Italiam ab Italis accitus. Pontifex erat Iohannes, cui Leo brevi successit centesimus et vigesimus sextus. Neque dux, neque classis numerus exprimitur, sed haud parvis viribus tantam urbem deletam fuisse crediderim. Haec sunt quae de Ianuae eversione didici : quae si tibi faciant, satis est ut gaudeam me tibi rem gratam fecisse. Atque ita deinceps si qua in re tibi mea cura vel studio opus erit, recipio me eam prompto animo diligen-terque facturum. Vale mei memor. Florentiae, die xv martii, mccccliiii (2). Iacobus Bracelleus claro ac doctissimo viro Pogio , apostolico secretario, s. p. d. Non meae tantum, sed multorum Genuensium cupiditati unica epistola tua satisfecisti, qua perspicue cognovimus secundam patriae calamitatem a Poenis illatam. Nam quamvis ea clades non adeo pervetusta sit, ut oblivioni prorsus data esset, et extarent etiam apud nos quaedam litterarum monumenta id ipsum testantia, tanta tamen vel ignorantia vel negligentia scriptorum res tradita fuerat, ut somno ac fabulis simillima videretur. Non adnotata excidii tempora, non quae classis aut unde profecta, non quibus tunc in orbe regnantibus eversa urbs fuisset memoriae tradiderant, omnia confusa et in tenebris relicta, adeo ut scriptores, qui rerum cognitionem posteris relicturi erant, haec eadem quae scriberent ipsi ignorare crederentur. Nec deerant qui opinarentur, eos rationem (1) Nota a questo luogo rettamente il Mai : Sane Conrado I successit Henricus I; non tamen filius illius erat, sed imperii factus liercs. (2) Stile fiorentino; ma 1455 secondo lo stile comune. — 295 — temporum ignorantes, de prima vastitate illa quae sub Magone acciderat loqui voluisse: quae omnia, veluti densa caligine involuta, cum annum cladis adiecisti, in cognitionem ac lucem revocasti. Est aliquod rerum humanarum solatium, et spei nunquam abiiciendae documentum cogitare hanc urbem bis implacabili odio funditus eversam, intra tamen paucos annos, hoc est clxiiii maiores prioribus vires resumpsisse. Nam cum, ut scribis, noningentesimo et tricesimo quinto anno deleta fuerit, tamen, duce Gotifredo, Palestinam petentibus, quod anno millesimo et uno de centesimo factum est, Genua iam mari pollebat, et validis classibus hyerosolimitanum bellum adiuvabat. Sed haec hactenus. Quod reliquum est, ago gratias humanitati tuae , et quidem ingentes, quod tam ex animo cupiditatem meam explesti et quod omnia de te sperare iubes. Ego quoque percupio occasionem dari, qua possim studium et affectum meum erga te declarare: ita enim tibi deditus inveniar, ut sola ea negaturus tibi sim quae a me prestari non possent. Vale, decus meum. Ex Genua, vi idus apriles, mcccclv. INDICE C. Braggio , Giacomo Bracelli e V Umanesimo dei Liguri al suo tempo..............Pag. 5 Appendice: Bartolomeo Fa^io e le sue opere minori ...» 207 Documenti................® 359 v ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME XXIII — Fascicolo lì. GENOVA TIPOGRAFIA DEL R. ISTITUTO SORDO-MUTI MDCCCXCI LA CONGIURA DEL FIESCO E LA CORTE DI TOSCANA DOCUMENTI INEDITI PUBBLICATI DA LUIGI STAFFETTI Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2. W\ . - J -» ,1 . . i v * . 4 ---- primo avviso del moto di Genova giunse al duca Cosimo alle cinque ore di notte dei 4 di gennaio del 1547, mentre si trovava a Lecceto, luogo nelle vicinanze della Lastra a Signa, distante nove miglia da Firenze, dove egli era arrivato due giorni innanzi, tornando da Pisa in città per farsi curare della gotta, che avealo in quell’ inverno assalito fieramente (1). L’ avviso era dell’ abate Di Negro e dava tutte quelle notizie che, nella fretta e per il grande sgomento destato in Genova, aveano potuto essere raccolte (2). Cosimo ne fu molto turbato; e incerto della (1) Pier Francesco Riccio, maggiordomo del duca Cosimo, scriveva al suo signore il 2 gennaio 1546 (ab incar.) da Firenze: « Messer Lorenzo vostro sarà arrivato, et la S. V. potrà venir in Fiorenza a curarse, ch’invero è cosa pur troppo strana che la gotta s\ presto assassini V. S. et me ne duole sino all a-nima, et in questo non li so dir altro, se non che la cerchi, se si può, di darsi qualche remedio hor che 1’ è giovine. Che Dio li dia del suo adiuto ». Arch. Mediceo, filza 381. (2) Vedi Documento 1. — 3°2 — piega che avrebbero preso le cose, venne assalito dai più tristi presentimenti. Veramente il moto di Genova non doveva essere per lui un avvenimento impreveduto, perché qualche cosa ne era trapelato, e aveva già avuto avvisi da più bande, e specialmente da Roma, che « volendo qualche assiduo di S. Santità sbattere la vittoria riportata da Cesare in Germania, S. M.tà presto avrebbe avuto tanto da fare che si maraviglierebbe, e succederebbe qualche gran cosa » (i); stava però in apprensione, ma, scoppiandogli il fuoco così vicino, lo sgomento tu maggiore. Coi Genovesi confinava quasi in tutta la linea settentrionale del suo Stato, e co’ feudi dei Fieschi specialmente, pei possedimenti di Lunigiana, dei quali il duca era gelosissimo. Le marine quasi sprovvedute di difesa, e che si stendevano fin oltre a Pietrasanta, lasciavano aperto lo Stato a chi fosse venuto con una flotta. Al moto, tutti gli avvisi lo dicevano, non dovevano essere estranei i Francesi; e se c’erano i Francesi non potevano mancare gli Strozzi, continuo incubo del duca. Dal Piemonte o dalla Mirandola un corpo di soldatesche francesi avrebbe potuto in breve tempo -insignorirsi di Genova, quando una rivoluzione della città fosse stata favorevole; e Genova in mano dei Francesi voleva dire una continua minaccia alla Toscana. Anche Piombino, che già da tanto tempo lo teneva in pensiero, sarebbe facilmente venuto nelle mani dei Francesi (2), e (1) Vedi Lettera del duca al Serristori: Doc. xxx. (2) Il Riccio in una sua lettera del 5 gennaio, scritta da Firenze al duca, avvisa: «Messer Agnolo Niccolini dice che questo accidente de Genova dovrebbe sollecitar 1’effetto di Piombino ; potendo considerar S. M. Cesarea come Je cose di quella città stanno in trespolo et quanto le sieno pericolose e quanto gli - 303 — allora, pensava Cosimo, come avrebbe potuto provvedersi e a settentrione e a ponente contro lo Strozzi, che mai non posava quando macchinavasi qualche cosa in odio dei Medici, e che non avrebbe cessato di incitare i Francesi a invadere la Lunigiana, o la Versilia, o il territorio di Pisa e di Volterra? E papa Paolo III, questo implacabile avversario di Cosimo, avrebbe avuto anch’ egli buon gioco; e che non fosse estraneo alla congiura del Fiesco il duca lo potea ben supporre, oltre che per gli avvisi di Roma, pensando che lui stesso avea dato al conte le galere (i) ; e che con Pierluigi doveano essere corsi segreti accordi. Non bisognava porre tempo in mezzo ; pertanto, « parendogli che nella prestezza consistesse il rimedio e la provvisione necessaria a tanto inconveniente » (2), spedì subito corrieri all’ ambasciatore cesareo a Roma Giovanni De Vega e a Don Pietro di Toledo viceré di Napoli, dando parte dell’ accaduto e richiedendo loro che inviassero alla volta di Livorno le galere di Napoli e di Sicilia, proferendosi di armarle e fornirle di tutto il bisognevole ove ne fossero sprovvedute, e specialmente insisteva appresso del primo « acciò che S. E.za (il viceré) lo habbi a far più presto et più volentieri, desidero che la S. V. ce lo riscaldi con sue fusse a proposito che Piombino sia in mano del Duca di Firenze ». Arch. Mediceo, filza 381. — A proposito della signoria di Piombino e Cosimo I ha scritto un lodatissimo lavoro il mio amico dott. Carlo Errerà, ed è sperabile che presto esca per le stampe. (1) Nella predetta lettera, scritta dal Riccio il 5 gennaio, trovasi: « Messer Agnolo può pensar che il P.P. di questo motivo (sic) di Genova havesse qualche scientia per 1’ effecto che V. E. dice medesmamente nella sua lettera a, cioè per « sbattere la vittoria di S. M.li in Germania ». Ved. al proposito il Doc. xxx, (2) Ved. Doc. xxvi. — 3°4 — lettere » (i). Scriveva poi subito al Riccio a Firenze mettesse in pronto venti mila ducati, mandasse gente a posta a tutti i capitani delle Bande perché si trovassero pronti a far massa coi loro uomini, e chiamasse subito Stefano Colonna, Chiappino Vitelli, il signor Otto da Montaguto e il colonnello Lucantonio Cuppano, che erano tutti fuori di Firenze ne’ loro possessi, o a’ loro uffici (2). Mandava poi Jacopo de’ Medici (3) in posta a Genova con sue credenziali pel principe Andrea D’ Oria e per la Signoria (4). Egli si mise in pronto per tornare a Pisa ; di là facilmente avrebbe provveduto alle cose di terra, quando si fossero raccolti i soldati delle Bande, e a quelle del mare, venute che fossero le galere di Napoli. Ad accrescere le sue apprensioni gli arrivarono lettere di Prinzivalle della Stufa, commissario di Pisa (5), in cui gli si annunziava che (1) Ved. Doc. xxvi e xxvm. (2) Nella lettera scritta dal duca al Serristori il 7 gennaio, di cui vedi parte nel Doc. xxx, si legge: « E perchè il S.°r Stefano si trovava in terni di Roma nello Stato suo, et il S.°r Chiappino a Città di Castello, il S.or Otto a Mont.i-guto et il colonnello Lucantonio verso Pitigiiano, spedimmo subito in diligentia per fargli ritornare tutti da noi, et di già son comparsi il S.or Chiappino et il S.c Otto et li altri s’aspettano d’hora in hora ». (3) Jacopo de’ Medici, figliuolo di Chiarissimo e di Alessandra Lotti, fu coni missario d’ armi a Piombino, poi a Campiglia. Nel 1539 venne mandato a Napoli per la celebrazione delle nozze di Eleonora di Toledo col duca Cosimo. Nel 1546 fu nominato senatore. Nel 47 era commissario di Pisa. In seguito fu commissario generale durante la guerra di Siena e morì poco dopo. (Dal Me-catti). (4) Ved. Doc. xxvii. — Nella raccolta di documenti v Sulla congiura del conte G. Luigi Fiesco, pubbl. dall’avv. Bernabò Brea » (Genova, Sambolino, 1863), a pag. 152 trovasi la lettera credenziale « AH’ III.”» Signori Duce et Governatori della Repubblica di Genova » data da « Licceto alii v di gennaio 1547 ». La minuta, con quella di altre due credenziali al Figueroa e all’abate Di Negro, è nel-l’Arch. Med., filza 8. (5) Ved. Doc. 11. - 305 — il moto estendevasi anche ad altre città e che « casa Fiesca faceva far gente assai in Rivera et a Pontremoli »; ed altre dal cardinale Innocenzo Cybo e da Giulio, marchese di Massa , nipote di lui (i). Le notizie erano tutte gravi e incerto 1’ andamento delle cose. Intanto il rumore del fatto correva per tutta Toscana e per l’Italia, e giungeva, prima che altrove, in Firenze, accresciuto come suole in simili casi, e, a seconda delle passioni politiche, udito con timore o con speranza. Si dissero e fecero tutte le congetture possibili, e si affermò perfino che il principe era restato morto (2). Ne temettero assai i partigiani più caldi di Cosimo; e i principali del suo consiglio, messer Ruberto Acciaiuoli, Lelio Torelli ed Agnolo Niccolini, la mattina del cinque, venuti a palazzo, si raccolsero con Pier Francesco Riccio a consiglio nella stanza degli Otto di Pratica, e « lecto loro li advisi di Genova, restorno ammirati dell’ inopinato et arrisicato accidente » ; ma considerato bene 1’ andamento delle cose, e parendo che, per essere sparito o morto il conte, si erano fermate forse, più presto di quello che non si sarebbero ferme, giudicarono ci fosse meno da temere. A ogni modo furono d opinione che il duca mandasse subito un suo gentiluomo a Genova per vedere come procedessero le cose e si (1) Ved. Doc. ih. (2) Nella già citata lettera del Riccio al duca, del 5 gennaio, trovasi : « Qui la voce delli moti di Genova s’ è sparsa, e dicono eh’ el Principe n è restato morto : et riferiscono alla confusa quasi le medesime cose dell aduiso del S.r Abbate. Insomma hoggi non si parla d’altro; così seguirà domani, lasciando star un poco le cose di Allemagna, le quali da molti non son credute; et nasce dalli aduisi di Roma et di Francia ». — 3°6 — mettessero in ordine le Bande; la quale ultima proposta parve al Niccolini poco a proposito, « perché il vedere armare S. E.za potria forse più presto causar sospetto et gelosia nelli animi de’ Genovesi per conto di Serez-zana » (i); ma a Cosimo era già sembrato prudente mandare gli avvisi ai capitani, e non credè opportuno per allora ristarsi dal raccogliere le sue genti, le quali licenziò soltanto quando fu certo essere tutto tornato in quiete. Cosimo arrivò a Pisa il 6 più tranquillo per le nuove lettere che avea ricevuto da Genova, da Massa e da altre parti, in cui gli si annunciava che ormai le cose di Genova aveano ripreso buona piega e che tutto accennava a ritornare in quiete (2). Intanto i capitani delle Bande di Pescia, Arezzo, Volterra, Fivizzano, Pietrasanta e Borgo S. Sepolcro avvisavano che avevano radunato i soldati e aspettavano 1’ ordine di muoversi (3), Chiappino Vitelli e il Montaguto arrivavano in gran fretta, e d ora in ora si aspettavano il Colonna e il Cuppano. Il Riccio avea mandato fin dal 5 di gennaio pel Mastacco, corriero di Venezia, mille ducati d’oro e metteva i-n ordine i ventimila che gli erano stati richiesti (4)- (1) Vedi la relazione di tutto ciò fatta dal Riccio al duca, nel Doc. IX. (2) Ved. Doc. v, vi e x. (3) Nella filza 381 dell’Arch. Mediceo si trovano lettere di Ippolito da Jesi, capitano della Banda di Pescia, del 5 gennaio; di Pier Francesco Pallotta, capitano della Banda d’Arezzo, del 5 gennaio; di Zanettino Valazzana, in assenza di Luchino suo fratello, capitano della Banda di Volterra, del $ gennaio; di Antonino Bocca da Pisa, capitano di Fivizzano, Bagnone e Caprigliola, del 6 gennaio; di Paolo da Castello capitano di Pietrasanta, del 6 gennaio; di Giovanni Ornadini da Pescia capitano della Banda di Borgo S. Sepolcro, del 6 gennaio; e d’altri, che tutti dicono di aspettare l’ordine di muoversi. (4) \ed. Doc. ix. — In un’altra lettera, scritta dal Riccio al duca il 5 gen' naio e mandata pel Mastacco insieme co’ mille ducati d’oro, si dice : « li — 307 — 11 duca da Pisa continuava a trattare gli affari del suo Stato, e dava parte ai propri ambasciatori dei moti di Genova e dei provvedimenti che egli prendeva (i). E , passato quel primo sgomento per l'incertezza del successo, rivolse 1’ animo all’ utile proprio, e parvegli potere in qualche modo profittare dell’ avvenimento doloroso che 1’ avea messo in tanta agitazione. Fra le terre dei Fieschi, confinanti, come dicemmo, coi possedimenti del duca in Lunigiana, era il contado e la terra di Pon-tremoli, molto importante per la sua posizione quasi allo sbocco del passo della Cisa, chiave della Val di Magra, d’ onde erano scesi, venendo dalla Lombardia per gli Appennini , tanti eserciti a invadere 1’ Italia centrale. Non era allora molto lontana là memoria della calata di Carlo Vili e 1’ onta perpetua di Piero dei Medici, che gli avea fatto servilmente omaggio delle fortezze poste allo sbocco della Val di Magra e lungo il litto-rale Tirreno. Il possesso di Pontremoli volea dire possedere la chiave di quel passaggio importante, e all’ acuto ingegno del figliolo di Giovanni dalle Bande Nere non poteva sfuggire. Parvegli dunque opportuno battere il ferro fin che era caldo, e scrisse al Serristori, il quale trovavasi allora presso la Corte, che pensando come S. M.tà non vorrebbe lasciare impunita la scelleraggine del conte del Fiesco e non mancherebbe di confiscare tutte le terre dello Stato suo, « essendo Pontremoli vicino alle terre ventimila si mettono in ordine per mandarli dietro ». Arch. Mediceo, filza 381. I 1000 arrivarono lo stesso giorno, e il Duca ne accusò subito ricevuta al Riccio. Vedi Arch. cit. Minute, filza 8. (1) Il 6 gennaio il duca partecipa al Pandolfino, ambasciatore a Venezia, il caso di Genova, con parole tratte dagli avvisi ricevuti. Arch. Med. filza 381. Il 7 ne scrive al Serristori. Ugualmente al Vinta a Milano e ad altri. — 3°S — e luoghi nostri di Bagnone, di Castiglione del Terzieri e di Fivizzano e la chiave del passo di Lombardia , la quale, quando tusse ben guardata, sarebbe quello adito di tal sorta che non sarebbe possibile ad alcuno di potere per quella banda intrare a’ danni di Toscana , et oltre le prenominate terre nostre di Lunigiana sarebbe lo antemurale di Pietrasanta, di Pisa, di Volterra et di tutta questa nostra banda della marina », desiderava che S. M.tà gliene « facesse grazia in compra per prezzo honesto et conveniente » (i). Mandavagli però lettere credenziali per l’imperatore, per monsignor di Granvela , pel duca d’Alba e per monsignor d’Aras, e gli commetteva di conferir prima con quei consiglieri e ministri di Cesare, pregandoli in ciò del loro aiuto e favore, di recarsi poi da S. M.tà e metterli « reverentemente in consideratione che se la M.tà sua concedesse quel luogo ad altri, oltre che a noi parrebbe di metterci assai del- 1 honore restandone indietro, riascerebbero alla giornata tra noi e la persona a chi ella il concedesse di molti travagli et fastidii per la convicinità di luoghi, et maxi-mamente quando lo concedesse a qualche genovese » (-2). Ma non parve conveniente al Granvela parlarne cosi presto con Cesare: rispose però al Serristori che aspettasse 1 opportunità, altrimenti si sarebbero « imbrattate 1 opere di S. E. », perché tutte le provvisioni fatte per la novità di Genova poteva credersi tendessero all’ utile particolare del duca di Firenze e non al servizio di (1) Ved. Doc. xxx. (2) Ved. Doc. cit. Le credenziali a S. M., a monsignor di Granvela , si ' D duca d’Alba e a monsignor d’Aras, che sono nella filza 8, Minute dell’Arch. Mediceo, non dicono niente di più. - 309 — S. M.'\ A ogni modo assicurava l’ambasciatore che S. E. stesse di buona voglia, perché seguirebbe il suo desiderio a suo tempo (i). Mentre si trattavano queste cose, s’ erano raccolti a Pisa da tutte le parti di Toscana meglio che diecimila uomini con molti pezzi d’artiglieria, e si aspettava di veder comparire da un momento all’ altro dinanzi a Livorno le galere di Sicilia e di Napoli (2). Ma ormai le cose di Genova s’ erano posate, e non era più conveniente, né opportuno tenere raccolta tanta gente, la quale poteva destare dei sospetti. Don Ferrante Gonzaga, infatti, il 6 scriveva al duca, che venendo certificato come le cose erano per andar bene in servizio di S. M. se ne rallegrava con lui tanto più di cuore, quanto che « non accaderà che dal suo canto si facciano le provisioni che prima parevano necessarie per dar fomento alla cautela di quella città » (3). Era come l’espressione cortese di un desiderio per Cosimo, che dovea suonare un comando. E il 7 lo stesso Principe, domandando a Cosimo il permesso di fare fino a cinquanta o sessanta fanti nel dominio di lui, veniva tacitamente a dirgli che non avea più mestieri d’ aiuto di fuori (4). Più chiaramente Jacopo de’ Medici, scrivendo il giorno stesso da Genova, diceva che il D’Oria si era esteso con molte amorevoli parole in ringraziare e commendare il (1) Ved. Doc. xxxm e xxxv. (2) Il duca scriveva il io di gennaio al Camaiani, da Pisa: « Le genti nostre si trovano in ordine per camminare a quella volta (di Genova) in numero di — con molti pezzi d’artiglierie; et le galere di Napoli et di Sicilia, per nostro or dine, dovranno comparire a Livorno fra dua o 3 giorni ». (3) Ved. Doc. xii. (4) Ved. Doc. xiv. — 3lo — duca di Firenze di ogni sua provvisione, affermandogli « che le cose stavan di maniera che non ci era più sospetto, e che egli poteva dimettere tutte le provvisioni che aveva fatte per al presente » ; il che aveangli ripetuto l’ambasciatore Figueroa e la Signoria (i). E Cosimo non intese a sordo, ma rimandò le genti per non tenerle inutilmente in ispese; e il 3 scriveva al viceré di Napoli : « Delle cose di Genova V. Ex. a quest hora harà inteso che del molto male sono ridotte in assai buon termine, et che quella città resta alla devotione di Cesare. Però, al giuditio mio, non saranno più necessarie le galere di costi et di Sicilia , et credo che 1 Ecc. V. havendo inteso il di sopra, non le debbi inviare altrimenti a questa volta » (2). Così terminarono le apprensioni che, sebbene per breve tempo, in Cosimo e in quelli della sua Corte avea destato 1 avviso dei moti di Genova. Ma il duca rimase col desiderio di avere Pontremoli; e avendogli scritto Jacopo de’ Medici che Don Ferrante si apprestava (1) Ved. Doc. xvi. (2) Le apprensioni destate in Genova, dopo la quiete dei primi tumulti, per gli armanlenti del duca Cosimo, hanno un’eco in quello che scriveva 1 il gen" naio il capitano Gasparo de Fornari, dalla Spezia, * al Duce e Governatori della Repubblica di Genova »: — « ]n questo punto sono capitati qui certi huoniini, degni di fede, che vengono dalle terre del Sig.r Duca di Firenze, dalli quali mi è stato dato nuove certe come per tutti li luochi del prefato Sig.r Duca si fa nsegna et mostra di soldati, et tuttavia se ne fa colà dunatione et se ne mette ad ordine, et per quanto si dice si credano per il luoco di Pontremoli. Et an-chora s intende in le parti del Sig.r Pietro Luigi farsi genti, et maxime in Piacenza. Pertanto m è parso darne notitia a V. E. 111.™« acciò sieno di quanto occorre avertite, et d’ogni altra cosa ch’alia giornata intenderò ne saranno subito quelle avisate : alla buona gratia delle quali mi raccomando. Che nostro Si0nor Dio le conservi ». — « Sulla congiura del conte Gio. Luigi Fiesco, documenti raccolti dall’avv. Bernabò Brea », pag. 155. — 3ii — ad assalirlo, cosa che gli venne confermata da Don Ferrante medesimo (i), egli incaricò Jacopo stesso di ritardare alquanto il suo ritorno a Firenze e di trattare segretamente col D’ Oria. Già fin dalla sua partenza da Lecceto il Medici ne avea avuto commissione dal duca, e difatti in un poscritto di quello è detto : « Quante al negotio eh’ io dovevo sol parlar con il S.or Principe, S. Ex.tia mi ha risposto che essendo cosa che si aspetta a S. M.tà et non a lui, ne dovessi parlar col S.r Imbasciatore Figueroa, et replicandoli io haver com-messione da V. Ex.tia non ne parlar se non con quella, mi disse che li scrivessi la sua oppinione, et qualmente senza la partecipazion di detto S.r Imbasciador non li direbbe cosa alcuna, perchè non voleva pigliar resolutione di quel che s’ aspetta a Sua M.tà o suoi agenti » (2). Ma Cosiino non volea trattarne con altri che col D’ Oria, perché con la Corte avea già imprese le pratiche di cui parlammo, per mezzo del Serristori; rispondeva però al Medici che « per nessun conto parlasse a suo nome col Commendator Figueroa di quanto gli si era dato in commissione che parlasse col Sig.r Principe ; ma se S. S. Ill.ma gliene volesse parlar lei, lo facesse come da sé, purché non sembrasse che ciò procedesse da lui, Cosimo, non volendo che in suo nome se ne parli più oltre » (3). Al che Jacopo de’ Medici rispondeva : « Col Sig.r Imba: sciadore et con il S.or Principe mi governerò circha quel negotio secondo mi comanda, anchor che pensi che Sua Ex.za si resolverà non ne parlare, poi che el Sig.or Don (1) Ved. Doc. xx. (2) Ved. Doc. xvii. (3) Ved. Doc. xxxi. — 312 — Ferrante fa l’impresa in nome di Sua M.tà di quelli castelli sottoposti alla Camera di Milano » (i). E in altra lettera del 15 gennaio conferma: « Per questa mi occorre far intendere alla Ex.tia V. come il S.or Principe non parlerà altrimenti al S.or Imbasciadore di quel negotio nè come da per sè, né in altro modo » (2). Perché il D’Oria non ne volesse parlare al Figueroa è chiaro; non potea certo vedere di buon occhio 1 estendersi della potenza di Cosimo nella Lunigiana, d’onde facilmente poteano invadersi le terre dei Genovesi e specialmente quelle che in Lunigiana erano di spettanza dei signori del Banco di San Giorgio. Ma il duca di Firenze non si limitava alle pratiche diplomatiche, e non lasciava nulla d’intentato pel conseguimento del suo desiderio, tanto più che, oltre 1 importanza strategica di Pontremoli, lo muoveva a far di tutto per ottenerlo il volere che « il mondo conosca che S. M.tà ci tiene per quel buon servitore che li siamo » (3); era in una parola anche questione di punto, d amor proprio, perché sapeva che tanti desideravano quella terra, e specialmente Pierluigi Farnese, Scipione del Fiesco e Adamo Centurione , e che tutti facevano ogni industria per acquistarla (4). Però Cosimo aveva avanzato segretamente pratiche con gli uomini di (1) Ved. Doc. XXIII. I castelli, di cui si parla, erano Pontremoli, Borgo di Val di Taro e Calestano. I Fieschi possedevano in quella regione meglio che 78 ville. Tanto ricavasi da una lettera del Cuppano (Arch. Med. filza 381) in cui è detto che Ottobuono mandò Antonio Vallutio da Urbino a offrire Pontremoli con 78 ville al duca di Piacenza. (2) Ved. Doc. xxiv. (3) Ved. Doc. xxx. (4) Lo confermava più tardi anche Niccolò de’ Medici, commissario di Pietra-santa. Ved. Doc. xxv. — 3r3 ~ Pontremoli, per mezzo del capitano Antonio Bocca da Pisa, comandante della Banda di Fivizzano, Bagnone e Caprigliola (i). Era costui uomo arditissimo e molto destro in tali maneggi, il quale si avanzò nei trattati anche più di quello che piacesse al duca, che, gelosissimo com’ era del favore di Cesare, non voleva dare ai suoi nemici pur il più debole appiglio per sparlare di lui. « Gli uomini di Pontremoli non desiderano altro che di aver Sua Ecc.za per patrone », scriveva il Bocca a Cosimo il io di gennaio, e due giorni appresso soggiungeva : « Se vuole che pratichi per via o delle forze sue o civilmente a ridurre li Pontremolesi a divocione di V. E. non mancherà modo di tentar tal pratiche »-. Ma il duca non voleva si procedesse con violenza, tanto più che avea notizia da più parti dei provvedimenti presi (i) Nel castello di Pontremoli, dopo il moto di Genova, erasi ritirato con 160 uomini (Ved. lettere del Cuppano cit.) Ottobuono dei Fieschi; e, temendo di un prossimo assalto, 1’ avea fornito di tutto e vi faceva grandissima guardia « per dubbio del Duca di Firenze », per quel che ne dice il Bocca. Gli uomini della terra temevano che la punizione che sovrastava ai loro signori non dovesse anco rovesciarsi sul loro capo ; e perchè non avessero a cadere nel dominio degli Spagnuoli, o in quello di Pier Luigi Farnese, desideravano mettersi per tempo sotto la protezione di un potente signore per essere tranquilli, nè altri vedevano meglio corrispondere ai loro desideri se non fosse il duca di Firenze. Ma perchè sapevano che Ottobuono aveva per mezzo di un tal Marazo da Parma intrapreso segretamente trattative col duca di Piacenza, temendo d’incorrere nello sdegno di Don Ferrante Gonzaga, mandarono un dottore al Senato di Milano. Quando poco dopo si seppe che Don Ferrante s apprestava a venir sotto Pontremoli con soldatesche spagnuole, i Fieschi, tanto per acquistare tempo, mandarono ad offrire quella ed altre terre al Figueroa ambasciatore cesareo a Genova, il quale lece rispondere che « senza commissione non accetterebbe cosa alcuna » (Ved. Doc. xxiv). Di tutto ciò che accadeva in Pontremoli, il Bocca teneva costantemente informato Cosimo ; e Stefano Deltì-nelli, alfiere di residenza a Bagnone, e Manfredo Malaspina, marchese di Filattiera, tenevano il Bocca al corrente di tutto. — 3*4 — da Don Ferrante appunto riguardo a Pontremoli (i); rispondeva con buone parole, non si andasse troppo oltre, si operasse con prudenza, in modo da non incorrere nello sdegno dei ministri di Cesare. Il capitano Bocca, che s’era messo all’ opera con tutta 1 anima, continuava a insistere, e scriveva ogni giorno al duca, coadiuvato nell'opera sua da Manfredo Mala-spina marchese di Fitattiera. « Li Pontremolesi », scrive il 13, « per quel che si può comprendere, desiderano esser patroneggiati da V. E. ateso la buonissi ma fama che é pei tutta Italia sparsa di V. S. E perché potrebbe essere (1) Fin dal 9 gennaio Don Ferrante, che trovavasi allora in Alessandria, si metteva in ordine per mandar a pigliar Pontremoli, Borgo di Val di Taro e 1 altre terre che i Fieschi avevano in Lunigiana. Mandava pertanto al D’ Oria per pro\visioni di artiglierie e munizioni; e perchè in quei giorni trovavansi a Geno\a, presso i! principe, Giulio Cybo, marchese di Massa, e Giuseppe Mala-F ia, marchese di Fosdinovo, venuti con loro gente all’annunzio dei primi per ser\izio e ditesa della Repubblica, si fece assegnamento su loro due per 1 affare di Pontremoli (Ved. Doc. xix). Don Ferrante teneva pronti 2000 fanti nel Cremonese, il principe D’Oria avrebbe somministrato otto pezzi d artiglieria, alcuni dei quali lo stesso Giulio Cybo dovea trarre dal suo castello assa e carreggiare verso Pontremoli. Il marchese di Fosdinovo, Giuseppe Malaspina, partito la sera del 10 da Genova, il giorno seguente diresse ai mar-cies1 Malaspina del Castel dell’Aquila, di Olivola , di Bastia, di Panicale, di fonti, di Villafranca, di Filattiera, di Mulazzo, di Tresana e di Bibola una cir-olare, data da Fosdinovo, in cui commetteva loro, in nome del principe Andrea Oria, di stare in ordine con tutta la loro gente acciocché « ad ogni richiesta M à" m'n'str' 'mPer‘a1* in Italia se ne potessero prevalere in servizio di S. ^eSarea Copia della circolare, mandata dal Bocca a Firenze, in Arch. ed., filza 381, dove sono tutte le lettere del Bocca. — Il duca Cosimo ne aveva p tardi notizia anche da messer Francesco Vinta, suo oratore presso il governatore di Milano: egli, infatti, scrivevagli il 17 di gennaio: « Per l’impresa ontremoli il sig. lulio Cibo parti de Genova con 200 fanti, et bisognando ^ era di Massa 1 artiglieria hebbe dal Principe, et l’111."10 sig. Don Ferrando, alii fanti spagnuoh, ce ha inviato quaranta celate del Capitano Chiucchero el Capitano Borgogna. Intendesi esservi dentro il Conte Gian Baptista Flisco, Conte Hieronimo essere in Monteoglio ». Arch. Med. filza 3101 bis. — 315 - che loro, occorrendoli in questi francenti, potrebbino per communità volerse dare a me in nome di V. E. ; pertanto desidero intender la volontà di quella, s’ ella vuol che l’acepti, ho no» (i). E insiste dicendo, che va a Bagnone per negoziar la pratica, ed aggiunge : « Ricordo ben alla S. V. che Pontremoli é cosa importantissima al suo Stato, e questa é una hoccasione da non perdere, perché non naschano hogni giorno di tal hoccasione » (2). Ma Cosimo non volea mettersi in impicci ; avea già avuto troppe noie per aver dato mano a Giulio Cybo (3) a riconquistare lo Stato di Massa, (1) Alla prima notizia dei provvedimenti presi da Dcn Ferrante e dal D’Oria i Pontremolesi fuggirono in gran parte con le loro robe e si ricovrarono in diversi luoghi e specialmente a Filattiera e a Bagnone, dove, previo il permesso del duca Cosimo, furono accolti dal marchese Manfredo e dal Delfinelli. (2) È importante quello die Antonio Bocca scrive a Cosimo il 17 gennaio da Bagnone. Dice che la pratica coi Pontremolesi ei l’ha maneggiata con il marchese di Filattiera, e con ni. Peregrino da Bagnone « per li buoni amici che loro e yo abbiamo in Pontremoli; e la cosa era ridutta a termine, che se yo fussi andato come mandato de V. E. alla volta di Pontremoli con tutta la Banda di notti o di giorno, di subbito vi era dentro chi mi arebj apertho li porti ; et il castillano di Cacciaguerra, fortezza dentro in Pontremoli, si era offerto al Marchese di Filattiera, come quella può vedere per la sua quà inclusa, di Parte. Di modo che volendo però adoperar le forze di questa Banda solamente, V. E., si poteva impatronir di tutta la terra, perchè è in dui parte, e la detta fortezza è nel mezo. Ma io per non rovenare quei homini non ho voxuto movere 1’ armi di V. E. senza sua saputa per non erare ». Aggiunge che, circa alla fortezza più importante, che sta a cavaliere a Pontremoli e che si chiama Piagnaria (Pia-gnàro), non ha potuto ridur la comunità « a far di acordio, perchè non si è possuto parlar di tal cosa in publico ». (3) Della vita di questo giovane principe e delle sue dolorose vicende, ci siamo occupati con buon risultato per un tempo non breve; se il favore dei benevoli non ci verrà meno, speriamo di poter quanto prima pubblicare per le stampe il frutto dei nostri studi, il quale riuscirà certo di una qualche utilità per la storia della signoria di Cosimo I e, più generalmente, per la storia d’Italia nella prima metà del secolo xvi. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase, i.° 21 — 316 — perché volesse ora procacciarsene delle altre; sebbene conoscesse l’importanza di Pontremoli e, per questo e per 1’altre ragioni che dicemmo, ne desiderasse il possesso , rispondeva però al Bocca sempre con mezzi termini. Pare che il capitano di Fivizzano agisse allora per conto suo e portasse la cosa molto innanzi, perchè fu necessario che Cosimo gli desse esplicitamente ordine di smettere ogni pratica e non occuparsi più di Pontremoli ; sicché il 22 gennaio egli rispondeva al duca : « Poiché a V. E. non piace, non farò nulla e tornerò a Fivizzano ». In quel giorno appunto il commissario di Don Ferrante fece giurare fedeltà agli uomini della terra (1) ed ottenne la rócca, avendo fatto parlare ai castellani ; però Cosimo, sebbene anche più tardi venisse accertato che « 1 huomini di Pontremoli erano tutti di animo e desideravano venire sotto il suo governo et iurisdictione, et harebbero avuto molto a caro che egli si fosse degnato farne impresa » (2), cessò dalle pratiche dalla parte (1) Il commissario di Don Ferrante arrivò a Pontremoli la sera del 16 e in nome di S. M.li prese possesso della terra col consenso della comunità ; ma la fortezza serbò fede ai Fieschi, sicché fu necessario chiamare le genti di Don Ferrante perchè venissero a porvi 1’ assedio. Il Bocca, nel dare al duca notizia di tutto ciò (Arch. Med. filza 381), aggiunge: « Pure in Pontremoli certo desiderano venir nelle mani di V. E. Ill.ma perchè dubbitano e ànno sospetto che Sua Maggistà venda quella terra a qualche persona debile, et non mancano d* fuo&'re con le rrobbi loro e Ili donni ». — Vennero 400 fanti spagnuoli, e giunse fino al 1 ’Aulla il marchese Giulio Cybo con quattro pezzi di cannone da battere. Raccolse egli tutti i marchesi del paese, che già erano stati avvertiti di mettersi in pronto, e mostrando loro una patente di Don Ferrante, ordinò che lo ubbidissero. Ma mentre voleva proseguire per Pontremoli, gli venne la nuova che la fortezza s’ era arresa, ed egli se ne tornò. Cosi fini l’impresa di Pontremoli. (2) Ved. Doc. xxv. - 317 — di Lunigiana, come già avea dismesse quelle da Genova per mezzo di Jacopo de’ Medici. Forse fidava nella missione che il Serristori aveva in Corte, forse rivolse 1’ a -nimo ad altro di maggior conto, come 1’ acquisto di Piombino. Certo per allora non si trattò più di Pontremoli, che rimase in potere o dipendenza del governatore di Milano. Massa di Lunigiana, 25 luglio 1890. Luigi Staffetti. ■ . ' s , ■ ' . ■ ‘ ■ : ' , . ' > - i f ■ DOCUMENTI I. Lettera dell’abate Di Negro (i) al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.mo et ecc.ra0 Signor, Non so se la penna mi seruirà; perhò, al manco male che io potrò, farò intender a V. Ecc.tia il caso successo in questa notte. Alle vmj hore il Conte dal Fiesco di uerso Violata uscite fuori con forsi da 200 fra soi sudditi et amici della terra, e de prima giunta mandò a impatronirsi della porta di 1’ arco di Besagno, e fatto questo mandò soi fratelli alla uolta delle gallere e della porta di Sam Thomasso, porta del Sig.or Principe; nella quale correndo a quelli rumori il pouerino del Sig.or Gianettino (2), inscio di questi rumori, assai presto fo là morto; et alle gallere, doppo di essa morte, fo fatto puoca resistentia, perchè oltra alli fratelli di detto Conte, mandati per terra, detto S.r Conte doppo di essersi imbarcato alla muole, sopra una soa gallera comparssa di uerso Ciue-tauechia et andata nella darsena e trauersato nella bocca detta soa gallera, acciò le del Principe non potessino uscir fuori, fecce di grandissimo danno alle dette gallere, quale forno in manco di do hore tute desarmate, e li forzati tuti scapati; in questa fattione di (1) L’ abate Di Negro era agente di Cosimo I a Genova, e ci sono nell’Archivio Mediceo lettere di lui al duca e al segretario Lorenzo Pagni dal .539 al IS56. Egli doveva mantenere la buona corrispondenza fra il duca e il principe; ricevere e spedire le lettere per la Corte Cesarea ; trattare gli affari coi mercanti genovesi per averne danar. in prestito nelle occorrenze ; dare avvisi delle cose di Spagna e di Francia, non che dei movimenti dei fuorusciti. (2) Giannettino D’ Oria, nipote del principe Andrea. f V mare, udendo detto Conte passar da una galler ad un’altra, secondo si è detto e si tenne per certo, restò anegato. Li fratelli scorsseno la terra cridando : « Popullo e Libertà » ; perhò persona de importansa non si mosse, e così durò questa fattione sino al giorno. Venuto il giorno, questi fratelli del detto Conte mandorno dall’ 111.ma Sig.m con risercare accordo, con dire non hauer mai pensato di perturbar questo Stato, ma solamente di uoler offendere chi aueua sercato di offenderli loro, e che doppo che questo loro dessigno li era uenuto fatto , che doue la legie uolessi perdonar il fatto, che fariano deponer le armi e lascieriano tute le porte per loro occuppate. Così alle xix hore è successo; e la terra tuta resta pacifficca con le butteghe apperte. Miraculo certo diuino, il Sig.or Principe, inteso la morte di detto Sig.or Gianettino, non obstante che fosse mallato , già erano tre giorni, con la podraga, con quatro caualli si saluò, et assai presto in Sestri ritrovò grandissima compagnia, e lì se imbarcò, e, secondo si è inteso, se ne andò alla uolta di Voltri e de là a Massone, uno logo suo, nouamente aquistato; nel quale logo da questi nostri Signori di subito ui è stato mandato, e si iudicca che anchora do-matina soa Ecc.tu debba esser quà, non siandovi (2) più de miglia quindexe. Il danno è stato grandissimo ; perhò con 1’ aita e presentia di soa Ecc.,ia si spera si debba remediar a di molte necessità, e questa nostra città per uno conto ha fatto grandissimo aquisto, uisto il bon animo di tuto questo suo populo, del che sia ringratiato Dio. E in questo farò fine, basciando humilmente le mani di V. Ecc.'1*, alla quale per giornata non mancherò di dar parte delli successi. Da Genoa, a dì iij di Genaro del xxxxvij, alle xxmj hore. La magior parte de sciaui se sono ritrouati, perhò una gallera se ne fugita senza uelle e timone, con puochi remi, con 200 schiaui. Se li è mandato appresso le doe gallere di Don Bernardino (1). Di V. Ill.ma et Ecc.m3 Signoria Humili.m0 Ser.re l’Abbate. (1) Bernardino di Mendoza. (2) essendovi — 323 — II. Lettera di Prinzivalle Dalla Stufa al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.m0 et Ecc.m0 Sig.or Duca, Benché io pensi che V. Ecc.tia possi auer miglior et più uera notitia di me, non voglio manchar di farli intender come hyersera venne qui in Pisa uno scolar dalla Spetia, il quale è sardo, et dice come li in la Spetia casa Biascia et casa di Massa si son dati in su la testa; et che ui è morto più che 50 homini; et così in Chia-ueri in fra casa Raparoli et casa Raua[s]chieri è nato il simile. Di poi sugiugne et dice che in Genova in fra casa D’Oria et casa Fiesca è nata questione et che ui è morto più che 300 persone ; et questa mattina è venuto uno da Massa et dice il medesimo, et che casa Fiesca faceva far gente assai in Riuera et a Pon-tremoli. Hora, come 1’ ho, la fo intender a V. Ecc.***; et altro intendendo, quella ne sarei da me aduisata. Et a V. Ecc.tia di buon cuore mi raccomando; quale Dio foeli-ci ti secondo desidera. Di Pisa, il dì iiij di Gennaio mdxlvj (ab incarn.). Di V. Ecc.tia S.r Prinzivalle dalla Stupha. All’ 111.™° et Ecc.m° Sig.o' Il Sig.°r Duca di Fiorenza patrone lìtio osseruandissimo. — 324 III. Lettera di Giulio Cybo al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.mo et Ecc.mo S.or mio, Istamani mi sono venute nuoue, le quali V. Ecc.71 hauerà anco essa forsi sapute a questa hora, della riuolutione di Genoua; la quale è stata et è per esser tale che, se non gli si & qu;ilc^e prouigione, istimo che non possa esser peggio. M’ è paruto darne auuiso a V. Ecc.za acciocché prenda quel partito che a sì fatta cosa si richiede in seruigio di Sua M.,a et io frattanto starò in ordine con tutte quelle gente che potrò e mie et degli amici. Mando a V. Ecc.zi l’istessa lettera che invia Messer Domenico D Oria al Signor Antonio D’ Oria, la quale, letta che harà, le piacerà farla chiudere et indrizzarla quanto più presto si può a detto Signor Antonio D’ Oria a Napoli. Alli iiij di Gennaio MDxLvij. Di V. Ex.,u Obbligato Seruitore Il Marchese di Massa. Ali' lll.mo (t ECC.”"> Si.0r et mio [Patr]one oss.m° il S.°r Duca di [Firenze. - 325 — IV. Lettera di Don Ferrante Gonzaga al Duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] » Ill-.m0 et Ex.mo Sig.or In questo punto, che sono le cinque di notte, tengo lettere di Genova di questa mattina ale xiii hore dal Amb.or Figueroa, che me auuisa il caso successo della reuolutione in Genoua, come V. Ex. per la inserta copia della sua lettera, inviatami artificiosamente et non senza risigo di chi 1’ ha portata, per il gran tumulto. Ma di più, per relazione del Signor di Dolzago (1), che se ne andava a Genoua et è venuto qui per le poste, hauendo di camino hauuto questa mala nuoua, s’intende di certo la morte di Gian-nettin D’Oria per testimonio di persone che 1’ hanno uisto morto. Della persona del Principe non si sa la certezza, ma alcuni di-ceuano che in questo tumulto s’ era saluato, imbarcatosi con una fragata a la Lanterna, et ito uerso la riuera di Ponente ; ma che le galere sue et casa sono state sacheggiate. Di modo che non potendosi che far giudicio che questo motiuo cosi grande attri— uito (sic) et determinato sia stato con intelligentia di alcuna pratica di quelle che sogliono tenere Francesi, et emuli di sua M.'\ M’ è parso darne subito auiso a V. Ex. anchor che mi persuada che T hauerà inteso prima et forsi più particolarmente di quello eh’ io tengo, supplicandole che sia semita pensar di far quelle pro-uisioni in ciò dal suo canto per cautela del seruitio di Sua M.ta che le parranno oportune, come perhò non dubito che non hauerà V. Ex. lasciato di fare. Auisandole che io per remediare in queste frontiere alli inconvenienti che potessero succeder dal canto dei Francesi, ho determinato spingermi fin ad Alessandria et quiui dar 1* ordine necessario alle cose che si presentaranno in quel più che per me si potrà. (1) Dolccacqua. — 326 — Torno a supplicarle che sia contenta far anchor lei il medesimo con spingersi alli confini del suo Stato et prohibir, cosi per mare, come per terra, che non uaddino vittuarie di sorte alcuna nè altra cosa de bastimenti in la città di Genoua, sin a tanto che s intenda il progresso, et che camino piglieranno le cose di detta città, del li cui successi terrò auuisata V. Ex. alla giornata. Et bascio le mani di V. Ecc. pregandole ogni felicità. Di Milano, alli nj di Gennajo, alli sei hore di notte. Di V. Ex.tia Seruitor Affecionatissimo Ferrando Gonzaga. AU’111.”'0 et Ex.m« Sig.or mio il Sigyr Duca d\ Fiorenza. * * (Copia). 111.™0 y Ex.mo S.or Ayer escrevi a V. Ex. y de auiso de lo que se offrescia, y 110 teniendo despues cartas a que deua hazer respuesta, està sarà so lamente para hazer saber a V. Ex. corno està manana a tres horas antes del dia a la improuista se leuanto un rumor en està ciuda en que gridauan « Liberitad, pueblo, pueblo », y lo que hasta agora se ha entendido dizen que el conde de Fiesco ha tornado la pueita de santo Stephano, y que una de sus galeras entrò en la Darsena con procurar de occupar las galeras del Principe. Algunos dizen que el Principe sea muerto y aun el Capitan Juan Doria queriendo resister al dicho alborotto. Este es lo q. que hasta agora se ha en tendido. Dov auiso dello a V. Ex. a la qual suplico sea seruido de hazer encaminar hazia estas partes alguna infanteria de la que estruuera mas prompta, para dar fauor a las cosas de su Mag.d pas* sando la cosa adelante. De hora en hora auisarè a V. Ex. cuya 111.““ persona nro S. guarde etc. De Genoua, a los iij de Hennero 1547 a xm horas de noche. — 327 — V. L’abate Di Negro al duca Cosimo. [R. Archivio di Stato in Firenze. Archivio Mediceo, filza 381] Ill.mo et Ecc.m0 S.or Ieri al tardi, con uno nostro correro genoese scrissi a V. Ecc.,u e 1’ auisai del caso seguito e della morte del pouerino Giannettino, e perchè ho certo la detta lettera salua nelle mani di V. Ecc.'11, per questo non replicherò il contenuto di essa mia lettera. Come dissi a V. Ecc.tia la terra, doppo della partensa delli Fieschi, è rimasta pacifficca, et in questo nostro popullo se visto, quello non si aspettaua, una grandissima uirtù, di che nostro signore Dio ne sia laudato. Sino a quest’ hora di già si è recuperato schiusiue per sei in sette gallere e tutauia se ne ua recuperando, hauendo posto bo-nissimo ordine in questo nostro dominio. Il Signor Principe, quale sarà quà in questa mattina, me ha fatto intender che in nome suo uoglie suppliccar V. Ecc.'11 che appresso de molti fa-uori e seruitii che la gie ha fatto, che la non li uoglia denegar questa gracia, quale he che V. Ecc.tu si uoglia degnar di ordinare che cappitando forzati nel Stato suo, siano detenuti ; e questo lo riceuerà in fauor grandissimo e lo accumulerà con 1 infiniti altri oblighi che soa Ecc.,u repputa hauer con V. Ecc."3. Della gallera scapata nè delle doa di don Bernardino, quale li uanno dietro, sino a quest’ hora xvj non ue ne e noua alcuna. Di tuto quello se intenderà V. Ecc.t,a ne sarà da me auissata. E con questo farò fine, basciando humilmente le mani di V. Ecc. che n. S/L‘ Dio in tuto la facci felice quanto la desidera e me tengha in soa gracia. Da Genoa, alli iiij di Genaro del xxxxvij. Di V. IH.ma et Ecc.ma Signoria Humil.™0 Seruitore L’abbate di Negro. All’ Ill.mo et Ecc.mo Signore et Patron mio il Duca di Firen{e. — 528 — VI. Lettera di Giulio Cybo al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.mo et Ecc.mo S.°r mio, Dopo che si è partito da me Messer Hipolito, quale poco fa spedi) a V. Ecc.21, mi sono venute altre nuoue men triste delle prime. Ne mando la copia incluse in questa, et mi metto ad ordine per partirme con più gente che potrò. Ho voluto di nuouo darne auuiso a V. Ecc.za. Le nuoue vengano da Genoua per mano di persona a cui si può benissimo prestar fede , et sono dirizzate a Messer Domenico D’ Oria, che è a Fosdinuovo. Il Sig.or Dio contenti V. Ecc.za quanto desidera. Di Carrara, alli iiij di gennajo MDXLvij, ad hore xx. Di V. Ecc.za S.re ubligato Il Marchese di Massa. All Ill.mo èt Ecc.mo mio Sig.re osseru.v,° il Sig.r Duca di Firenze. (Copia). Magnifico M. Domenico D’ Oria. Di poi la partenza di V. S. le cose qui restano acquietate. La S.na Ill.ma s’ è impatronita di tutte le porte della città et di tutti li Fieschi, che sono andati fuora della terra con Dio. Dicano eh el Conte sia annegato in mare, passando da una galera all altra. Il S.or Principe si sta bene, et è andato a Maxone ; pero di qui se gli è spedito ; et la Sig.ria Ill.ma gli ha mandato M. Benedetto Centurione, che se ne venga alla città, doue credo sara qui questa notte, 0 uero dimattina. Le galere si uanno recuperando delli schiaui, delle quali se ne sono recuperate diuerse; et si totnano a mettere sopra le galere. — 329 — Della galera fuggita con gli schiavi, si sono partite le du galere di Spagna appresso. Io non dirò altro. A V. S. mi raccomando. Di Genoua, alli ni di Gennajo 1547, ad hore 24. VII. Copia d’ una relazione della congiura fatta al cardinale Innocenzo Cybo e da lui indirizzata al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 2860] R.mo et Ill.ra0 S.or mio oss.mo Per M. Ambruogio Caluo non scrissi cosa alcuna a V. S. R.m* de tumulti et scaramuccie che seguirno in questa città la domenica notte uenendo il lunedi, perchè, quando si partì, le cose erano anco in confuso; pur, Dio gratia, la Republica resta signora et padrona come prima, et non è stata molestata, ma in pericolo sì, perchè il S.or Conte Flisco, per cagione di uendicarsi (come dicano) contro del S.or Giannettino D’ Oria, uscì di Violà con trecento armati et più, circa a 8 hore et mezzo di notte, et subito si fece padrone delle porte dell’Arco et della Cazola (1). Preso le dui porte, s’inviò a quella di S. Tommaso, et subito la prese, et fatto questo andò alla Darsena con gran rumore et pareua si combattesse le galere. Il S.or Giannettino, non sentendo rumore alla porta, ma sentiua grandissimo contrasto alle galere, s’ inuió, uestitò alla marinaresca, alla uolta della Darsena, con un suo paggio con torcia, et pensando che alla porta fusseno soldati del Cap.n0 Lercaro, picchiò et disse: aprite, che io son Giannettino; et aperto, subito fu stretto et morto, con infinite ferite. Il paggio tornò al palazzo et disse: hanno morto il S.or Giannettino; et subito la S." Principessa mandò Luigio Giulia con una fregata a udir che rumore era quello su le galere. Andò et uditte gridare « Uiua populo, et gatto (2) et Libertà », et riferì queste cose al S.or Principe, la Ecc.za del quale dimandò che ui era per entrar dentro. Uedendo li suoi (1) Acquasola. (2) Il gatto era l’insegna de’ Fieschi. — 33° — che S. Ecc.za uoleua entrare, gli disseno il caso del S.or Giannettino et disseno che amazeranno ancora s. Ecc.za All’ hora quella montò a cauallo mezzo morto, et andò alla uolta di Sextri, et lì s imbarcò, et andò a Votri et da Votri andò a Masone, restando mal contento et piangendo la sua patria, perchè all’ hora se ne haueua mala oppinione. Tornando al tumulto, impadronitasi la parte Flisca delle galere, et uenendo il giorno, il S.or Girolamo andò in ordinanza per la terra, dicendo che adesso era il tempo di pigliar 1’ arme; ma ninno non si moueua. Et in sino alle 20 hore le porte restorno a nome delli S.ri Flischi, ma quella di S. Tomaso si rese prima delle altre. Visto questo caso, li cittadini di authorità, insieme con il S.or Amb.or et il R.ra0 D’Oria, se ne ritirorno in palazo con l’Ul.n,a S.r,a et subito feceno dodici capitani et spedirno M. Adam Centurione che andasse gridando per la terra, con la sua compagnia, « Viua la S.ria », et spedirno al S.or Girolamo Fiesco, che era padrone delle porte, che uolessi renderle, se non sarebbe scacciato per forza. Lui ricercò che fusse perdonato a lui ed a tutti li suoi seguaci, che renderebbono le porte, et così passò in S.ril che li fusse perdonato, et così il S.or Girolamo abandonò le porte, et restò la città libera con buone guardie, senz’ alcun sospetto ; et andò la uoce insino alla mattina, che il S.r Conte si annegasse in la darsena quando si pigliauan le galere, et sin hora si crede che ditto Conte sia morto. Sono conghieture verisimile che sia uiuo, che morto ; 1’ uno et 1’ altro è possibile, chi crede e chi non crede. La parte Flisca, pigliando la porta di S. Tomaso, ammazzò il fratello del Capitano Lercaro. Pigliorno all’ hora prigione il ditto Cap.n0 Lercaro, Giulian Gentile, Girolamo da S. Remo, Rossino Uaccha, Manfrone Centurione, quale fu preso di giorno dal S.or Girolamo, et forsi qualche altri che non mi ricordo. Paulo Varsi corse rischiò di esser morto; Hilario Gentile restò ferito in su la testa, ferita importante. Il numero delli huomini che il giorno erano per la città col S.or Girolamo con bandiere et tamburi, tra forestieri et plebe, erano da 500 in 600. Il stratagemma del S.or Conte fu questo, et doueua essere il — 33i — suo neruo, ma non li riuscì: inuitò la domenica sera quasi tutti li gentil huomini et giouani ricchi di populo grasso a cena con seco ; li andorno, et quando hebbe il numero et quelli che desi-deraua S. S. et che li parse il tempo opportuno, lesse dui lettere a detti giouani, quale testimoniauano et aduisauano chel S.or Giannettino D’Oria uoleua amazzar il Conte, o con ferro, o con ue-neno, et exhortò detti giouani che uolessero essere in sua compagnia , et li aperse il suo petto. Che cose li disse puntalmente non si sa , ma si dice che li disse che uoleua amazar il S.or Giannettino, et pigliare le galere et le porte, etc. Haueua da 300 soldati boni et bene armati in Violà, tutti suoi subditi, et erano stati condutti a poco a poco dentro di Genoua, con questo nome che andauano in corso, in su la galera del S.or Conte, che era in porto. Li sudecti giouani di Populo andati a cena .ccn il S.or Conte et all’ improuiso trouatisi assaltati di tal impresa, pensate di che uoglia si trouorno. Qualcuno aperse il suo petto al S.or Conte che più presto uoleuano morire che mai far questo; alcuni di lor piange-uano, et tutti unitamente stauano di mala uoglia. Vedendo il Conte che questi giouani erano lì solo con il corpo, li fece una gran minacciata, et li dette mostra di quelli soldati armati per ridurli per filo, et così li misse in mezo, et se inviò ad operar le cose diete. Quando ueniuano per la città, chi poteua fuggire a casa sua se ne fuggiva, et quasi tutti abandonorno il Conte. Il numero di questi giovani non lo so compitamente; ma di quelli che ho udito nominar sono questi: M. Baptista Giustiniano, il genero del Mag.co D’Oria, Frane.00 Gaui, Verian Baua, Banano Raggia, Stephano Pacaggia, Pelegro Rebuffo, Baptista Bariano, Monsa suo cognato, uno Maggiolo. Restorno serrati in Violà il Giustiniano et il Baua, che più presto uoleuano morire che trouarsi in questi tumulti. Il Garauenta stette saldo , et dì giorno si lassò uedere con il Sig. Girolamo, et sette o otto altri partigiani della parte Fiesca, quali ho udito nominare, ma non mi ricordo delli loro nomi. Si tien per fermo che la Ill.ma Signoria habbia perdonato alli sudetti giouani, quali tutti si apresentano; si uederà quello succederà, da dua 0 tre in fuora, quali ancor non si son uisti. Torno all’ecc. del Principe, qual’ era mal contento in Masone. Il Sig. Adam spedì Gabriello Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2.0 22 - 332 — Moneglia et Gregorio da Lerici a hore 18 con una fregata armata, che andasseno a trouar il Sig. Principe et che li douesseno dire che le cose della Repubblica andauano bene, et che il populo non si era mosso, saluo in fauore della Repubblica et che S. Ecc.za eia desiderata nella città dall’ Ill.ma Signoria et da tutto il populo, et che pei ogni modo S. Ecc.2,1 uenisse sicura che risusciterebbe i morti. Il Sig. Principe si allegrò uedendo li giouani mandati, non mosti andò alcuno dispiacere, nè della rouina delle sue galere, nè della morte del suo cap.no, ma piangeva solo la rouina della sua patria, peichè se ne parti con mala oppinione. E cosi li cittadini andorno quasi tutti il martedì mattina in contra a S. Ecc. et uenitte in la città al suo solito alloggiamento, et uisitato al solito dalli cittadini. Sua Ecc. nel saluarsi, quando fu a Sextri, mandò 400 archibugieri de Sextri et de ville a sussidio della Repubblica. Si saluò con S. Ecc.2-1 la Sig.ra Ginetta ed il contino D’Oria (1). Giunse S. Ecc. a hore xxij nella città, con grand’ alegrezza di tutti li cittadini. Venendo hora alle cose del mare, il S.or Conte Fiesco haueua una galera in porto ben armata, la quale, alle 9 hore in circa, tirò un tiro di moschetto, alla sorda, et si misse in bocca della darsena , faccendo fauor a quelli che pigliauano le galere , tirando alle uolte qualche archibugiate, et mai si partì ditta galera dal suo luogo, saluo nel far del giorno, che andò alla uolta di Violà; et si ciede che li prigioni fatti si siano imbarcati in su la ditta galera, et, ritornata da Violà, misse fuora una bandiera fiesca, et imbarcò parecchi leuti pieni di soldati, et si partì di porto così a hore 16. Parse che pigliasse la uia di leuante. Molti tengono che sia andata alla uolta di Marsilia ; pur non se ne ha nuoua certa, et ditta galera è_ stata di grandissimo fauore al S.or Conte. Le xx galere del S.or Principe sono stati svaligiate da donne et da plebe, che hanno rubbato in sino a scalmi et banchi, et son restate nude. Li forzati et schiaui si son tutti disferati, gridando tutta notte « Libertà » ; andando uoce chel S.or Principe fusse morto, et così nel far del giorno, quando la galera del Sig.or Conte era in Violà, uscì tre galere cariche di schiaui che se ne uoleuan (1) Ginetta Centurione, vedova di Giannettino, ed il conte Filippino D’ Oria. — 333 — fuggire; et la « Temperanza », che ne era padrone Hilario Gentile, qual haueua ancor li paramenti, perchè pochi giorni sono aiutò a uarare la naue del S.or Adam Centurione, fu menata uia da 400 in 500 schiaui, faccendo uela con un trinchetto, et le altre due restorno imbarazzate in mezo delle naue, et non si fuggirno perchè non haueuano nè remi, nè uela, et poteuano fuggir sicuramente per che nissuno non li uietaua, et la galera del S.or Conte attendeua a altro che a uietar la fuga a schiaui. M. Adam e il Cap.no Christofano andorno nella darsena, doue trouorno la plebe che dauan del resto alle galere, et la scac-ciorno, et subito mandorno fuora le dui galere di Don Bernardino, quale non erano state molestate, et le feceno bene armar, et sono andate in caccia a cercare la « Temperanza » fuggita con quelli schiaui, et si ha buona oppinione che si debbia pigliare. Si sono trouati sin a qui tanti schiaui che armeranno x galere. Si giudica che le galere habbino hauuto danno di 30 mila scudi. Sono andati bandi a pena della disgrada dell’ Ill.ma S.na che chi ha robba di galera la porti alla darsena che li sarà perdonato, et chi farà altrimenti sarà impiccato. Il S.or Principe dice che il S.or Conte non li doueua far questo perchè sempre 1’ ha seruito in li suoi bisogni. Tutta la città la notte stette in mala oppinione di lei che non fusse saccheggiata dalla plebe, et non sapendo che cosa fusse questo, niuno quasi ar-diua di uscir di casa sua. Gran spauento et horrendo spettaculo era quello della marina a uedere tante spoglie notar in cima del-1’ acqua, 0 che gran doglia et impietà era a udire il rumore quando li schiaui si metteuano in libertà, et massimamenti che non si sapendo che cosa si fusse, si pensaua ogn’ uno che la città rouinasse. Durò il rumore della dàrsena dalle 9 hore alle 14, che mai si uidde, nè uditti dire, un pericolo di una città che durasse tanto la mala oppinione, con una cosi subita sicurtà. Che Dio sia laudato. Hier sera alle 3 hor di notte fu fatto Duce della città al solito ordine M. Benedetto Gentile. Alle 20 hore et mezo si dice che le due galere di Spagna hanno preso la « Temperanza » con li schiaui. Da Genoua, alli v di Gennaro 1547, mercordi, a hore 20. — 334 — Vili. Il principe Andrea D’Oria al duca Cosimo. [R. Archivio di Stato in Firenze. Archivio Mediceo, filza 381] IU.m0 et Ecc.mo S.or oss.mo Penso che prima di addesso V. Ecc.za haurà inteso come il Conte di Fiesco dominica la notte, che furono li dui del presente, circa le deci hore, presumite di tentar di far solleuar questa città, et di pigliarmi le galere che tengo al seruitio di S. M.tà e la vita insieme, con il maggior tradimento che mai sia stato usato da persona scelerata, perchè, lasciando da canto diuersi beneficii che li ho fatti et la prottethione c’ ho sempre tenuta di lui e della casa sua, come cosa troppo notoria, V. Ecc.2a ha da sapere che se mi di-mostraua il maggior amico del mondo et non passaua giorno che non uenesse in casa mia et conuersaua et mangiaua con Giannettino, mio nepote, con quella domestichezza che se li fosse stato fratello; pero il caso è stato questo, che dando uoce il detto Conte di uoler mettere ad ordine una sua galera per mandar in corso, si è fatto venire della gente a poco a poco delle sue terre, et tro-uandomi io a letto da quatro giorni in qua per una discesa che mi e venuta in un brazzo, et uedendo egli che Giannettino per la indispositione mia mi dimoraua assai d’ intorno , gli parse per auentura hauer 1' occasione più facile da poter esequir il suo mal-uaggio pensiero, et in compagnia di dui suoi fratelli et delli detti soi sudditi, et qualch’ altri plebei della città, suoi adherenti, tutti di bassa conditione et di mala sorte, venne a pigliar, prima la porta della città presso la casa mia, che li fu facile come amico ingannar la guardia, oue lasciò uno delli fratelli con buon numero di gente, et egli andò alla darsena, oue stanno le galere, et hauendo posto la sua, che teneua di fuora, su la bocca, che alcuno non potesse intrar nè uscire, gli venne fatto di amazzar la prima guardia, pur a tradimento, et con il tumulto grande dete adito alli schiavi et — 335 — forzati di sferrarse et mettersi in libertade, et sì come il traditor designaua poi di, tolte le galere, venir alla casa mia ad amazarmi, non uolse Iddio che lo potesse fare, perchè udendo montar su la galera capitami li fu data una archibusata in testa, per quanto afferma uno che gli era appresso, et cadete in mare, oue resta affogato. Et non ostante che prima hauesse chiamato et eccitato il popolo a pigliar le arme et la libertà, et che un altro fratello con altre genti andasse tuttauia scorrendo per la città facendo il medesimo officio, et alcune uolte fu anche sentito cridar dalli suoi il nome di Francia, non fu persona alcuna di conto che pur li re-spondesse, non che li facesse fauore. In quel mezzo udendo Giannettino, qual era in casa, andar a riconoscer il rumore che s’ era sentito alle galere, et non pensando mai nel tradimento della porta della città, eh’ era presa, come fu intrato in quella, restò morto da quelli traditori che la òccupauano, et io come piacque a Dio me saluai ad un castello fuora della città ; et così, soprauenendo il giorno, e non mouendosi persona per il detto Conte, anzi cominciando li amici mei a far ostaculo, la cosa si andò sempre più raf-fredando, et il Palazzo stette sempre forte, et li cittadini presero animo, di sorte che scorso eh’ ebbero li detti Fiescht la città et tenute prese le porte principale per fino ad un’ hora et mezza del dì in circa, si retirorono in Violata et poi assai presto uscirono della città, senza hauer consequito alcun’ altra cosa, che la morte di Giannettino; la quale per me è pur stata di troppo dolore, come V. Ecc.za si può imaginare, et son certo che quella ne hauerà dispiacere, hauendo perduto un bon seruitore. Nel resto, quanto tocca alli danni et reparatione delle galere tutto resterà remediato in breve, come conviene al seruitio di S. M.ta, la qual son certo debba farne demostrationi tali quali ricerca un tal assassinamento et ribellione, essendo il detto Conte vasallo e pensionarlo di quella. Et di tutto mi è parso debito far notitia a V. Ecc.zl perch’ella sappi come qui si sta in la solita quiete, et che non si potrìa desiderar maggior devotione di quella che con effetti hanno addesso dimostrata li Governatori della città et tutti i cittadini per conseruarla al seruitio di S. M.ta et per ricuperatione delli schiaui et altre cose mie, che quasi tutto a — 336 — quest’hora resta recuperato. Et a V. Ecc.za bascio lo mani. Che N. S. le concedi salute et prosperitade. Da Genua, li v di Gennaro 1547. Di V. Ex. Seruitore Andrea Doria. IX. Pier Francesco Riccio al duca Cosimo. [R. Archivio di Stato in Firenze. Archivio Mediceo, filza 381] IlI.mo e*1 ex.mo Sig.or unico et oss.mo Doppo eh io ebbi questa mattina scripto in risposta della carta di V. Ex.tu d’hiersera e mandatili li Adi mille d’oro larghi che per detta sua chiedeua, per le mani di Mastacco, corrier di Venetia, e espedito a Siena, Roma e Napoli el corriere espresso et persone a posta alli Signori Chiappino Vitelli et al Sig.r Otto Montaguto et li cauallari con le lettere a’ Capitani delle sue Bande, questi del suo Consiglio uennono in palazzo alla stanza dell’Otto di Pratica, et lecto loro li aduisi di Genoua, restorno ammirati dell’ inopinato et arrisicato accidente, come cosa che in questo tempo manco aspectauano ; et inteso il tutto, Messer Agnolo disse, oltr’ a che 1 istesso aduiso demostraua che le cose per al’ hora appariuano per la uia di posarsi, che anche il ricercar li fratelli del Conte di Fiesco la Signoria d accordo, et 1’ hauer mandato da Sig.or Prin-C1P~’ et: S0Pra tutto non bauendo fatta mossa persona alcuna d’importanza, gli faceuono creder che la cosa non passerebbe più auanti con maggior danno di quel che fusse stato sino al’ hora, il quale motiuo gli pareua stato animoso et pericoloso, et molto più ogni uolta che ui fusse stata intelligentia di Francia, come si potrebbe dubitare. Ma il cercar d’ accordo sì subito li fratelli di detto Conte, pareua dimostrasse che non hauessino altre spalle che potessino esser — 337 — preste a fauorire questa loro impresa. Della quale dice che potrebbe esser che il Conte l’hauesse partecipata con Francia, et forse promesso di quelle cose che sogliono prometter quelli che disegnano tentar simili imprese come cosa riuscibile et posta al sicuro, da poter con agio aspectar li adiuti di Francia. Ma considerato il di sopra, giudica sia stata cosa examinata da per sè gio-uinilmente e tractata animosamente, come s’ è inteso. Messer Ruberto parlò quasi nella medesima sententia, et il Sig.or Messer Lelio, oltr’ al confirmar il disopra, soggiunse che il non si ritrouar il detto Conte, o la morte sua, se la seguì, gli pare stata buon mezzo a far fermare forse più presto quelle cose, che non si sa-rieno ferme, perchè trovandosi li fratelli, vassalli et adherenti manco quel capo, hanno potuto manco exequire quanto teneuano ordine da detto Conte; onde tutti tre furno di parere che V. Ex.z mandasse subito un suo homo a Genoua a offerire, uisitar, etc. et che stessi lì tanto che quelle cose pigliassino forma, et che aduisasse di mano in mano tutto quello che accadesse. Et peichè il Sig. Messer Lelio mosse se fusse stato bene che V. Ex.za facesse star in ordine li soldati delle sue Bande di Volterra, Pisa e altri luoghi circumuicini, Messer Agnolo rispose che giudicaua (non seguendo altro) non fusse a proposito, perchè il veder armare S. Ex. potria forse più presto causar sospetto et gelosia nelli animi de Genouesi che altamente, per conto di Serezzana, et che questo sospetto potesse taluolta nuocere al Sig.or Principe D Oria; concludendo che il mandar là un huomo con prestezza, come di sopta è detto, giudicaua principalmente a proposito, senza far altra pro-uisione d’ armi. Così parse che tutti tre si resoluessino eh’ io scri-uesse a V. Ex.tia, la quale harà anche con questa una lettera del S.or Don Ferrante, con il medesimo , ma più obscuro aduiso del suo, che è uenuto per mano di un corrier, che passa a Roma, expedito a questo effecto. Non uoglio lasciar di dirgli che li medesimi del suo consiglio non stanno punto di bona voglia delle cose di detta Genoua, non tanto per il presente motiuo, quanto per li accidenti del mondo che possono aduenire, essendo il Principe uecchio, che, d’ ogn hora può uenire manco, nè uedere doppo lui chi possa restar in suo luogo, che uiuendo anche Giannettino non confidauano molto, et uorrebbono ueder in questa occasione che S. M. Cesarea pensasse di acconciare quelle cose d’ un’ altra maniera che le non stanno, che potriano un giorno trauagliare tutta Italia. Li dinari si mettono in ordine: or subito gli manderò a V. Ex.* la qual prego Dio tenga sana et gagliarda, et faccia sempre più felice; et io umilmente a V. Ex.a mi raccomando. Di Firenze, el dì 5 di Gennaio 1546. Di V. Ex.tia Minimo Senio ^ P.° Francesco Riccio. All Ill.mo et Ex.'"0 Sig. mio unico et Oss.w° el S.or Duca di Firenze. X. L’ abate Di Negro al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.mo et Ecc.mo Signor, Inanzi heri, al tardi, et heri alle xvij hore, con doa nostri Cor-reri Genoessi, scrissi a V. Ecc.tia e 1’ auisai di tuto il successo fatto per il Conte dal Fiesco ; e perchè ho per certo le lettere essere comparsse salue, per esser li Correri amicissimi mei e molto fidati, non replicherò altramenti il contenuto di esse, affermando il scrito. Il Sig.or Principe nel resto supplirà a V. Ecc.tia con una soa lettera (1); quale comparsse quà heri alle xxi hora e tuto il mondo lo fo ad incontrar. Della sanita sta assai bene ; del resto come V. Ecc.tia po considerar, siando stato tradito da chi più se fidaua e da chi da soa Ecc.tia haueua receuuto tanti commodi e beneficii. Si ua inanzi a remediar alli danni delle gallere, poi che alla morte non si [può] dar remedio alcuno, e di già sino a quest’ hora xx si sono ritrouati tanti forzati per armar dodesse gallere, e se la « (1) Vcd. Doc. vin. — 339 — fugita si recuperasse, non ui saria grande perdita; della quale non ce ne è noua alcuna, nè delle doa quale li sono andate dietro. Quella del Conte è stata heri uista sopra Finale, strada per andar uerso Prouensa. Stimasi che chi ui è suso non la debba restituir alli Fieschi. Per. quanto si uedde il Principe dessigna di armar tute le dette inanti soa gallere, e sella chiurma li mancherà, si seruirà de remeri di bona uoglia, e la cura di esse sarà di Messer Adam. E con questo farò fine, basciando humilmente le mani di V. Ecc.111, supplicandola a tenermi per minimo suo seruitore et in soa gracia. Che nostro signore Dio in tuto la facci felice quanto la desidera. Da Genova, alli y di Genaro del xxxxvij. Di V. Ill.ma et Ecc.ma Signoria Humil.mo Seruitore L’Abbate. All’ III.mo et Ecc.m° Sig.or et patron mio [osseru."10] il Duca di Firenze. XI. Il Riccio a messer Lorenzo Pagni. [Archivio Mediceo, filza. 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Molto Mag.co Sig.or mio, Di Venetia sono uenute l’alligate, et di Pisa dal Commissario, che pur haueua odorato de romori di Genoua, la qui aggiunta. Questa notte passò un correro di Genoua per Roma, et domandato della sollecitudine faceua di caualcar, non uolst. aprir bocca, se non che era stato mandato dietro a una staffetta di Genoua per leuarla a maggior diligentia. Pare che, quando più si spera bene, che al hora il mondo, secondo il suo solito, uadia ingarbugnando le - 34° — cose. Ma di quelle di Genoua sa V. S. che sempre S. Ex. non è stata con l’animo posato; porria forse questo accidente esser mezzo a dar qualche buono assetto alle cose di quella città. Che a Dio piaccia, et faccia sempre felice il Sig. et padron nostro. Accuso la lettera di V. S. d’ hiersera, et li bacio le mani. Che Dio la guardi. De Firenze, el di 5 di Gennaro 1546 (ab incarn.). Di V. S. S.t°r pt Fran.co Riccio. Al molto Mag.c° S.or mio M. Lorenzo Pugni secretano di S. Ex.tia. XII. « Don Ferrante Gonzaga al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.m0 et Ex.mo Sig.0r Le cose di Genua hanno preso il buon indrizzo che , non ha-uendolo saputo prima, V. Ex. uederà per la inserta copia di lettera che mi scrive il Sig.or Principe D’Oria, de la cui uita et salute fui certificato fin da hieri in Pauia; ma aspettando d’intender più oltre et d’ hauer lettere dal ambasciadore per auiso de’ progressi et ritorno desso Principe in Genoua, ho differito a scriuer a V. Ex. fin a questa sera, che giunto qui a Voghera vengo certificato che le cose sono per andar bene in seruitio di S. M.ta di che m’aiegro con lei, tanto più di cuore, quanto che non accaderà che dal suo canto si facciano le prouisioni che prima pareuano necessarie, per dar fomento alla cautela di quella città. Così m’ è parso auisarnela del bene, poi che le scrissi ancho da inante la maluagità del caso, delle particolarità del quale hauerà già hauuta notitia. Però non mi restando altro, allei baso le mani. Di Voghera, a v di Gennaro 1547. — 341 - Intertenuta sin a questa mattina ho hauuto per tempo lettera del principe D’Oria della quale mando copia a V. Ex. acciò che del tutto sia partecipe. A dì vj. Di V. Ex.tia Seruitor Affecionatissimo Ferrando Gonzaga. All'III.™ et Ex.m0 Sig.or Il Sig. Duca di Fiorenza. N. B. In margine della lettera è scritto : « Si può auisar la receputa ». XIII. Pier Francesco Riccio a Lorenzo Pagni. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Molto Mag.c0 S.or mio, Sono uenute questa notte 1’ allegate di Milano dal Vinta. Vi sarà una carta del Marchese di Marignano per S. Ex. Ve n’ è anch’ una di Messer Niccolò Campano perchè la uegga de romori di Genoua come si sono sparsi in quelle bande, et molti hanno messo già lo Strozzo come padrone in Genoua, et è gran cosa che in questo mondo non sia altri che lo Strozzo, per farlo immortale. Ma per questa volta si perderà 1’ acconciatura. Il Rossino da Cortona uol partire per alla uolta vostra, ond’ io per hora non farò altra risposta alla di V. S. d’ hieri, che accusargliene la riceputa et dirgli che li Oliuieri e Guadagni comper-ranno le 2 fregate a Napoli per S. Ex. Ma vorrebbono sapere a punto se S. Ex. intende delli octo 0 9 remi per banda della fregata, et se la uole anche 1’ huomini per dette fregate che le go-uernino o, come l’intende et comanda, che compere dette fregate si mandino a Liuorno. Allegando che quelli huomini e marinari di Napoli mal uolen-tieri vengono ad habitar a Liuorno, hauendo paura di quella aria, come altra uolta hanno tentato detti Oliuieri di fare. V. S. ne — 342 — risponda presto acciò questa faccenda si possa spedire conforme al comandamento del Duca, Signor nostro, et al desiderio che ten- . gono li detti di seruire a S. Ex. Il Signor Sannettino D’Oria era zio del Marchese di Fosdinuovo(i), che è qui alli scruitii di S. Ex., onde è che starà bene che lui si uesta a bruno. Et io non so che ordine in ciò s’ habbia a tenere s’el Marchese suo padre ci habbia a pensar lui, o altrimenti. Però V. S. me ne dica una parola; perchè il putto come ben scusato ha preso un dispiacer infinito della morte dello zio, e ueggo si starà in casa sinché harà i panni del corrotto ; et come sa V. S. lui tien a presso di sè dua seruitori. Il Signor Chiappino Vitelli arriuò qui hiersera alle 3 hore, et ne uerrà alla uolta uostra. El Signor Don Pedro è partito anche per costà, et S. Signoria darà nuoue delli Signori figli di quà. A S. Ex. humilmente mi raccomando, et a V. S. bacio le mani. Che Dio le guardi. Di Firenze, el dì vii di Gennaio 1546 (ab incarn.). Di V. S. Hor hora è giunto qui il Signor Otto Montaguto. Seruitor P. F.co Riccio. Al molto Mag.c° Sig. mio M. [Lorenzo Pugni Scc.ri° di S, Ex. XIV. Andrea D’ Oria al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.mo et Ex.m0 S.or Oss.mo Volendosi qui crescere de qualche numero di fanti per li accidenti che V. Ex. hauerà già inteso, si è datto cura fra gli altri a (1) Giuseppe Malaspina, marchese di Fosdinoro, aveva in moglie Vittoria, figlia di Tommaso D’ Oria e sorella di Giannettino. — 343 — Cauallo da Pisa, exhibitor della presente, di far fino a cinquanta o sessanta fanti nel dominio di V. Ex. Però la supplico et per lo interesse del seruitio di S. M.ta et per amor mio sia contenta ordinar che lo possi exequire senza disturbo alcuno. Et a V. Ex. baso le mani. Di Genua, a vii di Gennaro 1547. Di V. Ex. Seruitore Andrea Doria. All’ III.'1'0 et Ecc.mo S.or Oss.mo Il S.°r Duca di Fionma. XV. L’abate Di Negro al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.mo et ecc.mo Signor, In questa mattina è comparso la staffetta espedita di ordine di V. Ecc.tk e con epsa si sono receuute le lettere mandate, et le soa si sono date a Messer Jacopo (1), in compagnia del quale si procederà secondo che V. Ecc.tia commanda. Di nouo non ui è cosa che importi. Il Conte di Lancte, mandato dal Sig.or Duca di Parma, è partito in questa matina, licentiato dal Sig.or Principe. Nella partenza soa Soa Ecc.tia con bel modo li fecce intendere che quello disgradato del Conte sopra il fatto haueua publicato aspettar dall detto Sig.or Ducca grandissimo aiuto. Il Gismondo Franzino comparsse quà heri al tardi, mandato dal S.or Don Ferrando, quale era partito per alla uolta di Casale. Di là anderìa alla uolta di Verzelli per recognoscere un po’ quelle cose. Reffere detto Messer Gismondo detto Sig.or Don Ferrando hauer rissoluto di mandar doa milia fanti e cavalli a tre lochi del detto Conte, fra quali Pontremoli, sugietto alla Camera de Milano, in caso che non ubidiscan quanto per li soi Commissari (1) Jacopo de’ Medici. — 344 — mandati li sarà stato commandato. Uno gentilhuomo del Signor Viceré è comparso in questa mattina, come V. Ecc.tia harh prima inteso, per uissitar detto Signor Principe; se ne ritornerà anchora posodiman, uisto le cose in quell pacifficco [stato] che le sono quà. E con questo farò fine, basciando humilmente le mani di V. Ecc.tia. Da Genoa, alli vij di Genaro del xxxxvij. Di V. Ill.ma et Ecc.ma Signoria Humilissimo Ser.re L’Abbate. All’ m.mo et Ecc.”'0 Signor e Patron [mio oss.J'»0 il Sig.or Duca di Firenze. XVI. Jacopo de’ Medici al duca Cosimo (i). [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.m0 et Ecc.m0 S.re et P.ne osser."10 Arriuai questa mattina et oggi ho atteso alle uisite del Sig. Principe , del Sig.or Imbasciador et della Signoria, exponendo quanto haueuo in commession dalla Ex.tia V. Et perchè il Sig.r Abbate mi ha detto hauerla auisata di quello era seguito infino a mercoledì et mandatoli anchor lettere del Sig.or Principe date in Genoua, per non ci esser innovato cosa nessuna di poi, non gli replicherò altro, se non che qui ogn homo uiue quieto et pacificamente come (1) Jacopo de’ Medici fu richiamato da Genova il 14 gennaio con lettera del duca in cui si legge : « Perchè haviamo inteso che le cose di cotesta città restano quiete, non ci parendo più necessario lo star vostro costi, ci contentiamo che ve ne ritorniate a uostro piacere, pigliandone però prima buona licentia da codesti 111.mi Sig.rl, dall’111.m° Sig. Principe e dal Sig. Comm. Figueroa ». — Arch. Mediceo, Minute, filza 8. Partì da Genova il 18, con una lettera scritta al duca il giorno avanti da Agostino Spinola in Genova, che incomincia : « Ritornandosi il presente S.°r Giacopo de’ Medici da V. Ecc. ho voluto con questa comodità basargli le mani ». — Arch. Med., filza 381. - 345 — se non ci fussi mai nato tale accidente, nè ci è più sospetto: si indica ben per molti se non accadeua la morte del Conte dal Fiesco ne poteua facilmente succeder la ruina di questa città, come più a pieno alla mia tornata li potrò render conto più particulare. Il Signor Principe mi ha risposto che molto prima era certo del suo buono animo, nè stette mai in dubbio non si poter in ogni occorrentia o aduersità sua preualer di tucte le forze di quella, sì per esserli seruitore, sì per hauer sempre conosciuto la reuerentia et la pronteza che V. Ex.tia tiene in le cose di S. M.ta , et in caso che li fussi occorso faceua più capitale dell’ aiuto di quella che di nessun altro Principe; et con molte amoreuol parole si extese assai in ringratiarla et commendarla di ogni sua prouisione, dicendomi che le cose stauon qui di maniera che non ci era più sospetto et che lei poteua dismetter tucte le prouisioni che haueua fatte per al presente, et bisognandoli non mancherebbe far intender a quella quanto li occorressi. Sua Ex.tia mostra passarsi la morte del S.0r Giannettino quietamente, ma per quanto posso ritrarre 1’ ha sentita assai. Il S.or Imbasciador, in sustantia, me ha fatto la medesima risposta, ma con più parole, tucte in honor di V. Ex.tia; et ci agiunse, an-chor che era certo non bisognaua, che farebbe fede a sua Maestà di quanto li haueua fatto intendere et della prouision fatta per lei, la qual li par debba dismettere, non tenendo più sospetto delle cose di quà. Questi Sig.ri Ill.mi quali rapresentano tucta la città, exposto che hebbi l’imbasciata, mi risposono che restauon con obligo infinito alla Ex.tia V. delle prouision fatte, ma poi che Dio haueua messo la sua mano in questo urgente caso, non bisognaua che quella pigliassi altro incommodo per al presente, ma se per 1’ aduenire li occorressi cosa alcuna, farebbon capitale delle sue amoreuol offerte, ringratiandola infinitamente et offerendosi anchor lor Sig." a quella. Mi è parso per questa mia significarli quanto di sopra ho detto et aspettar che quella mi facci intender quello ho da fare circha lo stare o ritornarmene, dicendoli solo che tucta questa città concorre a casa del Signor Principe come prima o più. Et baciandoli — 346 — humilmente la mano, farò fine, pregando Iddio felice et lungo tempo la preserui. Di Genoua, il dì 7 di Gennaro 1546 (ab incarn.). Di V. Ex.,ia Anchor che io sia certo che la Ex.tia V. habbi e medesimi auisi, 0 forse migliori, non uoglio mancar mandarli una copia riceuuta dal Sig.r Imbasciadore. Qui per anchor non s’è acresciuta la guardia; dicesi la cresceranno un 200 fanti. Il S.or Agostino Spinola arriuò in questa terra 3 dì sono et conduceua seco circha 3000 fanti ; ma essendo leuato il sospetto , la Signoria glene fece licentiare auanti s’apressassino a Genoua. Ciè il S.or Iulio Cibo con forse 300 fanti, quali sono alloggiati apresso alla casa del S.or Principe, nè per ancho hanno tocco danari. Si pensa li licentieranno. Col S.°r Principe uenne altri 300 fanti, che anchor questi si uanno licentiando. Seruitor Jacopo de Medici. All’ lll.mo et Ecc.mo mio S.or et p.nc osser.m° Il S.or Duca di Firenze. Post scritta. Fu sopraseduto lo spaccio insino a questa mattina, aspettando se questi Sig.ri voleuano spedir da quelle bande, et uisto non era per spedirsi di qui dua o tre dì, mi è parso spacciar una staffetta a causa quella se possa resoluere più presto di quel particular ho parlato col S.or Principe se ne debbo parlar al S.or Imbasciador, maxime portando tal spaccio sì poca spesa, et nel resto mi rimetto a quel che glene scriue il Sig.or Abbate, re-seruandomi alla tornata mia referirli quanto ritragho ognora delle cose seguite. Questa mattina par che s’intenda che il Conte dal Fiesco de-uessi hauer qualche intelligentia col Principe di Melphi, perchè si era transferito al Mondovì ; pur queste nuoue uengono di luogo da non prestar lor una gran fede, et ogni dì si douerrà andar - 347 “ scoprendo paese: basta che la morte sua debbe hauer taglato la strada a tucti quelli haueuon mala fantasia per al presente. Il di 7 di Gennaro 1546 (ab incarn.). XVII. Notizie riservate, spedite da Jacopo de’ Medici al duca Cosimo (1). [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Quanto al negotio eh’ io haueuo sol parlar con il S.or Principe, S. Ex.tia mi ha risposto che essendo cosa che si aspetta a sua M.u et non a lui, ne douessi parlar col Sig.or Imbasciadore Fi-gueroa; et replicandoli io hauer commessione da V. Ex.tia non. ne parlar se non con quella, mi disse che li scriuessi la sua oppe-nione et qualmente sensa la partecipation di detto Signor Imba-sciador non li direbbe cosa alcuna, perchè non uoleua pigiar resolutione di quel che s’ aspetta a Sua M.ta 0 suoi agenti ; per tanto la Ex.tia V. mi auisi se ne debbo parlar col prefato S.or Imbasciador, perchè non son uolsuto uscir di quanto ho in commessione, nè ne parlerò insino a tanto che quella mi auiserà di nuouo quanto sopra di questo negotio li par che io facci : et sua Ex.tia mi ha promesso non ne parlare. Glene scriuo in su questo foglo appartato, perchè ho fatto parte della lettera al S.or Abbate, et non di questo particulare. Il corpo del Conte di al Fiesco fu trouato nella darsina ieri, et per quanto si ritrae 1’ hanno fatto ributtare in mare. Intendesi nella conjura non esser consapeuoli se non 4 0 5 : un M. Rafìael Sacho sauonese, suo aulditore, 203 giouani populari genouesi, de’ quali alla mia tornata di tucti porterò il nome et come sarà passata la cosa a punto : perchè par che e non si sappi per ancho che fondamento si hauessi. Dicesi che la domenica sera enuitò a cena molti giouani della terra, cioè circa 15 0 20, et alle otto ore conferì quello uoleua (1) In foglio staccato, di pugno dello stesso Medici. Atti Soc. Lig. St. Patri*. Voi. XXIII, fase. 2.° 23 — 348 — fare; ci fu dua che gli negorno non uoler esser con lui, quali lasciò in casa serrati in una camera. Fu creato il doge il martedì, qual si haueua a creare per lo ordinario, quale è un M, Benedetto Gentile. XVIII. L’ abate Di Negro al duca Cosimo. rArchivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Hl.m° et gccm0 gjCT or fc>* Arrivò^ heri mattina qua M. Jacopo de’ Medici con lettere di V. Etc.,ia de v per il Sig.°r Principe, per questa nostra Ill.ma Signoria e per il Sig." Ambasciadore; e da Soa Signoria V. Ecc.tia harà 1 eguaglio di quanto in nome suo harà negotiato e perciò a lei me ne reportero. Solamente li dirò che non solamente detto S.or Principe resta ubligatissimo a V. Ecc.tia dell’ offerte e demonstration fatte, ma tuta questa nostra città, dicco delli et, etc. (?). a detta di V. Ecc.,ia de’ v mi accusa la mia di iij, per la quale ara uisto 1 insulto et il successo di esso per insino alle hore xxjjj di quell proprio giorno. Per 1' altra mia di iiij V. Ecc.ti3 ne harà hauuto la confirmation, dicco del scritoli il giorno innanzi. Harà anchora receuuto 1 altra mia del giorno seguente di vi, con uno orrero di Spagna, co 1 quale 1’ harà de più receuuto lettere di etto S.or Principe, e perciò mi rendo certo che V. Ecc.tia di questo ìostro stato 1 ha ne sarà rimasta con la mente quieta e così della salute del S.” Principe detto, persuadendomi anchora che V. Ecc.tia alle prouision ordinate sarà andata retenuta poi che, per Dio gracia, non ui è stato de bisogno. Doppo del scrito non è innouata cosa e importansa. Le gallere ritornorno senza hauer fatto effetto; andorno appresso di Corsicca, ma non hebbeno lingua in terra. Se intende pure che questo tratatto del desgratiato Conte fossi con intehgentia de’ Francessi, et il Principe fuori (sic) di Melphi era — 349 — uenuto nel Mondouì. Et il Marchese d’Aghilara per una soa di ij di questo da Barcellona scriue al S.or Principe come Soa Ecc.tia restaua auisata di uno certo tratatto de’ Francessi per le cose di Niccia, che si indicca fossi per dar collor et ui è che tuto fossi per qua. Si indicca anchora quel pouerino hauesse tocco dinari da Francessi, hauendo in quest’ultimo monstrato largheza, doue di prima monstraua streteza. Se così sarà, in breui si dourà di tuto sapere il proprio. Per insino V. Ecc.tia non commandi altro, il detto M. Jacopo si fermerà quà in una casa di V. Ecc.tia, e di compagnia se li darà auisso de tute 1’ occorrentie, benché tuto resti quietissimo. Parmi intendere quel si pensi per questi ministri di Soa M.ta alli danni del stato di questi Fieschi. Quando sia così V. Ecc.,ia ne sarà auissata. Nella cui bona gracia humilmente mi raccomando , supplicandola a tenermi nel numero de soi minimi servitori. Di Genoa, alli viij di Genaro del xxxxvij. Di v. Ill.ma et Ecc.ma S.ria Hum.m° servo L’Abbate. All’ Ill.mo et ecc.mo S.°r et Patron oss.mo il Sig.r Duca di Firenze. XIX. Jacopo de’ Medici al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] 111.™0 et Ecc.m0 mio Signor e P.ne osser.rao L’ altra mia fu de vij sopratenuta alli viij, et se ben non ci è poi cosa degna di scriver a V. Ex.tia porgendomisi la occasion di apportator sensa spesa, non ho uoluto mancar scriuerli come il Signor Don Ferrante si troua in Alexandria, et forse si sarebbe transferito insin qui, se non hauessi hauuto respetto al non dar - 35° — sospetto a questi cittadini; et per quanto ritragho dal S.or Imba-sciadore mette in ordine di mandar a pigliar Pontremoli , Borgo di Val di Taro et non so che altro castello di questi Signori dal Fiesco, et ha mandato qui per prouisioni di artiglierie et munitioni. Intendo ne harà parte da Serezana et parte dal Marchese di Fusdinuouo et dal S.or Julio Cibo, quali si trouon qui et, per quanto si dice, si partiranno questa notte o domattina per la uolta di casa loro, per fauorir l’impresa, benché si giudica gioco di poche tauole, perchè si manderà prima un comessario a detti castelli in nome del Sig.or Don Ferrante a domandarli a nome di S. M.tà et si stima per esser luoghi deboli non babbino a far resistentia, et faccendola, le gente saranno pronte per combatterle. Et perchè son certo che per la uia di Milano quella sarà meglio auisata del- 1 oidine del Sig.or Don Ferrante, sopra ciò non li dirò altro. Ogni giorno uo dal Sig.or Principe e dal Sig.or Imbasciadore, come è mio debito, a intender se occorre cosa alcuna che V. Ex.tia li possa seruire. Le ìobe delle galere, forsati et stiaui, ogni dì si uanno recupe-rando et, per quanto si dice, ci è ordine da poterne armar 15 o 16. Per anche il Sig.or Principe non ha dato il luogo del Sig.or Giannettino, nè manco accomandate le ghalere a nessuno, ma, per quanto ritragho di buon luogo, tocheranno al Sig.or Adam Centurione, si crede per preseruarle a figli del Sig.” Giannettino. Qui si sta al solito che per 1’ ultima si scrisse, se non che uanno pensando a modi d assicurarsi che questa città uiua sotto la diuo-tion di S. M.u; et perchè questi humori son meglo conosciuti dal Sig. Abbate, me ne rimetto a quanto S. S.rU glene dirà quando li scriverra, perche con questa non harà sue per non esser in casa; et io alla tornata mia sopra di ciò li dirò qualcosa. Non fu ueio che 1 Principe di Melphi si transferissi al Mundouì. Il Sig.or Principe della sua gotta sta assai meglo et tutto il giorno sta leuato. Non hauendo altro che dirli, humilmente li bacio la mano, pregando Iddio felice la preserui. Di Genoua , il dì viiij, a ore 4. Di V. Ex.tia Il Sig. Girolamo Fiesco si troua in un lor castello che si — 351 — chiama Montoio, qui uicino, che dicono è forte; et il Sig.or Ottobuono se n’ andò alla uolta di Pontremoli, o di Lombardia. Humil. S.re Jacopo de Medici. Alì’Ill.mo et Ecc.m0 mio S.o' et p.nc oss.m° Il sy Duca di Firenze. XX. Don Ferrante Gonzaga al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.ta0 et Ex.mo Sig.re Ho hauuta la lettera di V. Ex. delli v, et se quella haueua hauuto la mia delli iij hauerà ueduto com’ io non mi prometteua manco di lei in questa occasione di quello che essa mi scriue hauer operato. Le bacio dunque le mani di ciò che mi offerisce , et in nome di Sua M.ta le ne rendo le debite gratie, allegrandomi seco del buon successo eh’ hanno hauuto le cose di Genoua, molto di-uerso da quello che si pensò da principio. Et acciò che V. Ex. resti auuisata di quello che è seguito da poi dal canto mio, ho da dirle che considerati i demeriti del Conte di Fiesco et i disser-uigii fati a Sua M.u con questa reuolutione, ho disegnato di cominciare a leuargli lo stato come a rebelle, quella parte almeno di esso che è feudataria di questo di Milano ; et per effetto di ciò mantengo tuttauia duo mila fanti in Cremonese, i quali feci desenuere in quel principio che intesi il tumulto, et presso a Serez-zana il S.r Principe D’ Oria mi fa trouare in ordine otto pezzi d’artiglieria, et hoggi manderò commissari a Pontremoli et a quegli altri luoghi vicini ad intimare loro che si debbino arrendere alla deuotione di Sua M.ta per la rebbellione del Conte, i quali se contrasteranno (eh’ io noi credo) userò della forza, et V. Ex. sarà auuisata del seguito. Alla quale non ho altro da dire, se non che dimane mi parto per la uolta di Milano, già che qui non mi resta — 352 — altro da fare, et di là potrò fare più comodamente ogni sorta di prouisione. Con questo fine adunque mi raccomando in buona gratia di V. Ex. et le desidero et prego felicità. D’Alessandria, alli x di Gennaro del xLvij. Di V. Ex. Seruitor Affecionatissimo Ferrando Gonzaga. All’IJJ ”io et Ecc.mo Sig.°r il Sig.T Duca di Fiorenza. XXI. L’abate Di Negro al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] et Ecc.mo S.or Per ritornarsene M. Jacopo de Medici da V. Ecc.tia informatissimo di tutte queste nostre cose, quale de presenti restano molto quiete e pacifiche alla deuotione di Sua M.ta, mi scuserà che non mi estenderò in darne conto a V. Ecc.t,a quale starà secura che in 1 auuenir la sarà da me auissata de tute le nostre occorrentie, reportandome delle passate a S. S.na Con questo farò fine, ba-sciando all solito humilmente le mani di V. Ecc.tia supplicandola in tuto a seruirsi di me, e fauore grandissimo mi farà. Che N. S.re Dio in tuto lo facci felice quanto la desidera e me tengha in soa gracia. Da Genoa, alli xviij di Genaro xxxxvn. Mandassi in una scatolla certe puoche carchiose (?). Si manda anchora il conto del Maestro nostro di posta di certe puoche spese fatte sino a questo giorno presente dalli xi di marzo in quà. Di V. Ill.ma et Ecc.ma S. Humili.mo Ser.rc Aiv 111 < o- L’Abbate di Negro. ah ill.mo et ecc.mo Sig.or et patrone osservo il S.or Duca di Firenze. — 353 — XXII. Jacopo de’ Medici a messer Lorenzo Pagni. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Magnifico S.or mio hon.do <■ L’ ultima mia a sua Ex.tia fu delli ix, et anchor che non habbi che scriuer cosa alcuna di momento, passando questa sera un corrieri di Lione mi è parso scriuer questa a V. S. Ieri il S.or Principe andò a parlar alla Signoria et, per quello ho possuto ritrarre, con molta modestia si dolse del caso seguito, maxime essendo stato fatto da persona che da lui nè dal S.or Giannettino haueua mai riceuuto alcuna ingiuria, anzi amato più che se li fusse stato fìglo. La risposta della Signoria per non 1’ hauer ritratta apunto non la scriuo; se non che intendo fu amoreuolissima, et fu electo un imbasciador a Sua M.ta, per quanto sento un M. Ceua Doria (1). Non ho che dirli altro, se già non li uolessi dire che questa mattina è comparso un Imbasciadore 0 mandato del S.or Duca di Parma a condolersi col Signor Principe; qual si domanda il Conte Iulio de Landi, molto afetionato al Vescouo di Furli, se non lo conoscessi per altro contrasegno. Il S.or Abbate non si troua in casa a quest’ ora, come la S. V. sa, et perchè non so se li harà scritto, mi rimetto a quel che sua S.na dirà. So ben che e manda non so che cose alla S.ra Duchessa. Et con questo li bacio la mano, senza hauer altro che dirli, saluo che questa sera ci è comparso un M. Gismondo Frangino, homo del S.or Don Ferrante, nè per anchor ne ’l S.or Abbate , nè io (1) Riguardo a Ceva D’Oria, spedito alla Corte Cesarea il 18 gennaio, sono da vedersi le istruzioni che gli furono date man mano e le relazioni che egli mandò da Ulma, da Norlingcn e da Korimberga, do\e trovossi successivamente con la Corte, fino al 29 marzo 1547 ; pubblicate dall avv. Bernabò Brea nel libro già citato. — 354 - habiamo ritratto a che effetto. Intendo tiene il Juogo che teneua lo Spedano. Io sono ogni giorno dal S.or Principe et dal S.or Imbasciadore, come è mio debito, et qui non ci è pericolo per ora si rinnuoui cosa alcuna. Iddio li conceda quanto desia. Di Genoua, il dì xi di Gennaro 1546, a ore 6. S.re Jacopo de Medici. Al molto Mag.co M. Lorenzo [Pagai] Secretario del S.or Duca di piren^e mio [padrone oss].’"0 XXIII. Jacopo de’ Medici al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.mo et Eccell.m° mio S.or et p.ne oss.mo In questo punto, che siamo a ore 19, ho riceuuto la di V. Ex.tia de’ x dello stante, et perchè quel gentilhomo del S.°r Vice Re parte pur adesso per quella uolta, sarò breue, dicendoli che col S. ImbasJador et con il S.or Principe mi gouernerò, circha quel negotio, secondo mi comanda; anchor che pensi che sua Ex.,ia si resoluerà non ne parlare, poi che’l S.or Don Ferrante fa l’impresa in nome di Sua M.“ di quelli castelli sottoposti alla Camera di Milano. Quanto al mio retorno aspetterò la resolutione di quella, nè sarei partito senza commessione expressa. Non manco di pigliar information di quanto posso ritrarre delle cose d’importantia et ne terrò giornalmente auisata V. Ex.tia, resecandomi a bocca a riferirli il caso come successe, perchè ne sono informato quanto huomo. Perchè il S.or Abbate scriue a V. Ex.tia la risposta del S.°r Principe all’ imbasciador del Duca di Piacenza et quel porta 1’ huomo — 355 - che arriuò jeri del S.or Don Ferrante, non glene replico , et mi rimetto a sua S.ria benché questa mattina il S.or Imbasciador mi habbi fatto parte di tucto. Oggi il S.or Doge fa 1’ entrata in palazo con le solite cirimonie. Et baciandoli la mano, non dirò altro. Idio li conceda quanto desia. Di Genoua, il dì xii di Gennaro 1546 (ab incarn.). Di V. Ex.tia Humil S.tor Jac.° de Medici. All' Ill.mo et ecc.m0 mio S.or et P.ont oss.m° Il S.or £)Uca di Firenze. XXIV, Jacopo de’ Medici al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381. R. Archivio di Stato in Firenze] Ill.mo et Eccell.mo S.or mio et p.ne oss.mo La mia ultima fu de’ xii del presente; per questa mi occorre far intender alla Ex.tia V. come il S.or Principe non parlerà altrimenti al S. Imbasciadore di quel negotio, nè come da per sè, nè in altro modo. Quanto al mio restar qui, judica essere a proposito, almeno per fino che si harà risposta dalla Corte, perchè di poi retornerò meglo informato di queste cose, et in questo mezo si andrà forse scoprendo paese et s’intenderà la mente di Sua M.ta Et mi ha'detto che 1’ obligo sarà maggior con V. Ex.tia Mi ha detto anchora che per qualche coniettura si può iudicare che alla Mirandola fussi qualche ordine di far gente per fauorir le cose del Conte dal Fiesco, ma che non se ne ha la certeza. Di quanto ritrarrà farà sempre parte alla Ex.tia V. La ringratia assai dell’ ordine che quella ha dato quanto a for-sati che si ritrouassino per el suo Stato; et mi ha pregato li facci intendere che li farà gratia singulare aiutarli riarmar quelle galere — 3 56 — che restorno disarmate, le quale saranno cinque, con lo inviarli alla giornata qualche forsato, secondo che la occasion se li porgerà. Le cose di qui si restono nel medesimo termine et, per quanto ritragho, ci si farà prouision di accrescere questa guardia per fino al numero di 400 fanti, ma, per esserci umori sottilissimi, a me par che le cose uadin molte fredde, benché si possa iudicare che mentre eh’ el S.or Principe uiuerà ci habbino a proueder di maniera non sia in arbitrio di pochi o d’ un solo fare reuolutione o tumulto, ma se non ci si farà una buona prouisione non so come s’ andrà la cosa doppo la sua morte. Et se ben tucto questo uni-uersale, cosi i nobili, come populari, si contentono, nè par loro strano la grandeza del Principe per la sua bontà et per hauer sempre beneficato questa città et mantenutola in questa libertà, non so come doppo la inorte sua con facilità si sopportassino la grandeza d’ altri. Et perchè di queste cose se ne debbe scriuer con rispetto, maxime un par mio, che ha poca sperientia delle cose del mondo et in particulare di quelle di questa città, non ne dirò altro, riseruandomi alla tornata in quel che mi parrà degno di sua Ex.tia. Ni ho uoluto far questo breue discorso, del qual forse da quella ne sarò tenuto presuntuoso, qual mi perdoni. Ieri questo Consiglio vinse una prouision di 50 mila scuti, la qual hauessi a seruir a tucto quello che bisognassi per mantenimento di questo Stato et questa lor libertà, dando alturità alla S.a di dispensarla secondo il bisogno. Alla creatione delli altri dogi si suol far simil partiti, ma dicono non sogliono passar 15 mila scuti. Il Signor Imbasciador questa mattina mi ha detto che questi S.or dal Fiesco hanno fatto offerir Pontremoli et li altri lor castelli, cioè quelli soli che son sottoposti alla Camera di Milano , che è Pontremoli, Borgo et un altro che non sa il nome, et glene faranno dar la possessione et a’ sudditi il giuramento, uolendoli tener in nome di Sua M.ta, a quali ha fatto risponder che sensa commessione non accetterebbe cosa alcuna. Con questa sarà una information della cosa del Conte dal Fiesco. Quella mi harà per scusato se è mal detta et fastidiosa; consideri che è fattura mia. *• Et baciandoli humilmente la mano, farò fine, dicendoli che non - 3S7 — si marauigli se non ha lettere così spesso, perchè sensa proposito non son per spedir una staffetta. Et Idio li conceda quanto desia. Di Genoua, il dì 15 di Gennaro 1546 (ab incarn.). Di V. Ex.tia Humil S.,or Jac.° de Medici. Allo Ill.mo e[ Ecc mo mìo s.or el P.nt osser.mo Il S.or Duca di Fir mie. Le lectere di jeri, per falta di apportatore, non son partite di Genoua. Per questa post scripta fo intender alla Ex.tia V. come questa S.na ha fatto uedere in punto juris se la remession del fallo di questi S.ori dal Fiesco et lor seguaci con il partito feciono, era ualido. È stato referto dal S.or Potestà et altri dottori de’ primi di questa città, allegando molte ragioni, non esser ualido ; de modo che jer-sera la S.a declarò rebelli di questa città, et traditori il Conte dal Fiesco con e tre fratelli, che si trouorno presenti, et una buona parte di quelli giouani della città che erano in lor compagnia. Così saranno spogliati de lor beni. Et declararono anchor che la casa di Violà del Conte fussi spianata; et con questa resolutione et altre commissione si dice partirà domani 0 1’ altro M. Seua D’Oria electo Imbasciador a sua M.ta Questa nobiltà ha preso gran conforto di questa declaratione, et si stima si procederà più innanzi. Delle cose di Pontremoli non li scriuo altro, perchè so che ne è prima et meglo informata di noi altri. Questo spaccio uerrà per el primo corrieri che passerà, perchè questi S.or Genouesi per quella uolta spediscono di rado, et io non ho uoluto spedir staffetta per cosa di sì poca importantia. 11 dì 16 di Gennaio 1546 (ab incarn.). XXV. Niccolò de’ Medici al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 381] Ill.mo et Ex.mo S.or Duca, Questo giorno ho relatione da M. Francesco Baldi Doctore di qui, persona degna di fede, che trouandosi hieri et 1’ altro in Pontremoli a casa di certi sua parenti, come il S.or Pier Luigi era direto d’impatronirsi dello Stato di Pontremoli et similmente il cer-caua il S.or Scipione Fiesco et anchora M. Adamo Centurioni, il quale dicano che ha fatto per hauerlo offerta di danari, et per ancora non è resoluto cosa alcuna, che tutto dicano esser in petto di S. M.ta, et in dicto luogo non s’amministra iustitia sotto nome di persona et mal uolentieri 1’ huomini di Pontremoli uogliono acconsentir a nessuno de’ sopradetti, ma tutti sono di animo et desiderano (secondo mi afferma dicto M. Francesco, che li ha uditi) uenire sotto il gouerno et iurisdictione di V. Ex.tia et harebbono molto a caro quella si degnassi farne impreza. Dicemi ancora che il Gouernator di Serezana li referì hiersera che haueua inteso come il figluolo del S.or Hettor del Fiesco hauea amazato il figliuolo di dicto M. Adamo per hauer dicto M. Adamo contradetto il seppellir il corpo del Conte, et che alcuni altri di casa Fiesco et loro sequaci sperono ritirati nel castel di Montoglio. Et anchor eh’ io pensi che V. Ex-tia habbi da più bande tali aduisi, mi è parso per il debito mio et come seruitor aduisarne quella, alla quale debitamente mi raccomando. Da Pietra S.ta, alli viij di Febbraro 1546 (ab incarn.). Di V. Ex.tia Humil S.tor Niccolò de Medici. All lll.m° et excell.m° S.°r et Padrone [Osseru.]mo el S.or Duca di Firenze. - 359 — XXVI. « Al S.' Gio. de Vega Amb. Ces.° a Roma; a di iiij di gen. 1546 » (ab incarn.). [Archivio Mediceo. Minute di Cosimo, filza 8] (Da parte del Duca Cosimo) In questa hora v di notte è gionto qui in molta diligentia un corr.ro spedito a me di Genoua dall’ abate di Negro con una carta sua, data alli 3 del presente, a hore 24, con lo auuiso che la S. V. uedrà per lo aggiunto summario. Et perchè a me pare che consista nella prestezza il remedio et la prouisione che è necessaria a tanto inconueniente , spedisco il presente corriera a posta alla S. V. ed all’ Ill.m0 S.or Vice re per fargli intendere che io in questa medesima hora inuio un gentilhuomo mio al S.or Principe D’ Oria per fargli intendere che domattina mi parto di questo luogo, uicino a Firenze a vmj miglia, doue ero uenuto per ritornarmene alla città, e mi rivolgo verso Pisa, per far lì massa di tutte le genti mie et subministrar a S. S. tutto quello aiuto et fauore che sarà necessario per conseruare quella città nella deuo-tione et obedientia di S. M.ta et mantenere S. S. et li suoi in casa loro nel seruitio di S. M. Ma parendomi necessario sopra ogni altra cosa che per tale impresa le galere di Napoli et di Sicilia, le quali tutte intendo trouarsi al presente in Napoli, se ne uenghino alla uolta di Liuorno, doue, quando non si ritrouino prouiste d’ homini da combattere, le prouedrò io opportunamente delli miei, però scriuo al prefato Ill.mo S.or Viceré che sia seruito di farle inuiar subito a quella uolta, et acciò che S. Ex.a lo habbi a far più presto et più uolentieri, desidero che la S. V. ce lo riscaldi con sue lettere, perchè comparendo le galere presto a Liuorno si potrà far la impresa con buono ordine et in tal maniera che se ne possi sperar buon successo, et che del male le cose si habbino a ridurre in bon termine. — 360 — Non mi resta da dirgli altro per hora, ma alla giornata li darò auniso di tutto quello di più che uerrà in notitia mia delle cose di quella città. Intanto li bacio le mani et prego, etc. Da Licceto. Di mano di S. Ex.a V. S. potrà comprendere per li auuisi 1’ exito delle cose di Genoua ; a me non resta se non ricordar la prestezza delle galere come fo al Viceré, perchè il resto che tocca dalla parte mia tutto sta prouisto, et ogni mia forza sarà pronta al seruitio di Sua Maestà ; et secondo che dal Principe sarò auuisato, mouerò le forze mie per souuenire a questo disastro ; et se a V. S. pare che io debba far cosa alcuna per seruitio di Cesare, auuisi, che sarò prontissimo. Alla giornata con più comodità darò auuiso a V. S. di quello più mi occorre in tal materia. Al Viceré di Napoli a dì detto si è scritto in conformità , con questa agiunta di proprio pugno di S. Ex.a Come V. Ex.a uedrà, le cose di Genoua sono in quello termine che per li auuisi si può coniecturar, et se ben non ui è certezza dell’ essito di esse, si può questo giudicar che ogni presto fauor che se li dia habbia a esser in gran seruitio di S. M.ta Dal canto mio sarò presto con tutte le forze mie per fauorir la parte di S. M.ta et del Principe, ma la prestezza delle galere mi pare importi in infinito per condur con più facilità questa negotiatione. Adunque V. Ex.a non perda punto di tempo in inuiarle, perchè 1’ hore in questi casi sono mesi. Alla giornata la terrò raguaglata delli successi uerranno in mia notitia. XXVII. « Al Principe D’Oria, a di v di gen.ro 1546 » (ab incarn.). [Archivio Mediceo. Minute del duca Cosimo, filza 8] Intenderà la S. V. [ll.ma da Jacopo de’ Medici, dator della presente, con quanto dispiacere io habbi sentito la morte del S.or Giannettino, suo nipote, et il resto del caso nuouamente seguito in co-testa città. Intenderà ancora li preparamenti che ho fatto per commodo et seruitio suo, et per conseruare et mantenere cotesta città nella deuotione di Cesare. Però senza extendermi in alcun particulare, mi rimetto a lui, et supplico la S. V. Ill.ma che di quanto parlerà seco in nome mio li presti quella medesima fede et credenza che farebbe a me stesso. Et li bacio le mani, pregando Dio N. S.r la conserui sana et contenta. Da Licceto. XXVIII. « Al Viceré di Napoli, a di 5 di genn.° 1546'(ab incarn.), da Licceto ». [Archivio Mediceo. Minute del duca Cosimo, filza 8] Io ho inteso che si trouano costi due galere fornite di vele, remi et altri suoi abbigliamenti, saluo d’ artigliarie et di forzati, le quali haueuano a seruire per il Re di Tunizi et che s’ hanno a uender. Però, quando così sia, io ne sarò compratore, et per tal cagione supplico V. Ex. che sia seruita di farmi auisare se le posso hauere, et per qual pregio. Et quanto prima ne sarò aui-sato, tanto mi sarà di maggior piacere. Bacio le mani dell’ Ex. V. et prego N. S. Idio che la conserui sana et contenta. XXIX. « Al Cardinale Cybo, a di v di gen.ro 1546 » (ab incarn.) [Archivio Mediceo. Minute del duca Cosimo, filza 8] Questa notte passata, nel medesimo istante che comparse M. Hip-polito creato di V. S. R.ma et Ill.ma con la carta sua di hieri, con la quale mi daua auuiso del caso occorso in Genoua, comparse gìontamente un corriero spedito a me dall’Abate di Nero con il medesimo auuiso, laonde parendomi essei debito mio di dimostrar a S. M.,a in questo accidente , come ho fatto in tutti li altri bisogni suoi, quanto 1’ animo mio sia pronto et disposto a seruirla, trouandomi a Licceto per ritornarmene a Fiorenza, mi risoluei subito di riuolgermi uerso Pisa per far lì una massa di tutte le genti mie et poter subministrar al S.or Principe tutto quello aiuto et fauore che S. S. IlI.ma giudicasse expediente et necessario per la conseruation di quella città nella diuotione et obedientia di S. M.ta, et mantenimento di S. S. Ul.ma et delli suoi in casa loro; et nel medesimo instante che giunse 1’ auuiso ne diedi parte per corriero expresso al S.or Gio. de Vega et al Viceré di Napoli, ricercando lor signorie che uolessero inuiare subito le galere di Napoli et Sicilia alla uolta di Liuorno, acciò la impresa si possi far con miglior ordine et in tal maniera che babbi hauere uotiuo successo, et che del male le cose si habbino a ridurre in buon termine. Et in questo punto ho inuiato alla uolta di Genoua Jacopo de’ Medici per offerir al Sig.or Principe tutto 1’ aiuto et fauor mio, et ceitifìcarlo di quanto ho ordinato et fatto sin qui, acciò possi star di buono animo et attendere di miglior uoglia a recuperare la reputazione sua et di suoi amici. Altro non ho da dirli con la presente. Bacioli le mani et prego Dio, etc. Da Licceto. — 363 — (Segue) Al Sig/ Giulio Cibo, a di detto. Si scrisse in conformità, aggiugnendo questo capitulo : Lo auuiso che la S. V. mi ha inuiato, doppo la partita di M. Hip-polito, per I’ homo suo, era peruenuto prima in notitia mia per la lettera dello Abate. XXX. « Il Duca al Serristori , a di vii di Gennaio x 546 » (ab incarn). [Archivio Mediceo. Minute di Cosimo I, filza 8] Hora perchè ci rendiamo certi che S. M.ta non uorrà lassar impunita una tanta sceleragine commessa dal prefato Conte del Fiesco et da’ fratelli suoi, et che non mancherà di applicare alla Camera sua imperiale tutte le terre et luoghi del stato di detto Conte, et di dannar la memoria sua come perturbatore della quiete publica di Italia et nimico et rebelle della M.ta Sua et del sacro imperio ; essendo il luogo di Pontremoli, che egli teneua, contiguo et uicino alle terre et luoghi nostri di Bagnone, di Castiglione del Ter-zieri et di Fiuizzano et la ch[i]ave del passo di Lombardia, la quale, quando fusse ben guardata, serrerebbe quello adito di tal sorte che non sarebbe possibile ad alcuno di potere per quella banda intrare a’ danni di Toscana, et oltre le prenominate terre nostre di Lunigiana sarebbe lo antemurale di Pietrasanta, di Pisa, di Volterra et di tutta questa nostra banda della marina ; et seben Pontremoli non è luogo forte, nè atto a potersi fortificar, si potrà però fare una fortezza in qualche loco quiui circumstante che renderà sicuro quel passo da chi tentasse di entrare in Toscana per quella uia. Però stando tal luogo a noi così bene, desideriamo supremamente che la Maestà sua ce ne facci gratia in compra per Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2.° 24 — 364 — prezzo honesto et conueniente. Voi adonche, alla riceuuta di questa, conferendo prima il tutto con li nostri amoreuoli Mons. di Gran Vela et Mons. d’Aras et con lo Ill.m0 Sig.or Duca di Alua, et pregandoli in ciò del loro aiuto et fauore , che a tale effecto ui si mandano le aggiunte per loro Sigg." in credenza nostra, ui conferirete al conspetto di S. M.ta con la nostra lettera qui alligata, che è pur in nostra credenza , et poiché li harete fatto noto tutto il di sopra, la suplicherete a nostro nome con ogni affetto di animo et di cuore che sia seruita di farci questa gratia et preporci in essa a ogni altra persona per e nostri denari, mettendoli reuerente-mente in consideratione che se la M.'1 Sua concedesse quel luogo ad altri, oltre che a noi parrebbe di metterci assai dell honore restandone indietro, nascerebbero alla giornata, tra noi e la persona a chi ella il concedesse, di molti trauagli et fastidii per la conui-cinità di luoghi, et maximamente quando lo concedesse a qualche genouese, perchè la maggior parte di loro sono naturalmente inquieti e fastidiosi, et se pur la M.ta Sua disegnasse di farne mercede ad- alcun’ altro che a noi, li supplicherete in tal caso che sia seruita di concedere il luoso a noi et far mercede a chi a lei pia-cera de’ denari che da noi saranno sborsati per il prezzo di quel luogo, et in questo modo uerrà a satisfar al disegno suo et al desiderio nostro. Delle altre terre dello stato di detto Conte noi non ne parliamo, nè cerchiamo di essere gratificati in modo alcuno, ma di questa, perchè ci preme et importa quanto ogniun può considerare, desideriamo oltre modo di esserne compiaciuti dalla M.ta Sua per prezzo honesto et conueniente, et ci promettiamo eh’ Ella non ce ne debbi mancare, perchè sarà anco seruitio suo che per noi si facci una fortezza in quella banda et si assicuri quel passo di sorte che di lì non sia lecito ad alcuno di poter entrare per nuocere alle cose di Toscana. Usate voi adunque in ciò tutta la uostra diligentia et sollecitudine, et procurate con ogni studio che ne segua l’effetto, restando certo che questa gratia-ci sarà di infinita satisfattione et contento, non tanto per 1’ acquisto del luogo, quanto perchè il mondo conosca che S. M.ta ci tiene per quel buon seruitore che li siamo. — 365 — Di mano propria di S. Ex. Noi non possiamo mancare di dire a S. M.'a liberamente quanto intendiamo in suo seruitio sopra le cose di Genoua, le quali benché questo successo habbi hauuto altro fine di quello si pensaua, lo reputiamo esser proceduto da non si trouare il Conte o per morte o per fuga, onde restati li sua fautori senza capi, si sono smarriti et il resto della città non si è mossa per hauer uisto li motori in fuga. Ma non per questo facciamo argumento di amo-reuolezza di quel populo nè inuerso il Principe, nè inuerso di S. M.ta, perchè se ui fusse lo amore harebbono fatto verso li Fieschi quello che fu fatto dal populo di Firenze uerso li Pazzi nella morte del Mag.c0 Giuliano : onde, considerate tutte queste cose, restiamo di mala uoglia et con maggiore sospetto che prima. Perchè in ogni occasione di guerra in Italia del Re, et li Fieschi et la parte sua et ogni altro che uorrà fare motiuo in quella città, sarà suffitiente a poterlo fare, nè sempre di questa maniera, nè S. M. sarà nel colmo della vittoria di Germania, come hora se troua : onde ricordiamo il pensare a qualche maggior sicurtà per il seruitio cesareo. Et benché siamo certi che il Principe dirà in contrario, si per 1’ honor suo, sì per esser uecchio et non trouarsi successori, nè uorrà incolpar il publico, ma saluarlo, il che mal si può fare, et se ben non ha fatto è stato perchè 1’ occasione s’ è persa. Almanco doueua far dimostratione contra li malfattori, il che non si è uisto. Adunche più si debbe ringratiare Idio che altro opera, et chi dà ad intender altrimenti a S. M.ta la inganna, Noi abbiamo uoluto dir tutto liberamente et ricordare che così stando le cose di Genoua, ogni uento le può mutare per piccolo che sia. S. M.ta si risoluerà a quello sarà suo seruitio, et quando ce sarà domandato del remedio forse non sarà sì difficile come pare. Per non ce lo scordare uogliamo dirui che da più bande ci era stato scritto et particulannente di Roma, udendo qualche intimo di S. S. sbattere la uittoria cesarea, che S. M.ta presto haria tanto che fare che si marauiglieria et succederebbe qualche gran cosa, et apunto quando uolauammo faruela scriuere è successo questo moto, et considerato questo riscontro et li fauori fatti dal Papa al Conte, — 366 — il darli le galere, la mala uoluntà che mostra il Papa in ogni impresa di Cesare, giudichiamo, anzi mettemmo le mani nel fuoco lui hauere instigato el Conte a tal cosa et saperla, o al manco li sua ministri o parenti, come di Farnese et Pierluigi, giudicando non potere in parte alcuna nuocere a S. M.ta che nelle cose di Genoua, et se riusciua lo exito lo haria dimostro; il che Idio non ha, per sua bontà, permesso. Et cosi farà sempre il Papa in ogni occasione che uorrà contro al Imperatore, et se lui uiue et uiene occasione perchè uede di potere fare ogni cosa contra S. M.ta et che li è comportato, che si assicurerà a far ogni gran cosa per rouinarlo et abbassarlo ; et tutte le cose non uanno sempre prosperamente. Tutto habbiamo uoluto dirui, perchè lo facciate noto a S. M. et per il debito nostro, et insomma stiamo hora di peggior uoglia delle cose di Genoua che innanzi el caso seguisse (i). XXXI. « Il Duca a Jacopo de’ Medici, a di x di gennaro 1546 » (ab incarn). [Archivio Mediceo. Minute di Cosimo I, filza 8] Son comparse questa mattina uostre lettere de 7 con le poscritte delli otto, per li quali hauiamo inteso quanto haueui passato con codesti 111. Sig.ri, col Sig.r Principe et col Commendator Fi-gueroa, et la certezza della morte del Conte di Fiesco ; et per risposta. ui diciamo che' per nessun conto parliate a nostro nome col Comendator Figueroa di quanto ui si dette in commissione che uoi parlassi col Sig.or Principe; ma se S. S. Ill.ma gliene uuol (1) Il Duca tornò a Firenze il 20 gennaio. Il 24, lunedi, scriveva a D. Francesco di Toledo da Firenze : « Jacopo de’ Medici tornò da Genova eì ha confirmato le cose di quella città restar quietissime e nella medesima deuotione di S. M.tà che erano prima. Il S.or Don Ferrando ha havuto d accordo tutti i luoghi et terre che erano del Contedi Fiesco, excetto le fortezze di Pontremoli et di Montoglio, per la expugnatione delle quali mostra di voler marciare a quella volta otto pezzi grossi di artigliarla che sono a Massa et a Serezzana.....Giovedì passalo la Duchessa ed io tornammo in Fiorenza 0. N.B. Quando Cosimo scrivea questa lettera, le fortezza di Pontremoli si era già resa; ma egli non poteva ancora averne ricevuto 1’ avviso. - 367 — parlar lei, faccilo come da sè, purché non paia che ciò proceda da noi, non uolendo in nostro nome se ne parli più oltre. Ci pare che debbiate restare costì per ogni buon respetto sino a tanto uedrete le cose ben ferme et stabilite del tutto. Però non ue ne partirete senza nostro nuouo ordine, quando bene il Sig. Principe ui licentiasse; et in tal caso ce ne darete auuiso, et ui si dirà quanto harete a seguire. Attendete a pigliare informatione et raguaglio d’ ogni minutia di tutto questo successo, et di quello che seguirà alla giornata, scriuendoci giornalmente quel che più importa et che non può patir dilatione, et riserbandoui a dirci il resto di hora nel uostro ritorno. Et bene ualete. Da Pisa. XXXII. « All’Abate Di Negro, a di detto (x gennaro) ». [Archivio Mediceo. Minute di Cosimo I, filza 8] Hauendoui accusato la riceuuta di tutte le uostre piecedenti, ci resta a farlo dell’ ultima uostra, comparsa questa mattina , che e delli 8 del presente. Però questa seruira per accertarui che la ha-uiamo riceuuta et che, sulle vostre lettere, haueuamo fatto tornare i soldati nostri alle case loro, con comandamento però di stare in tal modo ordinati et preparati che ad ogni minimo cenno et auuiso si potesseno mettere a cammino. Et noi ci intratteremo quà in Pisa, et in queste circumstande sino a tanto intenderemo le cose di costì essere ben ferme et stabilite, et l’Ill.mo Sig. Principe non hauer più bisogno di noi, nè delle forze nostre, et Jacopo deJ Medici si intratterrà costì qualche giorno con uoi per ogni buon rispetto. Intanto uoi e lui ci terrete auuisati giornalmente di tutto quello che ui parrà degno della nostra notitia. Altto non occorre, se non che a nostro nome baciate le mani all Ill.mo Sig. Principe. Et bene valete. Da Pisa. 368 — XXXIII. L’ambasciatore Serristori al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 4304. R. Archivio di Stato in Firenze (1)] (Per inserto) Del 26 gennaio 47; da Ulm. (Omissis) Mons. di G. V. (Gran Vela) non ha voluto ch’io facci parola delle cose di Pontremoli, dicendomi che non gli par da imbrattar le buone opere di V. E. in seruitio di Cesare con sì presta domanda, ma che si renda sicura che senza lui non s’ha a deliberarne; et da per se stesso di già haueua posto in consideratione a S. M. come luogo importante, uicino allo stato di V. E. Alla quale farà intendere come se n’ habbi a gouernar subito che S. M. harà incorporato quello stato et se ne sarà impatronita. Et per quanto possa comprendere, S. S.ria lo desidera al pari deir Ecc. V. Onde sapendo 1’ amor et f afìettione che le porta , ho seguitato el suo consiglio. Et se bene non gli è parso punto a proposito eh’ el Sig. Don Francesco n’habbi scritto a Sua Maestà, non di meno 1’ andrà forse ricoprendo di sorte che non apparirà esser di mente di V. S. Ill.ma, il che non potrebbe fare quando io ne parlassi; sì che per queste cagioni non ho portato le sue al Duca d’ Alba, nè (1) Le lettere di questa filza 4304 hanno scritto in testa: « Registro di Monsignor di Furli ». Ma è un titolo errato; sono scritte tutte di mano di Bartolorameo Concino, segretario dell’ambasciata presso la Corte di Germania, a nome dell’ ambasciatore Averardo Serristori, alcune anzi hanno la firma autografa dell’ ambasciatore stesso. Però molte si trovano in duplicato nel Registro del Còncino (filza 4305) e nelle lettere dello stesso Averardo. Giova ricordare che il Concino era stato spedito per segretario al vescovo di Cortona fin del 1545 (st. fior.). Quando , attesa 1’ indisposizione di questo ambasciatore , il duca Cosi.do lo richiamò nell’ agosto di quell’ anno, il Concino rimase presso Don Francesco di Toledo, che avea in cura gli affari del duca di Firenze, per servigio dell’ambasciata. Nel novembre dell’anno stesso Cosimo spedì per suo ambasciatore a Carlo V messer Averardo Serristori, allora suo ambasciatore a Roma. Egli arrivò alla Corte, che era a Boldnek, il giorno di Natale e vi rimase fino al febbraio dell’ anno seguente, allorché fu richiamato e spedito nuovamente a Roma. Il Còncino, anche questa volta, rimase presso la Corte e continuò il carteggio col suo signore, finché fu mandato mons. Bernardo de’ Medici, vescovo di Forlì, in luogo del Serristori. Le sue lettere incominciano dall’ anno 1548. i — 369 — al Reggente Figueroa, al quale è morto il padre; et parendole in contrario, potrà replicarle, a ciò che havendo pur a parlarle quelle che io ho non paressino troppo soppressale. Di più G. [\ .] mi replicò che 1’ Ecc. V. stessi di buona voglia che seguirebbe quanto ella desidera: et certo se mai l’ho conosciuto amorevole di quella in questo accidente veramente 1’ ha mostrato più che mai, parendogli che gli buoni portamenti di lui verso S. M.ta corrispondino al patrocinio che tiene et la professione fa apertamente di tenere dall’ Ecc. V. XXXIV. L’ ambasciatore Serristori al duca Cosimo. [Archivio Mediceo, filza 4304. R. Archivio di Stato in Firenze] (Per inserto) Del 30 gennaio; d’ Ulm. (Omissis) Mons. di G. V. m’ha replicato che, mentre uiuerà, V. E. si prometta d’hauere in questa corte un amoreuolissimo procuratore che non lascerà indietro officio alcuno per seruirla et satisfarle, et inostrommi un memoriale del Sig. Sforza Palauicino nel quale si domandaua in gratia a Cesare Pontremoli per essere stato delli antiqui suoi, soggiugnendomi: A questo si tiene già per ìisposto, et lo butto da banda. — 37° XXXV. L’ambasciatore Serristori al duca Cosimo (i). [Archivio Mediceo, filza 4304. R. Archivio di Stato in Firenze] (Per inserto) Del 21 febbraio 1547; d’Ulm. (Omissis). Quanto a Pontremoli sarò con Mons. d’ Aras et piglierò el suo consiglio, ancorché mi renda certo non uscirà dell’ ordine di suo padie; il quale hauendomi detto nel primo ragionamento , come scrissi nel’ inserto de’ 26 del passato, che di già da per se stesso haveva posto in consideratione a S. M.ta 1’ importantia di * quei luogo, et ch’era contiguo allo stato di V. E. et però stesse sicura che non se ne delibererebbe senza lui; di poi auanti la partita sua per Borgogna, riducendogli a memoria el negotio, mi replicò eh ella stesse di buona uoglia che senza participatione non era per terminarsi, finì col mostrarmi la petitione del S.or Sforza Pa-lauicino. Mi pare che se ne possa sperar bene. Nè si debbe credere che S. M. non lo sappia di sua boccha, oltre alle lettere del Sig. Don Francesco, se bene Mons. prefato non harebbe uoluto che n’ hauesse scritto, non perchè la domanda fusse dishonesta, nè che imbrattasse 1’ opere dell’ E. V., ma per non mostrar che le sue prouisioni fatte per la nouità di Genova tendessero all’ interesse suo particulare, ma solo al seruitio di S. M.“, argumento ueramente da pensar che uoglia fauorire il desiderio di V. E. et seruirla con opportuna occasione. (1) Nelle « Lettere del Còncino », Arch. Med. fil. 4305, è riportato lo stesso inserto scritto di mano del Còncino e firmato dall’ amb. Averardo Serristori. È stampato a pag. 92 della « Legazione di Averardo Serristori » pubbl. dal Canestrini, Firenze, 1853. DUE DIARI INEDITI DELL’ASSEDIO DI GENOVA NEL MDCCC PUBBLICATI da GIUSEPPE ROBERTI m ON parrà inopportuno trarre dall’ oblio, ove giacciono da molti anni, due diari quasi sconosciuti dell’assedio di Genova del 1800, quando si pensi come intorno a questo episodio importantissimo della lotta combattuta dalla Francia rivoluzionaria contro le monarchie europee scarseggi tale categoria di fonti, dovute a persone non mescolate direttamente alle faccende politiche od alle operazioni militari, ma testimoni oculari e per la maggior parte attendibili. Abbiamo, é vero, la nota Istoria del blocco di Genova di Angelo Petracchi, patriota, il che è tanto quanto dire amico sviscerato dei Francesi, ma il suo libretto non ha propriamente forma di diario, né le notizie che egli ci porge possono sempre venire accettate tal quali : al-l’infuori però del Petracchi — a non voler citare i Souvenirs militaires d’uri jeune abbè, editi dal barone — 374 — d’-Ernouf, e le Mémoires del Crossard o altri lavori di tutt’altra indole — non ci si presenta nessun diario vero e proprio, che si trovi nelle accennate condizioni. Siano dunque bene accetti — per quanto non d’ importanza eccezionale — il Dagbok òfver blockaden af Genua dr 1S00 di Jacob Christiannson Graberg, ed un diario anonimo — ma certo di penna genovese — appartenente alla Raccolta Lagomarsino degli Archivi torinesi di Stato. Il nome di Giacomo Graberg di Hemsò non é certamente nuovo agli studiosi : o meglio il lungo soggiorno in Liguria, le molte pubblicazioni di lui che ivi videro la luce, le memorie storiche, geografiche, statistiche, cui gli fornirono materia Genova o la Liguria, dovrebbero averne raccomandata la fama. Prima però di presentare sotto veste italiana una quasi sconosciuta opera sua, anzi la prima da lui stampata, non sarà male ricordare brevemente chi fosse questo svedese, pei molti anni di residenza e intenso affetto divenuto quasi italiano. Nato il 7 maggio 1776 a Gannarfoe (parrocchia di Hemsò nell’isola di Gottland), così la sua autobiografia (1), cominciò presto una vita avventurosa. A 16 anni era marinaio su una nave mercantile, nel 1793 su un bastimento da guerra inglese, 1’ anno dopo comandava una tartana alla resa del forte di Calvi in Corsica. Stava per (1) Debbo alla cortesia dell’illustre prof. D’Ancona la comunicazione della Notice biographique sur le comte Jacques Graberg de Hemsò, consul emèrite de S. M. Suédoise, chevalier de son royal ordre de Wasa, etc. etc. (Florence, Pezzati, 16°, pp. 39, 1834). Da essa traggo le notizie biografiche e le indicazioni bibliografiche. Il ms. fu regalato dal Graberg all’Accademia Reale di Lucca « à titre de tribut et d’hommage». - 375 — essere promosso ufficiale quando un duello — severamente punito dalle leggi inglesi — lo costrinse a lasciar la vita militare. Una grave ferita riportata , o una malattia contratta a bordo, lo indusse a chieder ricovero all' ospedale di Pammatone in Genova : convalescente « fu ispirato ad abiurare la setta luterana e previe le dovute cautele ed istruzioni » a farsi cattolico (i). A Genova rimase parecchio tempo : conosceva « cinque delle principali e più interessanti lingue con qualche altra abilità di scrittura e mercantile » (2), e trovò impiego. Diede lezioni private, tenne le scritture in diversi negozi, fintantoché non gli riuscì di entrare come amministratore in casa del marchese Cesare Lamba-Doria e poco di poi in qualità di segretario particolare del ministro svedese, il signor di Lagesvàrd. Fu appunto in tale ufficio e poco dopo averlo assunto che il nostro Graberg compilò il diario di cui ci occuperemo poi che avremo, spigolando nell’ autobiografia, riferito qualche altro particolare di lui. Rimase col Lagesvàrd , di cui sposò anzi nel 1801 la cognata, d’origine francese, alcuni anni poi; nel 1806 viaggiò come segretario insieme al napoletano principe di Saluzzo, Duca di Corigliano. Tornato a Genova vi si occupò di studi vari statistici, geografici, etnografici, storici, pubblicando parecchi lavori in francese ed in (1) Il Belgrano, Imbreviature di Giovanni Scriba, p. 146, riferisce la supplica del Graberg, con cui questi, dando di sè i necessari ragguagli, chiede la proroga della bolletta di soggiorno nel mese di dicembre 1795. Nella supplica tace del duello e dice di essere stato ricoverato a Pammatone per « grave malattia »: dà invece particolari sulla conversione al cattolicismo, che doveva accattargli benevolenza. (2) Belgrano, lmbrev. cit. — 376 — italiano (i); nel 1811 fu nominato vice-console di Svezia e resse da solo il consolato per quattro anni. Nel 1815 passò a Tangeri come segretario del consolato svedese, vi rimase a reggerlo nel 1818 durante la peste, e nel 1819 vi fu nominato anche console delegato del re di Sardegna; in tal carica ebbe occasione di stabilire relazioni amichevoli tra il Marocco e la Sardegna, e ricevette — ambito compenso — la croce dei santi Maurizio e Lazzaro. Costretto ad abbandonare Tangeri nel 1823 per certi incidenti diplomatici sorti a causa del negato pagamento di una partita di cannoni, fece 1’ ultima tappa della sua carriera consolare a Tripoli di Barberia. Fu messo in disponibilità dal governo svedese nel 1828 « n’ayant pas obtenu l’approbation de son gouvernement quoique il se fut scrupuleusement contormé aux instructions pré-cises qu’il avait recues » in certi negoziati, e si ritirò a (1) Nella lista dei « principaux ouvrages » che segue la breve autobiografia se ne trovano parecchi che risalgono a questo tempo e riguardano Genova. Valgano ad esempio, oltre al nostro Diario, gli Annali di geografia e statistica (Genova, 1802), gli articoli inseriti nel 1807 nel Courrier de la 28."'e division militane, il Saggio storico sugli scaldi (1811), le Lefons élenientaires de cosmo-graphie (1813), la Lettre adressée a M.r le baron Walkenaer relativement à un ma-nuscrit du XV.' siede existant à Gènes et attribué à Antoniotto Usodimare (1809), la Topographie du département de Gènes (Annuaire statistiqu e, 1810), la Lettera al r. p. Bernardo Laviosa su un antico tempietto agli Dei mani ecc. in Albaro, versi sciolti, visioni, anacreontiche per nozze Casanova-Torre e Cusani-Confa-lonieri-Lomellini-Doria (1808), D’Oria-Serra-Gerace e D’ Oria-Pallavicini (1814) ecc.. Fin dal 1799 aveva presentato all’istituto Nazionale della Liguria una Teoria della statistica, che usci in luce a Tangeri (1818) colla traduzione italiana della tesi De natura et limitibus scientiae statisticae ejusque in Italia hactenus limitibus (Genova, 1816). Intendeva presentarla per ottenere la laurea in filosofia all’ Università di Genova, ma ne fu impedito dalla improvvisa partenza per Tangeri. — 377 — Firenze, dove visse altri diciannove anni fino al 1847. Ebbe molti titoli e dignità accademiche; si compiaceva firmarsi conte del palazzo apostolico del Laterano, decorato di più ordini cavallereschi, membro di un’ ottantina di società letterarie e scientifiche a cominciare dall’Accademia delle Scienze di Torino e terminando colle oscure accademie di Fossano, Alessandria, Chieri, Cuneo, Alba, Borgo S. Sepolcro, San Miniato, ecc. (1). Dotato di discreto ingegno e fornito di più che discreta coltura, indirizzata specialmente alle scienze geografiche e storiche, testimone dei fatti dell’ assedio del 1800 ed in grado di poterli conoscere assai bene per l’ufficio tenuto di segretario del ministro svedese, il Graberg, che ebbe tutta la vita la smania della pubblicità , incominciò col Diario del blocco ed assedio di Genova la sua carriera letteraria. Era un fatto che aveva richiamato su di sè l’attenzione di mezza Europa per 1’ eroismo spiegato dal Massena, per le conseguenze incalcolabili della prolungata resistenza: poteva, anzi doveva interessare anche la remota Svezia, tanto più che questa era legata per ragione di commercio e di affari bancari con Genova. Era quindi naturale che il Graberg, raccogliendo le memorie dell’ assedio, sebbene conoscesse parecchie lingue, le stendesse nella sua lingua nativa e le facesse stampare in patria : dove, come s’ apprende dalla più volte citata Notice biographique, videro la luce nel 1801, corredate d’una carta topografica delle (1) Cfr. oltre alla Notice biovraphique, che rende minuto conto di tutte le onorificenze del G., la necrologia del Graberg stesso in Archivio Storico Italiano, tomo V, pp. 267. - 378 - valli di Polcevera e Bisagno. Questa prima edizione non mi riuscì conoscere che per la riferita indicazione e per la dicitura: « Andra Upplagan », che reca in fronte la seconda, uscita in soli trenta esemplari, senza la carta topografica, in Tripoli di Barberia nel 1828 presso Mohammed Es-surid (8.°, pp. 99) (1). Un esemplare , appartenente a Cesare Saluzzo, passò poi nella Biblioteca di S. A. R. il Duca di Genova in Torino, ove si trova attualmente; mi venne casualmente fra mano, mentre stavo facendo ricerche per 1’ altro diario di cui fra poco. Fattolo tradurre a cura della benemerita Società ligure di storia patria, parve non inutil cosa darne notizia agli studiosi anche nel testo originale. Del diario di Giacomo Graberg non si può dire che ogni parte abbia ugual valore. Un semplice raffronto tra la Istoria del blocco di Angelo Petracchi e il nostro, ci dice chiaramente che nella prima parte del suo lavoro il Graberg ebbe sott’occhio il Petracchi. Alcune sue pagine sono un sunto od una parafrasi dell’ opuscolo italiano, quando non ne riportano integralmente le parole: basti ad esempio le pp. 2-3 del Graberg, ove si riferisce il noto fatto della terza mezza brigata insorta, che si trova già quasi nello stesso modo narrato in Petracchi pp. 19-21; il ragguaglio dei fatti militari dei 6, 7, 15 aprile a pp. n-14 del Graberg, di cui già in Petracchi pp. 46-49 e 60 ; a p. 17 del Graberg la narrazione del tradimento di Assereto e il ritratto del (1) Dag-boh òfver blockaden af Genua àr 1800 fòrfattad af Jacol Christiansson Graberg Andra Upplagan —; Tripoli, i Vester tryckt hos Mohammed Es-Swid, 1828. E nella Notice la menzione: « mais sans la carte; tiré seulement à 30 exemplaires ». — 379 - traditore quasi identici in Petracchi, p. 70, sebbene qualche particolare di più si contenga in Graberg; e si potrebbero portare anche maggiori esempi. Altra volta Graberg e Petracchi concordano, ma fonte comune ad entrambi appare facilmente il Giornale delle operazioni militari dell’assedio e blocco di Genova dell’aiutante - generale Thiébault, tradotto e pubblicato nello stesso anno dell’ assedio in Genova dal Massucco; quando tutti e tre non attingono altrove, come nella nota descrizione dei forti di Genova che il Thiébault confessa nell’ edizione originale aver presa dall’ila/ historique et politique de l’état de Gènes, mentre, sulla scorta del Massucco, Petracchi e Graberg, pur copiando a man salva, tacciono. Per questo riguardo il mettere nuovamente a stampa il diario del Graberg potrebbe sembrar forse cosa soverchia, salvo 1’ originalità della lingua in cui fu dettato e la circostanza del non esser mai stato tradotto ; ma per qualche parte si manifesta fonte preziosa. Qualche citazione varrà a dimostrarlo. Per quanto nel riferire i fatti esclusivamente guerreschi appaia spesso poco chiaro, sia soggetto a confonder date e segua volontieri la falsariga, qualche novità ci fornisce. Si confronti a quest’ oggetto la narrazione della famosa giornata del 10 fiorile (30 aprile) « la plus brillante du blocus » (1) in Graberg, Petracchi ed anche Thiébault, e dallo svedese risulterà qualche particolare nuovo; quella dei combattimenti del 21 fiorile (11 maggio), ed in particolare la parte in essi sostenuta dal generale Soult, a proposito del quale è (1) Thiébault, Journal, etc. Paris, 184.6, I, 232. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XX11I, fase. z.° 25 — 380 — notorio come il Thiébault si mostri spesso ingiusto: quella finalmente della giornata io pratile (30 maggio). Sui fatti interni della città il Graberg, come straniero, è più facilmente imparziale. Ammira la costanza eroica del Massena e dell’esercito francese, ha parole di lode per il governo provvisorio, e per gli atti e provvedimenti sia del comandante francese sia del governo ligure, in genere si può dire ispirato a loro riguardo da una cotal benevolenza. Questa però non gli fa velo al giudizio; e quando si ferma a narrare delle sofferenze sempre crescenti del popolo e del sordo malcontento che in esso germoglia, non risparmia il biasimo anche allo stesso Massena. Quando corrono per la città voci di resa, egli le registra accanto alle notizie anche le più strane che, com’ é naturale, trovano credito, almeno per un poco, in tali frangenti; non vi crede sempre, ma ad ogni modo ne tien conto e contribuisce così a darci la fisionomia di Genova durante quel triste e glorioso periodo della sua storia, raccogliendo nel tempo stesso notizie pregevoli. Si veda a tal riguardo quanto dice sotto la data del 23 aprile intorno all’ abboccamento del console americano Wollaston coir ammiraglio inglese, più tardi intorno all’arrivo di altri parlamentari; meglio ancora dove riferisce episodi del bombardamento. Qui troviamo una delle poche note personali in cui ci sia dato imbatterci nella lettura del diario. Nella notte del 20 maggio una bomba cade su una casa dirimpetto a quelle dove abitava lo scrittore, rompe i vetri della stanza del Graberg, lo sveglia di soprassalto, lo costringe a fuggire, mentre per essere la casa da lui abitata a 200 passi appena dalle mura verso il mare , egli si - 38i credeva quasi al sicuro, Alla qual notizia si potrebbe accostar P altra pur essa quasi personale delle risposte di Massena al ministro svedese, che si congratulava secolui della/ capitolazione onorevole ottenuta. Nel futuro autore di parecchie buone pubblicazioni statistiche é naturale che si riscontri una certa predilezione per le cifre: non mancano quindi assai frequenti indicazioni di prezzi di commestibili e dei generi più usuali, riferiti in misure e monete svedesi, e forse, per la difficoltà del preciso ragguaglio, un po’ discordanti dalle consimili indicazioni serbateci dal Petracchi, e nelle tabelle che seguono la seconda edizione francese del Thiébault, ed in ultimo una tavola ebdomadaria della mortalità dal principio di aprile alla fine di settembre, che non si trova non solo in nessuno degli autori citati, ma neppure nella Storia della febbre epidemica di Genova degli anni iyyy e 1800 del Rasori. A chi appartenga il diario anonimo, serbato nella collezione Lagomarsino e in essa con molte cose genovesi passato agli Archivi di Stato di Torino, è assai difficile stabilire. Nessun accenno particolare permette di indagare il nome, la condizione, la professione dell’ anonimo autore del diario, il quale però ci appar subito caldo amatore della patria sua, zelantissimo della religione, re-pubblicano, ma di vecchio stampo, di quelli della Serenissima che egli ha veduto con sincero dolore mutare in ligure democratica per opera e colpa dei francesi. E in grazia loro Genova soffre ora una delle peggiori calamità che le siano mai toccate, ed è turbata nelle sue tradizioni, sconvolta nelle sue usanze, ferita nel suo orgoglio cittadino. — 3^2 — Mediocremente colto, scrive, come sa, incorrendo talvolta in errori d’ ortografia — cosa d’ altronde non rara anche in gente assai istruita a tempo suo: —■ ma, quando gli capita, sfodera citazioni d’ autori classici o dei libri sacri, ed esse gli vengono opportune a meglio rappresentare il misero stato della già superba regina del Tirreno, in cui i pochi audaci hanno soverchiato con danno gravissimo della moralità e della giustizia i molti, timidi e irresoluti, vittime della prepotenza straniera. Si direbbe il portavoce di quella parte assai numerosa della popolazione genovese, che aveva assistito senza opporvisi apertamente, ma con molto rimpianto segreto, alla trasformazione del governo ed al trionfo dei « patrioti », e s’ era trovata dopo molti anni tranquilli coinvolta in avvenimenti, che non parevano toccare da vicino Genova, eppure le erano stati causa di grandi guai. Probabilmente il nostro anonimo dopo aver preparato durante l’assedio, cogli appunti presi ogni giorno, il diario, sfogo del suo dolore, testimone delle sofferenze passate, si disponeva a renderlo di pubblica ragione in seguito alla sospirata caduta di Genova in mano degli Austro-Inglesi, quando dopo Marengo vi si ristabiliva quasi subito il predominio francese. Tempi favorevoli a tale pubblicazione non si presentano più : tace per sempre la voce dell’ autore e con lui passano e mutano uomini e cose : rimane però il suo Diano; e come manifestazione certo sincera di sentimenti di porzione notevole dei cittadini genovesi, testimone non spregevole del grande assedio, pare ora conveniente pubblicarlo. 11 Diario Lagomarsino — cosi per brevità si potrebbe chiamare l’anonimo di cui ci occupiamo — é contenuto - 3«3 - in cinque quadernetti manoscritti di ineguale spessore, in complesso 94 pagine di mediocre carattere, rivelante persona forse non tanto avvezza a maneggiare la penna. È preceduto da un breve proemio, di assai poco valore, cui tien dietro, quasi altra introduzione, sotto la data del primo aprile, una notizia delle condizioni specialmente finanziarie della città in quel momento. Vera forma di diario non ha lo scritto se non a cominciare dal 14 aprile; e d’allora in poi, giorno per giorno, si svolge sotto ai nostri occhi fino al 5 giugno assai fedelmente riprodotta la vita genovese. Nota caratteristica del Diario Lagomarsino é il risentimento profondo, tenace contro il Massena. Egli è causa di tutti i mali, la sua ostinazione, la sua temerità rovinano Genova. Si capisce facilmente come con tali criteri non ci si debba aspettare dall’ anonimo grande copia od esattezza di notizie militari. Ciò che per gli altri è nobile perseveranza, eroico sacrificio, pare all’ anonimo cocciutaggine di prepotente soldato , che tutto fa per ingannare la città caduta malauguratamente sotto al suo comando e costringerla a sostenere un assedio, sebbene essa non sia nè moralmente né materialmente da ciò. Chi parte da tale principio è tratto a svisare i fatti e può meritare quindi poca credibilità ; riesce però prezioso perchè rispecchia certo lo stato d’ animo di molti, che non possono manifestarsi troppo apertamente, raccoglie le voci che corrono e, magari aggiungendovi ancora di suo, le registra. Esce un proclama, si comunicano notizie giunte di fuori, si esorta la città ad aver pazienza, l’anonimo è subito pronto ai commenti maligni, a far la tara alle promesse, alle esortazioni del generale in capo. — 384 — I proclami... pieni zeppi di bugie, le notizie che si dicono venute di fuori..... manipolate al comando, gli ordini, le provvidenze..... frutto di incidenti appositamente fatti nascere per dar motivo a nuove prepotenze. I baffoni, i capelli storti — cosi chiama i « patrioti » — circondano il generale in capo e si fanno credere i rappresen* tanti della cittadinanza, che invece non li può vedere : essi si dicono pronti ad ogni sacrifizio, offrono le sostanze de’ privati, se occorre, ma non zelo patriotico li muove, bensi il timore che la spada vendicatrice piombi sopra di loro all’ entrar del nemico. E 1’ ostinato Mas-sena, il « rinomato, valoroso generale » crede loro, per quanto siano « ciurmaglia » — sempre , s’ intende, secondo l’anonimo, — e si diletta di « spargere una quantità di fanfaluche per abbacinare i poveri genovesi ». Ogni tanto dice aver ricevuto per via di mare dirette notizie di Francia, fa pubblicare anzi ragguagli precisi sulla « marcia dell’ armata di riserva », ma come gli si può credere ? Si ostina a resistere, perché vittima dei suoi errori; ed allettato « dallo splendore dell’ oro e delle belle cittadine le quali le (sic) avevano aperto la breccia » si é lasciato rinserrare in Genova ; ma « uno sproposito del generale deve purgarsi coll’ eccidio e col sangue d’ una innocente nazione » ? Dice di aver vinto negli scontri parziali, di ricondurre molti prigionieri ; ma si sta sempre peggio, ed egli torna di notte in città perché non sia facile contare la preda. Intanto la popolazione langue, le provviste scemano, le distribuzioni di viveri si fanno sempre più scarse ; ma che importa all’ indiscreto generale ? Manca il pane ed egli fa distribuire formaggio alla truppa ; un giorno o 1’ altro — 385 — ordinerà che vadano « a succhiare il latte alle donne »; intanto egli se la passa allegramente, si arricchisce col bottino di guerra e con esazioni illecite, si ciba sontuosamente. Eppure esce illeso dai più gravi pericoli questo novello Attila flagellum Dei. Il 21 di maggio, durante il bombardamento, passa per la strada di Campetto, mentre cade una bomba sul palazzo Imperiale ; una sola piccola scheggia tocca il suo cavallo. Chi può penetrare gl’ imperscrutabili segreti di Dio ? Insomma il Massena é il vero protagonista del Diario, che non tralascia di notarne, nello stile di cui abbiamo dato qualche saggio, ogni più minuto fatto, insistendo su quelli dai quali possa venir messa in peggior luce la figura dell’odiato generale; ed a suo riguardo adopra molto volentieri 1’ arma del ridicolo, trascorrendo, come è molto facile, in trivialità, che non mette conto riferire. Degli altri generali francesi nessuno mai é nominato, salvo per qualche fatto di guerra : sembra quasi che il diarista, riversato tutto 1’ odio, di cui è capace, sopra il Massena, non trovi altro da dire. Chi gli dà noia però ed è trattato co’ fiocchi è il « patriota », genovese o forestiero, che egli dipinge sempre vile adulatore dei Francesi, autore dei consigli più disperati, ché tanto non ha nulla da perdere, solo da temere il giusto castigo delle sue colpe, quando entrino i nemici. Torna Massena da qualche spedizione, ed eccolo subito circondato da una turba di patrioti, che « cogli occhi fuori della testa, massimamente i più divoti di questo loro nume », lo acclamano, fanno atti di fanatismo, spacciandosi per portavoce della cittadinanza ; questa invece si mantiene fredda, indifferente, se non ostile, ed estenuata dalle sofferenze protesta — 386 — tacitamente col non illuminare le finestre e non dar segni di giubilo, resistendo agli inviti ed alle minacce. Qualche volta però abbandona tale contegno e succedono alterchi, corre qualche pugno : bisogna sentire allora come il diarista si rallegra, perchè i patrioti hanno avuto la peggio. Non sempre però cittadini e patrioti si guardano in cag/iesco. Quando si sparge qualche notizia favorevole ai Francesi, specialmente — e capitò parecchie volte negli ultimi dell’ assedio — quella dell’ avvicinarsi del Bonaparte coll’ armata di riserva, i patrioti trovano maggior eco. Non son più soli a gridar: « Viva Massena! Viva Bonaparte », a baciarsi ed abbracciarsi scambievolmente ! « Molti cittadini di lor natura amfibì, i quali per 1’ addietro si avevano finalmente legati alla meglio i capelli dietro e li avevano anche incipriati — pareva avessero da entrar presto gli Austriaci — ora in questa mutazione di scena — s’ era sul finir di maggio e correva insistente la voce di una grande vittoria francese in Asti — si strappano il bindello nero del codino e lo gettano nella pubblica strada, e si vedono sgrofignarsi i capelli e nettarsi la testa dalla polvere e gridare e cantare trasportati : e questi stessi, dove s’incontrano al passare del gran Massena, saltano innanzi a lui come gl’ Indiani in faccia al sole ». Ma dura poco. Si smentiscono le voci già corse, appare sempre più evidente la necessità di una capitolazione — tanto che la commissione di governo torna a farlo sentire al Massena — e allora si delineano più nettamente i partiti. « La capitolazione é firmata, scrive il diarista al 3 di giugno, ma oh ! Dio non si sa come, né con quali capitoli. I patrioti, ahimè ! — 387 — sono confusi, fanno la valigia, malum signum..... Andate dunque in altro paese e dividetevi pure le spoglie del— P infelice nostra patria. Là vi riderete della nostra credulità, là porterete in trionfo la cabala e il tradimento, là vi farete sacrilega conversazione delle onte che avete fatte alla nostra stessa religione, là, onnipossente Iddio, si burleranno persino di voi e della chiesa vostra che hanno prolanata. Eh ! via dunque, sguainate la vendicatrice vostra spada della giustizia e fate sì che mai più vengano ad insidiarci ed a ridersi di noi perchè siam vostri seguaci, ne quando dicant gentes ubi est Deus eorum ». Come si capisce facilmente, una delle ragioni della poca simpatia che il nostro diarista ha per i Francesi e per i patrioti, è il poco rispetto che essi mostrano per la religione. Ordinano Te Deum per le vittorie riportate, ma è « un ingannare il popolo e burlarsi di Cristo medesimo »; perchè nelle campagne ne fanno di tutti i colori, e le devastazioni e i saccheggi li hanno fatti diventare P « orrore di tutto il mondo », peggio dei « moscoviti e tedeschi » che vorrebbero mettere in avversione. Non Te Deum ci vorrebbero, Miserere per i poveri soldati che muoiono, in gran copia vittime delle battaglie o della fame. In politica è repubblicano, e « vorrei persuadere ognuno, dice egli, prima che io termini queste mie memorie e prima eh’ io muoia di fame, eh’ io sono repubblicano, che sono amante del sistema quando sarà giusto e virtuoso, che amo la libertà, che la mia patria è libera già da secoli, e chiamerò ingiusto e prepotente quel monarca che si arrogasse per mezzo della forza il diritto di soggiogarla.....Ora Genova — 388 — geme sotto il nome di libertà nella più vergognosa schiavitù di tutti i vizi, di tutte le passioni le più sfrenate e di una anarchia senza esempio, che non esistono più né diritti, né proprietà.....che una costituzione sulla quale per altro ha spiegato la sua volontà il popolo, è lesa, è distrutta. Democrazia ? Noi non agiamo più che per un estero despota e suoi satelliti : uguaglianza non significa che inorpellare le sostanze dei privati e farne un mostruoso scialacquamento. Popolo sovrano ! ma sulla bocca del cannone. O patria, o legge, 0 libertà tradita ! » E quando si pensi che da secoli la superba godeva libertà ed indipendenza, cresce l’ira e il dolore del buon cittadino, che sente una sfitta al cuore se gli giunge notizia di qualche nuova umiliazione subita. Bisogna vedere come si sdegna quando una galera genovese cade in mano dei nemici e corre voce che si debba mandare a Livorno. « Già s’intende per fare in quel porto una trionfale entrata ! » E pensare che in altri tempi le galere pisane furono più volte sconfitte dalle genovesi ! Lo stesso geloso sentimento d’ orgoglio patrio si manifesta anche di fronte ai Tedeschi. Sono invocati come liberatori ; si aspetta di giorno in giorno il loro ingresso in città : ma in fondo al cuore c è sempre il vecchio lievito d’ odio contro 1’ oppressore del 1746, che non scompar neppure quando si ricordi come 1 nemici di mezzo secolo innanzi vengono a ristabilire l’ordine, a rimettere in onore la religione. Come già si disse del Graberg, il Diario italiano ci può fornire notizie pregevoli specialmente intorno ai giorni di bombardamento. Si legga a prova di ciò, sotto il giorno 20 maggio, la bella descrizione della città — 389 — in orgasmo quando aspetta da un momento all’ altro che si ripeta il terribile flagello ; e tutti gli altri punti consimili del Diario, ove vibra più fortemente che altrove la nota patriotica. Del bombardamento sono pure le uniche ricordanze personali dell’ autore. Anch’ egli nella terribile notte del 30 maggio per poco non riman vittima di una bomba, diretta forse al palazzo nazionale o a quello di Massena e venuta invece a cascare a pochi palmi dalla testa del letto donde il nostro diarista non aveva ancor pensato a fuggire. Tant’ é morir di morte violenta o dopo una lenta agonia per gli stenti e la fame. — E questo uno degli argomenti prediletti del nostro anonimo : frequenti quindi in lui troviamo gli accenni alle tristi condizioni economiche della città, al crescere spaventoso della miseria, alla fame « snella signora » che non risparmia nessuno, travaglia tremenda il povero, ma entra anche nelle più brillanti conversazioni. I prezzi dei generi ci sono da lui rammentati assai di sovente : in qualche particolare — ed é naturale perchè notati in giorni diversi — differiscono dalle altre fonti : ma la fisionomia generale dell’ assedio non ne rimane alterata, onde a poco gioverebbe istituire un minuto raffronto colle altre parecchie notizie di simil genere che già possediamo. Più e più cose ancora si potrebbero trovare degne di nota nel Diario inedito di cui ci siamo occupati ; ma di esso, come di quello del Graberg, sarà forse sufficiente quello che siamo venuti fuggevolmente accennando. A noi premeva metter in rilievo il valore che potevano avere per la storia del blocco ed assedio di Genova queste fonti finora trascurate. Chi voglia valersene, ad — 390 — esse potrà direttamente ricorrere, grazie all’ ottima Società storica ligure, che accordò loro generosa ospitalità nelle pagine de’ suoi Atti. I Dag-Bok òfver Blockaden af Genua ar 1800 fòrfatiad af Jacob Christiansson Graberg ; andra upplagan. — Tripoli i Vester, Tryckt hos Mohhammed Es-Swid, 1828. Blockeringen af staden Genua àr 1800, àr en af de màrkvardi-gaste hàndelser, hvilkas minne nòdvàndigt màste fòrvaras i ti-debòckerna. En svensk, empioye-rad vid sitt fàderneslands mission i Italien, har, som ògonvittne, fòrfattat en dagbok, hvars for-tjenst àr den, att hafva troget fòljt och antecknat hvad sig till-dragit, och mest varit vàrdt upp-màrksamhet. Den nammkunnige Buonaparte troddes nàstan allmànt antingen fòrsmàktad i Arabiska òknarne, eller krossad af otaliga hàrar, da hans àterkomst fràn Egypten Diario del blocco di Genova nell’anno 1800 scritto da Giacobbe Christiansson Graberg ; 2.1 edizione. - Tripoli di Barberia, presso Mohamed Es-Swid, 1828. Il blocco della città di Genova nel 1800 è uno dei fatti più notevoli dei quali è da serbai ricordo nella storia. Uno svedese, impiegato presso la legazione svedese in Italia, testimonio oculare, ha scritto un diario che ha il merito d’aver fedelmente notato tra le cose successe le più meritevoli di attenzione. Si credeva generalmente che il celebre Buonaparte avesse perduto la maggior parte delle sue forze nei deserti d’Arabia, oppure le avesse vedute distrutte da nume- satte bela Europa i fòrundran. Fnmkrike, trolòst hàrjadt af, och dystert suckande under en fleràrig fòrvaltning af dess hògsta makt, som aldrig hòll, kanske aldrig kunde hàlla hvad den lofvade och hvad den var skyldig att hàlla; blottstàlld tòr den ena revolution efter den andra, utan att Folkets sallhet i nàgon matto kunde à-stadkommas: var nàra bràdden af dess undergàng: det skulle dukat under fòr tyngden af den màktiga coalition, som ville àter-stàlla sakerna i deras gamia skick. Buonaparte, Republikens hjelte, underbart ràddad fràn alla de faror som omgifvit honom, och àterkommen bland ett Folk, som med fòrtjusning firade hans stor-verk: han liksom àtergaf dem mod och krafter. Man kan icke afgòra om det var hans àrelystnad, eller nationens innerliga onskan som anfòrtrodde Statsrodret i hans hànder. Efter Scherers nederlag och Moreaus, ehuru fòrtràffliga, re-tratt, hade franska vapnen i Italien fòrlorat all lycka. Mac-donald slagen vid la Trebbia, Joubert i hjelskjuten vid Novi och med honom dem ryktbara dagen fòrlorad, Championnet rosi eserciti, quando il suo ritorno dall’Egitto destò meraviglia in tutta Europa. La Francia da parecchi anni completamente rovinata da una amministrazione incapace di mantenere quello che prometteva e doveva mantenere, compromessa da parecchie rivoluzioni successive senza che l’economia nazionale in alcun modo potesse ristaurarsi, si trovava quasi all’orlo della rovina e stava per soccombere sotto il peso della coalizione potente che mirava a rimettere le cose nel loro antico stato, quando il Buonaparte, l’eroe della Repubblica, salvato meravigliosamente da tutti i pericoli che lo circondavano e ritornato fra un popolo che celebrava con ammirazione le sue geste, parve restituirle il coraggio e le forze, mentre non si saprebbe dire con sicurezza se la sua ambizione , o piuttosto la volontà sincera del popolo, a lui affidava il timone dello Stato. Dopo la sconfitta di Sche-rer e la meravigliosa ritirata di Moreau, le armi francesi erano ridotte in miserrime condizioni in Italia. Macdonald sconfitto presso la Trebbia, Joubert ucciso presso Novi e con lui perduta la celebre giornata; Championnet, vinto — 393 — òfvervunnen vid Fossatio, och àndteligen Cuneo fallit i fiender-nas hander: Sàdana voro fòljderna at detta olyckliga fàlttàg. Frans-mannen iigde nu mera pà hela half-òn, blott en enda fristad, inora Liguriens trànga grànsor. Buonaparte utnàmmer til faltherre fòr armén i Italien, segrarem òfver Zùrich, den tappre, den kloke Massena. Efter làng tvekan an-tager han detta befal, kommer till Italien och finner tropparne skingrade, utmerglade, i stòrsta oordning, utan krigsaga och tukt. Med sin slughet och konst sàtter han dem i ordning. Moreau hade befàlet òfver armén vid rhen-stròmmen. I denna stàllning gjorde Buonaparte fredsanbud: de autogos ej : deròfver forbittrades hela Franska Nationen, den fòre-nade sitt bemòdande, sin styrka, fòr att fortsàtta kriget : hvar Fransman vii gà i fàlt under Buonapartes anforande. Man kan fòrestàlla sig franska arméns tillstand i Italien, dà i-sjelfva Genua vid hufvudlàgret tredje half-brigaden af linietrop-parne rent af uppsagt all lydnad, och ville tàga hem àt Frankrike sedan den med vàld uttagit sina fanor ; ty soldaterne befunno sig utan sold fòr fiera mànader, och j presso Fossano, ed infine la caduta di Cuneo nelle mani del nemico, furono i risultati di questa campagna infelice. I Francesi non possedevano più in tutta la penisola che una sola città libera fra gli stretti confini della Liguria. Il Buonaparte aveva nominato capo dell’esercito in Italia, il vincitore di Zurigo, il valoroso e prudente Massena. Dopo averci pensato su accetta egli il comando, giunge in Italia e trova le truppe disperse, snervate, nel massimo disordine, senza disciplina; ma ben presto colla sua sagacia le riconduce all’ ordine. Moreau aveva il comando dell’ esercito del Reno. Stando così le cose, il Buonaparte fece proposte di pace che non furono accettate, e la nazione intiera si preparò con tutte le sue forze a continuare la guerra: tutti vogliono entrare a far parte dell’ esercito sotto il comando del Buonaparte. Ci si può fare un’ idea dello stato dell’ esercito francese in Italia, quando si ricordi come nella stessa Genova, presso il quartier generale, la terza mezza-brigata di fanteria, rotta ogni obbedienza, si sollevò pretendendo rimpatriare dopo di aver sotterrate le sue bandiere, perchè — 394 — flere dagar utan mat: de miss-nojde blefvo likvàl tillfredsstallde af generai Gouvion St. Cyr, som med sin vàltalighet och sin godhet bragte dem att àngra hvad de fòretagit; frivilligt lofvade solda-terne att i fòrsta traffning gifva tydeliga prof pà deras bàttring. General Massena anlande till Genua den 9 februari 1800. Han gaf befàlet òfver arméns hògra flygel àt sin fòrste ge-nerallòjtnant Soult, och fòr den venstra satte han generai Suchet. Divisions-cheferne Victor och Lemoine blefvo hemsànde, Miol-lis och Marbot blefvo qvar: Gazan och Oudinot voro ankomne med faltherren; Muller, Loison och Rochembeau vàntades med fòrsta. Commando òfver staden Genua och dess fàstningar gafs àt general-adjut. Giovanni, àfven chef fòr fàltherrens general-stab. Regeringen i Genua hade nyss undergàtt en ny fòràndring, dà Franska consuln och chargé d’affaires Belleville velat hàrma hvad som vid Buonapartes àter- i soldati da parecchi mesi si trovavano senza paga e da vari giorni senza mangiare : i malcontenti furono sedati dal generale Gouvion St. Cyr, che colla sua eloquenza e bontà gli indusse a pentirsi di quello che stavano per fare; ed i soldati promisero spontaneamente di dar prove visibili della loro devozione nella prossima battaglia. Il generale Massena arrivò a Genova il 9 febbraio 1800; diede il comando dell’ala destra dell’esercito al suo primo luogotenente, generale Soult e dell’ ala sinistra al generale Suchet. I generali di divisione Victor e Lemoine furono rimandati in Francia, e rimasero Miollis e Marbot (1); Gazan e Oudinot erano arrivati col generale in capo, e tra breve si attendevano Muller, Loison e Rochembeau. Il comando della città di Genova e delle sue fortezze fu dato all’ aiutante-gene-' rale De Giovanni, capo di stato maggiore del generale in capo. Il governo di Genova aveva da poco tempo subito un nuovo cambiamento, perchè il console francese e l’incaricato d’affari fi) Cfr. Baron de Marbot (figlio del generale qui citato dal Graberg), Mè-moires, Paris, 1891, to. I, p. 92 seg. — 395 — lcomst blitvit anordnat i Fran-krike ; men stòrste delen af stadens invànare voro ìiàrmed missnòjde. Man pàstàr gemen-ligen, att det var denne nya regerings ofòrsigtighet och elaka fòrvaltande, som lade fòrsta grun-den til dyrhet och brist pà lifs-medel, hvilken i fòljden bragte staden i yttersta elànde. Man vet att Judesocieteten utfàst sig att forse staden med spannmàl och andra àtliga varor, blott under det fòrbehàll att Franska kapare ej matte besvara de fartyg som skulle hitbringa dem, voro de àn af hvad nation som helst, samt att de sedan skulle là salja deras varor pà hvad vis och àt hvem de behagade; men Regeringen afslog begge dessa punkter, kanske mer af dumhet àn af arghet och elakt tànkesàtt. Den nye fàltherren ombytte snart fiera medlemmar af Regeringen. Han insatte àtskilliga, som utaf mànga, mest enthu-siaster , hllos fòraristokratiskt sinnade, men af almenheten voro ansedde som redelige hedersmàn; nemligen, Hieronimus Durazzo, Michel Angelo Cambiaso, Paul Atti Soc, Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. Belleville avevano voluto imitare quello che dopo il ritorno del Buonaparte era stato fatto in Francia; ma la maggior parte degli abitanti della città ne fu malcontenta. Si crede generalmente che l’imprevidenza, e la cattiva amministrazione del nuovo Governo , fossero le prime cause della carestia che in seguito ridusse la città alla estrema miseria. È noto come la Società degli ebrei si era obbligata di fornire la città di frumento ed altri commestibili, solo colla riserva che i corsari francesi non dovessero molestare i bastimenti incaricati di portarlo, di qualsiasi nazione fossero, e che poi le fosse permesso di vendere la sua merce in quel modo ed a quel prezzo che le pareva; ma il Governo respinse questi due punti, forse più per insipienza che per malizia o per qualche altro cattivo sentimento. Il nuovo comandante cambiò presto parecchi membri del Governo , e vi sostituì vari, che da molti dei ‘più esaltati furono ritenuti aristocratici, ma dal pubblico considerati come galantuomini ; per esempio, Girolamo Durazzo, Michelangelo Cambiaso, Paolo Celesia, nobili, Emanuele 26 — 396 — Celesia., f. d. adelsmàn, samt Emanuel Balbi, och Stralorello. Hand-lande, hvilkas fòrsta omsorg blef att senda pà alla kanter commis-sarier och agenter fòr att besòrja och pàskynda lifsmedels amskaf-fande i staden, dà man redan derpà hade en sà stor brist, att blott fyra lod bròd utdeltes til salu om dagen till hvar invànare, och Regeringen, fòr att fòrekom-ma all oro bland pòbeln, sà lànge man var i vàntan pà ny spann-màls ankomst blef omtànkt att làta utdela goda och kraftgifvande soppor till salu pà Aera stàllen i staden, sà att man ej i fortid màtte klaga òfver hungersnòd. Kort derpà ankom verkligen en ansenlig myckenhet spannmàl, som satte stadens invànare i stànd attikke befara total brist och hungersnòd àtminstone fòr 40 dagar. General-adjutanten De Giovanni làt utgà Aera kloka och vàltànkta pàbud, hvarmed han fòrmàdde de ifràn alla orter i Italien inkomna fribets-àlskare, att med nàgon ting s*g sysslo-sàtta; de som hòrde till nàgon del af armén, hànvistes till deras stationer, och andre sàndes att Balbi e Straforello (1), negozianti. Prima loro cura fu di mandare in tutte le regioni commissari ed agenti per procurare ed affrettare la fornitura dei viveri alla città, perchè se ne aveva già una si grande penuria, che solo quattro once di pane erano messe in vendita al giorno per ogni abitante, ed il Governo, per evitare disordini fra la plebe, perchè si attendeva nuovo frumento, pensò di far distribuire delle buone minestre corroboranti in vari luoghi della città, acciò la plebe non dovesse fin dal principiare del blocco lagnarsi della carestia. Breve tempo dopo arrivò infatti una quantità considerevole di frumento, che poneva gli abitanti della città al riparo dalla carestia almeno per 40 giorni. L’aiutante generale De Giovanni fece pubblicare parecchi assennati decreti, coi quali indusse gli amatori della libertà, che erano venuti da tutte le parti dell’Italia, ad impiegarsi in qualche cosa; quelli che appartenevano a qualche corpo dell’esercito furono costretti a raggiungerlo, (1) Domenico Strafforello. — 397 — foròka antalet af de troppar som formerades i Dijon, Nizza och Grenoble, och pà sàdant vis erhòll man gagn af en myckenhet flyktin-gar, och befriade staden ifràn en màngd onyttiga bròd àtare. Man trodde gemenligen i fòr-stone, att generai Massena tànk-te alldeles òfvergifva òstra kusten, staden Genua, och la Bocchetta, retirera sig till Savona, fòrsva-randes linien vid s. Giacomo, samt rent at lemna hela den trakten, som, med dest den skulle nòdga honom att hàlla en alttfòr vidstràckt linie som òfvergick dess krafter, skulle forsvaga honom, utan att lemna godt hopp att kunna emotstà fiendens anfall. Men dà generalen emot slutet af mars mànad làtit komma dess guides och sina hàstar till hufvud-staden, fòrsvann denna farhàga alldeles. Emedlertid fòrrefòllo fiere skar-mytslingar òster om staden. Vid bòrjan af aret hade de Franske drifvit de Kejserlige tillbaka ànda til Chiavari; men fòrblefvo doch bestàndigt vid deras linie òfver Sori och Recco. Fòga felades i denna expedition att de kringrànt en ansenlig kejserlig tropp, ja ed altri furono mandati ad aumentare le truppe che si stavano formando a Digione, Nizza e Grenoble ; ed in questo modo si ottenne il vantaggio di liberare la città da un gran numero di bocche -inutili. In sul principio fu generalmente ritenuto che il generale Massena avesse l’intenzione di abbandonare totalmente la riviera di levante, la città di Genova e la Bocchetta, di ritirarsi a Savona, difendendo la linea presso san Giacomo, e di sgombrare affatto tutto quello spazio il quale, mentre 1’ obbligherebbe a mantenere una linea troppo estesa e superiore alle sue forze, l’indebolirebbe senza dargli buona speranza di poter resistere all’ attacco del nemico. Quando però il generale , verso la fine del mese di marzo, fece venire le sue guide e i suoi cavalli alla capitale, questa paura svanì totalmente. In quel frattempo accadevano varie scaramuccie a levante della città. Al principio dell’ anno avevano i Francesi respinto gli Imperiali fino a Chiavari; questi però mantenevano sempre le loro posizioni sopra Sori e Recco. Poco mancò che in questa spedizione circondassero un corpo conside- - 398 - sjelfva generai Klenau som commenderade den och som drog sig i storsta hast tilbaka ànda till golfen af Spezia. Hàr var det som ofvanbemàlte tredje half-brigad linietroppar, anfòrd af den kacke Mouton, med yppersta tapperhetsprof utplànade minnet af det fet den begatt, dà den utan officerare och utan ordning velat marschera àt hembygden. Ara och heder, fruktan fòr skam aro alltid de pàdrifvande orsaker som fòro franska soldaten i striden ; och dà dess anfòrare vet ràtt lànka och handhafva dessa drif-fjàdrar, kan han stàdse nàstan vara sàker om segern. I Ligurien uppreste sig vid denna tid ett litet Vendie. Invà-narne i dalen Fontanabuona, til-lika med Aera kringgrànsande kyrksocknar i bergsbygden grepo till vapen, under fòregifvande att ifràn deras hemvist afhàlla alla slags krigstroppar, och betygade i fòrstone att blott vilja fòrsvara sig och aldrig angripa, samt att deras resning skulle genast upp-hòra, sà snart man ville fòrskona dem ifràn det som de kallade fòrtryckande pàlagor och skatter. Men man blef snart varse att roflystnad och hàmdgirighet voro deras afsigter, dà de ej allenast revole di Imperiali, comandato dal generale Klenau che si ritirò colla massima fretta fino al golfo di Spezia. In tale occasione la soprannominata terza mezzabri-gata di fanteria, condotta dal valoroso Mouton, dando prova di sommo valore, fece dimenticare la passata indisciplina. L’onore, la gloria ed il timore di far cattiva figura, sono sempre i moventi che reggono i soldati francesi in guerra; e quando i loro capi sanno regolare questo impulso, possono quasi sempre essere sicuri della vittoria. Nella Liguria sorgeva in questo tempo una piccola Vandéa. Gli abitanti della valle di Fontanabuona, insieme a varie parrocchie confinanti della montagna, s’ armarono sotto il pretesto di difendere le loro case contro ogni occupazione militare. Dicevano in principio di voler solo difendersi e non mai aggredire, e che la loro sollevazione cesserebbe appena fossero esentati da ogni tassa straordinaria. Ma presto si vide che erano mossi da spirito di rapacità e vendetta, perchè accolsero colle armi in mano non solo le truppe genovesi mandate mottogo med bevàpnad hand de genuesiska troppar, som dit-sàndes fòr att hàlla fred och bringa till lydnad denpproriske, utan och mòrdade alla Fransmàn som follo i deres hànder. Dà nu Massena òfversett och noga mònstratt sin styrka, anla-de han sitt hufvudlager i Genua, som nu blifvit en sammelplats tòr hela hògra flygeln af dess armé bestàende af 15000 man, och som innehade en linie af 10 svenska mil, hvilken linie ej kunde gòras mindre, emedan man nodvendigt borde fòrsvara hòj-derne, som bestryka òstra kusten hitom udden vid Portofino och de bergsklyftor som lemna till-gàngar fràn Parmasangebietet, Lombardiet och Piemont; denne tropp borde sedermera forse fàstningarne Gavi och Savona med behòrig garnison samt be-tàcka staden Genua ; den borde àn ytterligare fòrsvara sjòkusten och understòdja och làtta tillgàn-gen af lifsmedel i hufvudstaden. Man inser snart att den var till allt detta alltfòr svag, men hvad som fattades i afseende pà antalet, ersattes igenom soldaternes tap-perhet, officerarnes drift och ge-neralernes erfarenhet. Positito-nerne af dess linie voro fòljande : 399 — per ricondurre i ribelli all’obbedienza , ma uccisero tutti i Francesi che caddero nelle loro mani. Quando il Massena ebbe passato in rassegna minuziosamente le sue forze, portò il suo quartier generale a Genova, che divenne luogo di riunione per tutta 1’ ala destra dell’ esercito, consistente in 15,000 uomini, ed occupante una linea di 10 miglia svedesi ; nè questa si poteva accorciare perchè era necessario difendere le alture che fiancheggiano la riviera di levante fin a Portofino, e tutti gli sbocchi che portano nel Parmigiano, in Lombardia ed in Piemonte; si doveva di più presidiare sufficientemente le fortezze di Gavi e di Savona, e coprire la città di Genova; inoltre bisognava difendere la costa, e sostenere e facilitare il passaggio dei viveri alla capitale. Presto si vide che a tutto questo 1’ esercito era troppo debole ; ma la deficienza del numero fu compensata dal valore dei soldati, dall’ attività degli ufficiali e dalla esperienza dei generali. Le posizioni di questa | linea erano le seguenti : da Recco — 400 — ifràn Recco och Ruta, 233 mil òster om staden, stràckte den sig in i landet uppàt hòjderne af de kring Genua liggande berg, oc-cuperade « la Cornua », hvarifràn den gick opp till Torriglia, och derifràn fòrsvarade Scoffera och St. Alberto. Da den sedermera àndrat directionen venster ut, gick den norr om Genua pà hàn-sidan af « la Scrivia », betàckande Casella, Savignone,Busalla, Borgo di Fornari, Castagno och Ronco. Den vigtiga posten la Bocchetta nar àfven inom linien, som for-medelst en fòrpost vid Voltaggio communicerade med fàstningen Gavi. Hàrifran stràckte sig fòrpo-sterne till « le Capanne di Mar-carolo » samt till berget Campofreddo, hvarifràn linien gick med-fòre i sydvest, fòrsvarande Calvo, Stella, Montenesino och Cadi-bona, sista stationen forràn man hinner ner till Savona. Man befann sig redan emot slutet af mars mànad, och ànnu inga lifsmedel, som man lofvat Massena, sàgos ankomma, hvilket pàtageligen òkade missnòiet och a Ruta, due o tre miglia all’est intorno alla città, si estendeva nel paese su per la cresta delle montagne che circondano Genova, occupava la riviera, difendendo Scoffera e Sant’ Alberto Più tardi si spinse a settentrione intorno a Genova al di là della Scrivia, coprendo Casella, Savi-gnone, Busalla, Borgo dei Fornari, Castagno (1) e Ronco. L’importante posizione della Bocchetta era pure dentro la linea, che, mediante un’ avanguardia presso Voltaggio, aveva comunicazione colla fortezza di Gavi. Di qui si estendevano gli avamposti fino alle Capanne di Marcarolo e fino al monte Campofreddo, donde la linea scendeva verso sud-ovest, difendendo Calvo (2), Stella, Montenesino (3) e Cadibona, l’ultima posizione prima di discendere a Savona. Trovandosi già il mese di marzo verso la fine, e non giungendo le vettovaglie promesse al Massena, cresceva il malcontento e la carestia. Tanto il Go- (1) Così pare scrive il Thiébault, nel Journal etc., e cosi ha la Carta che accompagna quel libro. Ma trattasi veramente di Castagnola, che è piccolo luogo sulla strada recentemente aperta fra Busalla e Voltaggio. (2) Monte Calvo. (3) Monte Negino. — 401 — dyrheten. Sà vài Regeringen som sjelfva fàltherren anvànde all mòjelig flit och bemòdande fòr att fa den spannmàl hit, som man vài viste lag i Marseille och Toulon fàrdig att afsàndas, men sàdant hindrades af det strànga blockerande hvarmed de Engelske redan kringrànt hela kusten, och denne omstandighet gjorde att man fruktade fòr hungersnòd och brist pà alla slags fòda, redan tio dygn fòrràn sjelfva belàgringen tog sin bòrjan. De fòrsta dagarne af aprii mànad fik man hora att de Franske voro i handgemàng med de Kejserlige òster om staden, men utan betydlig fòrdel pà nàgondera sidan, emedan de alltid bibehòllo sig vid deras respective positioner. Engelska flottan nal-kades nàrmare hamnen och bòr-jade den stràngaste blockering ; de Kejserliges ròrelser utvisade tydeligen deras tanke att attackera linien, och som de alltfòr vai kànde dess vidd samt den otill-ràckliga styrka som den samma betàckte, hoppades de att snart òfverstiga den. Det var derfòre af nòden att allvarsamt tànka pà att fòrsvara sig ; och Massena làt ikkes pàminna sig om att gòra sin skyldighet. verno quanto lo stesso comandante impiegavano ogni diligenza e cura possibile per far venire da Marsiglia e Tolone il frumento che vi si trovava pronto per essere spedito; ma ciò fu impedito dal blocco severo, stretto dagl’ Inglesi intorno a tutta la costa; e questa circostanza fece che si temessero la fame e la carestia d’ogni specie di viveri, già dieci giorni prima che l’assedio avesse principio. Nei primi giorni del mese di aprile si ebbe la notizia che i Francesi erano venuti alle mani cogl’imperiali a levante della città, ma senza vantaggio considerevole dall’ una e dall’ altra parte, mentre sempre si mantenevano nelle loro rispettive posizioni. La flotta inglese s’avvicinava al porto e cominciava il blocco più rigoroso ; le mosse degl’ Imperiali dimostravano evidentemente il loro pensiero di assalire la linea francese ; e siccome conoscevano troppo bene la sua estensione e la forza insufficiente che la difendeva, speravano presto di poterla superare. Fu perciò necessario di pensare seriamente a difendersi; e Massena non mancò di fare quanto era obbligo suo. — 402 Men fòrràn nun nu bòrjar dagliga beràttelsen af denna màr-kvàrdiga blockering, bòr man saga ett ord om stadens belàgenhet, och beskaffenheten af dess fòrs-varsverk, fòr att dermed gòra tydelig den lilla topografiska karta man hàrhos bifogar, sà att Lasaren ma kunna fatta sammanhanget af hvad som fòljer. Staden Genua ligger pà ryggen af ett berg, hvars fot skòljes af Ligustiska hafvet. Den omgifves pa landsidan af en dubbel om-gàng murar, af hvilka den som àr innerst omgifver blott sjelfva staden, och har nàstan en egg-formig omkrets, samt fòrsvaras af fiera bastioner, som gemenligen aro af ganska liten nytta under en belàgring, sà framt icke fienden intrànger i fòrstàderne. Den yttre muren, som tager sin bòrjan vid hafvet pà begge sidor om staden, stiger sedermera opp och fòrenas vid en ansenlig hòjd af berget; denna nya mur gifver staden en trekanting form. Fiera fàstnings-verk fòrsvara dess omkrets. Hògst uppe vid trekantens spets, ser man « lo Sperone », en stark fàstning, som ofta hòljes af skyarne, làngre Prima però di incominciare la relazione giornaliera di questo blocco memorabile, sarà meglio far parola della posizione della città e dello stato delle sue fortezze, affinchè il lettore possa valersi della piccola carta topografica qui unita (i) e comprendere la connessione di quello che seguirà. La città di Genova giace sul dorso di una montagna la cui base è bagnata dal mare Ligure. Dalla parte di terra è circondata di doppia muraglia, di cui quella interna chiude solo la città propriamente detta, ha un recinto quasi di forma ovale, e vien difesa da più bastioni che sono riguardati come di utilità dubbia in caso d’ un assedio, finché i nemici non entrino nei sobborghi; l’esterna sale quindi in modo che si unisce all’ altra ad una altezza considerevole della montagna, e dà alla città forma triangolare. Parecchi forti difendono la cerchia. Il più in alto, verso la punta del triangolo, è « lo Sperone », ed è spesse volte nascosto tra le nuvole; più lontano, verso ponente, oltre a metà strada e (i) Come già fu avvertito a p. 378, la carta non fu unita all’edizione di cui ci serviamo. — 403 — vesterut, mer àn halfvàgs ner àt sjòn « le Tenaglie », och ned vid sjelfva sjòn ofvanfòr stadsporten ett batteri kalladt « San Benigno». Detta gòr att staden pà den sidan àr ganska fàst och stark, samt nàstan ointagelig, sà mycket mer som murens belàgenhet pà hògsta ryggbastet af en làng rad klippor, som rundt omkring staden slutta nedfòre àt tvenne stròmmar med fasliga och bràdjupa branter, ger fòga eller intet hopp àt de belà-grande att kunna lòpa storm. Den àr ej sà stark emot òstra sidan, hvarest, dà den bestrykes af àtskilliga kringgràn sande hòjder, man hàllit fòr mindre nòdigt att anlàgga andra fàstningar, i brist af hvilka man likvàl utom stads-muren inràttat ett slags parallel, eller betàckt vàg, som, i och med det sarama den befàster de hòjder som bestryka staden, ganska vài tjenar till stadens fòrsvar. Men den som tànker sig till -att fòrsvara Genua, màste framfòr altt bjuda till at behàlla den yttra linien, och nyssnàm-de befàstade hòjder sàom berget « dei Ratti », pà hvars spets ligger skansen Quezzì, fàstningen Ri-chelieu, som anlades af den rykt- in direzione del mare, si trova « le Tenaglie ».; ed in prossimità del mare, sopra la porta della città (i), è una batteria chiamata « San Benigno ». Questo fa si che la città da questa parte è molto solida e forte, e quasi inespugnabile, tanto più per la posizione della muraglia sul dorso più alto di una lunga fila di roccie, che corrono tutto intorno alla città stessa e vanno a terminare sopra due torrenti con terribile e ripido pendio, dando poca, anzi nessuna speranza agli assediami di tentare l’assalto. Non è essa però tanto forte verso levante dove, essendo fiancheggiata da diverse alture , si ritenne meno necessario erigere altre fortezze, in mancanza delle quali nondimeno si innalzò fuori delle mura una specie di parallela o strada coperta, la quale, proteggendo le alture stesse, serve molto bene per la sua difesa. Ma chi ha da difendere Genova deve fare anzitutto il possibile di tenere la linea esteriore e le alture fortificate soprannominate; come sarebbero il monte dei Ratti, sulla cui punta si trova la trincea di Quezzi, la fortezza Richelieu, (i) La porta (vecchia) della Lanterna, demolita nel 1877. bara franska fàltmarskalken af sarami nanm, da han innehade Genua, « Santa Tecla »och« la Madonna del Monte ». Hògre opp pà bergets allrahàgsta klint, norr om « io Sperone », befìnnes fastningen « il Diamante ». Som bestryker den forre, ehuruvàl nàgre kànnare pasta att den àr derifràn alttfòr afiàgsen; den àr af yttersta vigt fòr de belàgrade, emedan den ansenligen betàcker och beskyddar de òfriga yttre fastningsverkenas operationer. Emellan « il Diamante » och « lo Sperone » ligger berget « Due Fratelli », som tillskapas af tvenne kullar, och àr en vigtig position, emedan den kan befràmja de belà-grandes fòrening, och sàtta dem i stand att pà baksidan anfalla de yttre befastade hòjderne ; men som man derstàdes fruktar intersektion af eldarne ifràn de tvenne sìst bemàlte fàstningarne, àr det òfvermàttan svàrt att sig deraf bemàstra, ehuruvàl der sàges vara ett stàlle som hàlles fòr sàkert fòr begge fàstningarnes O artilleri. Àt sjòsidan fòrsvaras staden och hamnen af fiera och vài befàstade batterier, hvaribland la Strega, la Cava, begge Mu-Ijàndarne och la Lanterna àro de betydligaste, och nyligen satte 404 — che fu fabbricata dal celebre maresciallo francese omonimo, quando occupò G enova, Santa Tecla e la Madonna del Monte. Più in su, sulla punta più alta del monte, a tramontana dello « Sperone », si trova il forte del « Diamante » che ne difende il fianco. Sebbene alcuni pretendano che esso sia troppo lontano, questa posizione è di massima importanza per gli assediati, perchè copre e difende specialmente le operazioni delle altre fortificazioni esteriori. Tra il «Diamante » e lo « Sperone », si trova il monte dei « Due Fratelli », che è formato da due colline ed occupa una posizione importante, perchè può servire di punto di riunione agli asse- diami mettendoli in grado di prendere alle spalle le opere fortificate. Però, per l’azione combinata dei fuochi dei due ultimi forti nominati, è oltremodo difficile impadronirsene , sebbene dicano esistervi un punto immune dal fuoco di ambedue i mentovati forti. Dalla parte del mare si difènde la città e il porto con parecchie batterie bene fortificate, tra le quali « la Strega », la « Cava », i due Moli e la « Lanterna » sono le più importanti e furono messe in per- - 405 — i yppersta fòrsvarsstànd. Vester ut skòljes foten af den klippan, hvars kulle drager stadens yttre raur, af stròmmen Polcevera, och òsterut skilper il Bisagno staden ifràn Albaro, en liten och òfver-matten vaker by, aflagsen en i-taliensk mil i òster fràn hufvud-staden ; och i vester befinnes den pràktiga fòrstaden Sampierd’arena. Tàtt under Genuas portar vid hafvet manga andra betydande poster existera pà begge sidor om stadem, som i foljden af denna beràttelse skold nàmnas och beskrifvas, i den ordnìng som handelsernes fortgang àskar. Den i, 2 och 3 aprii visade sig en Engelsk Eskader pà ostra sidan af Genua; men nalkades nàrmare den 5 aprii och kanonerade de mot kusten befinteliga posteme. Man fik suart fòrmàrka, att denna attak pà sjòsidan van combinerad med en annan till lands; och sedan en colonn kejserlige troppar passerat genomde kejserliga feodalgodsen, dà kallade Monti Liguri, samt en annan vid Scoffera, blefvo Frans-mànnen attackerade vid deras fettissimo stato di difesa poco tempo fa. Verso ponente la base di quella rocca, sulla cui punta passa il muro esteriore della città, è bagnata dal torrente Polcevera; e vefso levante, oltre il Bisagno, sta Albaro, posizione deliziosa che si trova a un miglio italiano all’ est di Genova ; al-1’ ovest è il magnifico sobborgo di San Pier d’arena. Vicinissimo alle porte di Genova, presso al mare, esistono molte altre posizioni importanti su tutti e due i lati intorno alla città : e saranno nominate e descritte nel seguito di questa narrazione, secondo l’ordine in cui gli avvenimenti procedono. Il i.°, 2 e 3 aprile si fece vedere una flotta inglese sulla riviera di levante; ma si avvicinò maggiormente il 5 aprile cannoneggiando i posti sulla costa. Si potè notare che questo attacco dalla parte del mare era combinato con un altro dalla parte di terra; e quando una colonna imperiale ebbe attraversato il feudo imperiale, chiamato allora dei « Monti Liguri » ed un altro presso Scoffera, furono attaccati i Francesi presso la loro — 4° 6 — position vid Montefascie, som af dem fòrsvarades i 5 timmars tid, hvarefter de nòd«ades den evacuerà. General Otho, som commenderade venstra flvgeln af ! Tyska armén, bestaende af 8 a 9000 man, amnade anfalla hela linien allt ifràn « la Bocchetta » ànda ned till Ruta, samlade derfòre sin styrka i Bobbio, fòr att derifran pà ena sidan òtverrum-pla Torriglia och Bussalla, och pà den andra attackera Recco och Ruta. Denne’del, som utgjorde venstra flvgeln af dess tropp, borde fórena sig med de uppro-riscke i Fontanabuona, och sedan tàga ned at Genua. Hans hògra flygel, som bestod af nàgra batal-joner Oesterrikare, ett regemente j Piemontesare, och en del Ge-nuesiske upprorsmàn hade ordres att ifràn Novi fólja stora land-svagen, gà tòrbi Gavi, som borde lemna blockeradt, òfverstiga La Bocchetta, och begifva sig ned i dàlden Polcevera, fòr att derstàdes fòrena sig med centern, som skulle framkomna ifràn Bussalla. Sàdan var de Kejserliges belàg-ringsplan.Sedan generai Darnaud nòdgats evacuerà berget Fascie, och tidning derom ankommit rii Scollerà, Torriglia och San Alberto ; màste generai Petitot, posizione al monte « Fascie ». Dopo averla difesa per cinque ore furono poi costretti a sgombrare. Il generale Otho, comandante 1’ ala sinistra dell5 esercito tedesco, forte di 8 o 9000 uomini , si preparava ad attaccare tutta la linea dalla Bocchetta fin ! verso Ruta e raccolse perciò le sue forze a Bobbio, confammo di dare un assalto improvviso da questa parte a Torriglia e Busalla ed attaccare Recco e Ruta dall’ altra parte. La divisione formante Pala sinistra delle sue truppe aveva per iscopo di unirsi ai ribelli in Fontanabuona , per poi portarsi verso Genova. La sua ala destra formata da alcuni battaglioni austriaci, un reggimento Piemontese e parecchi insorti genovesi aveano 1’ ordine di seguire la strada maestra di Novi e di passare davanti a Gavi, tenendola bloccata, valicare la Bocchetta e scendere nella valle della Polce-vera, per unirsi quivi col centro che doveva sboccare da Busalla. Tale era il piano degl’imperiali. Quando pervenne la notizia a Scotterà, Torriglia e Sant’Alberto, che il generale D’Amaud era stato costretto ad abbandonare il monte Fascie; il sene- * O — 407 — som der fòrde befàlet, och sig till det yttersta fòrsvarat, àfven givfa vilca och retirera sig till Prato mot Bisagnostròmmen. General Gazan, som commenderade vid Bussalla, blef likaledes af òfvermàktig styrka òfverfallen, och màste draga sig tillbaka pà hinsidan af La Scrivia, och sta-made vid Molini. Positionerne vid « Capanne di Marcarolo», och « monte Calvo » blefvo ocksà med vàld intagne, och sàledes hela linien òppnad ànda till Cadibona. Fàltherren Melas attackerades emedlertid pà den sidan, tog Ca-dibona, Montenesino och Stella, samt tvingade snart generai Soult att retirera till Varaggine. Dm 6 aprii om morgonen befunnos i Ge-nua uppslagne och kringspridde fiere proklamationer af bemàlte fàltherre baron af Melas samt af genuesiska ur franska tjensten deserterade brigade - generaìen rale Petitot, che aveva il comando di quei posti, dopo essersi difeso fino agli estremi, fu costretto a cedere e ritirarsi a Prato alla sorgente del Bisagno. Il generale Gazan, che comandava a Busalla, fu pure assalito improvvisamente con forze straordinarie, e dovette ritirarsi sull’ opposta riva della Scrivia, fermandosi presso i Molini (i). Le posizioni presso le Capanne di Marcarolo ed il monte Calvo furono anche sorprese dagli Austriaci, che si aprirono in questa guisa tutta la linea fino a Cadi-bona. Il generale Melas attaccava frattanto da quella parte i Francesi, prendendo Cadibona, Montenesino (2) e Stella, ed obbligando il generale Soult a ritirarsi in fretta a \ arazze. lì 6 aprile di mattina furono affisse e sparse in Genova alcune copie di proclami firmati dal generale barone di Melas e dal generale di brigata Assereto, genovese, disertato dal servizio francese. (1) I Molini di Voltaggio. (2) Monte Negino. — 408 — Assereto. Bada innehòllo upp-muntringar till genuesiska natio-nen att taga til vapen emot Fransmànnen, och generai Assereto fòrkunnade at han var af generai Melas utsedd till befàlhaf-vare fòr all den insurgerade all-mogen, han uppmuntrade der-fòre dem som ej ànnu gripit till vapen, att gòrq det. Man sick àlven samma dag veta att de Kejserlige, tagande vàgen genom Cadibona, redan couperat franska armén genom staden Savonas, och skansen Vados intagande. Fàltherren Massena, som fann denna stàllning hògst kritisk, beslòt att angripa pendeng i deras gàrdagen fattade positioner vid bergen Fascie, Cornua och Scof-fera, och sàdant lyckades honom till den grad, att han omaftonen samma dag hit infòrde 2500 fàn-gar, bland hvilka befann sig ofvesten baron d’Aspre, som commenderade kejserliga avant gardet af generai Klenaus division, med nàstan hela sin stab. General Poinsot anfaller emedlertid fien-den vid Busalla, àtertage Borgo de Fornari, Casella, och Savi-gnone, och den tappre Soult drifver fienden ifràn « le Capanne di Marcarolo » och fràn « monte Calvo ». Contenevano eccitamenti alla nazione Genovese di prendere Tarmi contro i Francesi, annunciando il generale Assereto essere stato scelto dal generale Melas a comandante del popolo insorto, ed animando con ciò, chi non l’avesse ancora fatto, a prendere l’armi. Nello stesso giorno si ebbe poi notizia che gl’ Imperiali, facendo la strada del colle di Cadibona, avevano già tagliata l’armata francese nella città di Savona, prendendo la trincea di Vado. Il generale in capo Mas-sena, che trovava la sua posizione assai critica, si risolse di assalire il nemico nelle posizioni prese il giorno precedente presso i monti Fascie, Cornua e Scoffera, riuscendo in tale maniera la sera dello stesso giorno a condurre con sè 2500 prigionieri, tra i quali si trovava il colonnello barone d’Aspre, comandante l’avanguardia della divisione del generale Klenau, con quasi tutto il suo stato maggiore. Il generale Poinsot assalta frattanto il nemico presso Busalla, riprende il Borgo dei Fornari, Casella e Sa-vignone, ed il valoroso Soult respinge il nemico dalle Capanne di Marcarolo e dal monte Calvo. — 409 — Den 7 aprii Infòrde franske generalen Gazan 800 fàngar, som han tagit under det han fòrfòljt de Kejserlige och àtertagit de fòr lorade postema Nervi, Sori och Recco. 0 Aterkomne ifràn denna expedi-tion, làt faltherren sina troppar samma dag marschera mot trakten Savona. De engelska skeppen hade deis intangit kammen i Vado, och voro dels pa redden af Savona. Den 8 aprii om natten, hade de Kejserlige avancerat pà en annan sida af Genua, och sedan de forcerat po-sten vid «Capanne di Marcarolo», framtràngt fòrbi Acquasanta anda ned i dàlden Polcevera, utan att passera den betydliga posten la Bocchetta. Fiere af insurgenterne, som befunno sig ibland dem, hade 1 bemàlte dàld làtit ringa storni, utan att invànarne derigenom blifvit fòrledde att gripa till vapen. General Massena afreste samma dag till Savona, sedan generai lojtnanten Soult redan sòkt in-taga hòjderne vid trakten af Voltri och Campofreddo. Nationalgardet sattes i aktivitet, och de kejserlige Il 7 aprile il generale francese Gazan condusse in città 800 prigionieri, presi mentre inseguiva gli Imperiali e riprendeva i posti perduti a Nervi, Sori e Recco. Ritornato da questa spedizione, il comandante fece marciare le sue truppe il medesimo giorno verso Savona. Le navi inglesi avevano intanto occupato il porto di Vado , ed erano già nella rada di Savona. L’ 8 aprile di notte, gl’imperiali si avanzarono verso un’ altra parte di Genova, e dopo aver forzato il passo presso le Capanne di Marcarolo, penetrarono fino all’Acquasanta e nella vallata della Polcevera, senza oltrepassare il posto importante della Bocchetta. Parecchi degli insorti, che si trovavano con loro, suonarono a stormo in questa vallata senza che gli abitanti ne fossero indotti a prèndere le armi. Il generale Massena parti lo stesso giorno per Savona, dopo che il tenente-generale Soult aveva già tentato di prendere le alture verso le regioni di Voltri e Campofreddo. La guardia litigarne blefvo transporterade om bord pà Aera under batteriena i hamnen varande skepp. brigad-generalen Mouton hade emot aftonen tàgat inàt landet fòr att mòta fienden; generalerne Gazan och Poinsot skulle soutenera hans anfall. Den 5» aprii ankom en kurir ifràn generai Massena, som nuvistades i Co-goleto (i), en svensk mil ifràn Savona belàgen, till chefen af dess generai stab Oudinot, som ber-àttade att generai Mouton àtertagit « le Capanne di Marcarolo», hvarest han fàtt 600 kejserliga fàngar samt eròfrat 2.ne kanoner; men som Fransmànnen nòdgats draga sima troppar mot trakten af Savona, nimskade de sin linie pà òstra sidan, och retirerade till Albaro. Den 10 aprii erhòll man tidning att generai Massena, som àmnade intaga (1) Den ryktbare Columbi fódelseort. 410 — nazionale prese le armi, ed i prigionieri imperiali furono trasportati a bordo dei diversi bastimenti sotto le batterie nel porto. Il generale di brigata Mouton alla sera mosse verso l’interno per incontrare il nemico; i generali Gazan e Poinsot dovevano sostenere il suo attacco. Il () aprile arrivò un corriere del generale Massena, che si trovava a Co-goleto (1), un miglio svedese da Savona, al suo capo di stato maggiore Oudinot, il quale riferiva che il generale Mouton aveva ripreso le Capanne di Marcarolo, dove aveva fatti 600 prigionieri imperiali, e presi 2 cannoni; ma, siccome i Francesi furono costretti a ritirare le loro truppe verso la regione di Savona, accorciarono la loro linea dalla parte di levante ritirandosi ad Albaro. Il 10 aprile pervenne la notizia che il generale Massena, il quale si preparava a (1) Il luogo di nascita del celebre Colombo. [Non occorre qui confutare questa affermazione del Graberg. — G. R.J. orten Stella nàra vid Savona, medfòrlust blifvit tillbakadrifven, och detta tillskrefs generai adju-tanten Sacleux, underlatande att uppfylla dehonom gifna ordres, hvarfòre han ock af faltherren blef pà stallet degraderad, samt erfor det mest hàrda och obeha-gliga bemòtande. 1 denna tràffning b’esserades generalerne Gardan-ne, Frassinet och Gondinot, samt en màngd officerare; och generai Massena, som sjelf stridde sàsom simpel granadòr, var redan fòr ett ògonblick tillfàngatagen, men blef fràlsad af sina guides som intraffade. I anledning haràf con-centrerade sig franska tropparna vid Genua, pà sàtt att de ofver-gàfvo alla deras aflàgna poster, och occuperade en dast hòjderna och fàstningsverken omkring staden. Dm ii aprii fick man veta att generai lojt-nanten Soult pà sin sida, oak-tadt fàltherrens tillbakadrifvan-de, haft fòrdelar, emedan han tillfàngatagit 3000 man med 96 officerare och 7 famor, som man fòljande dagen sàg hit ankomma. General Massena trodde att han 411 — prendere il luogo di Stella vicino a Savona, era stato respinto con perdita. Questo insuccesso venne attribuita al generale-aiutante Sacleux , per aver questi mancato di adempiere gli ordini ricevuti ; per la qual causa fu degradato sul campo di battaglia dal comandante. In questo combattimento furono feriti i generali Gardanne, Frassinet e Gondinot, ed un gran numero di ufficiali ; e lo stesso generale Massena, che combatteva come un semplice granatiere, stava quasi per essere fatto prigioniero, ma fu salvato in tempo dalle sue guide. Per questo motivo le truppe francesi si concentrarono presso Genova, in modo da lasciare al nemico i posti lontani, ritenendo solo le alture e le fortezze intorno alla città. L’ 11 aprile si seppe che il tenente-generale Soult dalla sua parte, quantunque il generale in capo fosse stato respinto, aveva avuto qualche vantaggio, e fatti prigionieri 3000 uomini con 96 ufficiali e 7 bandiere, che si videro arrivare qui il giorno susseguente. *7 Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2.0 — 412 — onekligen skulle hafva fòrenat sig med den comperade delen af franska armén under generai Su-chets belai, om generai adju-tanten Sacleux giort sin skyldi-ghet; och denna òfverlygelse gjorde att han, vid dess aterkomst till Genua, hvarken àngrade eller sòkte att reparera den skymf han tillfògat bemalte generai adjutant, dà han i troppens àsyn bortref dess epauletter och sònderbròt hans vàrja. Sacleux har dock sedan bevisat sin oskuld, och blifvit aterstalld i sin grad och sin heder. Den 12 apri! generai Massena, orolig òfver sin forlust, kom tillbaka till Genua kl. 2 om morgonen, lemnandes sin tropp pà kòjderna òfver Voltri i en linie som stràckte sig nàstan fram till Sassello. Uppmuntrad af gen. lojtnanten Soults fram-gàng, och dess tropps fòrening med den som Frassinet fòrt honom till hjelp òfver bergen, afreste han igen om natten; och foljande dagen , II generale Massena riteneva che sarebbe riuscito ad unirsi colla parte dell’ esercito francese sotto il comando del generale Suchet, che era stata tagliata fuori , se il generale-aiutante Sacleux avesse fatto il suo dovere; cosi tornando a Genova nè si trovò pentito di quanto aveva fatto, nè cercò di riparare all’ insulto recato al suddetto aiutante-generale, collo strappargli le spalline e rompergli la sciabola. Sacleux però seppe più tardi provare la sua innocenza, e fu reintegrato nel grado e negli onori. Il 12 aprile il generale Massena, inquieto perle perdite sofferte, ritornò a Genova alle ore 2 ant., schierando le sue truppe sulle alture di Voltri in una linea che si stendeva quasi fino a Sassello. Incoraggiato dai progressi del tenente-generale Soult e dalla riunione delle sue truppe con quelle che Frassinet gli aveva portate in aiuto traversando i monti, riparti nella notte e il giorno susseguente, cioè — 413 — den i} aprii frani emot middagen, var Fàl-therrens hufvudquarter i Varag-gine. Den i'4 aprii attackerade de Kejserlige à nyo de Franske pa òstra sidan af staden , sedan de fòrut àtertagit alla de af Fransmànnen òfvergifna posteme. Oaktadd 5 timmars bestandigt fusilrerande vid San Martino, kunde de Keiserlige dock ej nàrraa sig till franska positionerne, hvilka sednare dock i denna affàr fòrlorade omkring 50 blesserade, som man sett till hospitalet infòras. Den 1/ aprii generai Massena fórsòkte à nyo att, òppna sig vag till centern af armén mot Savona ; men sà vài fjendens òfverlàgsenhet, som engelska skeppens kanonad mod staden, betog honom allt hopp att sàdant verkstàlla. En stor màngd af Franska blesserade in-fòrdes i staden sà vài sjòledes som till lands ; och man sàg att bemàlte generai sjelf misstròstade il i) aprile verso il mezzogiorno si acquartierò coi suoi a Varazze. Il 14 aprile gl’imperiali attaccavano di nuovo i Francesi dal lato orientale della città, avendo prima ripreso tutte le posizioni che essi avevano lasciate. Malgrado un continuo fuoco di moschetteria di cinque ore presso San Martino, gl’imperiali non poterono neppure avvicinarsi alle posizioni dei Francesi, i quali però in questo affare perdettero circa cinquanta feriti che furono condotti all’ ospedale. Il 15 aprile, il generale Massena tentava di nuovo di aprirsi la strada pel centro dell’esercito verso Savona; ma tanto la superiorità del nemico quanto le cannonate delle navi inglesi gli tolsero la speranza di effettuare il suo disegno. Un gran numero di feriti francesi furono ricondotti in città sì per mare che per terra, e si vide che il generale stesso aveva — 414 — att deri lyckas, emedan han vid sin àterkomst till Genua , den 16 Aprii, om aftonen, làt allmàuheten veta, att han trodde det generai lòjtnanten Suchets overksamhet hade gjort till intet alla hans fòrsòk, och att, dà han sett fien-den sà mycket òfverlagsen, och fri fràn gòromàl pà andra sidan anvànda all sin fòrmàga emost Genua, kunde han icke vidare vàga sin tropp emottrenne gànger stòrre styrka, sitan hade varit nòdsakad att retirera till Voltri. Den 17 aprii generai Massena egaf sig sà-ledes till Regeringen, fòr att med densamma òfverlàgga om medlet att, sà mycket mòjligheten medgaf, vara betànkt pà Genuas och arméns aprovisionerade. Samma natt afsàndes och generai Oudinot, sjòledes i en oppen bàt (som fòrdes af den tappre och forfarne Bavastro, den baste och ofòrsagdaste af Liguriens sjòrnan) till generai Suchet, fòr att dirigerà dess operationer och sòka hits-kaffa hjelpsàndning och pro-vision ifràn det inre af Frankrike. perduta la speranza della vittoria, perchè al suo ritorno a Genova, il 16 aprile di sera, faceva notificare al popolo che egli credeva che l’inattività del tenente-generale Suchet avesse fatto abortire tutti i suoi tentativi. Però vedendo il nemico, tanto superiore di numero e non trattenuto dall’ altra parte, impiegare tutte le sue forze contro Genova, non potere egli rischiare le sue truppe contro una forza tre volte superiore ed essere obbligato di ritirarsi a Voltri. Il 17 aprile il generale Massena si recava al Governo, per concertarsi con questo sopra il modo di vettovagliare la città di Genova e 1’ esercito. Nella stessa notte fu mandato anche il generale Oudinot per mare in un battello aperto (condotto dal valoroso ed esperto Bavastro , il migliore e più ardito marinaio della Liguria) al generale Suchet, per dirigere le sue operazioni e tentare di provvedere aiuti e provvigioni dall’interno della Francia. — 4IJ — Den iS aprii franska tropparne som voro vid Voltri och Sestri, retirerade sig annu nàrmare till staden ; och nàgra fiendens fòrsòk emot sta-dens yttre murar gjordes till intet genom stark kanonad ifràn de yttre fiastningsverken. Den iy aprii drogo Fransmànnen sig tillbaka àlida till San Pierd’ arena , och lemnade bron vid Cornigliano till gràns emellan dem och de Kejserlige. Redan bòrjade man att kànna bristen af bròd och mjòl, hvarfòre man hade anlitat National - Instituten att sà vài uppgifva inedel till sàdens mera tillràcklighet vid utbakningen till bròd, som till att befordra dess sòndermalande, emedan fienden fòrstòrt de till staden ledand vattendammar, och sàledes gjort màlden omojlig vid vattenqvar narne. Det forra verkstàlles genom hveteklis kokande i det vatten hvarmed man tillredde bròddegen, och det sednare afhjelptes genom en màngd af hàst-och handqvar-nars inràttande. Ifràn denna dag kan man saga, att verkliga belà-gringen af Genua tagit sin bòrjan, Il 18 aprile le truppe francesi che si trovavano presso Voltri e Sestri, si ritirarono ancor più vicino alla città ; ed alcuni tentativi del nemico contro le mura esteriori furono respinti da forti cannonate delle fortificazioni esterne. Il i y aprile i Francesi si ritiravano fino a San Pier d’arena, lasciando il ponte presso Cornigliano come confine tra loro e gl’imperiali. La mancanza di pane e di farina incominciò a farsi sentire; onde si fece domanda all’istituto Nazionale d’indicare il metodo migliore sì per ripartire in quantità sufficiente il frumento per la fabbricazione del pane, come per provvedere alla macinazione; perchè il nemico, avendo distrutto tutti gli acquedotti della città, rendeva impossibile la macinazione col mezzo dei molini ad acqua. L’Istituto consigliò di cuocere della crusca di frumento nel-l’acqua che serviva per preparare la pasta, e di adoperare dei molini a cavalli ed a mano. Da questo giorno si può dire che il vero assedio ebbe principio, — 416 — sàsom blockeringen begynts den 5 i denna mànad, dà staden kringràndes pà alla sidor. Nu utdeltes till salu blott 2 lod bròd om dagen àt hvar man, och detta bròd bestod af bara hveteldi. Denne dagen tecknades àfven med generai Marbots dòdliga frànfalle i en smittosam feber. Den 20 aprii sàg man pà bergen af Savona mycken eld, och hòrdes ofta kanonskott,hvaraf man slutade att de Kejserlige bòrjat belàgringen af samma fastning. Man kànde att dess lifsprovision ej var til-lràcklig fòr 14 dagar, och derfòre sànde man kàrifràn om nattetid nàgra bàtar torckadt bròd, som lyckligen undslap Engelska flot-tans uppmàrksomhet, och ankom utan hinder till sin destination. Pà ostra sidan presenterade sig eme-dlertid fienden framfòr « monte Cornua » och Fransmànnens òfriga positioner i dessgrannskap; och som generai Miollis, hvilken derstàdes fòrde befàlet, befann sig alltfòr svag att gòra motstànd, avendo cominciato il blocco il 5 di questo mese, quando la città fu circondata da tutte le parti. Ora non si dispensavano più che due oncie di pane al giorno ad ogni individuo, e questo pane era di pura crusca di frumento. Questo giorno lu anche notevole per il decesso del generale Marbot, per febbre contagiosa (1). Il 20 aprile si videro sulle montagne di Savona molti fuochi, e si sentirono spesse volte dei colpi di cannone, per cui si ritenne che gli Imperiali avessero incominciato 1’ assedio di quella fortezza. Si sapeva che le sue provvigioni da bocca non bastavano per 14 giorni, e perciò, nella notte si mandarono di qua alcuni battelli con biscotto, che felicemente sfuggirono all’ attenzione degl’ Inglesi ed arrivarono senza impedimento al luogo di destinazione. Dalla parte orientale della città si presentava in questo frattempo il nemico dinanzi al monte Cornua e le altre posizioni dei Francesi nelle sue vicinanze; e siccome il ge- (1) Cfr. Marbot, Mimoires, I. 100 segg. - 417 - màste han retirera sig inanfor la Sturla, och besàtta med sin tropp deyttre fàstningsverken, som med det de betàckte« monte Vento »och fast ningen « Richelieu »,fòrenade sig och communicerade med « il Diamante ». Den betydeliga posten « la Bocchetta » blef och attacke-rad, och den tropp som fòrsvarade, retirerade sig till Pon:edecimo, hvarifràn de ej làngt efter defile-rade till en ort kallad «Palmetta » vid slutet afstora landsvàgen, pà denna sidan om stròmmen Polcevera. Vid alla dessa de Kejser-liges operationer hade de betjent sig af en myckenhet deserterade, emigrerade och missnojde Ge-nuesare. Ibland dessas antal har den har ofvanfòre nàmde Assereto gjort sig alltfòr namnkunnig, fòr att icke fòrtjena att sàrskilt omtalas. Han àr fòdd i Genua, och àr ungefàr i sitt femtionde àr. stark till vàxten, men mager med brun hy och eldiga ògon fastàn nàgot vinda ; làng och langsam pratare, bestàndig upp-vaktare af de fòrnàma, belàgrade han utan uppehòr deras fòrmak: okunnig men outtròttelig sam-mansmidare af memoriale!", bref och proklamationer. Ofòrskrackt nerale Miollis, che aveva il comando in questo luogo, si trovava troppo debole per fare resistenza, dovette perciò ritirarsi da questa parte dello Starla ed occupare le fortificazioni esteriori colle sue truppe, le quali coprendo il monte Vento e la fortezza Richelieu, si univano per mezzo del forte Diamante. Il posto importante della Bocchetta fu anche attaccato, e la truppa che lo difendeva si ritirò fino a Pontedecimo; donde, non molto tempo dopo, si ripiegò fino ad un luogo chiamato « la Palmetta » (i) alla fine della strada maestra, su questa sponda del torrente Polcevera. In tutte queste operazioni gli Imperiali si servivano di una moltitudine di Genovesi disertori, emigrati e malcontenti; tra i quali acquistò troppa rinomanza il già ricordato Assereto, per non meritare una menzione speciale. Nato a Genova, conta ora 50 anni circa; alto di statura., magro, di carnagione bruna, occhi vivaci, un D * poco guercio; prolisso e noioso ciarlone, sempre umile servo dei grandi, assediava incessantemente D 7 le loro anticamere, ignorante, ma instancabile estensore di me- (1) Frazione di San Pier d’ arena. — 418 — storskrytare talade han àfven stort om Aera tapperhetsprof, som hans fader àdagalagt vid belàgringen af Genua àr 1746. Han bar fransk uniform, och gaf sig ut for brigad generai, ehuruvàl fiere franske officerare, och mest generalerne, ejville honom fòr sàdan erkànna. Efter fiera resor, jemvàll till Ame-rika, hvarifràn han alltid lika slug tillbakommit, visa de han sig i Genua vid den tid dà generai Moreau retirerade till Li-gurien. Hos honom anmàlte sig Assereto, dà han redan tròttat genuesiska Regeringen med den àstundan att erhàlla hògsta befalet òfver dess troppar; och sà lànge blef han vid sin envisa begàran, och gjorde den gode Moreau sà ledsen, att denne sednare skref derom till regeringen, amnodande densamma att bifalla Asseretos anhàllan, i fall den likvàl icke stridde mot constitutionens grund-satser. Som desse stadfàsta, att i Ligurien ingen hògre officer far gifvas àn chefen fòr en legion af national - gardet, och blott i krigstider man bòr tills vidare fòrordnande tillsàtta en òfverbefàl- I hafvande, hvilket hederstànd och | embete redan fòr làng tid sedan blifvit anfòrtrodt àt franska di-visions Generalen La Poype, sà moriali, lettere e proclami. Millantatore spudorato, parlava volentieri delle prove di valore compiute dal padre suo all’ assedio di Genova nel 1746. Portava l’uniforme francese, spacciandosi per generale di brigata, benché parecchi ufficiali francesi, e special-mente i generali, non volessero riconoscerlo per tale. Dopo diversi viaggi, spinti fino in America, donde ritornò tal quale era partito, venne a Genova in quel tempo che il generale Moreau si ritirava in Liguria. L’Assereto si presentò a lui , quando ebbe stancato il Governo genovese colle sue domande di avere il comando supremo delle truppe liguri ; e tanto seppe insistere ed annoiare il buon Moreau, che questi ne riferiva al Governo, pregandolo di accettare la richiesta dell’Assereto, qualora non fosse contraria allo spirito della costituzione. Ma questa stabilisce che nella Liguria non può esservi grado superiore a quello di comandante di una legione della guardia nazionale, e che solo in tempo di guerra si può nominare straordinariamente un comandante in capo ; e poiché quell’ incarico onorifico da molto j tempo era già affidato al generale — 4i9 — afslog Regeringen alldeles Asse-retos begàran, men der fòre tròt-tnade han icke att fortfara, utan skaffade sig afven intrade hos den dygdige, den artige generai Pé-rignon, som vid samma tidpunkt hade befàlet òfver hogra flygeln af franska armén, och utmat-tade denna fòrtràffliga mannens tàlamod sà vida, att han nòdgades visa honom ifràn sig pà det sàtt han fòrtjente. Moreau begaf sig kort derpà till Novi, och erholl pà de tillgransande slàtter segren vid « la Spinetta ». Asseretto un-derlàt ikke att der infinna sig, och beflitade sig om att alltid viscas nàra vid generalen en chef, sà att denne sednare, vid sin àter-komst till Genua, fòljande sitt hjertas adla ròrelser, beròmde honom, och till och med, som det sàges, beckràftade eller fòrbàttrade dess fullmakt som generai de brigade. Ingen ting hòrdes seder-mera talas om Assereto, fòrràn dà han under generai iMarbots òfverbefàl kommit i verklig tjenst i armén, det blef upptàckt, att han tillika med sin generai adjutant hade hemligt forstànd med de Kejserlige. Begge arrestarades i Ovada och borde framstallas fòr krigsràtt, hvarest de svàr-ligen skulle kunnat slingra sig di divisione francese La Poype, cosi il Governo respinse la domanda dell’Assereto, il quale però non si stancava di continuare nelle sue sollecitazioni, procurandosi accesso presso il virtuoso e cortese generale Pérignon, allora comandante 1’ ala destra dell’ esercito francese ; ma tanto ne stancò la pazienza, che 1’ ottimo uomo fu costretto a cacciarlo come meritava. Poco tempo dopo il generale Moreau si recava a Novi, ottenendo vittoria presso la Spinetta nelle pianure limitrofe. L’Assereto non mancò di trovarsi presente, mostrandosi sempre in vicinanza del generale in capo, il quale più tardi, al suo ritorno in Genova, seguendo i nobili impulsi del suo cuore, ne fece gli elogi ed anzi, dicesi, gli confermasse o rettificasse il brevetto di generale di brigata. Non si sentì più parlare dell’Assereto fintantoché entrato in servizio effettivo nell’ esercito, quando era sotto il comando provvisorio del generale Marbot, fu scoperto che egli insieme al suo aiutante di campo era in carteggio clandestino cogl’ Imperiali. Ambedue furono arrestati in Ovada, e dovevano essere tratti dinanzi ad un consiglio di guerra, dal quale — 420 — undan med Jif och heder, men hade den Ivckan att undankom-ma, och det, sàsom man pàstàr, i genom att aftràde eller rannsten. De begat'vo sig begge till de Kejserlige, hos hvilka Assereto sa gynnades, att han blef emplo-jerad i samma grad han lemnat, och dà Kejserliga armén bròt opp emot Genua, blef han qvar i Novi med den bestàllning att uppresa bònderne i dàlden Pol-ce\era, sà snart man òfverstigit « la Bocchetta ». I sjelfva verket bemàstrade sig tyska tropparne mog làt denna vigtiga post. Val àr det sant, att styrkan till dess fòrsvar var fòr klen att lànge uthàrda; men en sà fòrdelaktig position hade dock ej behòst uppgifvas just dà det skedde, om ej commendanteus feghet varit; hvarfòre han ock vid sin ankomst till Genua, genast af den strànge men ràttvise Massena degraderades. Assereto underlat ikke att begifva sig ned i dàlden 1 olcevera, tilsammans med en hop andra missnojda Genuesare, àt hvilka de Kejserlige hade ri-keligen gifvit tillar och hederssteg, fòr at derigenom fora deras land-màn till òfverlopande. Till intet ' tjente likvàl deras bemòdande, dà man redan den 8 sett, att dà , sarebbe stato loro impossibile scampare con vita ed onore salvi, se non avessero avuto la fortuna di fuggire per una latrina o cloaca, per quanto si disse. Si recarono tutti e due presso gli Imperiali, i quali stimavano molto l’Assereto. Fu questi impiegato collo stesso grado che aveva lasciato, e, quando l’esercito imperiale levò il campo per Genova, rimase a Novi coll’ incarico di sollevare i contadini nella vallata di Polcevera, appena si fosse superata la Bocchetta, della quale importante posizione, le truppe tedesche s’ impadronirono ben presto. È ben vero che la forza lasciata dai Francesi a sua difesa era troppo piccola per resistere lungo tempo; ma una posizione cosi vantaggiosa non avrebbe dovuto essere abbandonata in tal modo, se non fosse stata la viltà del comandante, che al suo arrivo in Genova fu subito degradato dal severo e giusto Massena. L’Assereto non tardò a scendere nella valle di Polcevera con un certo numero di altri Genovesi malcontenti, ai quali gli Imperiali avevano dato titoli e gradi per indurre con ciò i loro compatrioti a disertare. Ma le loro fatiche non servirono a — 421 de sokt ringa storm i alla kyrkor, ingen af dàldens invànare velat gripa till vapen emot de Franska, eller fora afvig skòld emot sitt tàdernesland. Dà han nu seder-mera sàg, att han ej fick, eller kunde, deltaga i den verksnmma tjensten, sòkte han pà alla mojliga vis, under hela tiden som Genua blockerades, att trycka och kring-sprida proklamationer, nàstan alla utan snudt fornuf, ofta utan sammanhang, hvari han retade Genuesiska allmogen till uppror. Men hans penna hade ej bàttre framgàng an hans vàrja. Den 21 aprii generai Massena, som nu pà làng tid ingen communication àgt med Frankrike, celi alldeles uttòmt de medel han varit àgare af fòr arméns uppehàlle, anhòll hos regeringen ora ett làn af 500,000 livres i franskt mynt. Regeringen nekade vài i fòrstone att bifalla dess begàran, emedan stadens invànare redan genom Aera beskattningar voro satte ur stand att densamma efterkomma; och national-kassan var alldeles tom. Man ma sàga hvad man nulla, poiché, essendosi già tentato li 8 del mese di aprile di suonare a stormo in tutte le chiese, nessuno degli abitanti della vallata prese le armi contro i Francesi, anzi contro la sua patria. Quando vide poi l’Assereto che non si voleva o poteva ammetterlo in servizio attivo, tentò in tutti i modi, durante il blocco di Genova, di far stampare e distribuir proclami, quasi tutti privi di buon senso, e spesso sgrammaticati, coi quali eccitava il popolo genovese alla ribellione; ma colla sua penna non seppe ottenere di più che colla sua spada. Il 21 aprile il Generale Massena, che da lungo tempo non aveva avuto comunicazioni colla Francia, ed aveva totalmente consumato i mezzi per il mantenimento del-l’esercito, chiese al Governo un imprestito di 500,000 lire in moneta francese. Il Governo rifiutò in principio di soddisfare a questa domanda, perchè gli abitanti della città, esausti da diverse imposte gravose, non erano in grado di far nuovi sacrifizi, e la cassa nazionale era total- — 422 — vili, sa àr det osvikligt, att Genua till denna stund mera lidit an nàgon annan stad i Italiens, och det àr ej svàrt att begripa. En stat, hvars land och jordbuch ikke har tillràckliga egna produkter att uppehàlla sina invànare en fjerdedel af àret, dà den mister handeln, som uppfyller denna brist, skall nòdvàndigt falla i fòrderl. Genuesiska adelns omà-tliga rikedomar voro fòrsvundna, emedan fòrnàmsta delen deraf làg pà utrikes banker, sàrdele.s i Frankrike, Holland och Tyskland. Ofta pàlagde contributioner hade uttòmt deras gods och sàterier occuperades af fienden, deras has och fasta egendomar i staden renderade fòga eller intet, af orsak att deras fòrpaktare voro ur stànd satte att belala, och hushàll, tjenstfolk, pensi oner , skatt fòr derasgods, fòrpantningar o. s. v.; allt màste likvàl uthàl-las och svaras fòre, liksom fòrr. Det àr sant, att borgarestàndet och handels-societeten àgde fòr-mògna och vàlmàende medlem-mar, ehuru stockning i handeln hade bragt stòrre delen till en mycket inskrànkt lycka; men de af dem, som verkligen kunde kallas fòrmogna, hade redan fiera gànger, under sàrskitta titlar, fàtt mente all’ asciutto. Si dica pure quel che si vuole, ma è evidente che Genova in questo frangente ebbe a soffrire più di qualunque altra città in Italia, e questo non è difficile a comprendersi. Uno stato in cui l’agricoltura non produce da mantenere gli abitanti che per una quarta parte dell’ anno , quando vien meno il commercio che compensa tale deficienza dell’agricoltura, deve necessariamente cadere in rovina. Le immense ricchezze dei nobili genovesi erano sparse, e la maggior parte di esse investite nelle banche estere, special-mente in Francia , Olanda e Germania. Contribuzioni spesse volte levate avevano consumato i mezzi ad essi rimasti; i loro poderi e beni stabili erano occupati dal nemico, le loro case e stabili nella città rendevano poco o niente, chè i lorc- affìt-taiuoli non erano in grado di pagare; ed il mantenimento della casa, i domestici, le pensioni, le imposte sui loro beni, gli impegni ecc., tutto era come prima. Vero è che tra la borghesia e la classe de’ commercianti si contavano possidenti e facoltosi, sebbene il ristagno del commercio avesse ridotto la mag- — 423 — draga tyngden af de svàraste pàlagor, och dessutom var det dem sa ganska làtt att gomma undan deras penningar, eller bort-fòra deras medel, deras Kapitaler, och i sàdant fall komde man med vàld blott bemàstra sig deras bòcker och deras ràkningar. Men generai Massenas behof var pàtrangande; han ville hafva penningar, han fich dem ock. Han fòrdelade pà de fòrmognaste invànare deras behoriga andelar af bemalte 500,000 livres tour-nois, eller 600,000 genuesiska lire, tvingande dem att bidraga hvad dem àlàg, inom 24 timmars tid. Soldater sàndes i husen hos dem som ej genast ville betala, med befallning att der qvarblifva till dess de betalte, och de som ej en gàng lato skràma sig af detta fòrhàllande, bragtes i hàk-telse om bord pà kaparefartyg i inloppet af hamnen, fòr att der qvarhàllas till dess de bidragit deras andel. Pà detta sàtt bekom generai Massena den summa han àstimdade, fòr att dormedbestrida de oundgàngliga utgifter till trop-parnas uppehàlle, och till forbàt- gior parte ad una fortuna molto limitata; ma quelli tra essi che in realtà potevano essere chiamati ricchi, avevano già più volte, sotto titoli speciali, dovuto sopportare il peso delle imposte gravissime. Era però per loro facilissimo di nascondere i loro danari 0 portar via i loro capitali, ed in questo caso non si poteva impadronirsi colla forza che dei loro libri e registri. Ma il bisogno del generale Mas-sena era urgente; egli voleva avere subito danari, e li ebbe. Egli ripartì sugli abitanti più facoltosi in quote forzate le suddette 500 mila lire francesi, ossiano 600,000 lire genovesi, obbligando ciascuno a contribuire la propria quota entro il termine di ventiquattr’ore. Furono mandati soldati nelle case di quelli che non volevano pagare subito, coll’ ordine di rimanervi finché pagassero ; e quelli che anche a questo si mostrarono ritrosi, furono imprigionati a bordo di bastimenti d’armatori alT imboccatura del porto per essere ritenuti finché avessero versato la loro quota. In questo modo il generale Massena ottenne la somma domandata, per poter soddisfare alle spese necessarie per il mantenimento delle — 424 — tringen afstadens fòrsvar. Man lemnade samma dag tillstànd àt òfversten baron d’Aspre och de med honom varande kejserlige fàngne officerare, att pà paroll bortresa. Man trodde i allmànhet att sàdant skett, emedan man ville profilerà af bemalte barons kiinda girighet, fòr att kunna fòrmà honom att faciliterà ankomsten af lifs provisioner; men antingen var detta rykte ogrundadt, eller ock har det ej berott af bemalte baron, att i denna delen tillfredo-stàlla sin gririghet. Den 22 aprii blefvo fiera bondgàrdar i dàlden Bisagno af franska soldaterna plundrade. En redan insmygd insubordination, och deras brist pà uppehàlle, hade fòrt dem att sàdant foretaga. General Massena sòkte vài genom en stràng prokla-mation att stilla invànarnes billiga misnòje. Nàgre brottslige arres-terades; men dà ej nàgon sàrdeles exetnplarisk bestraffning fòljde, bòrjade allmogen nog allmànt att knota, sà vài emot den befàlhaf-vande, som emot dess tropp. truppe e per il miglioramento della difesa della città. Il medesimo giorno fu dato il permesso al colonnello barone d’Aspre, ed agli ufficiali imperiali prigionieri con lui, di partire sulla parola d’onore. Si credeva generalmente che ciò fosse fatto per approfittare della nota avidità del suddetto barone, eccitandolo a facilitare l’arrivo delle vettovaglie; ma o questa voce era infondata, o non dipendeva dal suddetto barone di contentare in ciò la sua avidità. Il 22 aprile varie case coloniche, nella vallata del Bisagno, furono saccheg-oiate da soldati francesi. L’in-subordinazione già introdottasi tra loro e la mancanza di viveri avevangli condotti a tal punto. Il generale Massena cercò mediante un severo proclama, di quietare il giusto malcontento degli abitanti. Alcuni colpevoli furono arrestati ; ma siccome una punizione esemplare non ebbe luogo, cominciò il popolo a brontolare contro il comandante e le sue truppe. — 425 — Den 2) aprii Ji 2j aprile om morgonen bittida, fòretogo de Kejserlige en attack emot Franska tòrposterna i San Pier-darena. Det lyckades ock dem att bemastra sig 2: ne kanoner, samt framtrànga intill stads portarne. Man hann likval att upp-draga vindbrggan, och att sanda en colonn genom en annan stads-port, forr att tag dem i flanken. De hade af oforsigtighet avan-cerat fòr làngt ; och fastan En-gelsmànnen ifràn deras skepp understòdde de Kejserlige emot strandsidan, blef dock hela trop-pen kringrànd och tillfàngatagen; de fàngnas antal var 590 man, oberàcknadt 7 officerare och òfverst Lòjtnanten af regementet Latterman, som commenderade expeditionen. Samma dag intràf fade àfven skàrmytslingar pà òstra sidan af staden, men utan attvara af sàrdeles betydenhet ; nàgra tyska fòrposter, till ett àntal af 20 man, infòrdes som tangar. Eftermid dagen begaf sig ame-rikanske consuln Wallaston om bord pà en parlementàr slup, till engelska amiralen; allmànheten trodde att han blifvit afsànd fòr att sòka enskilt med de Engelske tràffa en capitulation, eller àtmin- alla mattina di buon’ ora fecero gl’ Imperiali un attacco contro le avanguardie francesi a San Pier d’ arena, e riuscirono ad impadronirsi di due cannoni e ad arrivare fino alle porte della città. Si ebbe tempo di alzare il ponte levatoio, e di mandare una colonna di truppa per un’ altra porta della città a prenderli di fianco. Si erano avanzati troppo per imprevidenza ; e benché gl’ Inglesi dai loro bastimenti secondassero gl’ Imperiali dalla parte della spiaggia, tuttavia tutta la truppa fu circondata e fatta prigioniera. Il numero dei prigionieri fu di 590 uomini, non compresi sette ufficiali ed il tenente-colonnello del reggimento Latterman, che comandava la spedizione. Lo stesso giorno succedevano anche scara-muccie dalla parte est della città, ma non d’importanza particolare; alcuni avamposti tedeschi, in numero di venti uomini, furono fatti prigionieri. Nel pomeriggio il console americano Wollaston si recava, a bordo d’una lancia parlamentare, dall’ammiraglio inglese; si credeva generalmente che fosse mandato per tentare r- 426 - stone att fórma amiralen att lata lifsmedel i hamnen inlopa emot nàgon hederlig present. Erfaren-heten hade visat, att Genua pà sàdant sàtt blifvat approvianteradt i 1746 àrs krig, och àfven att sòdra provinserne af Frankrige àr 1793 och 1794 (oaktadt En-gelska blockaden) likaledes blifvit fòrsedde med ifsmedel. Och fastan amerikanske consuln fòrsàkrade att sàdant vore omojligt att hop-pas, trodde man doch att sàdant blifvit òfverenskommit, nàr nian 3 : ne dagar derefter sàg i hamnen inlopa ett litet fartyg som inbragte 800 sackar sàd. Detta fartyg hade likvàl blifvit jagadt af engelska skepp, och sett fiera kanon skott lossas emot sig. Pà det likvàl hos allmànheten ej misstankar skulle uppkomma, att generai Massena afsàndt amerikanska consuln fòr att afhandla en capitulation, làt denne sednare publicera det bref engelske amiralen lord Keith honom tillskrifvit, hvarmed visa-des att bemàlte consul begifvit sig om bord, fòr att underhandla i anseende till vissa angelàgen-heter, som de fòrente Staterne àgde ofgjorda i Marseille. Fàlther-ren Massena publicerade àfven en proklamation till Genuesiska nationen, hvari han uppmuntrade una capitolazione speciale cogli Inglesi, od almeno per persuadere l’ammiraglio di far entrare nel porto delle provvigioni contro un presente ragguardevole. L’esperienza aveva mostrato che in questo modo Genova aveva potuto essere approvigionata nella guerra dell’anno 1746, e che anche le provincie meridionali della Francia negli anni 1793 e T794 (malgrado il blocco inglese) erano state fornite di viveri. Sebbene il console americano dicesse esservi poca speranza di ottener ciò, si credette fossero andati d’accordo, quando si vide entrare nel porto, tre giorni dopo, un piccolo bastimento che poitava 800 sacchi di frumento. Questo bastimento venne però cacciato dalle navi inglesi , che tirarono colpi di cannone contro di esso. Però, per evitare che nel pubblico si sospettasse avere il generale Massena mandato il console americano a trattare d’una capitolazione, quest’ultimo fece pubblicate la lettera scrittagli dall’ammiraglio inglese lord Keith, dalla quale risultava che il suddetto console si era recato a boi do della nave ammiraglia britannica, per trattare di certi interessi che gli Stati Uniti avevano pendenti det svar han gifvit Generalen Baron Melas, som erbjudit honom en hederlig capitulation. Detta svar inneholl sluteligen : « Je ne suis pas encore au point d’ac-cepter une capitulation quelcon-que, car il me reste suffisamment de troupes pour me défendre, le général Suchet fùt-il battu, ce que j’ai bien de la peine à croire ». Den 24 aprii om morgonen bittida, ankom hit en bàt fràn franska kusten, oaktadt Engels mànnens vaksam-het, som uppbragt 2 : ne andra i dess fòlje. En General Massenas Adjutant befann sig med den hit ardànde, som fordes af den ofvan-namde raska skepparen Bavastro, a Marsiglia. Il comandante Mas-sena pubblicava pure un proclama alla nazione Genovese, nel quale incoraggiavala a fermezza, e portava a conoscenza del pubblico la risposta data al generale barone Melas che aveva offerto una capitolazione onorevole. Questa risposta si chiudeva colle seguenti parole: « Je ne suis pas encore au point d’accepter une capitulation quelconque, car il me reste suffisamment de troupes pour me défendre, le Général Suchet fùt-il battu; ce que j’ai bien de la peine a croire » (i). Il 24 aprile alla mattina di buon’ ora, arrivò dalla costa francese un battello, nonostante la vigilanza degl’ Inglesi, che s’impadronivano di due altre barche naviganti di conserva con esso. Il bravo padron Bavastro accompagnava l’aiutante di campo del generale Massena, - 427 — den till stàndaktighet, sand med-delade till allmanchetons knuskap (1) Cfr. la Gazzetta Nazionale della Liguria, del 26 aprile 1800, n. 45, p. 372, dove la lettera al Melas è tradotta in questi termini: Signor Generale, Ho ricevuta la lettera che mi avete fatto onore di scrivermi, colla quale mi offrite una capitolazione onorevole : io non sono in questo caso, signor Generale. Mi restano ancora truppe bastanti da provarvi che posso difendermi, abbenchè il generale Suchet fosse battuto ; ciò che ho ben della pena a credere. Massena. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2.0 28 — 428 — och han medfòrde depecher till bemalte fàltherre, som inneh òlio att franska armén vid Rhens-tròmmen haft fòrdelar, att reserv-armén, nuder generai Berthiers òfverbefàl, redan var i ròrelse, och hade àtertagit mont Cenis ; att generai Oudinot lyckeligen passerat; att fristningen Savona haft tillfàlle att bekomma nàgon proviant, samt att Carnot blifvit i Paris utnàmd till minister fòr krigs-àrendena. Den 2j aprii syntes vara nàgon farhàga i staden; nàstan alla salubodar voro tillslutna, national-gardet var under gevàroch bivaquerade helanatten, stads portarna tills lòtos kl. 7 om aftonen, och invànarne blefvo tillsagde, att efter en kl. 10 gifven signal hoar afton, ej mera befinna sig pà gatorna. Den 26 aprii ankom det fòrr omtalta skeppet, som medfòrde 800 sackar sàd ; men ett stòrre som innehade 2000 sackar, nòdgades àtervanda till Portofìno. Rykten utspriddes, att che gli portava dispacci di Francia. In essi si affermava che l’esercito francese sul Reno aveva avuto prosperi successi; che l’esercito di riserva, sotto il comando del generale Berthier, era già in movimento ed aveva rioccupato il Moncenisio; che il generale Oudinot era passato felicemente, che la fortezza di Savona aveva avuto occasione di ricevere alcune provvigioni; e che Carnot era stato nominato ministro della guerra a Parigi. Il 25 aprile parve dover nascere qualche turbolenza in città; quasi tutti i negozi erano chiusi, la guardia nazionale era sotto le armi e bivaccò tutta la notte, le porte della città furono chiuse alle ore 7 di sera, e gli abitanti vennero avvisati di non trovarsi più nelle vie dopo un segnale dato alle 10 di ogni sera. Il 26 aprile arrivò il bastimento sovra menzionato , che portava 800 sacchi di frumento; ma un altro più grande, che portava 2000 sacchi, dovette ritornare a Portofìno. - 429 — de Kejserlige retirerade ; men de krigandes positioner voro stàdse desamnu utan synbar fòràndring. Den 27 aprii utmarscherade generai Massena med ungefàrligen 4000 man mot fòrposterna i Polcevera och Cornigliano, fòr att recognoscera deras styrka. Beskyddad af kano-nerna under fàstningen « le Te-naglie », Iarde han kanna fiendens stàllning, och i synnerhet det fòrsvarsstànd i hvilket han befann sig vid Coronata. Denna affar kstade à òmse sidor nàgra dòde och blesserade, men om aftonen befunmo sig bada de krigande i deras respektive positioner. Den 28 aprii generai Massena hade emedler-tid ett vaksamt òga pà alla fiendens ròrelser och Regeringen àngslade sig jemmerligen òfver omòjligheten att approvisionera standen med lifsmedel, och i synnerhet med bròd, som hvar dag mer och mer fattades, och till slut med alla andra àtliga varor, sàldes hàr och der till verhòrdtstegrade priser. Correva voce che gl’ Imperiali si ritiravano; ma le posizioni dei belligeranti restavano sempre le medesime senza mutazione visibile. Il 27 aprile il generale Massena con 4000 uomini incirca uscì verso gli avamposti di Polcevera e Cornigliano, per passare in rassegna le proprie forze. Protetto dai cannoni sotto il forte « le Tenaglie », riconobbe le posizioni del nemico e specialmente quelle presso Coronata. Questo affare costò ad ambe le parti alcuni morti e feriti; ma alla sera tutt’ e due rimanevano padroni delle loro rispettive posizioni. Il 28 aprile mentre il generale Massena aveva l’occhio vigile sul movimento del nemico, il Governo s’affannava lamentevole a dimostrare essere impossibile di approvigio-nare la città, specialmente di pane, che mancava ogni giorno più e come tutti gli altri commestibili si vendeva qua e là a prezzi inauditi. — 430 — Den 29 aprii sig man mycken ròrelse bland de kejserliga tropparna, och fràn fàstningen « le Tenaglie » kanone-rades starkt emot en corps, som passerade La Polcevera ; af de ordres som faltherren gaf àt sin general-stab, samt àt sina guides, att vara fàrdiga, att marschera vid midnatten, slutade man, att han fóljande dagen ammade fore-taga en attack. Hom blef likvàl deri af fienden fòrekommen om : morgonem den 30 aprii klockan ‘/2 fira, dà en falsk I attack gjordes mot venstra sidan af staden, i det samma som den verkliga attacken gjordes pa den òstra, borjande vid « la Sturla », understòdd af engelska fregatter och kanonslupar. Kl. 9 om morgonem voro de Kejserlige i be-sittning af hòjderna vid « monte dei Ratti », af skansen Quezzi, och beredde sig till att attackera pà enasidan «il Diamante», och pà denandra fàstningarna Richelieu och Santa Tecla, och bemàkligade sig verkligen innan kort hòrgra kullen af berget « Due Fratelli » samt den betydliga hòjden vid Il 29 aprile si vide fra le truppe imperiali gran movimento e dal forte « le Tenaglie » si fece un forte cannoneggiamento contro un corpo che passava la Polcevera; dagli ordini dati dal comandante al suo stato maggiore e alle sue guide, cioè di essere pronti a marciare a mezzanotte, si ritenne che intendeva fare un attacco il giorno .seguente Ma ne fu prevenuto dal nemico alla mattina. del 30 aprile alle ore 3 ’/2, fu fatto un falso attacco verso la parte ovest della città, mentre l’attacco vero ebbe principio all’ est presso Sturla, e fu appoggiato dalle fregate e cannoniere inglesi. Alle ore 9 ant. gl’ Imperiali erano in possesso delle alture presso il monte dei Ratti e della trincea di Quezzi, preparandosi ad attaccare da una parte il Diamante e dall’ altra i forti Richelieu e Santa Tecla, ed impadronendosi in breve della punta più alta del monte dei Due Fratelli e del posto importante presso la Madonna del Monte. ! tre primi forti fu- - 431 <■ la Madonna del Monte ». De tre forre fastningar hòllos blockerade, och redan hade de Kejserlige i 2 : ne colonner avancerat ifràn San Martino och San Luca, emot Fransmànnens positioner i Albaro, hvarest de framtràngt ànda till San Martino. General Massena, som, sed an han fòrst begifvet sig att besoka fastningsverken vesterut, och der -sett ingen syn-nerlig fara vara forhand, hade vàndt sig òsterut, och ifràn hògra stranden af strònunen Bisagno med kallsinnighet beskàdat fiendens fòrdelar, insàg ganska vài af hvad vigt dessa nu fattade positioner voro fòr fienden, och fastàn redan 2 a 3 forsok att bestorma fastningarna Diamante, Richelieu och S. Tecla blifvit afslagne, borde han likvàl gora en effort att àtertaga dessa stàllen; han beslòt derfòre att, kosta hvad det kosta ville, bemàstra sig de fòrlorade posteme. Ett slagregn, som infòll kl. 11, gynnade Fransmànnens operationer, dà de med bajonetten attackerade de Kejserlige. Bòrjan skedde af generalerne Moliies, Darnaud och Ottavi mot Albaro, Sturla och San Martino, hvarefter generai Miollis bega! sig till skansen Quezzi, som inom ’/4 timme àtertogts, hvartill ei rono bloccati, mentre gli Imperiali s’ erano già avanzati in due colonne da San Martino e San Luca verso le posizioni dei Francesi ad Albaro, donde spingevansi anzi fino a San Martino. Il generale Massena dopo essersi recato a ponente, dove non vide esservi pericolo, si portò a levante , e dalla riva del torrente Bisagno osservò accuratamente le vantaggiose posizioni nemiche. Sebbene già due 0 tre tentativi di assaltare i forti Diamante, Richelieu e Santa Tecla fossero stati respinti, capì il Massena di dover pure fare uno sforzo per riprendere questi luoghi, e si risolvette perciò d’impadronirsi ad ogni costo dei posti perduti. Alle ore 11 una forte pioggia favorì le operazioni dei Francesi, che attaccarono alla baionetta gli Imperiali. I generali Miollis, Darnaud e Ottavi cominciarono l’attacco verso Albaro, Sturla e San Martino; dopo di che il generale Miollis si portava contro la trincea di Quezzi, che fu ripresa in un quarto d’ ora, aiutando non poco ad ottenere questo risultato una sortita fatta contemporaneamente dalla guarnigione del forte Richelieu. Nel pomeriggio, alle ore 4, fu anche attaccato il forte dei — 43 litet bidrogo de utfall, som i samma ògonblick giordes af gami-sonen i fastningen Richelieu. Om eftermid dagen kl. 4 attackerades àfven posten « Due Fratelli », hvilken genom generai Soults kloka dispositioner, samt generai Fantuzzis tapperhet med full kam-lig framgàng àtertogs. Foljden af denna seger blef alla de fòr-lorade posternas àtertagande , tvenne kanoner och en fanas er-òfrande, samt nàrmare 2000 fangar, inbegripne 20 officerare. General Massena hade behof af denna seger, ty redan hade Genuas invànare bòrjat knota, ej allenast òfver den arbitràra sty-relsen och den dagliga tilltagande dyrh^ten, utan ock òfver valetaf regerings - medlemmarne , som voro i execration hos stòrsta delen af invanarne. Bemalte generai var derfòre under striden med fienden hògst orolig, i anseende till Genuas inre tillstand, och underràttade sig med otalighet, af hvar ifràn staden ankommande officerare om lugnet derstàdes fortfòr. Vid detta tillfàlle skulle sàkerligen missnòjet utbrustit, om ikke hvar och en sarskilt person varit sysslosatt med sin tjenstgòring vid national-gardet, som stàndigt var under vapen , Due Fratelli, che fu ripreso con ottimo esito per le disposizioni prudenti del generale Soult ed il valore del generale Fantuzzi. La conseguenza di questa vittoria fu la ripresa di tutte le posizioni perdute, la conquista di due cannoni e d’una bandiera, ed inoltre di quasi 2000 prigionieri, compresi venti ufficiali. Il generale Massena aveva bisogno di questa vittoria, perchè gli abitanti di Genova cominciavano già a mormorare non solo del governo arbitrario e della carestia che aumentava ogni giorno, ma anche della scelta dei membri del Governo, che erano aborriti dalla massima parte degli abitanti. Il suddetto generale era perciò inquietissimo, durante il combattimento, riguardo allo stato interno della città di Genova, e si informava premurosamente presso ogni ufficiale che veniva dalla citta se vi durava la quiete. In questa congiuntura il malcontento sarebbe certamente scoppiato, se i cittadini non fossero stati occupati nel servizio della guardia nazionale, che sempre era sotto le armi, e non avessero avuto non tempo ed occasione di cospirare, ma grande paura di essere traditi da coloro nei quali si fossero confidati. Non - 433 - hvarig inom dels tid och tillfàlde nekades att conspirera, dels fruktan injagades att fòrràdas af den till hvjlken han kunde vilja fòrtro sin afsigt. Det àr likvàl obegrip-ligt att ingen ting oordentligt fòre-fòll, dà man sedermera fàtt af plats-commendantens eget med-gifvande veta, attendast 80 Frans-màn blifvit quar i staden, och all den inre tjen, sten, àfven vid stadportarne och pà murarna, fòr-ràttades af national-gardet. Den 1 maj generai Massena trodde sig dock bòra utfàrda en proklamation till national-vakten, genom hvil-ken han tackade densamma pà ett utmàrkt satt fòr sitt nit. Han utfàrdade ock en annan til den kring grànsande allmogen, hvari han hotar den med en total fòrstòrelse af deren hemvist, 0111 de àn ytterligare skulle gripa till vapen. Samma dag ankom en Engelsk parlementàr, for att afgira med Fàltherren om de blesserade kejserliges transport till hospi-talerna i Sestri di Ponente. Den 2 maj generai Massena hade beslutii att tidigt om morgonen attackera ostante è incomprensibile come non succedesse nessun disordine; perchè si seppe più tardi, per confessione del comandante di piazza, che solo ottanta Francesi rimasero in città e che tutto il servizio interno, compreso quello delle porte della città e sulle mura, fu fatto dalla guardia nazionale. Il 1° maggio il generale Massena credette dover pubblicare un proclama alla guardia nazionale, ringraziandola pel suo zelo; ne pubblicò poi un altro agli abitanti del contado, minacciandoli della distruzione totale delle loro abitazioni, se prendevano nuovamente le armi. Il medesimo giorno arrivò un parlamentario inglese, per trattare col comandante del trasporto dei feriti imperiali agli ospedali di Sestri Ponente. Il 2 maggio il generale Massena aveva stabilito di attaccare i luoghi del — 434 orterna Boschetto, Rivarolo och Coronata ; pà detta sednare stalle àgde de Kejserlige àtskilliga ka-noner pianterade en batterie; det lyckades Fransmannen i bòrjan, att under beskydd af elden fràn « le Tenaglie », bemàstra sig nàgra kanoner; men en colonn ankomne troppar och ett maskeradt batteri nòdgade dem att retirera med fòrlust af àtminstone 300 a 350 dòda och blesserade. Bland de fòrstes antal befann sig den i fransk tjenst varande cisalpinaren, brigad-generalen Fantuzzi, som saknades allmànt, sa vai fòr sina militàriske knushaper, och 2: ne dagar forut vid attacken af « li Due Fratelli », à dagalagda tapperhet och ofòrskràcta fòrhallande, som ock derfòre att alla Italienare ans a go sig i honom àga ett màktigt stòd hos de franska generalerna. Sàsom synnerligt far man an-màrka, att han agde till adjutanter 3 italienska poeter, hvilka alla i denna tràffning blefvo blesserade; denne attack hade generai Mas-sena fòretagit, emedan han trodde frenden fòrsvagat och modfàlld af dess 2: ne dagar fòrut lidna fòrlust, dà generella attacken mis-slyckades; den nu intràffade mot- Boschetto, di Rivarolo e di Coronata : in quest’ ultimo avevano gli Imperiali posti in batteria alcuni cannoni; al principio i Francesi riuscirono, sotto la protezione del fuoco delle « Tenaglie », ad impadronirsi di vari cannoni; ma una colonna di truppe in avanguardia ed una batteria mascherata li obbligarono a ritirarsi, con una perdita di 300 a 350 tra morti e feriti. Tra i primi si trovò il generale di brigata Fantuzzi, cisalpino, al servizio francese, che generalmente fu compianto tanto per le sue cognizioni ed il contegno coraggioso tenuto due giorni prima nell’ attacco dei « Due Fratelli » quanto anche perchè tutti gli Italiani lo consideravano come un appoggio potente presso i generali francesi. Come particolarità curiosa, si può ricordare che egli aveva per aiutanti tre poeti italiani, i quali furono pure feriti in questo combattimento (1). Quest’ attacco fu intrapreso dal generale Massena, che credeva il nemico indebolito e scoraggiato della perdita sofferta due giorni prima, quando gli era fallito l’attacco generale. Questo recente (1) Ugo Foscolo, Antonio Gasparinetti e Giuseppe Ceroni. — 435 — gang gjorde de belàgrade mycket nedslagne, och òkade missnojet, som bristen pà bsòd hos allmàn-heten och hos tropparna redan fòrorsakat. Denna brist var dock ànnu ej helt och hàllit verkan af all sàdens fortàring, utan af svà-righeten att fàden fòrmald, eme-dan handqvarnarne ej voro till ràcklige fòr àtgàngen; man fòr-minskade der fòre quantiteten af det bròd, som hoar invànare kunde kòpa, och utdeltes pà hvar person endast bròd till kòps fòr en styfver om dagen i stàllet fòr 2 styfvers-bròd, och det samma vàgde knappt ett halft uns. Den 3 maj ankom en bàt ifràn franska kusten, som hitfòrde generai adjutanten Reille, hoilden med-bragte depescher fòr generai Massena, som tillkannagàfva att reserv-armén och den vid Rhens-tròmmen voro redan i ròrelse alltsedan den 20 aprii, samt att den fórre redan tillrustade sig att inbryta i Italien, genom dàlden af Aosta. Man fik òfven veta att de Kejserliges kavalleri uppbrutit fràn trakten af Gavi, for att marschera màt Piemont. Fòljande dagen fòretogs nigenting pà nà-gondera sidan. insuccesso abbattè assai gli assediati, aumentando il malcontento causato dalla mancanza di pane per la popolazione e le truppe. Ciò non era però totalmente effetto del consumo del frumento, ma della difficoltà di macinarlo ; perchè i molini a mano non erano sufficienti per il consumo. La quantità del pane che ogni abitante poteva comperare fu diminuita, distribuendosi ad ogni persona un tozzo di pane da un soldo per giorno, in luogo di un pezzo di pane da due soldi; e quel tozzo pesava appena mezza oncia. Il ] maggio giunse una barchetta dalla costa francese, portando 1’aiutante-generale Reille, che recava dispacci al generale Massena, secondo i quali l’esercito di riserva e quello del Reno erano già in marcia dal 20 aprile, ed il primo si preparava ad invadere 1’ Italia per la valle di Aosta. Si seppe inoltre che la cavalleria imperiale si era messa in cammino dalle vicinanze di Gavi, per marciare verso il Piemonte. Nel giorno seguente non fu intrapresa alcuna cosa da ambe le parti. — 43 6 “ Den 5 maj recognoscerades pà òstra sidan af staden, hvarvid mellan fòr-posterne och de franske fòrefòll ett slags skàrmytsling ; man sàg fràn dessa trakter till staden inforas nàgra och 20 blesserade Fransmàn. Fòljande dagame var man stilla à bada sidor, och man talte i staden om intet annat àn de stegrade pris, hvartill lifsmed-len, i synnerhet spanmàlen, stigst, hvilken dag fràn dag mer och mer òkades. Den 8 maj fòre dag mingen, borjade 4 Neapolitanske kanonslupar och 2 : ne half- galàrer , som 2 : ne dagar fòrut fràn Livorno ankom-mit, fòr att òka engelska eska-dern, att gòra en nàgra tirnmar varande eld emot franska re-tranchementerna och batterierna vid Lanternan och i fòrstaden Sampierd’Arena; sàdant lyckades dem och till en del, àfvensom att skada nàgra hus, till dess de genom batterierna vid Lanternan, och 2 : ne korsàrers utlòpande ifràn Genua, blefvo nòdgade att draga sig tillbaka. Samma dag om aftonen gjorde fienden en Il 5 maggio furono fatte ricognizioni dalla parte orientale della città, nella quale avvenne una specie di scaramuccia tra gli avamposti nemici ed i Francesi; si videro da queste parti ricondotti nella città venti e più Francesi feriti. Nei giorni seguenti tutto fu tranquillo, e non si parlava nella città se non dei prezzi aumentati dei viveri, specialmente della farina, che cresceva di giorno in giorno. L’ 8 maggio all’alba, quattro cannoniere napo-litane e due mezzegalere, che due giorni prima erano arrivate da Livorno per aumentar le forze della flotta inglese, cominciarono a far fuoco per alcune ore contro le trincee francesi, le batterie presso la Lanterna ed il sobborgo di San Pier d’arena. In questo riuscirono in parte, come pure a danneggiare alcune case, finché dalle mentovate batterie presso la Lanterna, e per la sortita da Genova di due navi da guerra, furono obbligati a ritirarsi. Nello stesso giorno il nemico fece un movimento dalla parte orientale della città, ed una — 437 — ròrelse pà òstra sidan af staden, och en kolonn af ungefàrligen 1200 man medsteg fràn berget « Fascie » emot « la Sturla ». Man vàntade sig sàledes en attack foljande dagen. Den y maj inuan dagningen bòrjade ochs à afvannamde Neapolitanska latta fartyg att med bomber och hau-bitzer attackera trakten af Sturla, Bocca d’asino och Albaro. Tre landpalatser blefvo skadade, men ingen person hvarken af invànarne eller Fransmànnen, och bàda ar-mierna stodo orubbeliga i deras respektive positioner. Samma dag erhòll generai Massena rapport af en spion, som beràttade att generai Melas passerat Sassello med iiooo man ungerska trop-par, och att det sàg ut som ville han tàg inàt Piemont, for att mòta fàltherren Berthier, som fòregass vara redan emellan Susa och Turin med reserv-armén, hvarest han slagit de Kejserlige ur fallet. General Massena gai till och med officiel underràttelse hàrom till Regeringen, och man trod de verkligen dà, att denna de kejserliges ròrelse verkstàlldes fòr att hindra reserv-armén att colonna di 1200 uomini incirca scese dal monte Fascie verso Sturla, preparando così per il giorno seguente un attacco. Il 9 maggio cominciarono le suddette navi leggere napolitane ad attaccare con bombe ed obici i siti vicino a Sturla, Boccadasse ed Albaro. Tre ville furono danneggiate , ma nessuno degli abitanti nè dei Francesi ebbe a soffrire danno, ed ambedue gli eserciti restarono immobili nelle loro rispettive posizioni. Nello stesso giorno il generale Massena ricevette un rapporto da una spia, che notificava come il generale Melas era passato per Sassello con 11,000 uomini di truppa ungherese, e che pareva volesse entrare in Piemonte per incontrare il generale Berthier. Correva voce che questi fosse già tra Susa e Torino coll’esercito di riserva, col quale aveva messo in fuga gli Imperiali. Il generale Massena ne diede comunicazione ufficiale al Governo, e si credette allora in verità che questo movimento degl’ Imperiali fosse eseguito per impedire all’ esercito — 438 — framkomma; men man har seder- I di riserva d’avanzarsi; ma più mera fatt veta att baron Melas tardi si seppe che il barone Melas dà begaf sig mot Nizza hoarest allora si recava verso Nizza, dove handref franska generalen Suchet respinse il generale francese Su-tillbaka ànda till strommen Varo. chet fino al Varo. Den io maj fick man underràltelse att en kejserlig corps af 1500 man passerat « la Bocchetta », fòr att begilva sig inàt Piemont; men denna ròrelse fòrminskade icke blockeringens strànghet, ty de insurgerade bònderne, hvilkas generai Assereto befann si<^ i . ^ Romairone, uppfylde de stàllen som blefvo lediga genom trop- parnas bortgàng. Samma dag ombytte generai Massena tvenne medlemmar i Regeringen, nem- ligen PaulCelesia ochStrafforello, som blefvo ersatte med Emanuel Gnecco och Boccardo. Man hòrde hela dagen fiera kanonskott fràn Savonas fàstning; sedanfick man veta att densamna just den dagen capitulerat. Den 11 ma] generai Massena hade beslutitt att gòra ett utfall, fòr att om mojligt vore, fòrskaffa sig lifs medel. I sàdant afseende, sedan Il 10 maggio si ebbe la notizia che un corpo imperiale di 1500 uomini aveva passata la Bocchetta, per ie-carsi in Piemonte; ma questo movimento non diminuiva il rigore del blocco, poiché i contadini insorti, che si trovavano col generale Assereto a Romairone, riempivano i posti rimasti vuoti dalla partenza delle truppe. In questo giorno il generale Massena cambiava due membri del Go verno, cioè Paolo Celesia e Stiaf forello, i quali furono sostituiti da Emanuele Gnecco e Boccardo(i)-Si sentirono tutto il giorno cannonate della fortezza di Sa vona; si seppe poi che precisa mente quel giorno essa aveva capitolato. V 11 maggio il generale Massena aveva sta bilito di fare una sortita per procurarsi dei viveri, se fosse possibile. Per questo fece suonare a (1) Antonio Boccardo. — 439 — han làtit sia aliami och satt national-gardet under vapen, en fòrsigtighet som han aldrig un-derlàt vid sàdana till fallen, làt han kl. 4 om morgonen generai Miollis attackera berget Fascie. Redan voro tvenne hòjder intagna; och dà den tredje skulle bestor-mas, tycktes soldaten ej vara der till sàrdeles hàgad, emedan han hvarken agde vin eller kòtt, och knappt halfration bròd. General Miollis blef sàledes nòdsakad att retirera, och man ansàg i Genua fòrsòket sàsom misslyckadt, dà fàltherren, som sjelf dirigerat detta anfall, dragit troppen tillbaka ànda inunder stadens murar, hvarest han stallde sig att hvila. Men i det samma far han veta att generai Soult, som innan dagningen utmarscherat fràn « lo Sperone » med 4500 man, och sedan han tàgat làngs stròmmen Bisagno, uppàt dess kàlla, attacke-rad fienden vid Creto, fòrdrifoit honom, och passerat stròmmen vid Cavassolo, fallit pà dess flank vid bergsklyftan « Serra di Ba-vari», och vid « monte Castellare », hvarest han nòdgat en màngd fienden att lagga ned gevàr; Massena och Miollis àtertogo dà deras attack ; och det lyckades dem ej allenast att bemàstra sig raccolta ed armare la guardia nazionale. Prese una precauzione che non è da tralasciare mai in tali circostanze, e fu di far dar P attacco al monte Fascie dal generale Miollis alle ore 4 ant. Due alture erano già prese ; e quando si doveva attaccare la terza, parve che i soldati non vi fossero molto bene disposti, perchè non avevano nè vino, nè carne, ed appena una mezza razione di pane. Il generale Miollis fu perciò obbligato a ritirarsi, facendo nascere in Genova l’opinione che il tentativo fosse andato a vuoto. Il comandate stesso dirigeva questo attacco, e ritirava la truppa fin sotto le mura della città, dove si fermò a riposare. Ma nello stesso momento seppe che il generale Soult, il quale al-l’alba era uscito dallo Sperone con 4500 uomini, passando lungo il torrente Bisagno fino alla sua foce, aveva attaccato il nemico presso Creto, scacciandolo ; e quindi, passando di nuovo il torrente presso Cavassolo, presolo di fianco presso il burrone della Serra di Bavari e presso il monte Castellaro, costringeva un 21'an numero di Imperiali a consegnare le armi. Massena e Miollis ripigliarono il loro — 44° — attacco, e riuscirono non solo ad « monte Fascie », utan ock « la Cornua », samt òppna sig vag ànda till Nervi och Sori. Genom denna operation bemàktigade Fransman-nensig ungefàrligen 3000 fàngar, och en stor myckenhet lifsmedel, hvaribland en màngd kalfvar : hvilket var sà mycket mera fà-gnesamt fòr Genuas invànare, som altt godt kòtt redan sack-nades, och man redan slagtat nàstan alla nòtkreatur, so n funnos i staden. Fastàn hoart mos kalf-kòtt kostade 6 soldi, var man dock nojd att komma erhàlla det. Den 12 maj ville vài franska tropparna trànga vidare ut pà ostra sidan af staden; men funno fienden, som fòrut flytt, nu i styrka samlad vid Sori, hvarfòre de ej hòlla ràdligt att fòr Jàngt utstràcka deras linie, utan retirerade sig till Albaro, och de dertill nàstgrànsande postema. Dà nu detta fòrsòk sà vài lyckats fòr Fransmànnen, och forskaffat dem en tillgàng pà lifs medel som de hittills saknat, upp muntrades de att àn ytterligare sàdant fòretaga. General Massena viste att i Portofino ett rikt ne-derlag fanns aflifs medel; anmade impadronirsi del monte Fascie ma anche della Cornua, ed aprirsi la strada fino a Nervi ed a Sori. Mediante questa operazione i Francesi s’impadronirono di circa 3000 prigionieri e di una grande quantità di viveri, compresi molti vitelli: il che tanto più era grato agli abitanti di Genova, che sentivano difetto di carne buona, avendo di già macellato quasi tutto il bestiame che era nella città. Sebbene la carne di vitello costasse sei soldi circa all’oncia, si era contenti di poterne avere. Il 12 maggio le truppe francesi volevano veramente spingersi più oltre dalla parte orientale della città ; ma trovarono che il nemico, il quale prima era fuggito, ora avea raccolte le proprie forze presso Sori; perciò non ritennero opportuno di estendere troppo la loro linea, ed invece si ritirarono ad Albaro e nei posti vicini. Siccome questo tentativo era riuscito tanto bene ai Francesi, provvedendoli di viveri, essi furono incoraggiati ad intraprenderne altri simili. Il generale Massena sapeva che a Portofino si trovava un ricco — 441 — derfòre begifva sig dit, men maste fòrst hafva ryggen fri, hvilket varit honom gemska làtt, om han kunnat bemàkliga sig den betydliga posten eller hvjden vid « monte Creto », sedan han redan agde dem vid v monte Fascie » och Cornua. Monte Creto ar ett berg, belaget omkring en svensk mil n. o. fràn « il Diamante » , pà nastan lika làngt afstand fràn stròmmarne Scrivia och Bisagno. General Massena kunde ikke med sekerhet vàga nàgon attack emot sjòsidan, sà lànge denna sednare kunde dà hafva couperat dess àtergàng till staden. Den mai klockan 9 om morgonen, atta-ckerades sàledes, under Genera-lerne Soults och Poinsots befàl, de kejserlige retranschementerne pà bemalte hòjd. Ut 0111 att bjuda till att kunna proviantera sig afven ifràn Polcevera, hade denna attack till fòre mal att coupera fiendens communication med « la Bocchetta ». I bòrjan tycktes Frans-mànnens anfall hafva den lyckli- deposito di provvigioni; risolvette perciò di recarvisi, ma doveva prima tenersi libere le spalle, il che gli riusciva molto facile se poteva impadronirsi dell’ importante posizione di monte Creto, tenendo già quelle dei monti Fascie e Cornua. Il monte Creto è situato circa un miglio svedese al nord-est del monte Diamante, ad eguale distanza dai torrenti Scrivia e Bisagno (1). Il generale Massena non poteva arrischiare un attacco con qualche sicurezza verso la parte del mare , finché questo posto si trovava nelle mani del nemico, perchè questi avrebbe potuto tagliargli il ritorno in città. Il 13 maggio alle ore 9 ant. furono perciò attaccate le trincee imperiali sull’altura suddetta, sotto il comando dei generali Soult e Poinsot. Questo attacco non aveva solo lo scopo di tentare di approvvigionarsi da Val Polcevera, ma anche di tagliare la comunicazione del nemico con la Bocchetta. In principio pareva che l’attacco dei Francesi avesse il (1) Corr. dal fiume Scrivia e dal torrente Bisagno. — 442 — gaste framgàng, ty 3 redonter voro redan intagna, och Frans-mànnen befun no sig redan i de Kejserliges làger. Ett starkt regn soni infòll, och en betydlig colonn, som under generai Gottesheims anfòrande ankom till hjelp àt de Kejserlige, gjorde snart Fransmàn-nens fòrdelar till intet, och nòd-gade dem i oordning att retirera, sedan de fòrlorat 2 à 300 fàngar, 50 à 60 dòde och ungefàrligen 150 blesserade; bland desse sed-nares antal befann sig den tappre gen. lòjtnanten Soult, som ifràn belàgringens bòrjan haft de svà-raste och betydligaste bedrifter mot fienden , och hvilken med ett ofòrskrackt mod och mycken kòld forenade stora militari ska knuskaper, hoarpà han ej allenast hàr, utan ock i Schweitz àdaga-lagt òfverty gande bevis. Dà han sett sin tropp gifva efter och retirera vander han sig fòrgàfves till sina soldater , tilltalar de flyande, vili stalla i ordning de quarblifvande, kastan làngt ifràn sig sin hatt och sin a hederstecken « Jag » ropar han, « jag sjelf » gàr i spetsen fòr eder, mina » bròder, ja, jag gàr helt ensam » om I òtvergifven mig » ! Men just i det samma han ville verk-stàlla hvad han sagt, kommer en più felice esito, essendo già stati presi tre ridotti, e trovandosi già i Francesi medesimi nel campo degl’imperiali. Ma una forte pioggia, che sopravvenne, e l’arrivo di una numerosa colonna sotto il comando del generale Gottesheim in aiuto degli Imperiali, annullò presto i vantaggi dei Francesi obbligandoli a ritirarsi in disordine, dopo aver perduti 300 prigionieri, 50 a 60 morti e circa 150 feriti; fra i quali ultimi eravi anche il valoroso tenentegenerale Soult, che dal principio dell’ assedio aveva avuto gli uffici più difficili ed importanti e dimostrato insieme grande coraggio , molto sangue freddo e grandi cognizioni militari, di cui in Svizzera aveva già dato molte prove. Vedendo i suoi soldati cedere e ritirarsi, si rivolge loro invano , incoraggia i fuggenti, vuol riordinare i rimasti, e gettando lontano da sè il cappello-coi distintivi del grado, grida: « Io stesso andrò alla vostra testa, compagni, sì, andrò anche solo, se voi mi abbandonate » ! Ma nel momento che voleva effettuare il suo proposito, una palla di fucile gli spezza il ginocchio destro, facendolo cadere da cavallo; la truppa perciò scoraggiata - 443 — muskòtkula, som sonderklof hans hògra lena, och nòdgade honom att falla af hàsten; troppen he-rigenom meràn fòrr nedslagen, drager sig tillbaka med fordub-blad snabbhet. Fyra granadòrer transporteraemedlertid sin tappre generai ur fiendens làger, men som plàgorna af dess blessyr fòrokades genom dess transpor-terande, och fienden mer och mer tràngde pà, sa àstundade bemàlte generai att blifva qvar-lemnad pà valplatsen, sagande till soldaterne: « Fràlsen eder, mine bròder, i skulle forgafves fòrsvara mig » ban blef sàledes fàngen. Hans bror och adjutant, samt secreterare gàfvo sig sjelve til fànga, fòr att kunna skòta honom. gen. adjut. Gauthier och brigad generalen Darnaud blefvo àfven vid detta tillfàlle farligen bles-serade. Dà Massena horde tidmin-gen af General Soult àndalykt, utropade han med ett slags fòrt-viflan : « J’ai perdu aujourd’hui » l’ami et la victoire ». Den 14 maj om natten sàgo 5 a 6 bomber fràn bombardersluparna afskjutas mot staden, men ingen enda at dessa hanm inom murarna. più di prima si ritira nel massimo disordine. Quattro granatieri trasportano intanto il valoroso generale lontano dal campo nemico, aumentando però così i dolori delle sue ferite ; ma spingendosi sempre più il nemico innanzi, egli vuol rimanere sul campo di battaglia e dice ai soldati: « Salvatevi, compagni, invano mi difendereste » e ha fatto prigioniero. Suo fratello, che era suo aiutante di campo, ed il suo segretario, furono pure fatti prigionieri, non avendo voluto abbandonarlo. L’aiutante-gene-rale Gauthier ed il generale di brigata Darnaud furono anche gravemente feriti in questa occasione. Quando Massena ebbe la notizia della disgrazia toccata al generale Soult, esclamò: « J’ai perdu aujourd’hui l’ami et la victoire ». Il 14 maggio nella notte si videro da 5 a 6 bombe gettate dalle cannoniere verso la città, ma nessuna giunse entro le mura. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2° 29 — 4-14 ~ Den i ) maj. I dag upphòrde brodforsàljnin-gen alldeles i publika bagerierna, och utdettes àt de fattiga soppa af àrter, bònor, gràs, ròtter, m. m. Hvete som fòrut varit utblan-dadt med kli, och pà sàdant sàtt anvàndt till bròdbakning forsvann aldeles, sedan Regeringen ofòrsig-tigtvis udfàrdat enfòrordning som pàbòd husvisitationes till sàds od miols upp tackande, och 1 dess stalle maldes mjòl af majs, kikàr-ter utblandat med stàrkelse, ag- * & nar, puder, kattstenpulver m. m. verkan af denna mindre sunda fèda fòrspordes dagligen. Epide-mien och uselheten tilltogo, och Aere personer funnos dòda pà gatorna. Den 16 maj om natten anlànde en bàt ifràn Frankrike, som medfòrde de-pescher till generai Massena, hvilka gafvo hopp om reserv-armén snara ankomst till Piemont, samt medelbara under ràttelser om franska arméns framgàng vid Rhenstrommen, som generai II 1 ; maggio. Oggi cessò totalmente la vendita del pane nelle botteghe pubbliche, ed ai poveri si distribuirono minestra di piselli, fagiuoli, erba, radici ed altro. Il frumento, mescolato prima con della crusca, ed in questa guisa adoperato per la cottura del pane, mancò totalmente, perchè il Governo aveva imprudentemente pubblicato un decreto che ordinava visite nelle case per iscoprire frumento e farina ; ed in luogo di questo si macinavano granturco, ceci mescolati con amido, paglia, polvere di riso, di pietra, ecc. L’effetto di questo nutrimento poco sano si sentiva giornalmente. L’epidemia e la miseria aumentarono, e diverse persone furono trovate morte pei le strade. Il 16 maggio nella notte arrivò dalla Francia un battello che portava dispacci al generale Massena, i quali davano speranza del prossimo arrivo dell’armata di riserva in Piemonte, e notizie indirette dei progressi dell’ armata francese sul Reno , che il Generale Moreau aveva — 445 - Moreau passerat, och pà andra sidan slagit tìenden ur fàllet. Den iy maj om natten bòrjade, vid pass kl. 12, en starle bomb-och haubits-kastning fràn sjòsidan, som va-radetil kl. 5 om morgonen. Ehura stòrre delen af bomberna ej hunno inom stadens murar, fòrorsakade denna pàhelsning en stor fruktan bland stòrre delen af stadens in-vànare, som bodde nàra stranden, hvilka fòrfogade sig till bòjderna, och de fràn sjòsidan mest aflàgsna stàllen. Ingen af stadens invànare blef skadad, men 2 : ne af de fàngne kejserlige officerare hade genom ett ifràn en bomb afspningt stycke blifvit lindrigt blesserade, hvartòre de och anhòllo att fòr framtiden blifva transporterade till nàgon plats, der mindre fara | vore. Dagningen gjorde snarare att bombarderingen upp hòrde, àn tàstningsbatteriernas eld. Den iy maj. Dà nu mera brod ej en gàng af de rike kunde fòr penningar erbàllas, blef Regeringen nòdsakad att àterkalla sitt decret i anseende till husvisitationerne (hvilket ge- passato mettendo in fuga il nemico. Il 17 maggio verso mezzanotte cominciò dalla parte del mare un forte bombardamento con bombe e obici, che durò fin alle ore 5 ant. Sebbene la maggior parte delle bombe non entrasse nelle mura della città, pure questo saluto causava una grande paura alla maggior parte dei cittadini dimoranti vicino alla spiaggia, i quali si trasportarono verso le alture ed i luoghi lontani dalla costa. Nessuno degli abitanti fu danneggiato, ma due degli ufficiali imperiali prigionieri furono feriti leggermente da un pezzetto di bomba, per cui chiesero di essere trasferiti dove ci fosse meno pericolo. Allo spuntar del giorno si fece cessare il bombardamento delle batterie della fortezza. Il i(j maggio. Siccome nemmeno i ricchi potevano più avere pane per danari, il Governo fu costretto di revocare il decreto riguardo alle visite delle case (che subito ebbe — 446 — nast medfòrde den verkan , att bròd erhòlls, fastàn till ett òfver-drifvit pris), samt utfàrda de ett annat, hvarigenom det àlades de fòrmògne, att efter en af kyrko-herdarne fòrfattad lista, hoardag * O utdela till hvarje fattig hunsfada 16 soldi, och àt de ensamme personer io soldi. Enligt denna lista, besteg sig antalet af de all mosetagan de till 36000 personer, hoilka erhòllo biljetter pà de bus som borde lemna den utsatta summan till deras uppehalle. Denna tvag, sà hògst farlig i sin princip, dà den gaf privilegium àt den fattige att sjelf utkràfra contributioner af de fòrmògne, blefànnu fòrder fligare genom det missbruk som atfòljde listor-nas fòrlattande, hvilka merahaft till fòremàl att kòpa partisaner af Regeringen och generai Mas-sena (òfver hvilka bàda man nu allmànt knotade), àn att lisa de usligas behof. Som generai Massena ocksà i detta ògoublick, genom militarisk execution, utkrafde resten af den hàr olvon fòre omtalta, fòr arméns behof àlagda contri-bution af 500,000 Franska lire, och man ansàgh ans hàrvaro sàsom orsaken till invànarnes lidande af sjukdom, hunger, bomber och contributioner, utan att 1’ esito di far aver del pane, sebbene a prezzi esorbitanti), pubblicandone invece un altro che obbligava i facoltosi, secondo una lista fatta dai parroci, a dispensare ogni giorno 16 soldi ad ogni povero padre di famiglia e 10 soldi ad ogni persona povera. Secondo questo elenco, il numero dei poveri ammontava a 36,000 persone, le quali ricevevano biglietti da quelle case che dovevano pagare la somma suddetta per 11 loro mantenimento. Questo mezzo tanto pericoloso in principio, poiché dava al povero il privilegio di esigere contribuzioni dai facoltosi, fu ancora più dannoso per l’abuso che seguiva nella compilazione delle liste, le quali avevano più lo scopo di guadagnare partigiani al Governo ed al generale Massena (contro i quali era generale il malcontento), che di mitigare i bisogni dei miseri. Siccome il generale Mas-sena anche in questo momento, mediante esecuzione militare, esigeva la sunnominata contribuzione di 500,000 lire francesi per i bisogni dell’armata, e si riguardava poi la sua presenza come causa delle sofferenze degli abitanti , delle malattie, fame, bombe e contribuzioni, e non s’ aveva - 447 — det en gang abestraffadt var till àtit att nànma ordet capitulation, sa voro missnojet och fòrtviflan bragte till en hòg grad ; men detta òkades annu mera, dà den 20 maj, efter midnatten, en ny bom-bardering af Engelsmannerne tore togs, som varade till dagningen, dà man fik veta att engelska sluparne bemàktigat sig genue-siska galàren, som forgafves sokte tillika med nàgra franska korsarer vid appningen af hamnen att bortdrifva bombarder - sluparna, Denna natten hade bomberna och kulorna blifvit kastade med sà mycken kraft, att de anlandt till de ifràn sjòn aflagsna poster, och àfven dòdat flere personer. Detta spektakel blef fór den som skrifver denna beràttelse, àfven sà rorande, som det blef fòr honom person-ligen obehagligt, dà en bomb nedslog i ett hus gent emot dess boning, spràngde fònstren med luckor och galler, och i hanskam-mare àfven inslog alia rutor, drif-vandes glasbitarne till och med i sàngen der han lag inslumrad, med den òfvertygelsen, att som det hus han bebor àr knapt 200 steg aflàgset fràn sjòvallen, kulorna nemmeno il permesso di pronunciare la parola capitolazione, il malcontento e la disperazione crebbero straordinariamente; ma aumentarono ancora di più quando, il 20 maggio, dopo mezzanotte, gli Inglesi cominciarono un nuovo bombardamento che durò fin all’ alba. Si seppe poi che le navi inglesi si erano impadronite d’una galera genovese, la quale invano aveva tentato, insieme con alcuni corsari francesi, alla bocca del porto, di cacciare le cannoniere. In questa notte le bombe e le palle furono lanciate con tanta forza, che arrivarono nei luoghi più lontani dal mare, ed uccisero anzi diverse persone. Questo spettacolo fu, per chi scrive questa narrazione, tanto commovente quanto per lui personalmente spiacevole. Essendo caduta una bomba in una casa proprio dirimpetto alla sua abitazione, furono scassinate le finestre colle imposte ferrate, si ruppero anzi nella sua camera tutti i vetri e i pezzi furono scaraventati fino al letto dove egli stava addormentato. Gli pareva che, essendo la casa da lui abitata appena 200 passi dalle mura verso — 448 — skulle gà fòrbi langre in i staden, hvilket de ock vanligen merendels gjorde. Ofvertygelsen som man fick, att det ej mera befans i staden nàgon sàker ortder man ej af bomber knude tràffas, och nationela mùsnojet och nedslagen heten òfner galàrens fòrlust, sà till sagande enda òfverlefvan af Genuas i forntiden sà respektabla sjomakt, gjorde att generai Mas-sena publikt insulterades af pòbeln och quinnor, fastàn han sjelf fòr-ledne natt lopp lifsfara genom en bombs creverande knappt 30 steg fràn det stàllet hvarest han med sin generalstab passerade ; hvilka alla blefvo nòdgade att kasta sig framstupa, fòr att minska faran som genom bombens eclaterande knude àstadkommas. Galàren sa-des i synnerhet derfòre hafva blifvit tagen, att galàrslafvarne ej velat gòra sin skyldighet, utan likasom genom conspiration ofver-lemnat galàren àt de Engelska. Den commenderades af den of-vannàmde Bavastro, som fàtt befàlet dagen fòrut, och var vid galàrens òfvergàng nog lycklig att genom simmande komma i land, och der in ed fràlsa sig fràn fàngenskap. il mare, le palle dovessero passargli sopra. Così facevano la maggior parte. La convinzione che non esistesse più un luogo sicuro dove le bombe non potessero colpire e il malcontento e la costernazione nazionale per la perdita della galera, reliquia della passata potenza marittima di Genova ora così miseramente ridotta, mossero la plebe ad insultare il generale Massena. Egli stesso , nella precedente notte , corse pericolo a causa di una bomba caduta appena 30 passi dal luogo dove passava col suo stato maggiore; tutti furono obbligati di gettarsi a terra, per diminuire il pericolo che lo scoppio della bomba poteva recare. Corse voce che la galera fosse stata presa specialmente per ribellione dei galeotti, e che appunto questi l’avessero consegnata agl’ Inglesi. Essa era comandata dal già nominato Bavastro, cui ne era stato dato il comando il giorno prima. Egli fu abbastanza fortunato, alla resa dalla galera, di potersi salvare dalla prigionia ritornando a terra a nuoto. — 449 — Den 2i maj. Till att fòrhin dra verkan af utbrott af folkets missnoje, ut-fàrdades ett stràngt fòrlend, till och med under hotelse af lifs straff fòr dem som vàgade insulterà fàltherren och Fransmannen: och till sà mycket stòrre sàker het làt generai Massena franska troppar bivaquera pà de fòrnamsta torg och platser, samt bestàn di ga patruller bàde af desse och af national gardet (som stàndigt var under vapen) marschera pà gator och grànder. Regeringen àgde dessutom i hvart quarter af staden vissa hemliga utskickade, hvilkas instruktioner voro, att genast utan formalitet dòda dem som sòkte att reta till uppror genom verkliga facta. Redan hade sol-daternas ration af bròd blifvit minskad fràn 24 till 3 nus om dagen, och det bròd som dem tilldeltes, bestod i en blanning af agnar, kli, kackao, och sònders-tòtta mandlar, till hvilkas samm an hàllande, fòr att ej sònders-mulas, man hade till satt honing. Denna dag bòrjade man òtven att sàlja hàst och àsne-kott, samt afven ut dela det bland tropparna. Il 21 maggio. Per evitare lo scoppio del malcontento nel popolo , fu pubblicato un divieto severo, ed anzi fu comminata la pena di morte a chi osasse insultare il comandante ed i Francesi. Il generale Mas-sena, per maggiore sicurezza, fece oltracciò bivaccare le truppe francesi sui mercati e sulle piazze principali, e perlustrare delle pattuglie (sia francesi, sia della guardia nazionale) le vie ed i vicoli. Il Governo teneva inoltre in ogni quartiere della città certi segreti emissari, che avevano per istruzione di uccidere senza formalità chi tentasse di provocare la ribellione con atti palesi. La razione dei soldati era stata diminuita da 24 a 3 onde al giorno, ed in luogo di pane si distribuiva loro una miscela di colla, crusca, cacao e mandorle peste, cui si aggiungeva del miele perchè si tenesse compatta e non si sbriciolasse. In questo giorno si incominciò a vendere carne di cavallo e di asino, ed anche a distribuirne alla truppa. — 45° — Den 22 maj om morgonen sànde engeìska amiralen en parlementàrslup i land, som tillkànnag af att han ej ville belasta sig med vàrden af de pà galàren befinteliga brott-lingar; och dà Regeringen nekade att dem emottaga, làt amiralen tillsàga att han i sàdan hàndelse hade beslutit att debarkera dem pà genuesiska kusten, hvilket fòr-màdde Regeringen att emottaga dem. Denne dag hade ocksà om morgonen en bàt anlàndt ifràn Antibo, som medfòrde generai adjutanten Orticoni med depes-cher fràn gen. lojtnanten Suchet till faltherren Massena, hvilka tillkanna gàfvo att den forre nòd-gats retirera sig fràn Nizza, som nu var occuperadtaf de Kejserlige, men till mildring i hvad denna tidning, sàsom oangenàmt medfòrde , beràttade bemàlte gen. lojtnant sig hafva haft bref ifràn fòrste consuln Buonaparte, under dato af den io i denna mànad, fràn Genf, med fòrsàkran att han den 30 i samma mànad skulle befìnna sig med reserv-armén i Ivrea ; sàdant lemnade vài nogon tròst, men nòden var sà stor, och hjelpen sà snart nòdig, att Genuas invànare ej vàgade hoppas II 22 maggio sul mattino 1’ ammiraglio inglese mandò un battello parlamentare a notificare non voler egli assumersi il peso dei galeotti; e, quando il Governo rifiutasse di riceverli, 1’ammiraglio faceva dire che aveva stabilito di sbarcarli sulla costa genovese. Per questo motivo il Governo si risolvette ad accettarli. Lo stesso giorno arrivò anche un battello da Antibo, coll’aiutante-generale Orticoni e dispacci del tenentegenerale Suchet al comandante Massena. Avvisavano che il primo era stato costretto di ritirarsi da Nizza, ora occupata dagl’imperiali; ma, per raddolcire il dispiacere che questa notizia recava, dicevano pure esser venuta lettera dal primo console Buonaparte, in data del 10 corrente da Ginevra, in cui assicurava che si troverebbe ad Ivrea coll’ esercito di riserva il 30 dello stesso mese. Questo dava bensì qualche consolazione, ma la carestia era tanto grande e il bisogno d’ aiuti cosi urgente, che gli abitanti di Genova non osavano sperare di poter attendere le conseguenze dell’ arrivo di questo esercito, di cui si dubitava ancora che fosse reai- - 45 att kunna afvakta faljderna af denne armés ankomst om hvars verkliga af marsch och mojlighet att kunna passera Alperna, man ànnu tifvlade. Den 2} maj nalkades engelska skeppen nà-got fòr nàra harvarande strand batterierna, hvarfòre ock desse aflassade en màngd kanonskott mot dem, afhvilka nagra tràffade seglen af engelska amiral-skep-pet, och andra ett litet bevàpnadt fartyg, som blef nòdsakadt att lata sig bogsera sig fràn iandet. Amiralen fortretad hàrofver, làt e. m. bombarder-sluparne kano-nera fòrstaden San Pier d’ arena, hvarest mycken skada tillfogades fiera hus, och hvilken bombar -dering àfven kostade 3 fiskare lifvet. Den 24 maj. Denne sà vài som fòljande dagen voro frie fràn alla krighàn-delser, och sà lugna, som bland dòd, hunger, allmànt elànde och fruktan far vàld och insurrektion kunde vara ; man trodde att En-gelsmànnens afsigt med bombar-deringen blott varit den, att sòka mente in marcia e potesse passare le Alpi. Il 2 j maggio le navi inglesi s’avvicinarono un poco troppo alle batterie della riva, le quali spararono moltissimi colpi contro di esse. Alcuni colpirono le vele della nave ammiraglia, ed altri un piccolo bastimento armato che fu costretto a farsi rimorchiare alla costa. L’ ammiraglio, inasprito dalle cannoniere, fece cannoneggiare nel pomeriggio il sobborgo di San Pier d’arena, dove recò gran danno a diverse case, e tre pescatori perdettero la vita. Il 24 maggio. In questo giorno, come anche nel susseguente, non vi furono fatti di guerra, e si passarono come era possibile fra morte, fame, miseria generale e paura di violenze ed insurrezioni ; poiché si credeva che lo scopo degli Inglesi col bombardamento fosse - 452 - àstad komma miss nòje bland allmànheten, och utbrott af en insurrektion, men hoppades, att dà verkam hàraf ej blifvit sàdan, man hàdanefter i lugn skulle fa tillbringa nàtterna ; nadan fòre befinnas huru falskt man kalku-lerade Den 26 maj. Giorde Franmannen en ròrelse i hela deras linie pà òstra sidan, emedan rapporter inlupit, att den fiendtliga styrkan der fòrminskats; nàgra skàrmytslingar fòrefòllo bland fòrposterna, men eljest utan nàgon fòràndring i de kri-gandes positioner. Den 27 maj om morgonen ankom under stor farà, att àfven under strand batterierna blifva tagen af de En-gelska, en bàt fràn Frankrike, som hitfòrde den generai Massenas adjutant Franceschi, hviìken Mas-sena vid bòrjan af blockeringen till Buonaparte afsàndt ; dennes medbragte depescher voro mycket hugneliga och smicknande fòr Genuesarne, och lofvade snar hjelp sanut uppnumtrade till up-poffringar, mod , stàndaktighet stato solo quello di tentare di spargere il malcontento tra il popolo, o almeno di far passare le notti inquiete; ma più sotto si vedrà come il calcolo fosse sbagliato. Il 26 maggio. I Francesi fecero un movimento su tutta la loro linea dalla parte orientale, perchè giungevano rapporti che la forza del .nemico ivi fosse diminuita; successero alcune scaramuccie tra gli avamposti, ma senza alcun mutamento nelle posizioni dei belligeranti. Il 27 maggio di mattina arrivò, con gran pericolo di essere preso dagli Inglesi, sotto le batterie della riva un battello dalla Francia coll’aiutante Franceschi, che il generale Massena aveva inviato nel principio del blocco al Buonaparte; i dispacci da lui portati erano molto confortanti e lusinghieri pei Genovesi, promettendo presto aiuto e facendo eccitamenti al sacrifizio, coraggio, costanza e pazienza; ma non bastavano più - 453 - och tàlamod ; men man afspides har nu ej mera med lòften, och hoppet om ràddning, som eljest sà sàllan ofvergifver de olyckliga, tycktes ej hafva fàstat sig vid nàgot annat an vid en capitulation. Ramde officer sade sig hafva lemnat Buonaparte vid berget Le Grand Saint-Bernard ; dessa fòr-sàkringar som generai Massena Aera gànger erhàllit, lorde honom att tro det de Kejserlige nòd-vàndigt borde ofveigifva blocke-ringen, eller àtminstone fràn densamma làta draga en betydlig styrka fòr att motstà reserv-armén, hoilken nalkades ltalien. Han làt derlòre, den 28 maj, gòra en generai recognoscefing pa hela den kejserliga linien, utan att àga nàgon pian till vidare attack an den, att om han be-fann fienden fòrsvagad, dà angripa och fòrf polja homurn. Sàdant venk stalla des fràn fastningarna il « Diamante », « monte dei Ratti », och mot sjòsidan mot Nervi. Om morgonen kl. 5 hade han utan sàrdeles motstànd bemastrat sig den sà mànga gànger af bada de krigande intagna och òfvergifna positionen Monte Fascie, och le belle parole e le promesse, mentre non c’era più altra speranza che quella di una prossima capitolazione. Il suddetto ufficiale diceva d’aver lasciato il Buonaparte al monte Gran San Bernardo. Questo, che era stato più volte ripetuto al Massena, fecegli credere che gl’ Imperiali sarebbero necessariamente costretti a cessare il blocco, oppure ritirarne forze considerevoli per poter resistere all’ esercito di riserva che s’avvicinava all’Italia. Egli fece perciò, il 28 maggio, una ricognizione generale su tutta la linea imperiale, senza altro piano che quello di aggredire ed inseguire il nemico nel caso che lo trovasse indebolito. Questa fu eseguita dalle fortezze del Diamante e del monte de’ Ratti e sulla riviera verso Nervi. Alle ore 5 ant. aveva preso senza resistenza la posizione del monte Fascie, tante volte presa e ripresa da ambedue i belligeranti, ed i Francesi si spingevano fino alla costa di Sori, malgrado il fuoco delle — 4)4 — oaktadt Engelska kanonsluparnas eld, tràngde Fransmannen utmed stranden frani till Sori; menda de Kejserlige, som verkligen pà denna trakten fòrminskat antallet af deras troppar, fòrmàrkt att Fransmannen derg jorde framsteg, detascherande de fràn deras làger i Creto en stor corps, som sòkte afskàra Fransmannen retràtten ; del lyckades dock fòr desse sed-nare att kunna àterkomma till deras positionner, och àfven med sig fora ungefàrligen 80 fàngar, men sadant kostade mog man spil-lan à deras sida, sannt beròfade dem generai Darnauds vid are tjenst, som blesserad i làiet, blef nòdsakad att lata afskara delsam-ma. Man omtalade mindre se-neral adjutanterne Huards och : Hectors vid detta tillfàl le erhàll-na farliga blessurer, àn generai ; Darnauds olycka, emedan denne sednare altt sedan bataljen vid Novi stàndigt commenderat avant-gardet pà òstra sidan af Genua, och sà vài under gener. Moreaus och St. Cyrs, som under generai O Massenas ófverbefàl alttid àdaga-lagt prof af hjeltemod och skic-klighet. General Massena fann dock af detta fòretag, att fienden ' var annu med samlad styrka i ! mjden af Genua; och fastàn han J cannoniere inglesi; ma quando gl’ Imperiali, i quali in verità avevano diminuito il numero delle loro truppe da questa parte, si accorsero che i Francesi facevano progressi, distaccarono dal loro campo a Creto un grosso corpo che tentò di tagliare loro la ritirata ; i Francesi però riu scirono più tardi a ritornare alle loro posizioni, ed anzi a portar seco 80 prigionieri circa; ma questo causò loro una perdita di uomini, mettendo fuori combattimento il generale Darnaud, che ferito ad una coscia fu costretto a farsela amputare. Produssero minore impressione le ferite toccate agli aiutanti-generali Huard e Hector, che non la disgrazia del generale Darnaud, perchè questi dalla battaglia di Novi aveva sempre comandato l’avanguardia nella parte orientale di Genova, e date prove di eroico coraggio ed abilità militare sì sotto il comando dei generali Moreau e St. Cyr come sotto il generale Massena. Il quale vide però da questa impresa che il nemico era ancora in forze nei dintorni di Genova; e, sebbene non avesse sofferto perdite considerevoli, essendo i vantaggi rimasti eguali da ambe le parti, gli - 455 - ej kunde hafva lidit nàgon betyd-lig forlust, efter fòrdelarna a òmse sidor voro jemlika, tycktes den dock hafva nàgot neds lagit sol-datens mod, och dà hartill kom allmanhetons dagligen vàxande missnoje, blef stallningen for be-màlte generai hògst àfventyrlig. Isàdana ogonblick kan det minsta utbrott blefva afbetydliga fòljder: ocksà, en àr en ofòrsigtigt ridande ryttare i fòrstaden S. Vincenzo, den 2<) maj, kullstòrtade en fotgangare, tycktes ett slags folktumnel organiseras, som omdet ej i ògonbhcket blifvit guàfdt làtt hade kunnat fororsaka en allmàn uppresing. Den 50 maj ungefàr kl. 1 om natten bò-rjade engelska bombarder-och kanon-sluparne ànyo stòra stadens invanares sòmn ; som man erfarit huru svàrt man kunde, ehuru som helst vakta sig fòr fara, sà hòrde man pà gatorna skràn och oràt af quinnor och barn, som ocklàdde fìvendebegàfvo sig utom stadsportarna inàt landet. En hau-bitzkula medslog i denna natt i parve però alquanto abbattuto il coraggio dei soldati : siccome poi a questo s’ univa il malcontento giornalmente crescente del pubblico, la posizione del suddetto generale divenne assai pericolosa. In tali momenti il minimo fatto può avere conseguenze importanti : così, ad esempio, un cavaliere incauto nel sobborgo di S. Vincenzo, il 29 maggio, gettò a terra un pedone e parve che si suscitasse un tumulto po-' polare ; il quale, se non fosse stato sedato sul momento, avrebbe potuto far nascere una rivoluzione. Il 30 maggio verso le ore 1 ant. cominciarono di nuovo le cannoniere e le bombardiere inglesi a disturbare il sonno degli abitanti della città. Sapendosi da tutti quanto fosse difficile guardarsi del pericolo, si sentivano nelle strade i lamenti e pianti delle donne e dei fanciulli, che fuggivano svestiti per le strade. Una palla d obice cadde in questa notte nella casa abitata — 45 6 — del hus svenska ministern bebor, dock utan att tillfoga annan skada àii sònder brytande af taklaget; men denna natt dòdade och bles-serade kulorna 6 à 8 personer, samt gjorde skada i mànga hus. Som besvnnerligt far anmàrkas, att en bomb denna natt just nèdfòll i ett hus der en dylik vid fòrsta bombkastningen intràffatt, fastàn den ej dà eclaterade; men den bomb som nu i samma hus nedfòll, percerade 4 vàningar med tross bottnar och hvalf, samt eclaterade utan att hvarken denna gàngen eller den forra nà°;on af personerna i huset blifvit skadade Engelsmànnen ritirerade alltid vid dagningen. Mot nuddagstiden samma dag inberattade til generai Massena generai Gazan, som commenderade vid fàstningen « il Diamante », att sà vài han, som generai Hopital hòrt bàde en kanonad och eld af plutoner fràn de piemontesiskabergen, och som han trodde vid Campofreddo och i granuskapet af « la Bocchetta. General Massena, som alttid àgde òfvertygelsen att reserv-armén borde nalkas, trodde att densamma nu ankom; han communicerade, kanske fòr obetànkt, denna sin ofvertygelse, och samlade i ògon-blicket sin tropp, fòr att oroa dal ministro svedese, senza però recare altro danno che rompere l’architrave del tetto ; ma le palle uccisero e ferirono da sei ad otto persone, facendo anche danno in molte case. Come una cosa strana, merita esser accennato che una bomba cadde precisamente in una casa dove n era caduta un’ altra simile al primo bombardamento senza esplodervi; questa volta la bomba penetrò in quattro abitazioni con pavimento di legno e vòlte, scoppiando, però senza recar danno a persona. Gli Inglesi si ritiravano sempre all’ alba. Verso mezzogiorno il generale Gazan, che comandava le truppe presso la fortezza del Diamante, riferiva al generale Massena che tanto lui quanto il generale Hopital avevano sentito cannonate e fuochi di pelottone dalle montagne piemontesi, e precisamente verso Campofreddo in vicinanza della Bocchetta. Il ge~ nerale Massena, che sempre era persuaso che l’esercito di risei va dovesse avvicinarsi a Genova, • 1 lo credette giunto; e comunico al Gazan, forse troppo inconsideratamente, questa sua convinzione, raccogliendo sul momento le sue truppe per inquietare il nemico nella ritirata che egli - 457 — fienden i den retratt han suppo-nerade att den skulle gòra. Tid-ningen blef knugjord i staden som en lòpare-eld. En otrolig gladje manifesterade sig hos in-vànarne, och atliga varor, som fòrut hos invànnarne varit dolde fòr att sàljas med fiera tusen procentsvinst, hade redan ned-fallit till ett fòr omstan digheterna skaligt pris, och funnos àfven till ynmighet ; man bòr doch ej tro att detta var en foljd af inkòparnes gladje, emedan detblott hàrròrade af fruktan, att igenom blockerin-gens upphàfvande varn prisena skulle nedfalla under det, hvartill de nu dem fòrsàlde. Franska troppen, som redan i nàgra dagar atit hund-och katt-kòtt, emottag med yppersta fagnad uppbrotts-order, och voro redan alia Frans-màn vid pass klockan i e. m. utmarscherade ur staden under fàltherrens eget anfòrande; an-komne till kejserliga lagret vid Coronata, làngt ifràn att tràffa detsamma òfver gifvit, fann generai Massena de Kejserlige upp-stàllde i slagtordning, och deras fàltmusik i full ròrelse. Han fann likvàl inga tecken som tillkànna gàfva nogon fiendes tillamnade af marsch, hvarfòre och bemalte generai kl. 4 e. m. till staden supponeva dovesse fare. Questa notizia si sparse per la città come un fulmine. Una gioia incredibile si manifestò tra gli abitanti; ed i commestibili, che prima erano stati nascosti dagli abitanti per essere venduti con un profitto notevole, scesero ad un prezzo ragionevole per le circostanze, e furono trovati anche in abbondanza. Non bisogna però credere che questo fosse una conseguenza della gioia dei compratori , mentre derivava solo dalla paura che i prezzi delle merci dopo il termine del blocco calassero grandemente. La truppa francese, che già da alcuni giorni mangiava carne di cani e di gatti, ricevette colla massima contentezza l’ordine di partenza; e verso 1’ una pom. tutti i Francesi erano sortiti dalla città sotto gli ordini del proprio comandante; ma arrivati al campo imperiale presso Coronata, invece di trovarlo sguernito, il generale Massena vide gli Imperiali schierati in ordine di battaglia a suon di musica. Nè gli apparve alcun segno di prossima partenza; perciò alle ore 4 pom. ritornò in città, sicuro che qualche equivoco avesse dato origine allo sbaglio che egli stesso ed i generali Gazan e Hopital — 458 — àtervànde, òfvertygad att nàgon qui prò quo gii'vit anledning till det misstag han sjelf och gene-ralerne Gazan och Hopital gjort i deras gissningar. Enda goda verkan af detta tàg var den, att stòrre delen af stadens invànare spisat en gladare middag och fòr bàttre kòp, àn dedet eljest skulle hafva gjort; men pà andra sidan nedslogs allmàn hetens mod i sani ma màn som glàdren fòrut varit hòg, och sjelfva de Frans-mànnen tillgitae bland allmàn heten, bòrjade nutro det generai Massena listigt bedragit dem, dà han lofvade reserv-arméns an-komst, samt att alla sacrificer hittills blifvit gjorde blott fòr att òka General Massenas heder af ett làngvarigt fòrsvar, utan att denna General haft sjelf hopp om hjelp. Med denna sinnena dispo-sition, gick man om aftonen att sòka hvila, dà natten derpà den 31 maj, ungefàrligen en timma efter mid-natten, de engelske bombarder-sluparne stòrde den med deras vanliga eld af bomber och kanoner. Denna gàng vardt, i anseende till mànskenet, denna operation fòrkortad, àfven som den ock avevano fatto nelle loro congetture. L’unico effetto buono di questa spedizione, fu che la maggior parte degli abitanti della città poterono fare un pranzo più allegro ed a minor prezzo; ma d’altra parte il coraggio della popolazione fu abbattuto di tanto quanto la gioia era prima stata forte; ed anzi persino gli amici dei Francesi cominciarono a credere che il generale Massena li avesse astutamente ingannati , promettendo l’arrivo dell esercito di riserva, e che tutti i sacrifizi fatti sinora non fossero stati richiesti che per aumentare la gloria del generale Massena con una lunga difesa, mentre egli non ave\ a speranza di aiuto. Con questa disposizione dell’ animo si andò a letto alla sera, per cercare riposo, quando alla notte del 51 maggio, un’ ora incirca dopo mezzanotte, le bombardiere inglesi disturbarono il sonno col loro solito fuoco di bombe e cannoni. Questa volta P operazione fu abbreviata a motivo della luna piena, e recò anche poco o nessun tillfogade fòya eller ingen skada; det enda som man efter densam-ma om morgonen fanu markvàr-digt, var, att en kanonkula traffat porten af det palats som generai Massena bebodde. Redan da i Aera dagar total brist befunnas pà àtliga varor, hade man vid màngelstolarna pà gator, i stàllet fòr andra àtliga varor, inràttat fòrsàljning af confekter, chocolat, stekta gròn saker m. m. Vinnings-lystnaden och bedrageriet hade vid detta tillfàlle gifort hvarandra han den fòr att tràda mensklig-heten under fòtterna och fòrsàlja fòr hàlsan skadliga saker, och man fann till och med gips och kalk nyttjade i stàllet fòr mjòl. Fiere personer blefvo offer fòr detta àrelòsa fòretag, och stupade pà gatorna; hoarfòre ock Regeringen nòdsaka, des den i juni, att gifva ett stràngt fòrbud emot dyligt brottslig och lastfull i do-ghet. Alla dessa elànden fòràka-des genom genuesiska nationens egoism och hàg att blodsuga, òfven deras nàrmaste vànner och anhòrige ; uselhetens màrkliga till tagande ; missnòjet hos de fòr-mògna att till de fattiga utbetala danno ; l’unica cosa che parve notevole la mattina dopo il bombardamento, fu che una palla di cannone aveva colpito la porta del palazzo del generale Massena. Siccome da vari giorni mancavano totalmente i commestibili, si vendevano confetti, cioccolata, legumi arrostiti ecc. nei botteghini e sulle vie. L’ avidità e la frode si erano alleate in questa occasione per danneggiare l’umanità, vendendo oggetti nocivi alla salute, tanto che si trovavano qualche volta gesso e calce adoperati in luogo di farina. Diverse persone furono vittime di queste vergognose speculazioni e caddero morte per le vie; pel qual motivo il governo fu costretto, il i.° giugno, a pubblicare un severo decreto, proibendo tale industria criminosa ed infame. Tutte queste miserie aumentarono peli’ egoismo e la malizia dei Genovesi, capaci di imbrogliare anche gli amici più intimi ed i parenti. Il malcontento dei facoltosi, per dover giornalmente sborsare ai poveri 3? Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2.0 — 460 — i6 soldi dagligen, som genom biljetter blifvit dem auslagna ; asynen af de pà gatorna dòde personer, ljudet af dera rop som lago i dòdsàngsten, och andte-ligen de conspirationer, som under han verkligen anlades, och hvilka satte invànarne i misstankar och hamdebÉslut inbòrdes emot hoa-randra, fòranlato andteligen generai Massena att sjelf pàtànka en capitulation, och fòr att sonderà huruvida den kunde pà goda villkor erhàllas afsànde han, den 2 juni, om:middagen, generai adjutanten och chefen fòr dess generai stab Andrieux till Coronata, hvarest kejserlige generai lojtnanten baron Otho sig befann. General adjutanten Andrieux spisade middag vid Cornigliano med de kejserlige generalerne, Och àterkom om e. m. kl. 6 med efterràttelsen att man kunde fòrvànta sig en he-drande, och afyen fòr franska troppen fórni ànlig capitulation. I anledning hiiraf, och dà hela staden med glàdjefullt hopp om snar fòrlossning, emottog denna tidning, afsàndes bemàlte gen. adjutant à nyo fòljande dagen l’imposta dei 16 soldi; la vista delle persone morte in istrada, le grida di quelle che agonizzavano, ed infine le congiure che, come par certo, segretamente erano ordite, mettendo gli abitanti in sospetto tra loro e rendendoli avidi di vendicarsi, indussero finalmente il generale Massena stesso a pensare alla resa e tentai e a quali buoni condizioni poteva averla. Perciò egli inviò, il 2 giugno, verso mezzogiorno, l’aiutante-ge-nerale e capo del suo stato maggiore Andrieux a Coronata, dove si trovava il tenente generale imperiale barone Otho. L’aiutante generale Andrieux pranzò coi generali imperiali a Cornigliano, ritornando alle ore 6 pom. colla notizia che si poteva sperare una capitolazione onorevole ed anzi vantaggiosa per le truppe francesi. E siccome per tutta la città si era sparsa tale notizia di sperata liberazione, il suddetto aiu-tnnte-generale venne di nuovo inviato il seguente giorno — 461 — den i juni kl. io om morgonen till Cornigliano fòr att òfverenskomma om arliklarna. Genuesiska Regeringen hade till deras lands in-teresses bevakande, i Andrieux sallskap afsiindt advokaten Corvetto, fòr detta leda mot af Directorium och nu medlem af Regerings-Commissionen, men de coaliserade vàgrade att emottaga honom sàsom en negocier-ande person, emedan han var medlem af en regering, hvilken de ansàgo vara vlaglig, och ej erkand af deras respective hof. I anseende till anecdoter vid ne-gociation kànner man endast, att dà fràga var om generai Mas-sena och franska garnisonens fria utgàng och òde, svarade de coaliserade Negotiatòrer : « On ne préscrit pas des conditions pour des braves. Le général Francais n’a qu’à présenter à cet égard telles conditions quii lui plaira, et il est sur qu’elles seront ap-prouvées ». General Andrieux àterkom ej fòrr àn en timma elter midnatten, men dà hade ock capitulation till alla delar blifvit ofverenskommen, sà att ingen, ting vidare fattades àn behòrig redaktion af densamma, och de contraherandes underskrift. 3 giu8no alle io ore ant. a Cornigliano per combinare gli articoli. Il Governo genovese aveva mandato insieme al generale Andrieux un proprio rappresentante, l’avvocato Corvetto già membro del Direttorio ed ora della Commissione di Governo; ma gli alleati si rifiutarono di riceverlo come intermediario, perché membro di un Governo da essi considerato illegale e non riconosciuto dalle loro rispettive corti. In quanto ai particolari dei negoziati, si seppe solamente che quando si trattò della libera uscita e della sorte del generale Massena e della guarnigione francese, i negoziatori alleati risposero: « On ne prescrit pas de conditions pour des braves. Le général fran-gais n’a qu’à présenter à ce re-gard telles conditions qu’il lui plaira, et il est sur qu’elles seront approuvées ». Il generale Andrieux non ritornò che ad un’ ora dopo mezzanotte, ma colla capitolazione convenuta in tutte le sue parti, non mancando altro che la redazione opportuna e la firma dei contraenti. — Ab2 — Den 4 jnni kl. 4 om morgonen samman kallade General Massena Genue-siska Regerings -Commissionens leda mòter; och dà han framlade fòr dem utkastet till capitulationen, fòrklarade han, det han ànnu utfàste sig att dertill icke sam-ticka, sà framt Regeringen ej ville vidtaga de màtt och steg han upp gàfve, och till deliberation, òfver hoilka han lemnade dem till kl. 7 samma morgon; dessa utvàgar sades bestà i den half-mogna sàdens afskàrande och anvàndande till bròd, samt en viss penningesummes afgifvande àt franska troppen, som dà sjelf med contanta penningar istaden skulle sòkt att kòpa sig nàgot till uppehàlle. Gen. Massena var nòd sakad att fòreslà sàdant fòr att fòrnàja troppen ; ty med denna dagen slutades afven forr à det af det usla kakao-bròd som utdetes àt manskapet. Regerings-Commissionen som vài kànde stadens òmkliga belàgenhet samt huru mycket Regeringen sjelf var hatad, och sàledes omòjligen kunde hoppas att genom egen kredit eller hastig contribution kunna anskaffa den af gen. Mas-sena fordrade summa, och der-jemte fruktade fòr sina medlem- II 4 giugno alle ore 4 ant. il generale Mas-sena radunò i membri della Commissione governativa genovese, ai quali presentò il progetto di capitolazione; dichiarando ancora di impegnarsi a non dare il suo voto qualora il Governo volesse accettare le condizioni da lui indicate, e lasciando loro tempo fino alle 7 ant. Pare che queste condizioni consistessero nel tagliare il frumento mezzo maturo adoperandolo a far pane, e nel consegnare una certa somma di denaro alle truppe francesi, le quali allora avrebbero potuto comperarsi in città il necessario per il proprio mantenimento. Il venerale Massena era obbligato D a proporre una cosa simile per contentare i suoi, perchè con quel giorno erano esaurite le provviste anche di quel pessimo pane di cacao che era stato distribuito ai soldati. La Commissione governativa, che conosceva lo stato miserabile della città, e sapeva quanto fosse odiato il Governo stesso, non potendo perciò assolutamente sperare di fornire col proprio credito 0 mediante pronta contribuzione la somma chiesta dal generale Mas-sena, e temendo nello stesso - 4"3 — mars personliga sakerhet, och ansag den bast fòrvarad genom den fòreslagna capitulation, hvil-ken tillàt hvar och en som bcha-gade, att fritt och med franska armén fa utrymma Genua, lem-nade till svar, àt generai en chef, att den omojligen kunde utfàsta sig att vidtaga de anstalter som generalen erfordrade fòr att ànnu i 3 à 4 dagar dròja ned capitu-lationens ingaende. Sà snart nu faltherren fick detta svar begaf han sig till Cornigliano, fòr att reglera artiklarne pà sàtt som fòljer : ARMÉ I ITALIEN General Stab. Negociation om Genuas eva-cuerande af hogra flygeln af franska armén i Italien, ingàngen emellan vice-amiralen lord Keith, chef fòr engelska eskadern, gen. lojtnanten herr baron Otho, com-menderande blokeringen, samt Massena, faltherre fòr franska armén. Art. i. Hògra flygeln af franska armén, som fòrsvarat Genua, generalen en chef med tempo per la sicurezza personale dei suoi membri, guarentita alla meglio dalla capitolazione proposta, che permetteva ad ognuno di abbandonare a suo talento Genova coll’ armata francese, rispose al generale in capo che non poteva assolutamente promettere di accettare le condizioni domandate dal generale per aspettare ancora tre o quattro giorni prima di accettare la capitolazione. Appena avuta questa risposta, il comandante si recò a Cornigliano per regolare gli articoli nel modo seguente (i): ARMATA D’ITALIA Stato Maggiore Generale. Negoziazione per l’evacuazione di Genova dell’ ala dritta dell’ armata francese d’Italia, tra il vice-ammiraglio lord Keith, comandante in capo la flotta inglese, il luogotenente generale barone D’Ott, comandante il blocco, e il generale in capo francese Massena. Art. i. L’ala dritta dell’armata francese incaricata della difesa di Genova, il generale in (i) La versione italiana che segue di questo importante documento, è quella officiale del testo francese, pubblicata nella Gaietta Naiionalc del 9 giugno iboo, n. r, pp. 2-3. — 464 — hela dess general-stab skola tàga ur staden med gevar och tross, far att forena sig med centren af bemàlte armé. Svar: Beròrde hògra fiygel af Franska armén, som forsvarat Genua, uttàgar till ett antal af 8110 man, och tager sin kosa òtver Landet àt Nizza, fòr att gà till Frankrike; det ofriga skall transporteras sjòledes till Antibo. Engelske amiralen lord Keith forbinder sig att forse denna tropp med lifsmedel och bròd, efter engelska bruket: de-remot skola alla de af Genernl Massenas armé hela detta àr pà G enuesiska kusten tagne kejserlige krigs fàngar àtergifvas, blott den undantagne, som sedan blifvit utvexlade. Fòr òfsigt skall fòrsta artikeln hafva sin fullkomliga execution. Art. 2. Allt hvad som tillhòr bemàlte hògra flygel sà vai af artillerie och kriegs-ammunition, som af hvad slag det eljest vara mà, skall af Engelska flottan ofverfòras til Antibo eller till golfen af Jouan. Svar: Beviljat. Art. 3. Alla convalescenter, och de som ej aro i stànd att marschera, skola sjòledes trans- capo, e il di lui stato maggiore usciranno con armi e bagagli per andare a raggiungere il centro della detta armata. Risposta : L’ala dritta dell’ esercito francese impiegata nella difesa di Genova uscirà in numero di 8110 uomini, e prenderà la strada di terra per andare per la parte di Nizza in Francia. Il rimanente sarà trasportato per mare ad Antibo. L’ ammiraglio Keith s’ obbliga di far somministrare a questa truppa la sussistenza in biscotto, secondo l’uso della truppa inglese: al contrario, tutti i prigionieri austriaci fatti nella riviera di Genova dall’armata di Massena nell’ anno corrente saranno restituiti in massa, in compensazione, essendo eccettuati quelli già cambiati ai termini del presente; nel rimanente l’articolo primo avrà la sua piena esecuzione. Art. 2. Tutto ciò che appartiene alla detta ala dritta, tanto in artiglieria che in munizione, ed in qualunque altro genere, sarà trasportato dalla flotta inglese ad Antibo 0 al golfo Juan. Risposta: Accordato. Art. 3. Tutti i convalescenti, e coloro che non'sono in istato di marciare, saranno trasportati — 465 — porteras af de Engelske andatili Antibo, och underhàllas sàsom i 1 art. Svar: Engelska flottali skall transportera och underhàlla dem. Art. 4. De franska soldater som quarblifva pà hospitalen i Genua skola skòtas pà lika sàtt som de kejserlige, och elter hand som de blifva i stànd att utkomma, skola de òfverfòras och under-hàldas sàsom i tredje art. Svar : Beviljadt. Art. 5. Staden Genua och dess hamn skola fòrklaras neutrala. Linien som satter grànsor fòr dess neutralitet, skall bestàmmas af de contraherande. Svar: Denna art., som blott har i af seende rena politisla angelàgen heter, hafva ikke de coaliserade generaler fullmakt att pà nàgot vis bevilja; det oaktadt àro under tecknade anktoriserade att for-klara, det H. M. Kejsaren beslutit lemna invànarne i Genua sitt hòga beskydd, hvadan denna stad kan vara òfvertygad att ehoad mesures och anordnande som tills vidare besked omstàndig heterne kunna fòranlàta, skàla de alltid hafva till fòremàl det allmànna bàsta, stadens rolighet, frojd och lycka. per mare fino ad Antibo, e alimentati come nell’ articolo primo. Risposta: Saranno trasportati dalla flotta inglese, ed alimentati. Art. 4. I soldati rimasti negli ospedali di Genova vi saranno trattati come gli austriaci, ed a misura che saranno in istato di partire, saranno trasportati come è prescritto nell’ articolo terzo. Risposta : Accordato. Art. 5. La città di Genova ed il suo porto saranno dichiarati neutrali. La linea che determinerà la sua neutralità sarà fissata dalle parti contraenti. Risposta: Questo articolo aggirandosi sopra degli oggetti puramente politici, non è in potere dei generali delle truppe alleate di dare qualsivoglia assenso ; ciò non ostante i sottoscritti sono autorizzati a dichiarare che Sua Maestà l’Imperatore essendosi determinato di accordare agli abitanti di Genova la sua augusta protezione, la citta di Genova può essere assicurata che tutti gli stabilimenti provvisori, che le circostanze esigeranno, non avranno altro fine che la felicità e la tranquillità pubblica. — 4 66 — Art. 6. Liguriens sjelfstan-dighet skall aras och bibehàllas; ingen potentat, nu for tiden i krig med denna republik, skall eller bòr tilltro sig attgora den minsta fòràndring i dess rege-ring. Svar: Som till fòreg àende art. Art. 7. Ingen Ligurier som fòrràttat, eller vid denna tid en fòrràttar nagon publik syssla, bòr òfredas eller tilltalas fòr dess politiska tànkesatt. Svar: Ingen meniska skal dra-gastill ràkenskap fòrhvad hon i politiska afseenden gjort eller tànker; ej heller fòr att hafva dettagit i forra Regeringen hvar-ken fòr eller under regeringen. Art. 8. Fransmàn, Ligurier, eller andra Italienska bofaste i Genua eller ditflyttande, bòra fritt och obehindradt kunna bort-resa, och med sigfòra allt hvad dem tillhòr, vara det i penningar, varor, mòbler, lòsoren eller andra sàker, sà vài sjòledes som till lands, till hvad ort de fìnna rà-dligast, och i sàdant hàmseende fa de behòriga pass, som galla 6 mànader. Svar : Beviljadt. Art. 6. L’indipendenza del popolo ligure sarà rispettata; alcuna potenza attualmente in guerra colla Repubblica Ligure non potrà fare alcun cangiamento nel di lei governo. Risposta: Come all’ articolo precedente. Art. 7. Qualunque ligure che abbia esercitato, o eh’ eserciti attualmente delle funzioni pubbliche, non potrà essere ricercato per le sue opinioni politiche. Risposta: Nessuno potrà essere molestato per le sue opinioni, nè per aver preso parte al Governo precedente all’ epoca attuale. I perturbatori della pubblica tranquillità dopo l’ingresso degli Austriaci in Genova saranno puniti secondo le leggi. Art. 8. I Francesi, Genovesi ed Italiani domiciliati o rifugiati in Genova, potranno liberamente ritirarsi con tutto ciò che loro appartiene, sia in denaro, mercanzie, mobili, o qualunque altri effetti, tanto per via di mare che per quella di terra, in qualunque luogo stimeranno loro convenevole, e a questo effetto saranno dati loro dei passaporti che saranno valevoli per sei mesi. Risposta: Accordato. - 467 — Art. 9. Staden Genuas invànare skola àga communikation med begge kusterna och fortsàtta obehindradt deras handel och sjò-fart. Svar: Som art. 5. Art. io. Ingen bevapnad bonde eller landtman bòr fà tillstànd att hvarken ensann eller i sàllskap med andra inkomma i Genua. Svar : Beviljadt. Art. 12. Sàttet och ordningen af franska troppens evacuerande bòr regleras dagligen af cheferne fòr general-staben af de respective arméerne. Svar: Beviljadt. Art. 13. Kejserlige generalen som commenderai' i Genua, bòr lemna behòrig vakter och escor-ter till sakerhet fòr inskeppnin-gen af hvad som tillhòr franska arrnén. Svar: Beviljadt. Art. 14. Quarlenmas i Genua en fransk commissarius, fòr att Art. 9. Gli abitanti della città di Genova avranno libera comunicazione con le due riviere, e continueranno liberamente il commercio. Risposta: Accordato come al-l’art. 5. Art. io. Nessun paesano armato potrà entrare individualmente , nè in corpo, in Genova. Risposta: Accordato. Art. 11. La popolazione di Genova sarà immediatamente approvvigionata (1). Art. 12. I movimenti della evacuazione della truppa francese, che devono aver luogo conformemente all’articolo primo, saranno regolati nella giornata dai capi dello stato maggiore delle armate rispettive. Risposta: Accordato. Art. 13. Il generale austriaco, comandante in Genova, accorderà tutte le guardie e scorte necessarie, per la sicurezza delle imbarcazioni degli effetti appartenenti all’ armata francese. Risposta: Accordato. Art. 14. Sarà lasciato in Genova un commissario francese , (1) Questo articolo manc^ nell’edizione del Graberg. - 468 — sorja fòr och skòta de blesserade och sjuka, samt fòr att bevaka deras aftàg; en annan krigs com-missarius skall och utnàmnas fòr att kràfva, emottaga och utdela lifsmedel àt franska tropparna sà vài i Genua som under mars-chen. Svar : Beviljadt, Art. 15. General Massena bòr fa sànda till Piemont eller annor-stàdes, en officer till fòrsta consuln Buonaparte , fòr att under atta honom 0111 evacuationen af Genua; denne officer skall till slikt andamàl forsesmed behòregt pass och salvagard. Svar: Bebiljadt. Art. 16. Alla officerare af hvad grad som helst, af generai Massenas armé, som blifvit tagne till krigsfàngar sedan bòrjan af delta àr, skola fà resa hem till Frankrika pà deras parol, dock utan att tjena fòrràn de blifvit utvexlade. Svar : Beviljadt. Tjllagde Artiklar. Den stadsporten vid Lanternan, hvarest befinnes en vind-brygga, och inloppet til hamnen skola aftràdas till ett detachement per la cura dei feriti ed ammalati, e per invigilare alla loro evacuazione sarà nominato un altro commissario di guerra, per assicurare, riunire, e distribuire le sussistenze della troppa francese tanto in Genova come in marcia. Risposta; Accordato. Art. 15. Il generale Massena spedirà in Piemonte, o altrove, un ufficiale al generale Bonaparte, per prevenirlo dell’ evacuazione di Genova, e sarà munito di un passaporto e salvaguardia. Risposta : Accordato. Art. 16. Gli ufficiali di qualunque grado dell’ armata del generale in capo Massena, fatti prigionieri di guerra dopo il principio delle ostilità nel presente anno, rientreranno in Francia sulla parola, e non potranno servire che dopo il loro cambio. Risposta: Accordato. Articoli Addizionali. La porta della Lanterna ove si trova il ponte levatoio, e l’ingresso del porto saranno consegnati a un distaccamento delle - 469 — af keiserliga troppar, samt tvenne engelska linieskepp, kl. 2 e. m. i dag den 4 juni. Genast efter denna convention onderskrift bòra personer à òmse sidor till gislan utlemnas. Artilleri, ammunition, planer, ritningar och andra militàriska fòrràd som tillhòra staden Genua och dess territorium, bòra rede-ligen af franska commissarierne antvardasde coaliserade arméernas commissarier. Dubbelt utfardadt pà bron vid Cornigliano, d: 4 juni 1800 — 15 prairial, àttonde à ret af franska Republiken. (tecknadt) Keith (techiadt) v. Otho vice-amiral. baron. Lilia lydande med originalet Andrieux gen. adjut. och chef af franska arméen. Det ena exemplaret under-technades af engelska amiralen lord Keith och generai lojtnan-ten baron von Otho, och dà generai Massena kl. 12 om mid-dagen fràn Cornigliano àterkom fòr att afsànda det exemplar som af honom borde underskrifvas-stannade han utanfòr franska chargé d’affairens port, sànde honom det af de coaliserade underskrifna exemplaret af eva- truppe austriache, e a due vascelli inglesi in quest’oggi 4 giugno, a due ore dopo mezzo giorno. Immediatamente dopo la firma saranno consegnati degli ostaggi da una e dall’ altra parte. L’ artiglieria, munizioni, piani, ed altri effetti militari appartenenti alla città di Genova e suo territorio, saranno consegnati fedelmente dal commissario fran-cesce ai commissari dell’ armate alleate. Duplicato, sul ponte di Cornigliano il 4 giugno 1800 — 15 pratile, anno ottavo della Repubblica francese. firmato Keith firmato D’Oth vice-ammiraglio. barone. Per copia conforme all’ originale Andrieux. aiutante-generale capo di stato magg. gen. dell’ armata francese. Un esemplare fu sottoscritto dall’ammiraglio inglese lord Keith e dal tenente-generale barone von Otho. Quando il gen. Massena ritornò da Cornigliano a mezzogiorno, per spedire l’esemplare che doveva da lui essere sotto-scritto, si fermò alla porta dell’incaricato francese, al quale mandò 1’ altro sottoscritto dagli alleati, pregandolo di recarsi subito con quello al palazzo del comandante - 47° cuations-conventionen, och bad honom genast med det samma fòrfaga sig till Fàltherrens palats, hoarest Regerings-Commissionen var fòrsamlad. Sà snart bemalte chargé d’affaires ankom, sade generai Massena till Regeringen : « Jag àr annue fàrdig att scinder rifva detta document » nem-ligen conventionen, som han hòll i sina hànder « sà frant Regeringen vili samtycka till hvad jàg fò-reslagit » och dà Regerings-Commissionen sade sig icke kunna àndra sitt beslut, sade bemalte generai till franska chargé d’affaires : « Je vous prends pour tènioin du refus que ces citoyens me donnent, et qui m’oblige de dove la Commissione di Governo era adunata. Appena arrivò il suddetto incaricato, il generale Massena disse al Governo: « Io sono ancora pronto a stracciare questo documento (cioè la convenzione che teneva fra le mani), qualora il Governo voglia concedere quello che fu da me proposto »; e, quando la Commissione di Governo disse di non poter cambiare la sua risoluzione , il suddetto generale, rivoltosi all’ incaricato francese, soggiunse: « Je vous prends pour témoin du refus que ces citoyens me donnent, et qui m’oblige de signer cette pièce ». Firmò la convenzione, e la mandò a Corm- signer cette pièce ». Han tecknade | gliano. Riferisco questi aneddoti, sitt namn pà conventionen, och come prova della costanza del gè- afsànde den till Cornigliano. Man anfòr dessa anekdoter, sàsom bevis pà generai Massenas stàndaktiga karakter, och pà den tillforsigt han àgde att genom generai Buonapartes fòrsorg blifva fràlst : hvilket var sà mycket mer un-dransvàrdt, som han aldrig kun-nat erhàlla nàgon direct tidning fràn denne generai sedan dess imnarsch i Italien, emedan 4 till generai Massena afsànde spioner blifvit ertappade och skjutne. Till fullkommande af de drag som nerale Massena, e della fiducia che aveva di essere salvato dal sopraggiungere del generale Buonaparte: il che era tanto più strano in quanto non aveva mai potuto avere notizie dirette di questo generale dopo la sua entrata in Italia, perchè quattro spie mandate al generale Massena furono sorprese e fucilate. Per completare i tratti del carattere di Mas-sena , si può ricordare ancora quello che disse alcune ore prima della sua partenza all’ incaricato - 471 rora generai Massenas karakter, horer annu hvad han sade till svenska hàrvarande chargé d’af-taires herr Cantzli Radet Lagers-vàrds, nàgra timmar fòre sin afresa. Denne Herre gratulerade honom till den hedrande capitulation har erhàllit, hvartil han svarade : « Il n’y a rien de quoi me féliciter, lorsque je suis obligé de décamper d’un endroit, où je voudrais rester ». Han gaf fòr àfrigt skulden at Regerings leda moterna, och syntes dà vara missnoid med en capitulation, hvars like tidebòckerna pàfangt eftersòka; men han hade kanske dà redan af de Kejserlige fàtt veta, att generai Buonaparte befann sig' i Lombardiet, samt att de Kejserlige hade upphafvit blocke-ringen af Genua, i fall proposi-tion om capitulationen 6 timmar senare blefvit beslutad. Att capitulation blifvit tràffad, var allmant bekant i Genua omkringkl.i e. m.; och denna tidning blef likasom signal till affentligt follm drande af alla de bodar och màngelske-stànd, hvarest man under belà-gringstiden fòrsàlt atliga varor. Denna pobelno sjelfhand kunde verkligen ej alldelas missgillas, dà man betraktar den ofòrskamd-het som alla matvaruforsàljare d’affari svedese, sig. Lagersvàrd, consigliere della cancelleria. Questi si congratulava seco lui del-1’ ottenuta capitolazione onorevole, ed egli rispose: « Il n’y a rien de quoi me féliciter, lorsque je suis obligé de décamper d’un endroit, où je voudrais rester ». Del resto egli dava la colpa dell’accaduto ai membri del Governo, e pareva malcontento di una capitolazione, di cui non si ricorda 1’ eguale ; ma forse aveva già saputo dagl’imperiali che il generale Buonaparte si trovava in Lombardia, e che gl’imperiali stessi avrebbero levato il blocco di Genova, qualora la proposta della capitolazione fosse stata presentata sei ore dopo. Si sparse a Genova verso 1’ una pom. la voce della capitolazione ; e questa notizia divenne quasi come segnale al pubblico saccheggio di tutte le botteghe e magazzini ove si vendevano commestibili al tempo dell’ assedio. Questa vendetta del popolo non si può invero biasimare, considerando la prepotenza usata da tutti i rivenditori di commestibili verso i loro concittadini ; perchè può ben succedere che in un assedio venga assolutamente a mancare una data merce, ma che una merce che utofvat emot sina landsmàn och medborgare. Ty att absolut brist existerar pà en vara, kan nitràffa i hvad belàgrings-historia som helst; men at en vara, som hògst kostat in koparen 120 a 130 lire kan af honom up drifvas till 7200, sadant lar hvarken ur belàgrino's-eller Jude nationens annaler kunna uppvisas. I samma proportion àr àfven fòrhàllandet af de òfriga matvaror och andra amnens pris, som har fòlja : En mina eller 25 ‘/5 kappar hvete, utbakadt i bròd, kostade lire 7200 (1), 12 nus (3/+ Sv. &) kalfkòtt 5 lire, 12 nus oxkòtt 4 lire, 12 d: o kokòtt 3 1., 12 nus hàstkòtt 1 lire 16 soldi a 2 1. 1 st. kyckling 16 lire, 1 halfstop mjòlk 4 lire, 1 agg 1 1., 16 s. à 2 1., 12 nus risgryn 9 lire, 12 nus hostekli 3 lire, 1 st. ròdlòk 10 soldi, 12 nus kersbàr 1 1. 10 soldi, 12 nus konbònor med skal 18 soldi, 12 nus brànukal 1 lire 4 soldi, y4 famn sur ved 18 lire. Sàdant var tillstàndet desista da-garna i anseende till dyrheten. Ater i anseende till sjukdomarnes tilltagande var fòrhàllandet sà, att vid epidemiens bòrjan 196, men (1) Lire 6,16 soldi utgòra circa 1 sv. sp. rid. al più è costata al compratore da 120 a 130 lire sia da lui fatta salire fino a 7200, nessuna storia degli assedi 0 della nazione degli Ebrei lo ricorda. Nella stessa proporzione è anche avvenuto dei prezzi degli altri commestibili e merci, come segue : Una mina, misura vecchia, o metadelle 25 '/5 di frumento cotto a pane, costava lire 7200 (1); 12 onde (3/4 di libbra svedese) di carne di vitello, 5 lire; 12 oncie di carne di bue, 4 lire; 12 oncie di carne di vacca, 3 lire; 12 oncie di carne di cavallo, da lire 1 e 16 soldi a 2 lire; una pollastrella, 16 lire; 12 oncie di riso, 9 lire; 12 oncie di crusca di frumento, 3 lire; una cipolla, 10 soldi; 12 oncie di ciliegie, lire 1 e 10 soldi; 12 oncie di carbone da ardere, lire 1 e 10 soldi; 12 oncie di fa-giuoli colla scorza, 18 soldi; '/4 catasta di legna semplice, 18 lire. Tali erano i prezzi negli ultimi (1) L. 6 e 16 soldi fanno incirca un tallero svedese. - 472 — — 473 — vid òfvergifningen 506 minnisker hvar recka med doden afgingo. General Massena afseglade pà en fransk corsàr samma afton; och erfor det met mest obehagliga bemòtande af pòbeln, som glòmde hura han fullgjorten tappen offi-cers pligter, fòr att endast ihàg-komnia det han varit orsaken till Genuas invànares lidande ; och om hanemottogs vid sin ankomst inom dess murar af kanoneris dunder, sà beledsagades har ur den med skàllsord, hàdefulla skrik och fòrbannelser. Den j juni kl. 5 om morgonen, inkom i hamnen engelska linieskeppet The Minotaur, commenderadt af vice-amiralen af roda flaggan lord Keith, och litet senare 2 andra, 3 engelska och 2 nea-politanska fregatter, med en stor mangd andra smàrre òrlogs-och handelsfai'tyg; 3000 man infanteri och 300 cavalieri kejserliga trop-par inkommro ifràn landsidan, och togo i besittning alla posteme, under invànarnes allmànna froi-derop, som i dem tycktes se sina giorni. In riguardo poi all’accrescimento delle malattie, in principio dell’epidemia morivano 196 persone alla settimana, ed al tempo della capitolazione 506. Il generale Massena partì la stessa sera su una nave francese, ed ebbe accoglienza molto ostile dal popolo, che dimenticava come egli avesse fatto il suo dovere di ufficiale valoroso, mentre non vedeva in lui che la causa delle sofferenze degli abitanti di Genova; e se fu ricevuto, al suo arrivo nelle loro mura, col rombo dei cannoni, alla sua partenza fu accompagnato da invettive, grida sediziose e maledizioni. Il 5 giugno alle ore 5 ant. arrivò nel porto il vascello di linea inglese « il Minotauro », comandato dal vice-ammiraglio di bandiera rossa, lord Keith, e un poco più tardi arrivarono due vascelli, tre fregate inglesi e due napolitane, con un gran numero di navi da guerra e mercantili più piccole ; 3000 uomini di fanteria e 300 di cavalleria imperiale entrarono dalla parte di terra r ed occuparono tutti i posti, acclamandoli gli abitanti cui pareva - 474 — fòrlossare. Redan den 2 hade man òfver alit i kyrkorna borjat ett triduum soìemne, for att bedja Allmakten att se till stadens nòd och elànde samt sànda hjelp ifràn hòjden; delta slutades i dag kl. 12 med ettgladt Te Deum, dà àfven klockorna ringdes òfverallts hvilka allt sedan den 10 aprii varit bundne, under stràngt fòrbud att icke ròras, fòr att sàledes fòre-komma stormringning, som kun-nat blifva ett medel att gòra all-màn uppresning. Samma dag mot aftonen gjorde insurgenterne ifràn Fontanabuona (som oaktadt 10 art i capitulationen fàtt af generai Assereto tillstand att be-vàpna de inkomna) fiere olàgen-heter i staden, dà de med vàld intràngde i husen, der de borde som kunde vara Fransmannen tillgifne, ille handte rade inbyg-garne och roffade till sig allt hvad bast de der funno. Detta skulle nog hafva skridit till y tter-ligheter, om icke samma afton en stràng proklamation utkommit af generai majoren och Riddaren grefve S:t Julien, som jemte kejserliga patrullers bivacquerade pà gator och grànder samt àter-stallde aflting i sin ordning. vedere in essi i loro salvatori. Li 2 del mese era incominciato in tutte le chiese un triduo solenne, per pregare l’Onnipotente a preservare dal bisogno e dalla miseria la città e mandarle il celeste aiuto; questo terminò oggi alle 12 con un Te Deum, mentre suonavano tutte le campane, le quali erano state legate sin dal 10 aprile colla severa proibizione di toccarle, per impedire così il suonare a stormo che poteva cagionare una sollevazione generale. Nello stesso giorno, verso sera, gl’ insorti della Fontanabuona (i quali, malgrado l’articolo 10 della capitolazione, a-vevano avuto il permesso dal generale Assereto di entrare armati) fecero nascere disordini in città, penetrando colla forza nelle case dove abitavano coloro che si credevano fedeli ai Francesi, maltrattando le persone e rubando tutto quanto di meglio potevano trovare. Queste prepotenze sarebbero andate all’estremo, se nella stessa sera non fosse stato pubblicato un severo proclama dal maggior-generale conte St. Julien, il quale colle pattuglie bivaccava nelle vie e nei vicoli, e rimise così il tutto in buon ordine. ^ 475 Den 6 juni Aera kejserliga colonner inkom-mo och passerade, och generai lòjtnanten baron Otho fick order att med 25,000 man aftàgaàt « la Bocchetta » och Gavi. Man bòr ej hàr fòrtiga eller glòmma att amnàrka det denne sednare fast-ning icke i detta àrs campagne kunnat af de Kejserliga intagas. Lika sà litet har àfven den lilla òn Capraja, som ocksà tillhòr Ligurien, kunnat af de Engelska oròfras, erhuruvàl de fiera gàngor forsokt att sig deraf bemàstra. Samma dag installerades den nya kejserliga kongl. Regeringen af 7 ledamòter, nomi. 6 adels màn och en grosshandlare, afràlse. Plints F. Fr. Xavier af Hechingen blef af faltherren baron Melas utnàmd guvernòr òfver hufrud-staden och genueser-gebitet. De pà fòljande dagarne gick allting tyst och ordentlig tillvàga, sà vai i staden som deromkring; man sàg bestàndigt troppar aftàga mot trakten af « la Bocchetta », och det taltas redan med sàkerhet Il 6 giugno parecchie colonne imperiali entrarono e passarono, e il tenente-generale barone Otho ebbe l’ordine di partire con 25,000 uomini per la Bocchetta e Gavi. Non bisogna tacere 0 dimenticare che quest’ ultima fortezza non fu presa dagl’ Imperiali nella campagna di quest’ anno; come pure che la piccola isola di Capraia, appartenente alla Liguria, non fu conquistata dagl’inglesi, sebbene questi più volte avessero tentato d’impadronirsene. Nello stesso giorno fu insediato il nuovo imperiale e reale Governo di sette j membri, cioè sei nobili ed un negoziante grossista borghese (1). | Il principe F. Fr. Saverio di He-| chingen fu nominato dal comandante barone Melas governatore della capitale e del territorio genovese. I giorni seguenti trascorsero tutti in quiete ed ordine, tanto nella città quanto nei dintorni; si videro sempre partire truppe verso la parte della Bocchetta, e si parlava già dell’ avvicinarsi (\) Pier Paolo Celesia, Carlo Cambiaso, Agostino Spinola, Gio. Bernardo Pallavicino, Girolamo Durazzo, Francesco Spinola, e Luigi Lambruschini negoziante. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2.* - 476 - om franska reserv-armén annal-kande under fòrste consuln Buonaparte eget anfòrande. Engelska amiralen làt sequestrerà alla de i hanmen varande fartyg, hvilka han alla fòrklarade « de bonne prise », och àlade àgame deraf att inlòsa dem, om de ville vidare behàlla dem, eljest skulle han bortfòra dem med sig. All man heten vardt haròfver ganska missnojd, sà vài som ock òfver det bemàlte Amirai, emot sin lofven icketillàt den nu i ymnighet i hamnen anlànde spanu màlen och andia lifsmedel, att utlossas och i land fòras, och det blott fòr att bibehàlla varorna vid ett fòr nàrvarande omstàndi-gheter òfverdrifvit pris ; han hotade till och med att àter bort-sànda fiera dermed lastade fartyg, och fòrbòd genuesiska partyg, att ur hamnen utlòpa. Detta ska-liga missnòje òkades ànnu mer, dà, nàgra dagar derpà, de Engelska verkligen bòrjade urdoc-koma och hamnens inre delar, uthala de der befìntliga goda genuesiska fartyg, och bortjagandes besàttningarne, forde dem ut pà redden fòr att bereda dem till afsegiing. Hvarken gods ellerfolk spardes fòr att fullgòra amiralens order, ty fiere som velat fòrsvara deras egendom, fingo dvrt och dell’ esercito francese di riserva sotto il comando dello stesso primo console Buonaparte. L’ammiraglio inglese fece sequestrare tutti i bastimenti che si trovavano nel porto, dichiarandoli tutti « di buona presa », ed imponendo ai loro possessori di riscattarli, se volevano ritenerli, altrimenti li condurrebbe via con sè. Il pubblico fu assai malcontento di questo atto, e pure si dolse perchè il suddetto ammiraglio, contrariamente alla sua promessa, non permise di sbarcare la farina e gli altri viveri allora arrivati nel porto in abbondanza, al solo scopo di mantenere la merce ad un prezzo esagerato nelle circostanze attuali; anzi minacciava di mandar via parecchi bastimenti che ne erano carichi, vietando anche alle navi genovesi di uscire dal porto. Questo giusto malcontento aumentò ancora di più, quando alcuni giorni dopo gl’ Inglesi cominciarono a tirar fuori dal cantiere e dalla parte interna del porto le buone navi genovesi che ivi si trovavano, licenziando la ciurma e conducendole sulla rada per prepararle alla partenza. Nè beni, nè persone furono risparmiati, per eseguire gli ordini deH’ammiraglio; perchè parecchi, - 477 - àfven med deras lif betala sin dristighet. Men missnòjet hann sluteligon till den hojd hvarest det gàr òfver till fòrtvifkn, dà man den 17 sàg de Engelskt sinnade be mastra sig artilleriet pà strand batterierna, fòr att det samma med sig bortfòra. Under-tiden fieli man, den 18 juni, veta, att tidning ingàtt om den stora och biodiga tràffningen som stàtt vid Marengo pà stròmmen Bormid, d. 16, hvari franska reserv-armén, cotrimenderad af generai Berthier, slagit de Kejserlige totaliter ur fàltet, och trun-git faltherren baron Melas att teckna en màrkvàrdig evacuations och stillestandsconvention, i kraft hvar af de Kejserlige borde till de Franska àterlemna hela Pie-mont, Lombardiet, Ligurien och staden Lucca. Vid denna eftes ràttelse glòmde Engels mànnen bade capitulation, folkràtt och blygsel, gefvandes, i quali volevano difendere la loro proprietà, dovettero pagare ben caro, anzi colla vita, il loro ardimento. Il malcontento però giunse finalmente a tal punto da convertirsi in disperazione, quando il giorno 17 si vide che gli Inglesi tentavano di impadronirsi dell’ artiglieria delle batterie da costa per portarsele via. In questo frattempo, cioè il 18 giugno, giunse la notizia della grande e sanguinosa battaglia datasi li 16 (sic) del corrente presso Marengo, sul fiume Bormida, nella quale l’esercito di riserva francese, comandato dal generale Berthier, aveva totalmente sconfitto gli Imperiali, obbligando il comandante barone Melas a sottoscrivere una convenzione di sgombro e tregua, per cui gl’ Imperiali dovevano retrocedere ai Francesi tutto il Piemonte , la Lombardia, la Liguria e la città di Lucca. A questa notizia gli Inglesi, dimenticando la capitolazione, il diritto delle genti e il pudore, davano ordine, — 478 den 20 j uti i, order att raserà alla strand batterierna, och bortfòra allt pa dem befintligt artilleri, samt sànde verkligen. Den 21 juni Bàtar i land, fòr att sàdant verkstàlla, och afven for att de-rjemte plundra Portofranco. Det skulle ock hafva gàtt fòr sig, sà framt icke prinsen af Hohenzol-lern gàtt om bord hos amiralen, fòrestàllt honom sin obillighet och farligheten af det steg hvar-med han sà djerft òfver tràdde folkràtten, och sà vida fòrm àtt honom att draga sina order till-baka, att ingenting verkstàlldes ; men Genuesiska fartygen blefvo dock dòmde, att med 5 50,000 lires igenlòsas ; hvilken summa ocksà den 22 juni sàsom lòsepenning af Commerce tribunalet erlades, och sedan af det samma blifvit a prò rata pà skepps redarne utdelad. Derpà begàrde engelske amiralen annu en dryg penningssumma far att tillàta de fartyg, som utan-fòr hamnen befunnos lastade med il 20 giugno, di demolire tutte le batterie della costa e portar via tutta l’artiglieria che ivi si trovava. Il 21 giugno Mandavano inoltre in terra delle barche per effettuare tale disegno, e nello stesso tempo saccheggiare il porto-franco. Ciò sarebbe anche stato eseguito, se il principe di Hohenzollern non fosse andato a bordo del vascello dell’ ammiraglio, dimostrandogli la sua ingiustizia ed il pericolo del passo in cui si metteva coll’offendere il diritto delle genti. Egli lo persuase anzi a revocare i suoi ordini; ma le navi genovesi furono però condannate a pagare la somma di 5 50,000 lire; la quale somma il 22 giugno fu anche pagata dal tribunale di Commercio, come prezzo di riscatto ripartito in rate tra gli armatori dei bastimenti. Inoltre chiedeva 1’ ammiraglio inglese delle forti somme, per concedere alle navi che si trovavano cariche di farina fuori del porto il per- — 479 — spannmàl, att inkomma; men som detta ej kunde àstadkommas, bòrjade han preparerà till afse-gling, fòrandes med sig bort stòrsta delen af bemàlte fartyg. De Kejserlige i land uppfòrde sig emedlertid ganska hederligt, och allmànheten instàmde gemen samt att beròmma det redliga fòrhallande hvarmed prinsen af Hohenzollern utràttade det kall, hvartill fàltherren baron Melas honom utnamt, som guvernòr òfver staden och dess territorium. Den 2) juni om morgonen bittida, afseglade hela engelska flottali till Port-Mahon, och kejserlige tropparna defilerade hela dagen, emedan de borde evacuerà staden sam-ma afton, for att, i tòlje af den stillestànds-convention som àgt rum emellan fàltherrame Berthier och Melas vid Marengo, morgonen derpà òfverlemna den till de Franska, som redan voro làgrade vid Cornigliano. Den 24 juni klockan 4 om morgonem bò- messo di entrarvi; ma siccome non poteva ottenerle, cominciò a preparare la partenza portando con sè la maggior parte delle suddette navi. Gl’ Imperiali in terra si comportavano intanto assai onorevolmente, ed il pubblico era unanime nel lodare il modo col quale il principe di Hohenzollern adempiva le funzioni di governatore della città e del territorio, alle quali era stato nominato dal comandante barone Melas. Il 2} giugno di mattina di buon’ ora partiva tutta la flotta inglese per Porto Maone, e le truppe imperiali sfilavano tutto il giorno, dovendo sgombrare la città nella sera stessa per cederla il mattino seguente ai Francesi, che erano già accampati presso Cornigliano in seguito alla convenuta tregua tra i comandanti Berthier e Melas presso Marengo. Il 24 giugno 4 ant. cominciarono i ad entrare e prendere delle fortificazioni della alle ore Francesi rjade desse sednare att intàga och taga i besittning stadens j possesso — 480 — fàstningsverk. Allt gick mycket tyst till vaga, frihetstràdet efter en 19 dygns hvila reste sig ater opp, och allmànheten, som vid dess fall fòrbannat den tappra generai, som sà kàckt forsvarad Genua, och med en rost ropat: « Lefve Kejsaren » ! tàflade nu om att hvar pà sitt hàll vàlkomma de segrande tropparna, utropande med dem: « Lefve Friketen »! Nàgre af dem, som tro att frihe-ten bestar i att gòra allt hvad passionerna och tillfàllet gifva vid handen, gjorde nàgot buller i staden; men general-lojtnanten Suchets ankomst, utnàmd till guvernòr ofver Ligurien, fòrde dem snart tillbakainom anstàndig-hetens grànsor, emedan den àt-foljdes af en stràng proklamation mot de orvlige. Den 2 j juni tycktes de sjelfsvàldige, i fòrakt af bade folkràtt och borgerlig lag, vilja stòra stadens lugn, for-medelst òfvervàld och hamde-bragder ; och redan mòrdades och blesserades Aera de Kejser-ligas anhòrige bàde pà gator och i deras egna hus; men sàdant blef snart dàmpadt genom en nv proklamation af guvernòren, àt città. Tutto procedette con molta quiete; l’albero della libertà fu rialzato dopo un riposo di 19 giorni, ed il pubblico, che alla sua caduta aveva maledetto il valoroso generale che aveva difeso Genova tanto coraggiosamente ed aveva gridato ad una voce « Evviva l’Imperatore », gareggiava ora nel dare il benvenuto alle truppe vittoriose, esclamando con esse : « Evviva la Libertà »! Alcuni di coloro i quali credono che la libertà consista nel lasciare libero sfogo alle passioni , fecero qualche chiasso in città; ma l’arrivo del tenentegenerale Suchet, nominato governatore della Liguria, che pubblicò un severo proclama contro i perturbatori, li ricondusse presto nei limiti del dovere. Il 25 giugno pareva che i prepotenti disprez-zatori del diritto delle genti e delle leggi civili volessero disturbare la tranquillità della città con atti di violenza e di vendetta, uccidendo e ferendo alcuni partigiani degli Imperiali sì nelle vie che nelle case; ma il tumulto fu presto sedato da un nuovo proclama del governatore, seguito — 481 — foljd af en skyndsam exekution, genom till sàttandet af en verk-sam och rà'ttvis police minister, All ting blef sedermera tyst, och stadens invànare fingo snart njuta en stilla rvlighet undn erde nya Regeringen, soni bestod af en Commission af 7 leda-mòter, neml. 4 ex-nobles och 3 ofràlse samt en Consulta af 30. Nàgra dagar derefter afresta ifràn Genua bemàlte general-lojtnant Suchet, och blef i dess stalle utmàmd till president fòr consultali, och fransk plenipotentiair minister hos regerings-commis-sionen division-generalen Dejean. Epidemien rasade emedlertid med en faslig framgàng, och innan kort sàg man sà godt som òde, emedan de som, annu voro friska, bortreste for att nudvika smittan. Man har anmàrk att denna stad, som vid blockeringens bòrjan hyste en folkmàngd af mer àn 120,000 personer, i juli man ad ej en gang kunde ràkna 50,000. Man bòr dock ej tro att alla de òfriga med dòden afgatt, ty allt sedan bòrjan af aprii poi dalla pronta nomina di un atti-voe giusto ministro di polizia (1). Ben tosto ogni cosa si rifece tranquilla, e gli abitanti della città cominciarono presto a godere la calma sotto il nuovo Governo, il quale era formato da una Commissione di sette membri, cioè quattro ex-nobili e tre borghesi (2), e da una Consulta di trenta. Alcuni giorni dopo partiva da Genova il suddetto tenentegenerale Suchet, ed in sua vece era nominato il generale di divisione Dejean a presidente della Consulta e ministro plenipotenziario francese presso la Commissione di Governo. Frattanto 1’ epidemia infuriava con un progresso terribile, ed in poco tempo la città rimaneva quasi deserta, giacché quelli che erano ancora sani fuggivano il morbo. Si è calcolato che questa città, la quale al principio del blocco conteneva una popolazione di più di 120,000 persone, nel mese di luglio non ne aveva neppure 50,000. Però non si deve credere che tutti gli altri fossero morti, perchè dal prin- (1) Antonio Maghella. (2) Gio. Battista Rossi, Agostino Maglione, Luigi Lupi, Luigi Carbonara, Girolamo Serra, Agostino Pareto, Antonio Mongiardino. — 482 - mànad hafva blott fòljande af snuttsamma sjuk domar och na-turlig dòd i hvar vecka till sep-tetnber mànads slut aflidit 196 , 184, 176, 218, 237, 232, 315, 343, 382, 399, 406, 491, 508, 562, 590, 552, 494, 412, 367, 302, 245, 186, 168, 140, 114, 103, 90. Hvilket fòr 6 mànader gjorde en surama af 7850, ett mortalitets antal som i fredliga tider fordrat i Genua mer àn 2:ne àr att uppfyllas. Medeltalet af de sjuka ar nu 545. Som epi-demien nu hvar vecka synbarligen minskas, smickrar allmànheten sig med det hopp att den snart skall aldeles upphòra, och sà vài som de òfriga redervàrdigheter och elànden, som nu pà sà làng tid plàgat menskligheten och omstjelpt sòdra Europens varelse, tillika med detta àrhundratet under fredens och lugnets skygd fà till alias fàgnad en snar och ònskelig. I Ande. cipio del mese di aprile sino alla fine di settembre si ebbero in 1 ogni settimana solamente i seguenti decessi per malattie contagiose e morte naturale: 196, 184, 176, 218, 237, 232, 315, 343, 382, 399, 406, 491, 5°8» 562, 590, 552, 494, 412, 367, 302,245,186, 168, 140, 114, 103, 90. Totale per sei mesi 7850; mortalità che in tempo di pace non sarà compensata in Genova per oltre due anni. La media degli ammalati era di 545. Siccome l’epidemia ogni settimana scemava visibilmente, il pubblico sperava che presto terminasse totalmente; e, come le altre sventure e miserie che da cosi lungo tempo tormentavano 1’ umanità ed avevano mutato le condizioni dell’Europa meridionale, così pure sotto il patrocinio della pace e fortuna di questo secolo prendesse per il bene di tutti un pronto e desiderabile fine. Fine. II. DIARIO ANONIMO DELL’ASSEDIO E BLOCCO DI GENOVA (1800) nova, questa sventurata città d’Italia, sebben (1) sia stata in libertà e in governo popolare sino dal suo fondatore Giano, da cui fu nomata, ha dovuto nel decorso dei tempi cadere qualche volta d’ uno in altro dominio per la ragion del più forte. E quindi passò a sistemarsi in repubblica aristocratica, ma sempre col suo vero pegno di libertà! Essa poi dall’anno 1797 ha dovuto seguire la sorte della Francia con rimettersi in governo democratico , che pure degenerava in una fiera anarchia ; e finalmente l’influenza dei vari partiti nel mondo l’hanno costretta ad un nuovo cambiamento, per mezzo di quel (i) Nel cod. « che sebben », — 4$4 — rigoroso assedio di cui imprendo io a compilarne gli eventi. Discenda adunque l’augusta Verità, e sopra i miei scritti diffonda tutta la di lei forza e splendore: segua i passi miei non per nascondere, ma per adornare le di lei attrattive. E se questa mia storia non é estesa con pulitezza di stile, darà almeno la base a’ scrittori per descriverla colla loro eloquenza e al lettore il piacere di esserne già informato. La Francia già da gran tempo meditava una rivoluzione, la quale scoppiò nel 1792: fu allora che quei novelli repubblicani avidi di gloria meditarono il progetto di render libero il mondo intiero, ed infatti dopo di esser riusciti nell’invasione dell’Olanda e Brabante si accinsero all’ impresa d’Italia. Molti furono i progetti stati presentati a quel Governo, e finalmente fu adottato quello di Bonaparte come il meno dispendioso. Si presenta egli all’entrata in Italia, e viene soccorso con viveri e denari dai Liguri per proseguire il cammino: quest’ eroe del secolo, dopo replicate battaglie, arriva quasi a’ confini dell’Austria. Ma la discordia e l’insidie, che sempre han regnato fra gli uomini, arrestarono i di lui gloriosi passi e lo costrinsero all’ impresa d’ Egitto : frattanto fu ripresa e distrutta l’Italia. I coalizzati, sempre intenti alla distruzione dei Francesi, in proseguimento della loro impresa arrivano nel territorio ligure, lo circondano, e rinserrano il generale in capo Massena in Genova, epoca dalla quale comincia il mio istorico diario. r8oo — Aprile Primo. Sono immense le somministrazioni di denaro che la città di Genova ha dovuto fare a' tanti generali, de’ quali è stata fertilissima la Francia. Questi generali destinati all’ impresa d’Italia si portavano sempre in Genova per esiggerle o per diritto di grado o di rinfresco o anche a titolo di imprestito. Massena è l’attuale generale in capo in Italia (i), e trovasi in Genova: questo generale ha nelle sue attribuzioni la speciale incombenza di diffendere lo Stato Ligure , quindi è che dimandava di frequente al Governo delle somme considerevoli per tal fine. Nel giorno io di marzo p. p. espose al Governo che aveva bisogno della bagatella d’un milione. La Cassa nazionale è miserabile, non vi è denaro: ma i Governi hanno sempre le forme per batter moneta: difatti la Commissione di Governo passò a decretare la vendita coattiva di f. 500 m. impieghi sopra il Re di Svezia, e capitali una volta delle corporazioni religiose avocati dalla Nazione, ed altri f. 500 m. in tante cambiali per Pariggi sopra quella Tesoreria nazionale tratte dal generale Massena. Tanto la prima quanto la seconda somma fu ripartita fra gli cittadini più facoltosi della città, con 1’obligo di sborsare ciascuno la tangente in numerario anticipatamente fra il termine di ore 48. Se ne fecero quindi gl’ inviti rispettivamente sopra quei cittadini e si destinarono Fi più attivi commessi a presentarli; ma pochi si prestarono a questo sborso e di mala voglia, e la maggior parte chiusero le porte delle loro case e le lasciarono sole. Da ciò e dall’ essere assai lente le procedure del Governo, massime riguardo gli affari militari, colse l’opportunità il Massena di domandare e far creare nello scorso marzo una Deputazione di tre membri ca- (1) Cod. « Itaglia ». - 486 - vati dal corpo della Commissione, e che questa avesse immediata ingerenza sopra i soli affari militari; che i suoi decreti, approvati che siano dagli altri membri della Commissione, revvisti pure e sanzionati da lui come generale in capo, avessero forza di legge e fossero eseguiti militarmente. Questa Deputazione appena creata emanò un decreto, il quale autorizzava il comandante di piazza francese cit. De Giovanni a costringere colla forza armata coloro che non avessero ancora pagata la quotizzazione per l’impiego coattivo di f. 500 m. in cambiali per Pariggi : perciò si vidde girare per la città vari pichetti de’ Francesi, i quali arrestavano, pignoravano e gittavano anche a terra le porte di casa a’ cittadini renitenti. Andò tanto avanti questa militare licenza, che mi occorre qui accennare una violenza fatta a un terzo, per ciò che era destinata ad un mio buon amico il quale certo non avrebbe potuto sottrarsi da questo impiego, se non avesse prevenuto il colpo. Era questi un onestissimo negoziante siciliano stabilito in Genova, al quale rincrescendo di stare tuttavia in una inazione per la totale sterilità del commercio in questa capitale e di dover versare il denaro in tasse ed in impieghi forzosi, perciò diede sesto ai suoi affari, addunò i suoi fondi nel portafoglio e quindi abbandonando la città se ne partì per Livorno. Venne poco dopo assalita la casa dove abitava; e quel cittadino abitante in essa, a cui era stata sul-locata, fu minacciato dello spoglio dei mobili e dell’arresto per il gran motivo che era stata una volta quella casa abitata dal negoziante siciliano quottizzato: si provò delle difficoltà a convincere quei soldati della verità del fatto e dell’ assenza del siciliano ; ma un beveraggio che loro fu dato è stato 1’ unico argumento che li abbia convinti. Dalla prosecuzione di queste memorie noi vedremo coartati fino colla baionetta i liberi cittadini a fare de5 sborsi superiori alle loro sostanze, a quale prò’ abbia versato il denaro a fiumi questo pubblico e come abbia saputo il Massena cavar partito da quell’erario in dilapidazione, l’illusione e 1’ abbacinamento nel quale egli ha saputo tener sempre i patriotti e il Governo, quale difesa abbia riportata lo stesso Ligure da questo figlio di Marte fino ad aver già il paese di Nove invaso dai Todeschi nel mese di ottobre dell’anno — 487 — seorso; ed ora si va sentendo ne’ diversi giorni seguenti, quali io trascorro fino alli 14 per mancanza di maggiori novità, che abbino già prese diverse alture sopra la nostra riviera di Ponente, e quindi si sospettano in Savona come si avedremo nel seguente giorno. 14. Sono già varii giorni che il generale tedesco Melas calò con un grosso corpo di gente in Savona e s’impadroni tosto della città e, come si disse da molti, anche del forte. E nel giorno d ieri le fregate inglesi entrarono nel porto di Vado già invaso dai Tedeschi , i quali sempre in marcia si estesero lungo la riviera ; ma in Cogoleto vi trovarono i Francesi fermi e li attaccarono, e la zuffa durò i due giorni 12 e 13 con gran fuoco; mali Francesi li respinsero con farne diversi prigionieri e prendervi sette bandieie, quali oggi, seconda festa di Pasqua, le portarono in Genova e le esposero alle finestre del palazzo di Gerolamo Durazzo in strada Balbi ora del Popolo. 15. Nella scorsa notte e in questa mattina rientrarono quasi tutti i Francesi vittoriosi, ma il nemico poi non era nè distrutto nè fugato : quindi è che in questa sera stessa bisogna nuovamente marciare, altrimenti i Tedeschi si avanzano senza contrasto. Volano infatti i repubblicani, incontrano gli Austriaci e già si incomincia la battaglia. Durò il fuoco per vari giorni nei nostri disgraziati paesi di Arenzano, Varazze ed Albisola, li quali erano anche maltrattati dalle cannonate che li Inglesi radendo la spiaggia di mano in mano sparavano. In questo fatto vi furono alcuni morti e molti feriti in ambe le parti e non pochi prigionieri; ma 1 Francesi ebbero la peggio e dovettero retrocedere e rientrare in città, avendo lasciato un corpo di 600 circa in Sampierdarena e due pezzi di cannone sul ponte di Cornigliano. Tutta la Polcevera e invasa dai Tedeschi, e sono acquartierati alla Certosa in Rivarolo. In cima dello stradone vi è sentinella tedesca : in fondo dello stesso in S. Pier d’Arena sentinella francese. In Rivarolo vi fu eretta una reggenza aulica in tre soggetti; e il comandante colà dei Tedeschi e un certo Assereto, nostro genovese, del quale non so come possano compromettersi i Tedeschi, poiché egli si ribellò alla sua patria dalla quale fu alzato al grado di generale di brigata, tradì poi la Francia col mettersi al servizio dell Impero. — 488 — 21. La nostra città è divenuta un vero spettacolo e può dirsi oramai un ospitale : i feriti piombano da tutte le parti, i prigionieri si restituiscono per non farli morire di fame. Il barone d’Aspri, con 7 in 800 prigionieri fatti dalla parte di Bisagno ne’ scorsi giorni, anch’egli fu restituito sulla solita parola. I Tedeschi però non li contraccambiano, ma tengono scrittura, notano a credito. 23. Un piccolo fatto abbiamo in quest’oggi. Un corpo de’ Tedeschi, credendo che, superato il ponte di Cornigliano e pochi Francesi rimasti in Sampierdarena, troverebbero nel resto la strada piana per andare in città, assaltarono il ponte, lo guadagnarono con prendervi uno dei cannoni lasciati dai Francesi e li incalzarono sino in vicinanza della porta della Lanterna ; ma calata già da Belvedere una colonna de’ Francesi e rivoltatisi quelli che fuggivano, restarono li Tedeschi tagliati in mezzo circondati e prigionieri, e quelli che avevano il passo aperto dall’ altra parte furono inseguiti sino al di là del ponte di Cornigliano, qual’ è stato preso e ripreso diverse volte da ambe le parti a fuoco vivo : eppure non si contarono che 30 0 40 morti fra tutti e 600 circa fra prigionieri tedeschi. Ieri sera una fregata inglese bordeggiava da ponente a levante e finalmente presentossi sotto il tiro: il molo e la Lanterna le hanno tirato quattro cannonate senza però che queste 1’ offendessero , nè quella si sgomentasse 0 si muovesse, tanto che fece passare un piego al console Valastor, il quale poi andò due volte a bordo di essa fregata, e ritornò, e si dice per affari particolari e indifferenti anche a cognizione del Governo. Le voci che si sono sparse per la città, cioè che si trattasse una capitolazione, il nostro principe Massena le ha smentite con un proclama, nel quale dice che il generale Melas le ha ben fatto intendere che accetterebbe la piazza a capitolazione, ma che egli non vuole e non deve abbandonare la Liguria; indi assicura che non passeranno 15 giorni che il territorio ligure sarà evacuato dalli Tedeschi. 24. Questa mattina li vascelli inglesi inseguirono e fecero fuoco sopra due gozzi diretti per il nostro porto: uno lo fermarono, — 489 — nel quale vi era un aiutante di Massena, 1’ altro seppe involarsi da loro ed entrò in porto: in questo vi era il padron Bavastro, detto « Gii » , il quale (lasciando però la verità a suo luogo) veniva da Finale e portava un piego a Massena, che poi lo pubblicò con un proclama, dicendo, che riceveva notizia ufficiale dal campo di colà essere cioè in marcia per l’Italia dalla valle d’Aosta 70 m. Francesi : questa vien chiamata armata di riserva, avendo alla testa Berthier. Le muraglie della città e tutti li forti sono coperti dai Francesi, e non passa giorno che qualcheduno di questi non faccia cannonate e non seguano qua e là delle scaramuccie e degli attacchi ad ogni momento, cosicché si mangia e si dorme allo sparo dell’artiglieria. Eppure tutto questo non viene troppo fatale per li guerrieri, imperocché , finita la zuffa anche la più ragguardevole, non vi si contano poi che 8 in 10 morti. L’innocente campagna è quella che riceve tutti li colpi micidiali da tanta gente infernale ; e nemmeno contenta di ciò, questa gente sterminatrice le va strappando dal seno i teneri virgulti , che essa produce e va pascendo col suo dolce latte, e ne resta impallidita. Gli abitatori poi cadono smonti dall’ emissioni di sangue, a’ quali vanno sottoposti, e queste non è più costume il praticarle dolcemente con quella lamina sottilissima sul gusto d’ una foglia, d’ ulivo che il professore scherzando teneva nascosta in mano, ma con una ventina di baionette vien ora tratta fuori. Corre voce che siasi spedito al generale (sic) inglese Nelson in Livorno, e che si tratti un armistizio ed anche la liberazione dello Stato Ligure da tutte le truppe belligeranti, e che si voglia rimettere e dichiararlo in perfetta neutralità. 25. Le notizie portate dal padron Bavastro non fanno impressione che su i pochi fanatici e il proclama non rapporta la generale credenza. Ha poi confuso li cittadini un altro nuovo proclama di Massena, nel quale ordina che niuno debba uscire di citta senza prima aver dato conto di sè e venga munito di un bullettino : che le porte della città sieno chiuse alle ore 7 pom. : che al battere della generale si ritirino tutti in casa, meno quelli addetti alla guardia nazionale: che tutti gli attruppamenti siano dissipati anche colla forza, se abbisognasse, e finalmente alle ore 10 di sera allo — 490 — sparare di un cannone il popolo sovrano si trovi (non dice si porti) in casa. Eppure son tutte cose buone, ma non accrescono di un oncia il pane, il quale son già due mesi che fu distribuito a soldi 4 per testa ; indi fu ristretto a soldi 2 ed ora in questa settimana non se ne ha che un soldo, in peso un’ oncia e mezza : dippm oggi non si trovano nè viande nè legumi per supplirvi. La povera Cassa nazionale si volta dappertutto, esige, fa esigei e, e manda ad esigere le rendite, le imposizioni, le quotizzazioni pei radunar denari; ma il generai Massena le sa dare tanti assalti che la ta andare spesso col fondo in aria. 26. Un bastimento con 750 mine di grano ha saputo evitare gli Inglesi ed entrò questa mattina in porto: ma ci vorrebbe altro al nostro bisogno ! E quando vi avessimo larghi depositi di grano, la città non ostante non potrebbe essere provvista di pane , poiché 1 Tedeschi dalla parte del Bisagno ci hanno tagliato 1’ acquidotto dal quale calava 1’ acqua che faceva correre la maggior parte dei nostri molini, e quelli pochi che hanno l’acqua del braccio di ponente sono obbligati al Governo : e se qualcuno di nascosto ha macinato una mina di grano a qualche privato, ha preteso fino 1. 100 per la macina. In tali circostanze i liberi cittadini si rivolsero alli macina caffè, quali presso la maggior parte stavano già da gran tempo in ozio, e imponendovi invece di caffè il grano che a rubbi s’industriano provvedersi a lire 14 il rubbo si affaticano di girare e ne ricevono la farina mediocremente trita e polverizzata, e con questa suppliscono assai bene per vianda in minestra e si arriva pure a far pane. Si contano i giorni e non si aprono senza un fatto d armi o a levante o a ponente : oggi l’abiamo avuto in ambe le parti : quello a ponente, cioè in Polcevera, durò un’ ora, e dicesi che sia stato un fìnto attacco ordinato da Massena per scoprire le forze del nemico-trovò difatti che aveva postati 9 0 10 cannoni sull’alture di Cotonata, i quali imponevano più che i nostri dalle Tenaglie e che era in istato di far buona resistenza, e lo vedremo in appresso, frattanto per prova vi sono rimasti 708 Francesi morti e tre o 4 feriti. Quello a levante fu di poca conseguenza, benché vi fosse molto fuoco; stavano discosti e sembrava volessero solo vedersi. — 491 — 27- Fu un tratto di commedia nelle due decorse sere il vedere i cittadini liberi affannarsi per restituirsi a casa dentro le ore io prefisse dal Massena, e questo tiro poi non si è sentito: non importa; a tutti non è lecito il penetrare la mente dei sovrani. 28. Ieri sera si ebbe 1’ avviso del cannone : molti non ostante non mancarono di andarsene a casa con tutto loro comodo. In questa mattina vi fu un allarme per la città; due facchini vennero Ira loro a contesa per ragion di debito sulla piazza di Banchi. Il debitore si scaldò talmente che andò a prendere la moneta, cioè il carabino, e a dirittura l’impostò e scrucciò, ma non prese fuoco : questo bastò perchè nel ripararsi alcuni, altri nell’ urtarsi, tutto il popolo fuggisse e si dilatasse in disordine. Furono arrestati ii due litiganti, e si dice che 1’ alterco fosse malizioso e che lo schioppo fosse vuoto. I Francesi a buon conto temerono e si radunarono ai quartieri: ciò fu causa che il nostro Massena pubblicasse un decreto col quale proibisce di portare armi di qualunque sorte. Ora che i macinini prendono voga e sono praticati generalmente, siamo nella somma ristrettezza di grano ed alla vigilia di restarne sprovvisti totalmente .... In città non ci abbiamo altio che tanto grano per 8010 giorni, poche erbe ed alcuni muli, quali abbiamo già saggiato. Cionostante si hanno ancora dai Baffoni delle speranze e si protesta non essere onore di un generale in capo, di un Massena, il capitolare. Questa massima onore role accupa lo spirito della massa dei patriotti che circondano questo bravo loro capo. La Cassa nazionale deve versare il danaro e, se non basta, le sostanze de’ privati si metteranno a di lui disposizione, essi ne rispondono. Bisogna salvare la patria e far circolare il denaro, dicono questi zelanti. Ma un’ altra ragione che hanno costoro di lare un’ostinata resistenza di tutto, si è che tanti di quella ciurmaglia più notorii sanno che la spada vendicatrice piomberebbe sopra di loro all’entrare del nemico, e perciò compromettono il pubblico e si fanno barriera dell’ innocente città. Dippiù vi hanno parte ancora molti patriotti forestieri rifugiati in Genova, e fanno causa comune: talché noi abbiamo scosso il giogo dei nostri e siamo caduti in mano dei forastieri tiranni. A questo segno ridotto il po- Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2.° - 492 - polo sovrano che farà? che diverrai tu fra breve, sfortunata citta di Genova ?..... 29. Oggi non abbiamo alcun fatto di conseguenza; si vedono solo de’ preparativi, si sentono sottovoce delli improperi e delle imprecazioni contro di Massena: un sibilo, il latrar di un cane riempie di timore e di spavento : le botteghe sono quasi tutte chiuse : la mendicità si estende ognor più e geme per le piazze : la città è piena di mestizia, e questa non può essere più mitigata dal concerto dei campanili, i quali fino dallo scorso mercoledì santo turono chiusi per le saggie mire del nostro Massena. 30. Chiudesi il mese di aprile e si è aperto un generale attacco da ponente per tutto il giro delle muraglie fino al levante in Bi-sagno. La città è in mezzo al fuoco e rumoreggia tutt’all intorno: il popolo è spettatore della tragedia dalle muraglie, sulle terrazze e sui tetti: i tamburi per la città battono la generale, si chiudono le chiese e le case. Esce un ordine di Massena a suon di tamburo che debbansi tasto aprire le botteghe, quelle almeno che hanno commestibili. Alle ore quattro, dopo la mezzanotte cominciò 1’ attacco in generale , si vedono tutti i forti sparare incessantemente. Il forte Richelieu in Bisagno fa una prodigiosa difesa, sembra un Mongi-bello. La battaglia è accanita. Il continuo fuoco a plutone da tutte le parti forma un orribile tuono, insorda l’aria, pare vogliano finirsi. Dimani ne sapremo l’esito. Maggio, prlmo. — La giornata d’ieri fu per li belligeranti assai calda. Avea il nemico diretto le sue forze principalmente sopia i torti del Diamante, del Due fratelli, sopra Albaro, sopra il forte Quezzi, Richelieu e Santa Tecla. Sul principio erasi già impadronito di Quezzi ed aveva tagliata qualunque comunicazione col forte di Richelieu: erasi anche impadronito del Due fratelli e diede più assalti al Diamante. La posizione insomma del nemico era certo vantaggiosa, quando all’improvviso un grosso corpo di Francesi piomba sopra Quezzi e supera quel punto, respinge colla baionetta e caccia in rotta il nemico. Altrettanto segue sul monte del Due fratelli, dove erano le maggiori forze ; s’investirono i Francesi sino a mezzo tiro e subirono il primo fuoco dei Tedeschi: ma questi — 493 — colli Francesi addosso hanno imbarazzato tutte le palle dei fucili francesi, e tutte le cannonate del Diamante e dello Sperone : così che alle 5 pom. hanno dovuto abbandonare il posto e scampare col favor della notte, e prima di sera 1’ armata francese ha riprese tutte le sue posizioni ed è in possesso di tutti li forti. Quest’ assalto è costato ai Tedeschi 2000 e più morti sul campo, moltissimi feriti e 2500 prigionieri fra i quali molti ufficiali di rango. Oggi è stato un giorno di riposo e di calma. È girato un proclama di Massena col quale vuol far vedere agl’ insorti abitanti di campagna (se sarà possibile), che diversi di loro furono presi in battaglia, e ricorda che chiunque sarà trovato con l’armi in mano sarà massacrato. Costoro vengono sedotti dal nemico col rappresentarli la città di Genova di una facile impresa. Eppure la città di Genova per mezzo dell’armi è inespugnabile: la fame sola, questa immagrita megera, che già ci sovrasta, sarà la causa della nostra caduta. 2. Allo spuntar del giorno i Francesi dalla parte di Polcevera attaccarono il nemico: si divisero in due colonne: una di 2500 marciò sul ponte di Cornigliano, l’altra di alcuni di meno prese la fiumana, e, dopo alcune scariche guadagnarono il Boschetto, appresso la Costa ed arrivarono al piano poco distanti dalla Coronata, dove erano fortificati i Tedeschi con nove pezzi di cannone. Il disegno era di sloggiare da quell’ altura il nemico e di calarsene poi in Cornigliano, unirsi le due colonne e passare a Sestri a cercarsi del pane. Difatti, venuti sulla detta altura di Coronata a fuoco vivo, rinculavano già gli Austriaci e li Francesi contavano già suoi li 9 cannoni : ma ossia che le due colonne non andassero ben di concerto, come si disse, o che prevalesse la prostrazione e il maggior numero de’ Tedeschi, com’è più certo, a quali arrivò anche sul momento un rinforzo dalla parte di Borzoli, è fuor di dubbio che i Repubblicani ebbero la peggio e furono respinti, e mentre traversavano la ghiara ed entravano in Rivarolo, un corpo di cavalleria tedesca arrivò loro addosso, li tagliò in mezzo e restarono del tutto sbaragliati. De’ Tedeschi ve ne restarono assai pochi, ma di Francesi al solito non si sa quant’ è considerevole la perdita : a buon conto molta ufficialità non si vide più .ritornare — 494 — e se ne contò un buon numero di feriti. In questa congiuntura fece più tiri il nostro forte delle Tenaglie ed avrebbe colpito dei gran Tedeschi se fossero stati tante pietre della ghiara. 3. Peraltro è opinione d’ ognuno che nel fatto detto disopra i Francesi vi abbiano perduto da due mila uomini fra morti, feriti e prigionieri. Oggi le armate se ne stanno in riposo e passano delle reviste ; ma i Francesi sono anche in battaglia colla fame. L’ostinato Mas-sena ha ordinato che invece di pane si dia loro il formaggio: stiamo a vedere che ordinerà ancora vadano a succhiare il latte alle donne. Abbiamo pure in quest’ oggi un risplendente pianeta, dalli di cui vaghi raggi ne presaggiscono i Genovesi un qualche successo favorevole ai loro desiderj. Questi è l’inviato di Spagna, il quale in una carrozza (macchina per noi ormai rara e prodigiosa) con trombette avanti, si vidde marciare alla volta di Sestri, dove si ritrova 1’ austriaco generale Melas, e questa carrozza si vide tornare senza il ministro di quella corte, ma con i due ufficiali francesi che avea in sua compagnia. Da ciò ne desumono gl’ interpreti de’ passi altrui, che si stia lavorando un qualche trattato. Dio lo voglia. 4. Il popolo sovrano è ristretto nella tana : i Francesi apportatori di libertà sono imprigionati in questa misera capitale le di cui porte hanno barricate : eppure non so dove abbia il Governo tratti motivi tanto segnalati per ordinare un triduo finito in quest’ oggi e cantare il Te Deum in ringraziamento delle vittorie riportatesi. I poveri Genovesi sono in continuo vaneggio. Ogni benché minima cosa serve loro per ricavarci un indizio d’accomodamento. Ora si sa che l’inviato di Spagna non fu ricevuto da Melas (molti dicono perchè non vi era), che pranzò all’osteria e se ne tornò a piedi alla sera. Non passa giorno che le oche di mare, cioè gl’inglesi, non scherzino sotto il nostro tiro: oggi dopo pranzo infatti ci hanno obbligati a gettar alcune palle di cannone. II valoroso nostro Massena ci tien vivi per quanto può coi suoi proclami: egli ci sa dire oggi che 1’ aiutante Reille arriva da Parigi (non so come), e ci conferma che le armate francesi del Reno e di riserva sono in marcia fino dal i.° di questo mese (21 aprile) — 495 - e che quella di riserva entra attualmente nelle pianure d’Italia. Dio voglia che la bella stagione e quelle ridenti pianure non rallentino la marcia di quella gente. Liguri , dice il Massena, l’ora della vostra liberazione s’avvicina : che liberazione sarà mai questa? 5. I capelli storti, cioè quelli che s’intitolano patriotti, si sono radunati ed hanno fra loro formata una compagnia di 200 circa della feccia de’ più scostumati ; e di questa sorta di zelanti se ne teme. 6. Trecento circa Francesi hanno disertato e dippiù si sono arredati coi Tedeschi, cosa in vero che non si è mai veduta: ma tanto è, la Repubblica versa l’oro a fonti e i miseri soldati non ricevono paga da gran tempo ed ora muojono di fame: perciò è che indutti dalla miseria commettono delle estorsioni, e non vi furono villaggi che non [vi] abbino lasciato funestissime memorie della loro fratellanza, fino a gettare le ostie sacre dalle pissidi, com’è successo ultimamente in un monastero di frati al Chiapeto, e non ostante si vuol metterci in avversione i Moscoviti e Tedeschi come tali che commettano simili sacrileghi pilaggi e saccheggi, con richiamarci a memoria ciò che hanno quelli praticato sulla fine dell’ anno scorso nella nostra città di Nove , massime nel giorno 6 novembre. Se non avessimo avuto sotto degli occhi questo fatto, le armate unite sarebbero entrate fra gli applausi in nostra città assai prima d’ora. E se i Francesi non avessero dato dei simili ed anche peggiori esempi, non sarebbero diventati oramai 1’ orrore di tutto il mondo. Le devastazioni, i saccheggi non sono mai stati di sana politica e vero interesse delle potenze belligeranti. 7. Il convoglio che abbiamo accennato di sopra nella riviera di levante, 8 circa miglia lontano dal porto, ha fatto benissimo dei sbarchi ma non si sa di che. Molti dicono di munizioni di bocca, altri di guerra, ma la maggior parte sospetta di uomini d’ arme. Compariscono pure e costeggiano sulla riviera di ponente due grosse galere napoletane : queste poi hanno dato tondo presso il vascello dell’ ammiraglio inglese Keit sulla spiaggia di Sestri. Molte e diverse sono le voci che corrono per la città. Alcuni danno per certo un nuovo generale attacco per domani e posdomani, altri danno indizi non dubbi di un accomodamento, ed — 496 — aggiungono che sarà manifestato fino di domenica prossima con festa da ballo in teatro. La Commissione per altro ha raccomandato al Comitato di pubbliche beneficenze di raccogliere tutti quei legumi che le sarà possibile, per continuare la dispensazione della minestra a’ poveri, almeno fino a tutto sabato prossimo. Comincie-remo dunque nel giorno di domenica qualche quaresima. 8. La squadra napolitana ha voluto anch5 essa farci vedere che esiste e che sa fare delle prodezze. Due vascelli si accostarono sopra Sampierdarena con due barche cannoniere, e prima delle ore 4 allo spuntar del giorno ci hanno risvegliati con cannonate e bombe. Queste erano dirette contro i trincieramenti dei Francesi, un corpo de’ quali era acquartierato nel palazzo del Vento; li trincieramenti si smantellarono in parte ed essi si ritirarono : qualche bomba è caduta qua e là di Sampierdarena, ma vi fu poco guasto, giacché a mezza mattina sospesero forse perchè le batterie della Lanterna e due corsari francesi coperti dai forti li facevano dei continui tiri, ma pure senza effetto. Questo è quanto abbiamo di rimarco in questo giorno, abbenchè dovessimo vedere l’effetto dei proclami di Massena spirando oggi i 15 giorni, dentro i quali egli disse che il territorio ligure sarebbe evacuato; e spiacemi di non poter contentare il lettore coi-l’attaccnre il filo di queste memorie ad un’ epoca più addietro, per rapportare la quantità delle fanfaluche che questo rinomato generale si è sempre dilettato di spargere per abbacinare i poveri Genovesi , almeno una quantità di gonzi : ciò nonostante andando avanti chi sa che non ne produca ancora una buona dose per restarne pago. Quelli che hanno opinato per un accomodamento e che su di questo hanno partecipato con giubilo il loro visionai sogno sono arrestati : un tale esempio ha turato le bocche, molto più che si dice sia intimata la fucilazione a chi parlasse ora di capitolazione. Viva la Libertà. 9. Nella scorsa notte nuovamente prima delle 4 i Napoletani ci hanno fatto aprire gli. occhi e levare la -mente a Dio : costoro adunque, trovatisi dalla parte di levante, fecero parecchie scariche di cannonate e bombe con non lieve danno delle case e con re- — 497 — starne alcuni morti. Il nostro Massena all’istante ha temperato il nostro dolore con parteciparci la notizia che vense di ricevere (i). Io, per non meritarmi la taccia di esageratore e per non metterci niente del mio, mi fo un dovere di qui trascriverlo tale quale sta e confidarlo allo scrutinio del saggio lettore (2). Ecco i 15 giorni, ecco che la liberazione dello Stato Ligure andò a finire col surriferito proclama : ma pazienza, quelle truppe arriveranno più tardi : state quieti, o patriotti ; già, non ne dubitate, sono tra Susa e Torino, in appresso faranno passi da gigante. 10. Non abbiamo in quest’oggi cosa alcuna di rimarco; ma dal silenzio e dalla quiete che si prova si pronostica vicino un qualche disgustoso avvenimento. La miseria però prende possesso e si manifesta un giorno più dell’ altro : si è detto perfino essersi trovate per le case delle persone in deliquio di fame. E in vero, come mai possono sussistere dei cittadini sulli prezzi che si praticano oggidì ? un uovo, p. e., costa 8 e 10 soldi; la vitella fr. 30 la libbra; l’altra carne che si vende sono cavalli, muli; la verdura, cioè quella poca che riceviamo finora da Sampierdarena, soldi 6 : e non è che una dose scarsa di una persona. Il pane, come si disse, il pubbico ne passa un soldo a testa; e quello che si vende per le piazze vale 8 in 9 soldi l’uno di oncie 2 l/2 circa; il granone fr. 14, 10 a 15 il rubbo; il grano, del quale giorni fa se ne aveva qualche rubbo, bisognò pagarlo 28 e sino 30 lire al rubbo, oggi non se né trova più : il riso, seppure se ne trova, vale soldi 30 e più la libbra-; (1) Sic per « venne ». (2) Manca nel Ms. il proclama, che dovrebbe essere del 12 fiorile a. 8°, e manca anche nella Gaietta Nazionale; la quale contiene però questo cenno (n. 47, 10 maggio, p. 388): « Il generale Massena ha comunicato al Governo di aver ricevuto da una persona di sua confidenza la notizia che il generale Melas è passetto ieri ul Sassello coti 11 mila uomini; che ì annata di Beithier è tra Susa c Torino, e che gli Austriaci sono stali battuti. Una tale notizia, e un proclama pubblicato pure in questo giorno dal Comitato degli Edili, in cui si assicura alla classe indigente la distribuzione delle minestre ancora per vari giorni, devono persuaderci che la città può sostenere un assedio più lungo di quello che si credeva ». — 498 — e poi, alla risalva di qualche poco formaggio, noi siamo sprovvisti di tutto il resto; il di più sentiamo, e dev’esser vero, che non ci sia più tanta provvista da dispensare il pane da soldo che per soli 8 giorni. Il Governo ha ordinato le visite domiciliari, per rilevare la quantità de’ commestibili che esiste nel centro; ma non si rileva che ci abbiano provvigioni superflue. Eppure Massena va dicendo che il caso non è ancora disperato e che non può abbandonate la Liguria. Ma il vero si è che essendo egli distrutto sull’ ala diritta ha voluto persistere a mantenere il quartier generale in Genova, allettato forse dallo splendore dell’ oro e dalle belle cittadine le quali le avevano aperto la breccia. E poiché si è lasciato rinserrare in questa capitale, bisogna che faccia un’ ostinata difesa. Uno sproposito adunque di questo generale deve purgarsi coll’ eccidio e col sangue d’ un innocente nazione ? ii. Fino da ieri sera il nostro Massena diede ordine al generale Sults (sic) di marciare taciturno con 1500 uomini verso Marassi, e giunto colà aprisse il piego che li consegnava ed eseguisse. In quel piego adunque le divisava di portarsi all’ intorno del monte Fascie alle sue falde verso levante, e di penetrarvi alle baionette senza sparare uno schioppo per non avvertire il nemico acquartierato, e di sortirne poi alla mattina dalla parte di Quinto dove avrebbe sentito e visto 1’ effetto con le due altre colonne che stava I disponendo : fece egli dunque la sortita dalle porte di Bisagno con 3000 circa Francesi. Li divise in due colonne ; una la mandò lungo il littorale di Quarto e Quinto con Miolis alla testa, dove trovarono poca resistenza e con 1’ altra si avviò verso Paissone (1) per dare nuovamente la caccia a quelle provvigioni de5 Tedeschi. Allorché ebbe a fronte il nemico si venne alla battaglia ; la zuffa fu impegnatissima, ma i Francesi non poterono penetrar più oltre e retrocederono inseguiti dai Tedeschi fino a S. Martino in Bisagno sotto il tiro del cannone: in questo fatto si ebbero dei morti e dei feriti da ambe le parti. Presero un rinfresco i Francesi colà e il gen, Massena venne in città. Pranzò in piedi, entrò per brevi momenti dalla sua favorita (1) Il villaggio di Apparizione. — 499 — con stivali, e ritornò in Bisagno. Disse prima quattro parole ai soldati, che erano tutti sull’ arme , indi manifestò loro il piano di battaglia che doveva ancora ultimarsi in quel giorno. Marciarono i Francesi, e andò cosi bene concertato il colpo di metter in mezzo i nemici, che sul far della sera quei patalucchi si trovarono in mezzo dei Francesi, i quali si diedero il chivalà, e quelli alla prima intimazione deposero le armi e furono condotti prigionieri in Bisagno come tante capre in numero di circa 1500. Entrò Massena in città tutto gonfio di questo successo gridando al popolo : victoire. Tanti patriotti colli occhi fuori della testa, massimamente i più divoti di questo loro nume, la vogliono una vittoria quasi completa, slargando la bocca per dirla di 3000 prigionieri , e poiché non sia facile il contarli li hanno fatti entrar di notte fra le bande, i tamburi, e li evviva. È andato tanto avanti il fanatismo, che s’invitarono i cittadini a fare illuminazione; ma le case illuminate erano più difficili a rinvenirsi che un terno nel seminario. Alcuni sacchi di riso furono tutti i viveri che trovarono e presero al nemico : e il riso noi non lo vedemmo, poiché i Francesi lo vendettero subito in loco a soldi 10 la libbra. Vi fu anche chi disse che prendessero la cassa militare e che Massena se la sia appropriata , ma egli è troppo ricco per farli questo torto; anzi dicono altri che quella massa di prigionieri sia stata negoziata col proprio denaro e non già con quello della cassa pubblica. Dicesi pure che il Massena sia munito del salvocondotto, cioè di una capitolazione da aver luogo chi sa quando, forse allora che avrà sacrificato tutti li soldati e noi saremo morti di fame. Si sospetta altresì che voglia il Massena dare un attacco a Ponente in Polcevera: da certuni si vuole ancora che nella notte i Tedeschi si siano provati colle scale per sorprendere il forte delle Tenaglie , ma che una quantità di archibugiate e di granate abbiano colto quelli che non furono pronti ad abbandonare l’impresa. Ne creda ciò che vuole il lettore, giacché nulla di questo è garantito. Un cenno più che sovrano si vide ieri nella chiesa di santa Caterina in Portoria, correndone la solennità. Era disposta già la — 500 — ' musica sopra due palchi, all’ uscir della messa il popolo, i cittadini stavano raccolti in aspettazione intentique ora tenebant: giunge all’istante un uomo, ascende sul palco, fa segno colla mano alla presenza del popolo sovrano, e bastò perchè tutti scendessero e la musica ebbe questo grazioso finale. 12 II fatto d’ieri non può negarsi fa onore a Massena, è una vittoria dei Francesi, va benissimo; ma che poi sia tale da prenderne motivo di fare a mezzogiorno una salve coll’ artiglieria e di più ordinare il Te Deum alle chiese, ciò è un ingannare il popolo e burlarsi di Cristo medesimo. La miseria frattanto s’avanza e non si sa più con che cibarsi fuorché di ortaglia, che ancor non ci manca, ma a prezzo di sangue. Oggi non si trova più un pane, siamo ridotti al solo pane da soldo a testa, e questo pure va a cessare. Alcuni, quantunque benestanti, cominciano a fare dei digiuni, altri de’ poveri si trovano per le case morti, e ciò, secondo l’intimazione del ministro di polizia, si deve dire proveniente da malattie correnti. 13. Apporta un gravissimo danno ai Francesi, anzi può essere la causa della loro rovina, il malcontento dei paesani , i quali in molti siti prendono il partito dei Tedeschi, e fanno fuoco sopra de’ Francesi. Nell’ azione dell’ undici, che fu delle più accanite, asseriscono i Francesi stessi di averli lasciato 500 morti, 600 e più feriti e 700 prigionieri; ma dagli avanzi coi quali ritornò il Massena, che veniva di trotto, molti fanno ascendere di più la perdita loro e non senza fondamenti. Ecco il Te Deum! ecco le preghiere ! Voces peccatorum Deus non exaudit. Piuttosto si dovrebbe cantare un Miserere per tanti soldati che portò via questa battaglia. Or io son d’ opinione che questa battaglia sia decisiva, che il nostro generale in capo non sia più in caso non solo di dare attacchi, ma neppure di difèndersi. Dio voglia che siccome dalla protezione e dal passato avanzarsi dei Francesi non hanno avuto i Liguri altro che dispendio e ruina, cosi dall’attuale decadimento e da una vicina espulsione dei Francesi ne ritraggano essi un pronto ravvedimento e risorsa. 14. Poco, anzi nulla, abbiamo di rimarco in questo giorno riguardante gli affari militari, ed è una maraviglia che il nostro Massena — soi — non abbia fatta sparata alcuna nè in fatto nè in scritto. Per 1’addietro abbiam mangiato la farina, al presente siamo alla crusca che diciamo brenno : a questo segno è ridotto, senza carestia, un popolo sovrano sino ad assoggettarsi ad impastare brenno tritolato, e la gente più miserabile raccoglie i gettiti della verdura e se ne ciba: si son trovati subito degli infami speculatori che si sono dati l’arbitrio di radunare i teghini (i) delle fave, e venderli poi ad uno e due soldi la libbra. I cittadini , le cittadine son pallide in viso : im-magriscono : e la morte, che li va mietendo a centinaia per giorno, li trova tutti afflitti dall’ambascie, dal dolore e dalla fame. 16. Un brutto gioco ci fanno questi Inglesi e questi Napolitani ; ma che peccato hanno mai addosso le nostre mura e le nostre case , contro delle quali essi nella scorsa notte hanno scagliato diverse bombe? Quelle fabbriche, se avessero la parola, direbbero certo eh’esse non farebbero mai la guerra: eppure questi protettori della giustizia, questi altri liberatori, questi- conservatori delle sostanze, se non hanno fatto un gran danno, apportarono almeno colle loro bombe, che cacciarono in Sampierdarena od in Sturla d’Albaro, la disavventura a qualche casa forsanche di proprietà (e senza dubbio) di un geniale tedesco o inglese o di qualche altro che va dicendo con pericolo di essere arrestato, che quanto a sè si sarebbe già reso. Si raduna in questa sera la Commissione di Governo, unitamente alla Municipalità del Centro. Il generale Massena fa un longo discorso e convalida il di lui impegno di continuare a difendere la città, con una lettera- di Buonaparte la quale presenta : questa tavola di Mosè va in giro, è riconosciuta ed esaminata. In essa si rileva che il gran console Buonaparte intima al generale Massena, sotto pena della vita, di sostenere a qualunque costo la difesa della centrale, mentre egli stesso sarà fra breve, cioè a tutto li io prairial, alle mura della città per liberarla dall’ assedio. Il Massena rassicura 1’ assemblea che dalla parte sua non lascerà intentato alcun mezzo per secondare le mire di Buonaparte. Quanto alli viveri, conchiudè col raccomandare al Governo di provvedere per quanto si può il (i) Gusci. - 502 — popolo per giorni 13 al più, dopo i quali sarà la Liguria assoluta-mente libera dal nemico. Amen. 17. Alle ore tre dopo la mezzanotte gl’ Inglesi si sono presentati rimpetto a Carignano, sotto il tiro delle nostre fortezze, con 4 legni fra bombarde e barche cannoniere, ed hanno slanciato bombe e colpi di cannone in elevazione all’ angolo sinistro della città. Per altro tutto questo focoso apparato inglese ci ha insegnato a temerli poco, perchè il nostro forte della Cava e la batteria a pian d’acqua vi rispondevano per le rime e li tenevano larghi. In quella parte di città non vi sono cadute che due bombe e cinque palle da cannone, senza alcun danno : hanno bensì causato che gli abitanti in quelle vicinanze si sono ritirati impauriti ed allarmati gridando morte al generale Massena. Ma egli, oltre di nulla temere, non avrà sentito, perchè non dorme mai al palazzo e non si sa dove. Tutte le misure sono prese per resistere al nemico, ma non si sa quali provvidenze prenderanno per tener lontana la fame. Eppure bisogna ora passare li 13 giorni prefissi dal Massena: egli con diversi pa-triotti de’ quali è composto il Governo hanno in mano e sono provvisti, possono aspettare anche di più, ed il popolo che è il sovrano non importa: chi può aspettare va bene, chi non può cada. 18. Questo è il secondo dei 13. Consumati questi saremo liberi: ci è destinata la terra promessa, come al popolo d’Israele; ma noi siamo senza manna, o Massena!..... Il gen. Massena ha fatto trasportare in questi giorni delle grandi munizioni al forte Sperone, nel quale ha divisato di rinchiudersi con tutti i patriotti in caso di qualche rivolta nel popolo ed entrata dei Tedeschi. Frattanto ha barricato la sua abitazione con mettere sull’ attigua piazza di S. Domenico due pezzi di cannone e duecento soldati sull’ armi. Il pane che si distribuisce oggi, e non a tutti, è della grossezza di una noce verde, e tale che se calasse disgraziatamente intiero nella gola siamo fuori del pericolo di restarne soffocati. Tutto il popolo, e chiunque sarà informato di rutto questo, non avrà difficoltà a credere il popolo genovese una vera meraviglia. 19. Corrono in quest’ oggi delle consolanti voci, alle quali per un poco accorderei quartiere, se con questi cordiali ci riuscisse di — J03 — alleggerire la fame. Io mi sbrigherò coll’accennarle di passaggio, e fin ora non sono che semplici conghietture. Si vuole adunque che l’armata francese di riserva sia benissimo sul Piemonte, si presume anche arrivata in Alessandria, a Tortona. Dà peso a questa diceria il sapere che il generale tedesco Melas, avendo lasciato le sue istruzioni, è marciato via con delle forze, e una relazione che abbiamo del nostro forte Sperone, cioè che si sentano di lassù delle cannonate verso Lombardia. E poi un’ ostinazione tale del nostro Mas-sena, di tener forte la posizione di Genova, dev’esser fondata e bilanciata. Vogliono altresì alcuni che sia uscito da Tolone qualche carico di grani per il nostro porto, scortato da quattro o cinque vascelli pronti ad affrontarsi colli Inglesi ed a trattenerli tanto che passi il carico, e parrebbe che gl’inglesi ne siano informati, giacché si sono allontanati dalla nostra vista forse per andarli incontro. 20. Ieri sera la città fu sconvolta: ne fu cagione Tessersi veduti al dopo pranzo alcuni segnali e movimenti tra gl’ Inglesi, marciare le palandre , le barche cannoniere, ed ancorare sulle stesse postazioni dell’ altra volta, quando alla notte bombeggiarono. Dippiù si videro in città alcune disposizioni e trasporti di scartatuccie ed artiglieria : tutti indizi di qualche attacco di terra, come si diceva. Onde ognun si credeva e si aspettava l’incendio di Troia. Si ebbe a vedere perciò in città un andare e venire di popolo, un trasporto di legni, di bagagli e di materazzi. Le case alla marina ed altre in vicinanza si evacuarono : scorrevano di notte la città i cittadini, le spose, le pregnanti, le madri e i figli, ognuno qua e là si dirigeva, ognuno cercava, come impaurito uccello, un altro nido, e poi nulla si ebbe alla notte. Ma, oh Dio! qual notte sarà l’imminente? Si teme di peggio : poiché si va scoprendo l’arrivo di molti vascelli inglesi e sono ormai in numero di trenta : e vi è lo stesso armiraglio Nelson. I patriotti li crederono (giunge tant oltre la loro fantasia) per un pezzo vascelli francesi, e facevano salti da forsennati. Dimani chi sa cosa dovremo dire. Il poco pane da soldo che si distribuisce oggi fa orrore : se fosse composto di sola e semplice rusca sarebbe manna, ma essendo anche peggiore non so descriverlo senza raccapricciarmi. Le donne perciò in vari angoli — 504 - della città si ammutinarono e scorsero tutti i torni, si portarono via quel poco pane che in qualcheduno vi trovarono ancora. Il grano non si sa più cosa sia: ultimamente se ne vendette qualche rubbo, che teneva nascosto un usuraio, e lo rilasciò per carità a lire 130. Dimani, se vi avrà pane, dicesi che sarà di scagliola; ed infatti siamo ormai tanti uccelletti. Siamo anche soggetti alle pene di Tantalo, perchè ci tocca solo a vedere sulle nostre acque diversi carichi di grano, quali li Inglesi ci fanno passare davanti, ma con dirigerli poi a Voltri ed altrove. 21. Che cosa è mai divenuta Genova in questi giorni di devastazione e di lutto! con qual penna descrivere la disumanità e le ribellioni dei suoi abitanti ! con qual animo fissar lo sguardo sulla miseria e sulle rovine che passo passo s’incontrano ! Sarebbe l’angelo sterminatore della vendetta divina che vi ruota la fulminante sua spada? Io inorridisco nell’accingermi a delineare il quadro della di lei compassionevole situazione. Ma l’interno mio dolore s’andrà forse alleviando nel delinearlo al mio buon lettore che vi prenderà parte. L’età futura stupirà e stenterà a credere come la città di Genova, la nazione ligure abbia potuto soffrire con indulgenza tante peripezie e disgrazie e di più quello sfregio che sono per accennare. La mezzanotte era trascorsa appena, che un fiero rimbombo sentissi all’intorno. Subito la gente s’alza, corre alle finestre e sui terrazzi, ma l’orrida vista delle bombe in aria a cadere qua e là sulle case, il fischio delle palle di grosso cannone, quali non si vedeano per 1’ oscurità della notte, atterriscono i miseri abitanti che si ritirano nei fondi e sotto i volti delle case. Ivi frattanto si fanno delle serie ed utili meditazioni sulle vicende del mondo, sulla fede degli uomini, sulle barbare nazioni, sul despo-tismo dei grandi e potenti e sulla presunzione dei piccoli e sedotti. Si rivolge insomma nella mente e nel cuore il vivo desiderio di unirsi a Dio, di rendersi coabitatori de’ beati nella celeste magione e si propone un sincero distacco, forse momentaneo, dalle cose terrene. Cessato il flagello allo spuntar del giorno, verso le ore quattro, escono fuori dai loro sotterranei i cittadini, come dall’ arca la fa- — 50) — miglia di Noò: prima di uscire però quella pia famiglia fu avvertita dell occorrente dalla decadenza delle acque inondatrici. E quelli pure dai loro spediti commessi ebber notizia, che si erano ritirati i sterminatori legni, ma con aver dispersa la nostra squadra e una nostra galera nuova di prima impresa cadde fra’ legni nemici e restò per la prima volta prigioniera una galera genovese , poiché un tale nostro stendardo non ebbe mai a soffrire la vergogna di soccombere , ma pure il fatto non si può veramente attribuire nè a vittoria dell’ uno nè a disonore dell’ altro. Fu adunque la galera circondata da varii lancioni inglesi , segui per un quarto d’ ora un fuoco di fucilate e di spingardi. La più brava guarnigione di soldati , che vi era sopra, resisteva assai bene e il gran fuoco che faceva avrebbe certamente respinto gli assalitori, se la ciurma non si losse ammutinata ed avesse obbedito all’ ordine. Rivoltossi la gente ed alzò il generale la voce di viva gl’inglesi, viva l’imperatore., e quindi remigò e condusse la galera fra i nemici, non ostante che la truppa facesse sopra di loro delle scariche per richiamarli. Credesi però che tutto quel fuoco fosse stato fatto soltanto per ferire gli orecchi della gente. Il comandante della galera, vedendosi cosi burlato, si gettò in mare ed a nuoto entrò in porto. Questo sinistro riempiè di confusione i patriotti. La città fu afflitta da questo caso, ma ancor più si addolora al vedersi delle piaghe in molti luoghi aperte nelle case dalle bombe e dalle cannonate. De’ morti vi si contano due donne. Lo stesso generai Massena fu in pericolo di restarvi passando nella strada di Campetto, dove ne cascò una sopra di un poggiuolo del palazzo Imperiali, e dicesi che scoppiando la stessa ne sia toccato un solo piccolo pezzo al suo cavallo. Gl’ impenetrabili segreti di Dio non permettono di penetrare il perchè non ferisse lui la bomba e preservi finora per castigo degli uomini quest’Aitila flagellum Dei. La speranza di tanti, cioè che non dovesse più il popolo soffrire simili guai e quest’ indiscreto generale, è pure svanita, poiché il Massena ha prevenuto tutto con l’impossessarsi delli forti, scarsi delle provvigioni, mantenere delle donne e passare lire 4 al giorno a tutti li carbonari e facchini, a tutti gli sgherri, insomma a tutta quella parte di popolo che è tacile guadagnarsi col denaro. — 506 — Questo è il prezzo di una città che è stata finora il sostegno e la barriera della repubblica francese al cui generale si è confidata. Prezzo di tante violenze e di tante disonestà, che vi si commettono e v'i si portano in trionfo, è prezzo mediante il quale tanti Giuda e patricidi mirano con indifferenza l’infelice patria in ceppi avvinta e venduta : desolate le famiglie, le case, i tempi, e cader tanti cittadini vittima della guerra, tanti innocenti languire e morir di fame, pretium sanguinis est ; li privati, li pochi benestanti non solo pagano il tutto e versano il danaro in tasse, in quotizzazioni, in impieghi , forzosi ecc., ma sono anche dal Massena stesso arbitrariamente quotizzati. Si disse ieri che oggi sarebbesi distribuito il pane di scagliola, ma non ve n’ha di sorta alcuna, e siamo al quinto giorno solamente dei tredici prefìssi da Massena, dopo i quali saressimo liberi da questi guai. La morte difatti va proteggendo ed avverando 1’ augurio con liberarne anticipatamente una infinità. 22. Volgiamo lo sguardo in Sampierdarena. Noi vedemmo sotto il giorno 16 quel grande e magnifico paese aver avuto un regalo d’ alcune bombe dalli Inglesi, per cagione di trovarsi quel paese finora occupato dai Francesi. Non è già che questi vi siano in numero tale da poter impedire che gli Tedeschi vi calino ad invaderlo , lo che peraltro desiderano di vedere quegli abitanti, ma si perchè gli Tedeschi non vogliono levarsi, penso io, dalle loro fortificate postazioni sopra Coronata: laddove se ne calassero in Sampierdarena non saprebbero ove fortificarsi e sarebbero sotto il tiro di S. Benigno e della Lanterna; e poi, chi sa, quando avranno destinato di visitare quel paese, entreranno anche in città. Oggi dopo pranzo adunque li Tedeschi presero di mira la batteria dei Francesi al piede del ponte di Cornigliano verso Sampierdarena, e per abbondare vi fecero fuoco fino alle 24 ore con bombe e cannonate quelli di terra e gli Anglo-napoletani di mare, talché ha sofferto il paese moltissimi danni e ne restò diversi maltrattati e morti : di più furono fra gl’ innocenti marinai e pescatori che attendevano alle loro reti. Questo fatto allarmò non poco quelli abitanti e si temea volessero rifarsi sopra dei Francesi, ma fortunatamente passarono alcuni patriotti, che se ne venivano in città : si rivoltarono dunque gran — 507 — parte contra di quei profeti, e caricandoli d’improperi e bestemmie li misero a sassate finché ebbero gambe ad inseguirli. Per decreto del Governo sono invitati tutti li parrochi della centrale a dare una nota di tutti l’indigenti ed altra nota di tutti li più facoltosi della rispettiva parrocchia, indi resta incaricato il Comitato della pubblica beneficenza a rilasciare alli indigenti li bons, ossia biglietti sopra de’ facoltosi, i quali sono obbligati a pagare soldi io a testa e s. 16 per ogni capo di famiglia. Vedremo come andrà questa faccenda. 23. Dura tuttavia la calma, ma il bel sereno può essere quello che suol precedere non di rado a una qualche tempesta : sono pur lunghi questi 13 giorni de’quali non ne contiamo che sette! chi mai perverrà alla visione beata di quel giorno memorando ? Non ci coglierà prima la fame? Io stesso che scrivo, arriverò io mai a compire la mia storia? Ah! che non so se potrò più a lungo combattere con quell’affamata belva, poiché mi vanno mancando le munizioni. Eterno Iddio! le vostre promesse, la vostra preghiera che ci avete insegnata non ce la smentirete. In quest’ oggi gl’ Inglesi caricarono sopra diversi lancioni tutta la ciurma della nostra predata galera, e ce la presentarono in bocca del nostro porto intimandoci di riceverla, altrimenti ce l’avrebbero gettata sopra la nostra spiaggia di Sampierdarena. Fu accettato quest’ altro regalo, e si elesse una commissione in tre soggetti per fare il processo di quella gente. La galera poi 1’ hanno mandata, si dice, a Livorno. Già s’intende per fare in quel porto una trionfale entrata. La Toscana non ebbe mai a veder tanto. Nemmeno al secolo decimo secondo, nel quale le galere di quella nazione vennero più volte in battaglia con quelle dei Genovesi. 24. L’inaspettata calma, che si gode già da tre giorni, somministra un forte argumento a tutti i cittadini bramosi della quiete per credere che vi sia qualcosa di combinato e che si stia lavorando almeno a qualche accomodamento. È pure indizio di qualche mutazione Tessersi fatti allestire sei buoni bastimenti, quali sino da questa sera devono trovarsi alla punta del molo pronti a far vela: e siccome l’oggetto di questo preparativo è affatto segreto, così vari sono i sentimenti che si sentono sopra una tale misura: quanto a Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2.° 35 — 508 — me, penso di non internarmi più di così perchè ormai penso di essere ormai vicino all’ aurora del giorno. L’epidemia fa una gran strage; la fame s’avvicina all’ ultimo periodo ; i viveri, che rallentano ancora la di lei generale incursione, sono alcune fave verdi in scorza, che si vendono a fr. 16 e 20 il rubbo, li carciofi a fr. 4 la dozzina, qualche libbra di farina che oggi vedemmo si è pagata fr. 6 la libbra; e quattro pani, in peso oncie 16 fra tutti, che si trovarono bisognò pagarli fr. 11: la rusca, che diciamo brenne, vale fr. 40 al rubbo; il vino, fr. 30 mezzo barile ; la carne, già s’intende di mulo, di cavallo, di cane ecc., soldi 20 e 30 la libbra; il vitello, se se ne trova qualche poco, fr. 2, 10 la libbra; ed il latte soldi 20 1’amola. I possessori dei bons sono in gran numero. Scorrono per la città, pulsano tutte le porte e, dove lor riesce, esigono imperiosamente il loro credito liquido: alcuni per altro vengono scacciati anche con minaccie. Perciò dicesi che sia accordata agl’ indigenti la facoltà di valersi della forza per esigere. Evviva il popolo sovrano! 25. Nella scorsa notte il gran Massena ordinò la generale intorno la città. Al rumore dei tamburi si destano tutti li cittadini e si alzano impauriti per timore delle bombe 0 di un attacco. Niente di ciò poi seguì : fu un’ alzata di Massena per far vedere che egli sta vigilante. Una piccola scaramuccia abbiamo questa mattina in Paissone (1), dalla quale ci avvediamo che i Francesi non hanno più volontà di battersi, perchè alcuni deposero le armi a terra e dimandarono a’ nemici del pane. Anche in città quelli Francesi, che sono in guardia dei posti e delle porte, abbandonano queste e vanno limosinando. Il bravo Massena che tutto sa, e al quale pure è stato ministerialmente esposta la notoria miseria della città e la mancanza dei viveri, [rispose]: « Voi non sapete ancora cosa sia una città assediata ». Vuol dire dunque che non si è ancora all’estremo; di più soggiunse : « Se non sapete che mangiare, mangiatevi i figlioli ». Dio voglia che sia una crida, una chiaria di chi vorrebbe far (1) Apparizione. — 509 -«■ credere questo generale un uomo inclinato all’ ostinatezza, alla barbarie. I sei bastimenti, che abbiamo detto ieri, sono destinati al trasporto dei Francesi feriti, ai quali gl’ Inglesi accordano il passaporto. Entra oggi nuovamente in scena Volaston, console delle due Americhe , il quale si dice mediatore di un accomodamento fra gli Inglesi e la Repubblica. Vedremo ora quanto durerà questo raggio di luce. Ma i giorni di Massena sono 13 e questo è il nono. 26. Giorno dieci della futura nostra liberazione, ma temo che bisognerà adattarsi a qualche altra proroga. Dal buon Massena 1’ otterremo facilmente, ma dalla fame ? Giunge per altro un ajutante (non se ne potea dubitare dell’ arrivo di qualcheduno) da Antibo , un certo Franceschi, e porta la buona nuova che Bonaparte ritrovasi benissimo sul Piemonte, anzi in Ivrea, sempre in marcia alla nostra volta ; e dev’ essere a quest’ ora ben inoltrato, giacché il detto aiutante stato poi rispedito al nostro Massena da Bonaparte è stato undici giorni in viaggio. È vero però che non ha potuto fare la strada dritta, essendo questa riservata al solo Bonaparte!! L’incombenza di Volaston è ormai sicura: ma vi è dibattimento tra due soggetti della Commissione del Governo che vogliono accompagnarlo e lui che non ce li vuole. Molte persone private sono attorno di Volaston perchè stia saldo a non volerceli, come sarebbe ben fatto, ma quelli due baffoni capelli torti vogliono esser a giorno come si tratti la causa loro , ben disposti a sacrificare la capitale intiera, se non si combinasse a modo loro. Torniamo al sopradetto aiutante Franceschi venuto da Antibo. Che sia arrivato quest’ ufficiale e che sia calato a terra, ciò fu visto da tutti : da dove poi venisse e quali parole abbia portate al Mas-sena niuno le ha sentite o viste: Massena a buon conto le ha subito pubblicate con un proclama. E perchè niun possa dubitare che egli vi abbia variato sentimento od aggiunto parola, descrive nel proclama le parole stesse di Bonaparte ricevute tali e quali dall’espresso. Io pure, per lo scrupolo di non saperlo riferire con tutta l’esattezza, ho risoluto di trascrivere qui lo stesso proclama di Mas-sena ed ho lineato le famose parole di Bonaparte. — jio — Libertà Armata d’ Italia Eguaglianza Al Quflriìer generale di Genova li 6 pratile anno 8 della Repubblica Francese una e indivisibile. Massena, generale in capo, all’armata ed agli abitanti della città di Genova. È ritornato questa notte 1’ ufficiale da me inviato a Parigi presso il primo console. Egli ha lasciato il generale Bonaparte che discendeva il Gran San Bernardo ed aveva seco il generale Carnot ministro della guerra. Il generale Bonaparte mi scrive che dai 28 ai 30 Fiorile egli sarà giunto con tutta la sua armata a Ivrea e che di là marcierà a grandi giornate sopra Genova. Il gen. Lecourbe farà nel tempo stesso il suo movimento sopra Milano per la Valtellina. L’armata del Reno ha ottenuto nuovi vantaggi sul nemico: ella ha riportata una vittoria decisiva a Bibrach , ha fatto molti prigionieri ed ha diretta la sua marcia sopra Ulm. Il generale Bonaparte, cui ho fatto sapere la condotta degli abitanti di Genova, mi attesta tutta la confidenza che egli ha in esso loro e mi scrive: Voi siete in una posizione diffìcile, ma ciò che mi rassicura si è. che voi siate in Genova; cotesia città diretta da uno spirito eccellente, illuminata intorno ai suoi veri interessi, troverà ben presto nella sua liberazione il premio dei sacrifici che sta facendo (1). Questa notizia sarà posta nell’ordine, trasmessa ufficialmente al Governo Ligure, stampata nelle due lingue e affissa. 5 ’ F Massena. Dal suddetto proclama ognun vede l’impegno di Massena nel-l’aver spedito fino a Parigi ed al console Buonaparte, il quale subito si mosse da colà ed era anche giunto al Gran San Bernardo dove l’ha lasciato l’ufficiale. Le fa intendere anche Bonaparte che intorno i 28 e 30 Fiorile sarà in Ivrea. Or qui rifletta meco il li) Il testo della lettera, che è data da Losanna il 24 fiorile (14 maggio) suona veramente un po’ diverso, e dice: « Vous étes dans ur.e position difficile, mais ce qui me rassure c’est que vous étes dans Génes: c est dans des cas cornine ceux où vous vous trouvez qu’un honime en vaut vingt mille ». Nè aggiunge altro. — 5n — lettore : sotto il giorno 9 un proclama di Massena ci annunziava che questa armata di Bonaparte era già arrivata con Berthier tra Susa e I orino : indi sotto il giorno 15 dello stesso ci diceva con altro suo proclama che era arrivato sul Piemonte il giorno 24 fiorile, e ce lo sa dire il giorno 25 alla mattina di buonissima ora; ed oggi, come vediamo, che tra i 28 e i 30 sarà in Ivrea: sicché in questa marcia pare anzi che 1’ armata sia partita da noi e che vada a soccorrer Parigi. Si possono dare notizie più accertate, più favorevoli e più belle di queste? Il gen. Bonaparte poi ci porge un complimento che non meritiamo nel fare l’elogio alla nostra bontà e alla nostra città di Genova tanto illuminata, per onorare fino a questo punto il cittadino Massena. L’ affare dei bons si fa serio oramai : oggi ha portato anche del rumore ed un ammutinamento di gente, per cui si è temuto di peggio. Contasi che le persone munite di questi bons ascendano fino a 30 mila, e la maggior parte dei veri indigenti non è stata sovvenuta di questi, talché accade ancora che un benestante ha il bori sopra un miserabile, o sopra di chi è munito d’altro bon sopra quello stesso che si presenta da lui ad esigerlo. Questi sovvenuti, avendo la facoltà di valersi della forza armata contro di chi si mostrasse renitente, che ve ne sono molti, si vedono a girare, guatare le case ed entrarvi con violenza per estorquere questo barbaro tributo. L’asilo delle proprie case non è più inviolabile, le proprietà non sono più salve: la città, la patria è saccheggiata ed oppressa da una vera anarchia, è desolata dalla fame. La fratellanza, la legge è alterata e contravvenuta. Il sentimento, la parola, la verità, la difesa sono combattute. O patria, o legge, 0 libertà tradita! 27. Ancora una parola sulle nostre circostanze. Io vorrei potermi astenere dal dipingere tutte le infelicità, sotto le quali geme la sfortunata città di Genova, e lascerei al tempo la cura di alzare il velo all’ empietà, alla frode, e dimostrare che una folla di scellerati, intrusi nel Governo a forza di menzogne e di prestigi, tentò di perpetuare il suo barbaro regno con spargere il veleno d’una illusione seducente sopra i pretesi vantaggi dell’ attuale sistema. E vorrei pure persuadere ognuno, prima che io termini queste mie memorie e prima che io muoia di fame, che io sono repubblicano, che sono amante del sistema, quando sarà giusto e virtuoso, che amo la libertà, che la mia patria è libera già da secoli, e chiamerò ingiusto e prepotente quel monarca che si arrogasse per mezzo della torza il diritto di soggiogarla, lo che non voglio credere, ma bisogna d’altronde restar convinti che la città di Genova attualmente geme sotto il nome di libertà nella più vergognosa schiavitù di tutti 1 vizi, di tutte le passioni le più sfrenate e di una anarchia senza esempio, che non esistono più nè diritti nè proprietà, che la santa religione è calpestata, che gli altari e loro veri ministri sono profanati e dispogliati dei loro arredi e benefizi, e che finalmente una costituzione, sulla quale per altro ha spiegato la sua volontà il popolo, è lesa, è distrutta. Democrazia Noi non agiamo più che per un estero despote e suoi satelliti : uguaglianza non esiste che in spellare le sostanze dei privati e farne un mostruoso scialacquamento. Popolo sovrano! ma sulla bocca del cannone. O patria, o legge, o libertà tradita! Nella scorsa notte gran parte dei Francesi abbandonarono i forti del Diamante e del Due fratelli e disertarono, benché fossero chiamati all’ ordine e si fosse fatto fuoco addosso. La fame fece loro superar tutto. Ci avviciniamo al giorno 13: l’armata di riserva che viene a liberarci l’abbiamo veduta discendere il Gran San Bernardo, ma non ci manca che un proclama di Massena per avvicinarcela un poco più acciocché arrivi a tempo. Oh traditori! oh cittadini ingannati! 28. Siamo già al giorno 12, cioè alla vigiglia della nostra liberazione: ma in luogo di vedere dei bei preparativi per quella solennità cosi vicina, siamo anzi in questo giorno avvertiti che il nemico esiste ancora e ci è d’intorno. Oggi adunque abbiamo sentito qualche cannonata ed archibugiata da tutti li punti; ed alla risalva della Lanterna, che fece diversi tiri sopra gl’ Inglesi, i quali volevano impedire la pesca ai nostri pescatori, gli altri forti fecero fuoco contro i Tedeschi, i quali pure volevano impedire ai Francesi l’andare in cerca di fave e di piselli per divertire la fame. A questo solo fine, e non già per un attacco — 5i 3 — di sorta alcuno, credo io la sortita fatta fare da Massena a 500 circa soldati, i quali sono andati scaramucciando tutto d’intorno al forte del Diamante, dal quale poi asportarono in città alcune provvigioni di granaglie, le quali consistevano in trenta sacchi. Chi crederebbe ora che quelle granaglie, con una guarnigione di soli 10 a 12 soldati, fossero passate a giorno grande in mezzo d’una città affamata, in un borgo di Prè numeroso di gente e abbondante di miserabili, fossero passate, dico, franche e libere? Furono bensì guatate da quelli abitanti, e particolarmente le donne proruppero all’uso loro in molte chiarie ed imprecazioni ; di più i facchini che portavano i sacchi ostentavano una grande stracchezza per doversi riposare di tanto in tanto, affine di motteggiarle e tentarle. Eppure : vox, vox praete-reaque nìhil ; andarono al loro destino. Se le misure del nostro Governo camminano sulla perfetta uguaglianza , bisogna che lo dimostri, facendo ancora una parola sul-1’ affare dei bons, il quale va avanti imperiosamente fino a gettarsi le porte dei cittadini a terra, siano 0 non siano in casa. Il Comitato delle pubbliche beneficenze, incombenzato del riparto di queste sovvenzioni sopra i facoltosi, rivolse alcuni bons anche sulli stessi soggetti della Commissione di Governo, come quelli che hanno fr. 12 mila annui, per questo solo titolo. Un soggetto della stessa Commissione, vedendosi presentare dei bons sopra di lui, diede nelle smanie e le rigettò : andò poi a condolersi ed a meravigliarsi con i membri di suddetto Comitato e li tacciò come rei di impertinenza e d’inciviltà. Di questo calibro sono i soggetti della Commissione del nostro Governo! 29. Questo finalmente è il giorno 13, l’ultimo del nostro faticoso viaggio nel deserto: questo giorno deve ancora trascorrere; dimani avremo la liberazione, dimani entreremo nella terra felice, dimani arriverà Bonaparte. Oh giorno aspettato ! oh giorno di letizia! oh carissimo e verace Massena! Dimani non vi sarà bocca che l’onori. Ma come? che sospetti tu mai? qual motivo hai tu di credere che si dica mal di te per metter fuori tal proclama ? Questo è un proclama del Governo, col quale intimi anche la pena di morte a chi dicesse male di Massena. Ed è ben giusto. — 5i4 — Si disse e dicasi pur male di Cristo quanto si vuole , ma non di Massena: domani, chi sa, diremo delle grandiose cose. Intanto gli approvvigionamenti che dovevano arrivare , i carichi di grano che erano già disposti per questa piazza e quali ci promise il Massena ne’ scorsi giorni, come abbiam veduto, sono andati in Emaus, e la faine gira baldanzosa e superba per tutti gli angoli della città. Questa snella signora entra dappertutto, anche nelle più brillanti conversazioni ha il primo luogo, ma è cosi irrequieta che vi si ferma poco: scorre d’uno in altro luogo, ambiziosa di veder tutto e di essere inchinata da chiunque. 30. Eccoci alla gran giornata. Or chi mi darà la penna e T in-gegno per descrivere le metamorfosi di essa! con quale indifferenza e prontezza passò in un tratto dal riso al dolore, dalla pace allo sdegno ! come saprò io rappresentare la comica scena nella quale tanti cittadini han saputo a seconda degli eventi trasformarsi ora in leone ed ora in agnello, or prendere la figura di topo ed ora di uccello! Io non so se le stravaganze di quest’oggi mi lasceranno libero il campo per compire in qualche maniera all’ assunto mio. Comunque sia, io vorrei ben di cuore che le tante promesse del generale Massena avessero sortito quell’effetto, che fossero di vantaggio alla desolata mia patria e di piacere a chiunque è prevenuto in favore di questo Marte. Ma devo cominciare dalle bombe. L’ oscura notte era trascorsa più della metà , quando i cittadini furono destati dal rumoroso schioppo (sic) delle bombe e delle cannonate: ognuno abbandona il letto e la stanza, e non bene, all’ordine scende nei fondi della casa. Si fanno fra i vicini dei vicendevoli inviti per dove credessero di esser meglio riparati: quivi ognuno s’atterrisce al sentire in vicinanza lo scoppio delle bombe e il fischio delle palle di cannone approssimarsi, e già parea ciascuno di sentirle entrare nel proprio e nel vicino tetto: ma io fra gli altri me ne avvidi col fatto, poiché un colpo disgraziato venne a trovarmi nella mia casa. Una palla adunque di cannone, lasciando indietro il Palazzo nazionale e quello di Massena. contro de’ quali hanno direzione tutti li colpi, incontra il parapetto della mia terrazza che smantella; getta pure a terra un sedile e poi squarcia il tetto ed una trave, entra e sbaraglia qualche cosa, e finalmente si - 5J5 — fermò la palla a piano della mia stanza io palmi lungi dalla testa del mio letto , dal quale non ero ancora fuggito. Mi feci poi a riscontrare il peso della palla ancor calda, e la trovo non già d’oro nè d’ argento, ma di ferro e di sole libbre 25, quando gli altri ne ebbero di 36, 40 e fino di 45 libbre. Nella notte ventura mi daranno forse il resto. Due ore continuò questo bel tempo, dopo le quali ognuno sospirando esce dai tuguri e ripiglia le proprie abitazioni, e quindi si portano per le strade e per le piazze e raccontansi l’un l’altro i colpi ricevuti, gli accidenti, i danni sofferti e quelli della città. Si sente che le palle sono persino arrivate sulla bella collina del Ca-stellazzo e di Santa Maria della Sanità, dove anche offesero qualche casa : non si contano però che soli 5 morti, e fra questi qualcheduno perchè volle esporsi ad ammorzare la caduta bomba. Tutti stanno aspettando con impazienza il nuovo giorno nel quale spirano diverse epoche della nostra liberazione. Questo è il giorno 10 prairial del gran Massena, e perciò è misurato il corso del sole che s’alza, tutti vi sono intenti, e se ne contano le ore fino che s’arriva alle 10. In questo momento, oh meraviglia! giunge al Massena uno dei suoi corrieri soliti e gli reca la strepitosa nuova dell’ arrivo di Buonaparte. Una tale notizia la sparge appena tra i suoi, che la fama per tutta la città si diffonde : quindi i cittadini sbalzano qua e là, corrono da una piazza all’ altra, da una abitazione in un’ altra per averne il distinto ragguaglio. Molti si radunano e si portano dal ministro degli esteri, il quale finalmente li consola e li accerta che egli tiene notizia ufficiale avuta dal generale Mas-sena per comunicarla al Governo: «Il console Bonaparte mantiene la sua parola nell’ essere alle porte di Genova il giorno 10 pratile (30 maggio). La notte scorsa si trovava colla sua armata a Campofreddo e nel momento piomba addosso a Voltri; a questo oggetto ordina al generai Massena di partire dalla città coll’ artiglieria e con tutta quella truppa francese che può radunare, e di andarli incontro, per costringere così ad una capitolazione quel corpo di Tedeschi che si trovano tra Voltri e la città. Il console Bonaparte ha presentato battaglia al nemico in Asti, la di cui armata, composta di 16 mila uomini, in quel luogo è stata resa inservibile, — )-i6 - avendola dispersa. E prima che incominciasse 1’ azione aveva ordinato Bonaparte alla sua guardia consolare di mille ussari a cavallo di portarsi tra Voltri e Campofreddo silenziosamente, per impedire qualunque soccorso dal nemico della riviera di Genova ». Sono le ore 11 : si sente battere la generale per i Francesi, e i tamburi vengono seguiti con festa dai trasportati cittadini, a’ quali si vede avanzare il petto: li soldati già si radunano, e non arriva il mezzo giorno che sono pronti in marcia. Esce quindi il nostro generale con grande numero di ufficialità di stato maggiore, e una voce si solleva d’applauso e di viva : il batter di mano insorda l’aria col generai grido di bravo Massena! Riceve egli con maestoso portamento una simile festa, indi salendo a cavallo, e con lui altri 60 dello stato maggiore, parte. Lo seguitano da due mila Francesi in più riprese con vari pezzi d’artiglieria, sortono la città e s’incamminano al loro destino. La partenza di Massena con quel grandioso apparato avvalora maggiormente la notizia ufficiale. Di più si trova chi asserisce sentirsi già dalla Lanterna i colpi di fucile sopra Voltri. « Dunque (dice un parlatore de’patriotti) il tutto è compito ». — « L’astro benigno è comparso alla fine » dice 1’ altro. — Ed altri : « Ah ! noi 1 abbiamo sempre detto che non dovevamo essere più a lungo mortificati » ! E tosto ad una voce alzano il grido di viva Massena, viva Bonaparte. Indi si danno ad abbracciarsi e baciarsi scambievolmente: partecipano di quei calorosi baci molte cittadine che fra loro sono comprese. Si trovarono anche molti cittadini di lor natura anfibi, i quali per l’addietro e nello stesso giorno d’ieri si avevano finalmente legati alle meglio i capelli dietro e li avevano anche incipriati : ora in questa mutazione di scena si strappano il bindello nero dal codino e lo gettano nella pubblica strada e si vedono sgrofignarsi i capelli e nettarsi la testa dalla polvere e gridare e cantare trasportati : e questi stessi dove s’incontrarono al passare del gran Massena saltavano dinanzi a lui come gl’ Indiani in faccia al sole. Ebri così di gioia i fortunati cittadini pensano ora alle accoglienze da farsi al Bonaparte: già si è divisata una piena illuminazione per la sera, e di ordinare la minestra ai poveri, ai quali vanno dicendo: — 517 — « State allegri, ora avremo di tutto ». Io spero che non diranno bugia, ma raggiugnamo il nostro Massena. Arriva egli in Sampierdarena e s’inoltra fin dove trova il nemico di piè fermo su tutte le sue postazioni, e poco timore si era preso della bomba eh’ egli aveva sparato di Bonaparte quale l’a-vrebbero dovuto avere alle spalle. Allora il gran generale Massena prese l’altura di Belvedere, dove, per un’ urgenza corporale sopraggiuntali improvvisamente, ebbe a ritirarsi in quel primo sito che trovò adattato. Frattanto si videro dei segnali parlamentari, dopo i quali venivano ad incontrarsi due ufficiali. Uno è il generale San Giulien (sic) per parte dei Tedeschi, e l’altro il generale Andrieu per parte dei Francesi. Da lontano e dalle eminenze si stanno osservando li passi loro, e si vedono raggiungersi sul ponte di Cornigliano colle solite distanze e regole militari; e allorché furono a parlamento si scopre esservi fra loro un qualche contrasto ed esserne 1’ oggetto un plico, che si vede presentare dal generale tedesco e ricusare dal francese. Indi dopo brevi parole si fecero un inchino e si discostarono. Il preciso non vi furono testimoni che lo possano deporre. Io nonostante , senza garantir cosa alcuna, riferirò quanto ho saputo rilevare dagli accertati riscontri che ne ho avuto e dall’ opinione comune che ne corre. Il contrastato plico è un’ onorevole capitolazione che il generai tedesco offre e voleva indurre il francese ad accettarla e presentarla poi al generale in capo Massena. Il generale francese ha dovuto persistere nel ricusarlo sugli ordini avuti da Massena di non aderire a preliminari o ricevere plichi: anzi il generale Andrieu, sull’istruzione sempre del celebre Massena, intimò la resa al nemico sul momento, mediante una capitolazione, la quale poi (cioè quando sarà arrivato Bonaparte) non si sarebbe più in caso di accettare. Finita la commedia, il Massena ordina alla truppa di rientrare e di riprendere ognuno le sue posizioni in città, dov’ egli pure salendo a cavallo s’incammina di trotto per trasportarvi la scena. Dopo che i patrioti ebbero ben corsa e prevenuta la città del-l’improvviso fenomeno e della calma imminente, senza però tralasciare di motteggiare ed anche strapazzare coloro i quali prima del- — "518 - l’arrivo di Bonaparte dissero che sarebbe ormai tempo di capitolare, stavano cantando inni di gioia, aspettando come i SS. Padri il Messia : quando ecco giunge l’infausta nuova che Massena e la truppa dovette fermarsi a Sampierdarena col nemico in faccia, e che sussistono le batterie nemiche a Corniciano e a Coronata, guardate O dalle solite sentinelle, e che i nemici se ne stavano quieti mangiando e bevendo, e che poco o nulla s’interessavano di Bonaparte, di Massena e delle truppe francesi, le quali tutt’al più poteano loro costare un tozzo di pane per limosina. Successivamente, alle ore 4 dopo il mezzogiorno, vedono rientrare il loro grande oracolo Massena: allora si videro beffati e perduti, e tosto si scompongono e si dissipano, come stuolo di formiche alle quali venga scosso e tolto via il torso a cui siano d’intorno ; si ritirano essi silenziosi nelle proprie tane, mesti e pallidi in viso. Spargesi pure per la città una melanconia, sempre più viene detestata la procedura di Massena, e si odono anche delle pubbliche imprecazioni contro di si fatto generale. 31- Il giorno d’oggi fu preceduto d~ un preludio di poche bombe e cannonate : non apportarono però che un bel caso. Una palla di cannone d’ elevazione andò a colpire il portone del palazzo Doria(i) dove abita Massena, e la palla ebbe ancora tanta veemenza che lo passò da una parte all’ altra, sebbene incontrasse anche la mappa. Chi è informato di quel palazzo Doria da S. Domenico e della posizione del suo portone, li farà certo stravaganza questo colpo. La Commissione di Governo manda a chiamare il gen. Massena ed incarica un insigne avvocato, già membro del Direttorio (2), a descriverli lo stato attuale della Repubblica ed a farlo inclinare ad una capitolazione. Lo eseguì egli colla più energica eloquenza , ma finora invano, poiché Massena volle insistere a sostenere malagevolmente la piazza. Allora l’oratore passò, di commissione del Governo, a significarli al- (1) Il palazzo che era allora dell’ex-nobile Ambrogio D’Oria, sulla piazza di S. Domenico , fu poscia acquistato dal nobile Andrea De Ferrari, e da questi passò nel figlio Raffaele, poi duca di Galliera. (2) Luigi Corvetto, — 5I9 — cune misure che si sarebbero prese nel caso di sua ostinazione, e già già si cominciava da un proclama: sbigottissi allora il fiero generale e diè parola che prima di giovedì prossimo la eseguirebbe e sarebbe il tutto finito. Qui si guardano l’un l’altro i soggetti della Commissione, quale incolpandosi di esser deliberati senza avvedersene ad un rigoroso passo. Digilus Domini est hic. Giugno, primo. - L’ essere stati esenti dalle bombe nella scorsa notte si ascrive al maneggio dei trattati, ond’è che gli accidenti mi lasciano riposare alquanto. Mi si presenta però innanzi agli occhi l’estremo avanzamento della fame e 1’ orribile strage dell’epidemia. Io tralascio di dirne di più, per non funestare ulteriormente questi nostri ultimi giorni forieri di un nuovo, che spero felice, cambiamento; ma ciò che è seguito in questi giorni per mera trascuranza, anzi per una barbarie dell’empio nostro Governo, non so e non posso tralasciare di manifestare anche a tutto il mondo se mi fosse possibile. Tutti li prigionieri tedeschi, fatti in ultimo luogo in diverse battaglie, per ordine del Governo furono trasportati al bordo dei bastimenti a tal uopo destinati, come si disse in addietro: il Governo, poco o nulla pensando a quelli miserabili, li ridusse per mancanza d’alimento a cibarsi di pece ed a mettersi ai denti dei legni marci: arrivarono ancora, inorridisco a dirlo, ad arrostirsi e poi mangiarsi un corpo fra loro morto di fame. Noi vedemmo per altro che gl’ Inglesi presentarono sulla bocca del nostro posto la ciurma della nostra galera caduta prigioniera sotto li 23 dello scorso, intimandoci di riceverla, e ciò perchè era gravoso il mantenimento di quella gente al loro bordo. Non era dunque una bella pariglia 1’ offrirgli questi prigionieri tedeschi (giacché non si potevano mantenere per mancanza di viveri), dicendo loro che in caso di rifiuto l’avrebbero gettati in mare in vicinanza di loro? Ma no! Energia ci vuole, che muoiano di fame. Si spiegano pure i soggetti del nostro Governo con sentimenti d’inumanità, di sangue. L’infame Bollo, membro della Commissione, quando le fu fatta istanza da un ex-birro, che non potea esigere la sua paga dall’ amministrazione di Polcevera per motivo però che essa non avea denaro, anzi era indebitata, ebbe a dirle francamente: — J 20 — « Non importa, se non vi pagano scannateli ». Di questo calibro sono i rappresentanti di un Governo! 2. Giorno di somma tranquillità: ognuno spera ed ha per certo che debbasi aver conchiuso qualche cosa. Il minor male che ci possa avvenire si è di esser venduti come Cristo: quelli però che per la fame si sono sbrigati da questo mondo hanno avuto la sorte di esser morti repubblicani. Il giorno d’oggi non abbiamo avuto altri commestibili che carne di cane e di cavallo e qualche poco di vacca, fave verdi e brenno. La carne di cane vale soldi 34 la libra, di cavallo soldi 40, di vacca, quando ve n’ha, fr. 3 ; le fave Ir. 25 il rubbo; rusca, ossia brenno di biada, tr. 33 a 34 il rubbo, e la rusca di grano fr. 55 al rubbo. Si è venduto ancora qualche pane, ma di fieno, di scagliola , di polvere di cipro, di calcina 0 di qualche altro malanno a fr. 6, 7 e 8 l’uno. In questa sera dicesi firmata la capitolazione, e che li tre colpi di cannone che ha fatti il vascello inglese ne sia stato il segnale. tutto va bene, ma io che ho giurato democrazia o morte ? 3. Che meraviglia! È stato ordinato un triduo per le chiese: chi mai v’indusse, 0 cittadini, a siffatta debolezza? questo è fanatismo oppure siete bene alle strette, e perciò all’ ultimo vi siete rivolti a Dio. Ebbene, queretis me et non invenietis ! La capitolazione è fatta. Ma oh Dio! non si sa come e con quali capitoli. I patriotti, ohimè! sono confusi, fanno la valigia, malum signum. La Sopranzi, la mezzana di Massena, essa pure fa il baule e piange : ma perchè piangi, o donna? Il tuo padrone non è prigioniero, è in libertà, e noi non lo tratteniamo, nè l’abbiamo dimesso: l’opera sua ci fu vantaggiosissima , non lo chiamiamo a conti e ne siamo contenti. Evviva Massena ! Andate dunque in altro paese e dividetevi pure le spoglie della infelice nostra patria. Là vi riderete della nostra credulità, là porterete in trionfo la cabala e il tradimento usatoci , là vi farete sacrilega conversazione delle onte che avete fatte alla nostra stessa religione e là, onnipossente Iddio, si burleranno per sino di voi, e della chiesa vostra che hanno profanata. Eh via dunque, sguainate la vostra vendicatrice spada della giustizia, e fate sì che mai — 521 — più vengano ad insidiarci e a ridersi di noi perchè siam vostri seguaci: ne quando dicant gentes ubi est Deus eorum. 4. Tutte le donne dei quartieri si sono sollevate contro de’venditori di commestibili, a’ quali hanno portato via quanto vi trovarono ed hanno saputo rinvenire fino nelle sepolture ed estrarli. Si sentirono perciò delli improperii contro i soggetti del Governo, ma sentiranno di peggio. Digitus Domini ecc. In questa sera i Tedeschi comincieranno ad entrare nei forti; anzi a quest’ ora, che sono le due del mezzogiorno, dicesi che siano loro state consegnate le porte della Lanterna. Massena ha capitolato onorevolmente. E noi? e la nostra capitolazione? 5. Finalmente spari di notte Massena: alla punta del giorno entrarono i Tedeschi. Si sente acclamare: viva l’Imperatore ! La nostra città, la figlia della grande nazione, è sotto del monito. Ecco la grande madre. Bravo Massena! evviva Bonaparte! Addio patrioti! o patria, o figlia, o libertà tradita! \ CARLO DI SAVOIA E I TORBIDI GENOVESI DEL 1506-07 1 PER GIUSEPPE CALLIGARIS Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, tasc. 2. 1 *52-£ arlo di Savoia (i), sopranominato il Buono, nel lungo tempo in cui sedette sul trono sabaudo (1504-1553), prese parte, sia di spontanea volontà, sia per forza degli avvenimenti, ai fatti più importanti di cui fu piena la prima metà del secolo XVI. È appunto per queste sue relazioni con un periodo sì interessante nella storia italiana, che il suo regno merita di essere studiato, non solo da chi si occupa particolarmente di (1) Seguendo il Guichenon, Histoire généalogique de la R. Maison de Savoye (II, 622, ed. di Lione 1660), dovremmo chiamarlo Carlo III di questo nome. In un documento che pubblicheremo, egli si chiama Carlo II (« deuxième de ce nom »), sebbene in generale non si appelli che Carlo senza più. Carlo I di Savoia morì nel 1490 e a lui successe Carlo Giovanni Amedeo, che dagli storici a torto fu detto Carlo II ; sicché il figlio del duca Filippo II, venuto al trono sabaudo nel 1504, dovrebbe essere Carlo II e non III come è detto tradizionalmente. Solone Am-brosoii , nel suo recente trattato di Numismatica (manuali Hoepli, Milano, 1891, p. 117) lo distingue col nome di Carlo II. storia regionale, ma anche da chi voglia conoscere molte circostanze che accompagnarono o seguirono quei fatti che son parte integrante della storia generale. L’importanza però, che ebbe Carlo di Savoia di fronte alla storia italiana di quel secolo, potè a taluni parer secondaria, sicché il regno e la politica di questo principe furono trascurati, e sulla fede delle troppo scarse relazioni dei cronisti e storici contemporanei fu presentato un giudizio, che non s’era in grado di dare. Un eccellente contributo alla storia di Carlo di Savoia, anzi uno dei capisaldi per chiunque voglia occuparsene, è lo studio che gli dedicò il Ricotti nel primo volume della sua Storia della Monarchia piemontese; ma pur troppo questi non ebbe a disposizione tutto il materiale che gli sa-ìebbe stato necessario per presentare una figura finita ai suoi lettori, e forse neppure sarebbe stato conveniente , in un’ opera d’indole generale, discendere ad illustrare latti particolari. Uno degli episodi che si riferisce al tempo in cui Carlo fu duca di Savoia sarà appunto oggetto del presente studio: cioè le sue relazioni coi tumulti genovesi del 1506-7, che chiamarono in Italia Luigi XII di Francia e distrussero le ultime libertà della già fiorente repubblica. E mentre avremo agio di illustrare la posizione assunta da Carlo di fronte alla città tumultuante e al monarca francese, verremo indirettamente ad illustrare in qualche modo un periodo di storia italiana, che tuttora aspetta il suo scrittore. — 527 — 1. Nel 26 ottobre 1499 Genova s’ era arresa al fortunato vincitore di Lodovico il Moro (1), ma neppure sotto il nuovo signore aveva potuto trovar pace duratura, giacché le antiche discordie cittadine, dopo pochi anni di tregua apparente, nel 1506 erano risorte più fiere e paurose. I cronisti ci parlano di questi torbidi descrivendoceli con colori oscuri e terribili, sicché, al dir di Bartolomeo Sena-rega contemporaneo a quei fatti, a devenimus propter discordiam ordinum ad tempora mala, quae nos ad ipsum paene excidium perduxerunt » (2). E noi, aiutandoci appunto col Senarega e col Giustiniani (3), daremo un breve cenno di queste discordie, che sorte prima fra popolari e nobili, ridussero poi la città a ribellare dal re, e a dichiararsi libera ed indipendente eleggendosi il proprio doge, sfidando le ire di Luigi XII, che non tardò a far sentire sulla sventurata città la sua mano potente. — (1) Cir. Belgrano, Della dedizione dei Genovesi a Luigi XII re di Francia, in Misceli, di Storia Italiana, I, 557 sgg. Torino, Stamperia Reale, 1862. (2) Bart. Senar. in R. 1. SS., XXIV, 581. (3) Annali della Repubblica di Genova di monsignor Agostino Giustiniani, illustrati con note del Prof. Cav. G. B. Spotorno, II, all’anno 1506 e 1507, Genova, Canepa, 1854. Il Giustiniani, come avremo campo ad osservare, s’attiene comunemente al Senarega nella descrizione dei torbidi del 1506-7. Importante come termine di confronto e come fonte di notizie, che altrimenti non conosceremmo, son le « Cro-uicqties de Gennes, faictes et composée1 en franfais par Alexandre Saulvaige de nacion gennevois, etc., in Atti della Società Ligure di Storia Patria, XIII, Genova, 1879, Pag- 457> sgg. Il documento è per noi tanto più importante inquantochè, scritto in senso favorevole ai nobili, ci presenta la questione anche sotto un punto di vista differente da quello in cui fu considerata dai due cronisti sopracitati, che invece si devono ascrivere a parte popolare. — 528 — Molti principi italiani favorirono la causa del re francese lasciando nella lotta quasi isolata la repubblica genovese, che, all’ infuori delle simpatie inutili di Giulio II e dei soccorsi insufficienti di Pisa, non ebbe amico a cui appoggiarsi in contesa sì disuguale. Carlo di Savoia si schierò pure fra i nemici di Genova non solo per simpatie personali verso il re di Francia, ma ancora perché la repubblica aveva lesi i diritti di lui, e danneggiati sudditi e terre savoiarde. Senza investigare ora le cause di questi torbidi, qualunque esse siano, o ne abbiano offerto occasione principale i nobili, o, come vuole il Saivago, non siano neppur esenti da colpa i popolani, fatto sta che il 18 giugno del 1506 l’odio fra popolani e nobili scoppiò in aperto tumulto, mentre il regio governatore Filippo di Ravenstein era assente dalla città. Roccalbertino Catalano, che reggeva la repubblica in assenza del governatore regio, non seppe guidare il tumulto una volta sorto, sicché, quetati per allora apparentemente gli animi, un mese dopo una più terribile sommossa strappava al Roccalbertino la concessione che « due terze parti degli uffici si dovessero dare ai popolari, i quali allegavano questa cosa essere conveniente perché la città era partita in tre ordini, cioè in cittadini nobili, in cittadini mercadanti, e in cittadini artefici, le due parti dei quali sono popolari » (1). I nobili (1) Giustiniani, voi. II, 616; cfr. Senarega, loc. cit., 584. Nella dedizione di Genova a Luigi XII il 1499 (cfr. Belgrano, loc. cit., p. 585) era stato stabilito che « tutti gli onori, benefìzi ed uffici dello Stato sarebbero conferiti a genovesi dal Governatore e dagli anziani, tenuto calcolo della varietà dei colori ». Questi colori erano neri e bianchi; ed era determinato che « parte degli uffici della Repubblica spettassero a quelli di un colore e parte a quelli dell altro, e si divides — 529 — allora cominciaron a temere per sé; e il primo fra essi, Gian Luigi Fieschi, venuto sotto Francia a grande potenza, che dal re aveva avuto il governo della riviera di Levante, si ritirò dalla città, seguito, dopo pochi giorni, dalla maggior parte dei suoi, impauriti da nuovi tumulti popolari, che s’andavano rinnovando, sebbene fossero stati « eletti secondo la forma statuita dalle due terze parti dodici cittadini sotto nome di pacificatori » (i), e si fossero pur nominati seguendo lo stesso criterio gli anziani e gli altri magistrati della città. Finalmente il 15 agosto il governatore Ravenstein entrò in Genova; ma il suo procedere troppo aspro, con cui credeva incutere terrore, il tener troppo chiuso 1’ animo suo non gli conciliò punto gli animi dei cittadini, mettendosi così in condizione tale da essergli impossibile guidare e signoreggiare i tumulti. Sebbene il primo settembre il popolo avesse ottenuto, nel rinnovarsi degli anziani, due terzi dei seggi, pure non quetava ancora e di nuovo aveva preso le armi contro i nobili, e principalmente contro il Fieschi che lo minacciava. Ma i ricchi popolani erano stanchi di lotte, e forse anche spaventati delle proporzioni che prendevano le cose, ed inclinavano ad idee di pace. Avvenne allora nel popolo minuto una reazione, e staccatosi da quelli, si raccolse a S. Maria di Castello e si elesse otto tribuni, la cui potenza non tardò a farsi sero fra i tre ordini de’ cittadini, cioè nobili, mercanti ed artefici o popolari (Belgrano, loc. cit., p. 585, nota i). Ma la legge fu poi violata (Canale, Nuova Istoria della Repubblica di Genova, del suo commercio e della sua letteratura, dalle origini all’anno 1797, IV, 305, Firenze, Le Monnier, 1864) e i nobili invece del terzo s’ ebbero la metà dei voti e dei pubblici onori. (1) Giustin. II, 6:6. — 53° — minacciosa e irresistibile (i). Raccoltasi così la plebe e fatta potente, ed ordinato il movimento suo, operò con energia mirando a scopi più precisi. Una delle prime operazioni tentata allora dalle « cappette », nome per disprezzo dato all’infimo popolo (2), fu 1’occupazione della riviera di Levante, dal re concessa al Fieschi; la quale impresa irritò fieramente il Signore francese, che, nei suoi vari tentativi di conciliazione con Genova, richiedeva fra le prime condizioni fossero restituite al Fieschi le terre di quella riviera (3). Ma un altro tentativo del popolo genovese interessa a noi maggiormente, quello cioè contro Monaco occupato allora da Luciano Grimaldi; perchè la nuova impresa, venendo a mettere in contatto i popolani di Genova con Carlo di Savoia, fu poi causa di una lunga serie di trattative e contese fra i due Stati, trattative e contese che cercheremo di studiare nel presente lavoro. La repubblica genovese fu danneggiata assai dal duca di Savoia, non tanto però colle armi, quanto coll’ impedirle i commerci e le vie per gli Stati ducali. Merita quindi essere studiata questa relazione fra Genova e Savoia, trascurata da quasi tutti gli scrittori, che pure può interessare non solo chi studia la storia politica italiana di quei tempi, (1) C.fr. Giustiniani, I, 619: (I tribuni della plebe) « andarono in palazzo e ministravano giustizia; s’interponevano e facevano resistenza a molte cose, di modo che pareva che fossino non solamente uguali al Podestà e agli ufficiali ma molto maggiori ». (2) Giustin., II, 620: « perchè questi minuti e questa infima plebe erano poverissima gente, artegiani e servitori di artegiani, mal vestiti con le calcie di tela e con una stretta e cattiva cappa, perciò furono nominati cappette ». (3) Cfr. Guicciardini, libro VII, cap. II, il quale espone le ragioni con cui i popolari scusavano al re questa loro impresa, chiedendo che le terre delle riviere fossero governate col nome pubblico (ediz. Milano, Bettoni, 1829, voi. VI, p. 37)- — 53i — ma ancora può essere, speriamo, non inutile contributo alla storia del commercio e delle condizioni del medesimo sul principio del secolo XVI. Il popolo minuto genovese con ardore incredibile pose mano a quest’ impresa, ardua assai per la forte posizione di Monaco, ai quale di più prestavano aiuto potenti amici, senza badare che faceva cosa contraria alla volontà del re e dei suoi ufficiali nella città. I cronisti genovesi ci parlano poco diffusamente di quest’ episodio sebbene non dei meno importanti in quei torbidi anni, anzi paion disposti ad attribuirne unicamente la causa ai tribuni ed alla loro ambizione (i), piuttosto che vedervi qualche intento politico più elevato (2). Se noi ci fermassimo ai soli cronisti e storici genovesi, o piemontesi, ovvero in generale a quelli che si sono occupati di questi anni, non potremmo certo aver mezzo di studiare la parte presa da Carlo di Savoia in quei tentativi dei popolani genovesi su Monaco. Si contentano (1) Cfr. Senarega, loc. cit., col. 587 : « tribuni plebis, ut imperium eorum magis extenderent, denuo in eodem loco (S. Maria di Castello) vocata plebe, recuperandum Monachum esse dixerunt, idque facile factu esse affirmabant. Nam quicquid ipsis in animum venisset, etsi arduum esset, id etiam absolvi posse arbitrabantur ». Le stesse parole ripete il Giustiniani, II, 621. (2) Secondo i documenti infatti, che cita il Canale (Nuova Istoria ecc. IV, 312), parrebbe che l’impresa di Monaco dovesse essere preparativo per avanzarsi a soccorrere Pisa, minacciata fieramente dai Fiorentini, che già più volte s’era offerta a Genova, ma era stata sempre rifiutata per opera dei nobili. — Il Guicciardini (lib. VII, cap. II, 38) non rileva neppur egli in modo preciso questo più alto intento, e ricerca le cause della spedizione o nell’ « odio comune contro a tutti i gentiluomini genovesi, o perchè, per esser situato in luogo molto opportuno in sul mare, importa (il castello di Monaco) assai alle cose di Genova; 0 movendosi pure per odio particolare (conciosiachè chi ha in potestà quel luogo, invitato dal sito comodissimo a questo effetto, soglia difficilmente astenersi dalle prede marittime); 0 perchè, secondo dicevano, apparteneva giuridicamente alla Repubblica ». I documenti — 532 — tutti di presentarci il duca ostile all’esercito popolano, ma non ci parlano delle trattative molto lunghe che vi furon di mezzo, continuate ancora assai dopo sciolto già l’assedio e ritornata Genova all’ ubbidienza di Francia. — H chiarissimo signor conte Cais de Pierlas fu il primo che cominciò a pubblicar documenti importanti al nostro scopo, i quali ci svelano le pratiche di Luciano Grimaldi signore di Monaco per ottenere l’appoggio del duca di Savoia nella burrasca, che gli si andava addensando minacciosa. Per questo mezzo siamo però solo chiariti della posizione in cui si trovava il duca rispetto al signore di Monaco, dal quale egli riceveva omaggio feudale per parte del castello di Mentone e per Roccabruna, ambedue minacciati assai dai Genovesi. Era quindi Carlo di Savoia obbligato a prestargli soccorso come signore (i). L’ opera magistrale del Saige (2) ci fornisce, appunto come richiedeva lo scopo prefissosi dal chiariss. autore, una larga messe di documenti riguardo all’ assedio posto ufficiali genovesi, che dovevano largamente divulgarsi, come è naturale, non parlano che della ragione giuridica: [«quel loco lo qualle i antiqui nostri per priuilegn e concessione de li imperadori hano facto cum le proprie mano tornerà a li sui veri domini e fundatori » (V. Doc. I)] ; e accanto a questa accennano pure al vantaggio che ne avrà il commercio libero dal timore del Grimaldi e dalle sue imposizioni, sicché allora Genova, padrona delle sue due riviere, avrà il suo « distrecto tanto integro chi serà une cossa dignissima e ne risulterà mille beni ». La cronaca del Saivago citata, p. 472, assegna invece alla spedizione causa ben diversa, giacché dice: « La dcliberacion de ceste armée (contro Monaco) fut faicte pour obvyer que les populaires n’ allassent à 1’ encontre de Iehan Loys de Flesque, ainsi qu’ils avaient pourpencé de faire...». (xj Cais de Pierlas E., Documents inédits sur les Grimaldi et Monaco et leurs re-lations avec les ducs de Savoie, Turin, Bocca, 1885, p. 92-98. (2) Documents historiques rélalifs 'a la principauté de Monaco depuis le quinxjètne siècle, récueillis et publiés par ordre de S. A. le prince Charles III par Gustave Saige, t. II, Imprimerie de Monaco, 1890. — 533 — a Monaco ; ma solo per incidenza ci dà qualche notizia sulla parte presa dal duca di Savoia. La quale ci è spiegata molto bene da documenti ancora ignorati, fornitici dagli archivi di Stato genovese e torinese, ed è appunto sulla scorta di essi che possiamo seguire ad esporre le trattative fra i due Stati, continuatesi, come ho detto, per lunghi anni fino al 1509. Traccieremo quindi le linee generali del quadro coi documenti già noti ; e verremo man mano colorendo il nostro disegno colle notizie che ci forniscono i documenti inediti a nostra disposizione. II. / In quei giorni era signore di Monaco Luciano Grimaldi , pervenuto al potere dopo assassinato il fratello Giovanni (1). Una delle sue prime preoccupazioni era stato lo scusarsi del fratricidio presso il duca di Savoia, a cui il signore di Monaco era vassallo per undici parti di Mentone e per Roccabruna, e quindi gli si era offerto a prestargli 1’ omaggio dovuto. Le trattative furono un po’ complicate, probabilmente perchè il duca di Savoia voleva approfittare della condizione diffìcile in cui trovavasi Luciano. Finalmente il 5 marzo (1506) concedevagli l’investitura dei due luoghi su nominati e di fiorini 200 d’ oro annui sulla gabella del sale di (1) « Pendant la nuit du io au n octobre (1505) environ vers la sixième heure de la nuit, Jean Grimaldi était frappé à mort d’ un coup de dague, et le meurtrier ètait son frère Lucien » (Saige, op. cit., II, Introduction, p. xl; cfr. pure nota a pag. 829 del medesimo volume). — 534 — Nizza (r), e il 13 marzo davagli un indulto per il delitto commesso, impedendo ogni molestia ulteriore al riguardo (2). — Ciò dicemmo per istabilire la posizione di Luciano di fronte al duca di Savoia; posizione di cui Luciano ebbe presto campo di approfittare nelle minaccie terribili dei popolani genovesi, che già nel 24 settembre 1506 avevano rivolti i loro sguardi alla riviera di Ponente (3). 11 primo documento che ci dimostra il desiderio dei Genovesi rivolto a Monaco é del 7 novembre 1506 (4), in cui Genova dà incarico all’ ingegnere Ambrogio Gio-ardo di prendere esatte informazioni su Monaco e sulle forze necessarie per assediarlo. « Poiché siamo stati certificati del recuperare della Pieve [di Teco], abiamo esteso li nostri pensamenti (1) Vedi La question de Menton et Roccabruna, Mémoire avec documents publiès par ordre du Gouvemement Sarde, Turin, Imprimerie Royale, 1857; doc. IV, (1506, mars 5) p. 130. (2) Cais de Pierlas, op. cit., (p. 82-90) ei documenti ivi riportati. (3) Il Giustiniani, II, 621, pare che fìssi ai 24 settembre, il giorno in cui Tarmata genovese navigò contro Monaco, dicendo: « Il capitano Tralatino ai ventiquattro di settembre contro la volontà di Ravasteno si partitte con due galere e alquanti brigantini, e navigò a Monaco ». Il passo qui citato dipende, come spesso avviene per questi anni, da B. Senarega, colla differenza però che il Giustiniani fa dire all’autore che segue di più di quel che dica in realtà, poiché il Senarega non parla punto di Monaco: « Tarlatinus____die xxiv septembris____ ex portu solvit (loc. cit.; col. 587^. Siccome poi sappiamo da documenti certi che altre imprese furono tentate dai Genovesi sulla riviera di Ponente prima di marciar su Monaco, possiamo credereche col 24 settembre si indichi solo la data della partenza da Genova del nucleo di quell’ esercito che poi cinse d’ assedio Luciano Grimaldi, senza che forse allora i Genovesi avessero in mente di spingersi fino a Monaco. Il passo del Giustiniani trasse però alcuni in errore, i quali fan quindi durare per sei mesi l’assedio di Monaco. Cfr. per es. Tisserand, Hisloire civile et religieuse de-... Nice, Nice, Visconti et Delbecchi, 1862, II, 12. (4) Cfr. Saige, op. cit., doc. n. cccxxx, p. 48. - 535 - più avanti, e se deliberato andare a debellare Monacho ». Perciò 1’ ingegnere inviato deve dire « quanta artagliaria e de che forte (sorte?) li sia necessaria », alla quale la repubblica provvederà. Deve però tener conto esatto delle munizioni ed artiglierie che già sono state spedite, « de le quale nulla se adoperato », e mettere il tutto al sicuro in modo che non abbia a patire danno di sorta. « E tutta la fantaria si tenga cossi, né si mova fino a ordine nostro ». Genova era dunque risoluta di venir a capo dell’ impresa , nè lasciava cosa alcuna per prepararvisi con buona speranza di riuscita, sfidando perciò anche le ire regali di Luigi XII, il quale invano confermava la distribuzione degli uffizi come il popolo 1’aveva ottenuta nel luglio, a patto solo che gli fossero restituite le terre occupate. Sicché il regio governatore Filippo di Ravenstein, viste inutili le concessioni regie, invano oppostosi il 24 settembre alla partenza della piccola flotta diretta alla riviera di Ponente, il 25 ottobre aveva abbandonata la città, che non perciò s’arrestava nelle deliberazioni prese, ma cercava con più ardore di mandarle ad effetto. Luciano Grimaldi da parte sua nulla lasciava intentato per mettersi in grado di resistere ad ogni fortuna; e dopo pensato a presidiare la fortezza e fornirla di vettovaglie , aveva pur cercato di mettere in salvo le sue navi nel porto vicino di Villafranca (1), sia perchè (1) Cfr. Saige, op. cit., Introduction, chapitre II, p. L. — Il Saige premette una magnifica Introduzione alla raccolta citata di documenti monegaschi, nella quale parla dei - 556 - aveva cinto d’ assedio. Come si vede, le pratiche non erano corse lente; ma neppure lenti si era stati nello stringere fieramente la rocca formidabile. Nel primo impeto 1’ esercito genovese aveva pure occupate le alture della Turbia a cavaliere su Monaco e minacciose alla fortezza; ma il 18 dicembre n’ era stato scacciato dai Francesi comandati da Giacomo ci’Allégre signore di Millau, figlio di Yves d’Allégre, cioè del governatore di Savona per Luigi XII, che quivi si erano rafforzati (i). Allora i Genovesi scendendo nel piano della Condamine « au fond du port », incominciarono il fuoco più da vicino (2). Luciano Grimaldi però resisteva arditamente. Egli disponeva di circa 600 uomini, di numerosa artiglieria e, per quei tempi, di bella munizione (3), ed era risolutamente aiutato da Bartolomeo Grimaldi, a cui aveva ceduto il comando della difesa. Fra gli amici su cui contava vedemmo già il duca di Savoia. Ma i cronisti (1) Saige, op. cit., Introduction, p. m. Cfr. pure Jean d’Auton, Chroniques, ed. Jacob, t. Ili, Paris, Silvestre, 1835, p. 225: « Messire Yves d’Alégre, gou-verneur de Savone, transmit Jacques d’Alégre, son fils, avec sin cents Iaquais, à une ville près d’illec, nommée La Tourbie, pour icelle garder ». (2) L’ esercito genovese era strettamente sorvegliato dalla repubblica, che metteva gran parte delle sue speranze nella riuscita dell’ impresa di Monaco. Il documento già citato, edito dal Saige (doc. cccxxxix, p. 72 segg., anno 1506, 20 dicembre) ci avverte che 1’ « Officium balie communis Ianue, super rebus Monaci deputatum » aveva deciso di mandare due colleghi al campo per mostrare quanto gli stesse a cuore l’impresa. Ora il doc. ix, 20 dicembre 1506, che noi pubblichiamo , contiene appunto l’istruzione allora data ai due inviati, ricca di curiosi particolari. (3) Cfr. Jean d’Auton, loc. cit., p. 221 : « j’ai su par un des frères dudit seigneur de Monigue, qui dedans la dite place étoit davant le siège ; et me dit celui que telle munition de poudre y avoit, que étoit pour un an à tirer de chacune des dites pièces (cioè 22 grossi pezzi di artiglieria e 318 di piccoli) six coups le jour ». — 557 — ci dicono assai poco dell’ aiuto prestato in questa occasione al signore di Monaco dalla corte di Torino, che forse fece assai più parole che non fatti. Affine dunque di illustrare questo periodo, noi ci riferiremo special-mente ad uno dei più diligenti scrittori, Pietro GiofFredo, il quale, se non fu contemporaneo ai fatti, almeno ebbe agio di vedere libri e documenti, e aggiungeremo quel più che ci sarà possibile alle sue notizie. I due genovesi Senarega (i) e Giustiniani (2) ricordano a questo punto in generale le minaccie del duca di Savoia alla lor città, perché s’era mossa guerra a Monaco e a Mentone ; ma più chiaramente dice Pietro Gioffredo : « Apertamente se gli opponeva il duca di Savoia, che non voleva sopportare fosse dai Genovesi violata la sua giurisdizione col tenere esercito armato senza sua permissione nel distretto agiacente a quel forte, che è tutto quanto territorio della Turbia, e per conseguenza, a se sottoposto ; massime che nello stesso tempo si guerreggiava contro Mentone e Roccabruna, de’ quali luoghi, per ragione di diretto e maggior dominio, era signore sovrano ; e così volendo assistere a Luciano Grimaldo suo feudatario e vassallo, il quale con lettere instantemente avealo richiesto di soccorso, mandato buon numero di soldatesca in detto luogo della Turbia, che a Monaco è eminente, aiutava delle necessarie provvisioni gli assediati, ed incomodava in molti modi gli assalitori. Fu assai opportuna in quell’ assedio la presenza di Bartolomeo Grimaldo, signor di Castelnuovo cittadino di Nizza e marito di Francesca Galleana, già capitano di (1) SS. R. I-, XXIV, 589. (2) Annali ecc., II, 621. — 558 - due galere del re di Francia solite a stare nel porto di Monaco, che, a titolo di comandante delle armi, fu a tempo fatto entrare dal duca di Savoia suddetto in esso luogo » (i). Dal passo riferito del Gioffredo, ricaviamo chiaramente non solo la notizia delle genti Savoiarde che difendevano la Turbia (2), oltre alle quali gicà vedemmo i soldati francesi sotto il comando di Giacomo d’Allégre, ma ci risulterebbe di più che il capitano medesimo della difesa sarebbe stato fornito dal duca di Savoia (3). La notizia però ha bisogno di esser confermata ed elucidata, tanto più che fin dal novembre trovammo Bartolomeo Grimaldi presso Luciano (4). Il Gioffredo ci dice inoltre il nome dei comandanti del presidio ducale, cioè « Audino Ricordi castellano di esso luogo e.....Urbano Maletto scudiero ducale e capitano del Poggetto » (5). E molti documenti piemontesi ci parlano di ordini ducali per radunare soldati contro 1 Genovesi, che avevano violato il territorio Savoiardo ; (1) Gioffredo, Storia delle Alpi marittime, in Monum. Hist. Patr., SS., col. 1207. (2) Notizia che anche da Jean d’Auton, Chroniques, loc. cit., p. 225, ci è confermata : « Audessus, et pres de la Turbie, avoit une forte tour du due de Savoie, où pareillement étoit grosse garnison de Savoisiens, lequels aussi donnèrent souvent alarmes aux Génevois». E con Jean d’Auton ce lo attestano pure i due cronisti genovesi, ma, come vedremo, in altro luogo. (3) Che il Gaspardo de Ponte dei signori di Scarnafigi, spedito a Monaco dal duca il 10 dicembre « pro negociis sibi commissis » , come vedemmo più sopra, non avesse avuto dal suo signore qualche incarico rispetto alla difesa della rocca ? (4) Cfr. Cais de Pierlas , op. cit., p. 94- (5) Cioè della vicaria di Puget-Théniers. Cfr. Cais de Pierlas, op. cit., p. 101. 11 Métivier, op. cit , p. 195, invece scrive: « Le due envoya quelques troupes, sous le commandement du capitarne Migliando, à la Tourbie » ecc. ; ma potrebbe anche darsi sia un suo errore particolare. Del resto egli non cita le fonti. — 559 — ma coll’ aiuto dei medesimi non possiamo dedurre quello che poi siasi fatto in realtà. Aggiungi ancora che i più di quei documenti, come già notammo, mancano di data, sicché le nostre incertezze non potranno essere poche. La lettera genovese citata, del 14 dicembre, ci parlava delle « novità » che si facevano in Savoia, accennando pure ai preparativi di forze che già incominciavansi ; sicché subito, al principio delle ostilità, deve il duca aver diramati ordini in questo senso. Un documento del 27 dicembre [1506] (1) ci presenta un ordine ducale al governatore di Nizza, Claudio de Pallud conte di Petite Pierre, barone di Varambon, ingiungendogli di radunare « generalem exercitum » ; e mostra pur chiaro che già varie altre prescrizioni a questo proposito erano partite dalla corte di Torino (2). Infatti il duca ricorda che, avendo nei giorni precedenti dato incarico al Varambon di preparare l’esercito generale dei sudditi della patria di Nizza, questi si erano rifiutati di ubbedire agli ordini del governatore , sebbene quella « congregacio » avesse solo per iscopo di provvedere all' utilità e sicurezza loro. Col decreto presente egli conferma quindi gli ordini dati dal governatore, al quale concede balia di preparar questo (1) Doc. X, 27 dicembre [1506]. (2) Anche pochissime notizie leggiamo nel Liber computorum citato [1506-7] a questo riguardo. Siamo però certificati che prima del 27 dicembre eransi presi altri provvedimenti dal duca, giacché il 20 dicembre il signor di Chastellard passava in rivista 200 soldati, che due capitani ducali dovevano tenere « in locis Men-thonis et llochebrune, ad causam tumultus guerre » che i Genovesi facevano a questi luoghi (Liber comp., fol. 117-118). Che si tratti di disposizioni ducali anteriori ancora alla presa di Mentone e Roccabruna, che solo più tardi si poterono eseguire, e che questi soldati raccolti fossero il nucleo degli apparecchi d’ armi fatti dal duca? — 560 — esercito « ad numerum peditum et armatorum per vos taxatum seu taxandum ad iustam formam.... ». In altro decreto poi, che non ha data (i), ma ci pare a questo posteriore, Carlo di Savoia, scrivendo al medesimo Varambon, ricorda pure quanto prima aveva ordinato per la chiamata dei sudditi all’ armi : « Intellectis pridem nonnullis violenciis et operibus factis per Ia- nuenses inimico impetu..... in certa loca nonnullosque subditos nostros premencionate patrie nostre Nycie », egli aveva subito dato ordine al governatore di far le mostre , cioè la rivista « eorumdem subditorum nostrorum ». Facendosi poi più pericolosi i progressi dei Genovesi, aveva prescritto « generalem exercitum in dicta patria parari ». Ed aggiunge: « pro cuius effectu intelleximus vos penitus elaborasse », con che sembra alludere alle difficoltà incontrate dal Varambon nell e-seguire gli ordini avuti. Infine osserva « pro maiori suffragio et sublevamine eorumdem subditorum nostrorum » il governatore aver ridotto « pro nunc eundem generalem exercitum » secondo la balia avuta, « ad certum valde exiguum numerum.... videlicet octingentorum »; il qual numero per allora pareva sufficiente. Il duca gli dà quindi piena autorità di ridurre il tutto ad effetto. Non risulta dai documenti piemontesi a me noti, in che modo abbia il duca disposto di questi 800 uomini, cioè se li abbia concentrati alla Turbia 0 sparsi alla difesa dei propri confini. Ma qualunque sia l’aiuto che il duca abbia dato a Luciano Grimaldi, questi, non timido difensore, (1) Doc. XI, data incerta. — 5él - tormentava gli assedianti con furiose sortite , fra cui é celebre quella del 2 gennaio 1507, nella quale inchiodò i cannoni della Condamine che dovettero tacere per un mese (1). I Genovesi si strinsero più vivamente attorno a Monaco, ed il Tarlatino fece costrurre « des retranche-ments sur les hauteurs des Moneghetti et celles à l’ouest de ce plateau, avec des fortes batteries destinées a battre le cóté de la place, dit de Serravalle » (2). E Luciano non solo opponeva loro i forti baluardi della città, ma cercava ancora l’appoggio di potenti amici, e fra questi specialmente del re di Francia, che, sdegnato contro i Genovesi, aveva, come Luciano, molti motivi per opprimerli. Di queste pratiche era incaricato il vescovo di Grasse, quel che già vedemmo trattare colla corte di Savoia. Egli guadagnò Nizza per mare : « Augustin se mit en Communications avec les officiers royaux de Provence, tandis que sa seur Frangoise avait fait de Dolceacqua le centre des informations qui venaient du Milanais » (3). Il momento era ben scelto per rivolgersi al re, il quale, irritato contro la città ribelle, pensava di domarla colla forza, e già aveva dato ordini per i preparativi necessari ; sicché 1’ ambasciatore fiorentino Pandolfini scriveva da Blois 1’ 11 gennaio 1507, che il re aveva già riunito a Villafranca quattro galere francesi, a cui bisognava aggiungerne due del signore di Monaco, per un attacco su Genova (4). (1) Agli 11 gennaio giungeva nuova a Venezia che « i Zenoesi a la impresa de Monaco erano sta rebatuti » (Sanudo, Diarii, t. VI, col. 528, alla data citata). (2) Saige, Introduction, p. liii. (3) Saige, Introduction, p. lui. (4) Saige, Introduction, p. liv. Marin Sanudo (Diarii, t. VI, col. 543), alla data 6 febbr. 1507), riassumendo lettere molto desiderate ài Francia, scrive: «Il re — 5 62 — Il duca di Savoia medesimo parve voler prendere misure più energiche. Un documento genovese dell’ 8 gennaio 1507 (1) ci dà notizia delle molestie che i Francesi della Turbia davano ogni giorno agli assediami : « Quelli de la Turbia ogni giorno sono ale mane cum li nostri, e hogi se sono feriti da xxx incirca; de li nostri ge ne he stato uno tanto. Quali per quelo hauemo potuto intendere hanno hauuto la paga da nobili ». Infine si aggiunge: « Similiter hauemo intezo che alianti heri (quindi il 6 gennaio) lo gubernatore de Nicia ha facto fare una publica crida che ciascuno da xvn per fino in lxx douese prendere le arme in mano e vegnire a la Turbia per defensione de quel loco, tamen li voleua per offensione nostra. Li quali non lo hano voluto obedire, dicendo che non voleno guerra con noi, saluo con comandamento del duca loro (2) ». Probabilmente queste parole non si riferiscono agli ordini, che già vedemmo dati al governatore di Nizza, di preparar le milizie alla difesa del territorio. Anche allora invero i sudditi avevano rifiutato di ubbedire all’ intimazione del Varambon, ma non si trattava, pare, di una leva generale a cui qui si accennerebbe, e di più gli ordini ducali, di cui parlasi di Franza à spaza Pre Iam (Prejean de Bidoulx) capitanici di 5 galie armate per le cosse di Zenca... Item, il re verrà certo per Pasqua a Milan ». (1) Archivio di Stato di Genova, Diversorum, communis Ianue, 1507 , n. 64. È una breve relazione mandata agli officiali della Balia sugli affari di Monaco, dai commissari al campo. Molte di queste preziosissime relazioni inedite sarebbero indispensabili per potere scrivere una storia compiuta di quest assedio, e degli anni 1506-7; e solo coll’aiuto loro si potrebbero sciogliere quelle difficoltà davanti a cui troppo di frequente dobbiamo ora arrestarci. (2) Il doc. ha la data : « Datum in castris die vili Ianuarii 1507 » ed è firmato : Magnificentiarum vestrarum Theramus de Baliano et Bernardus de Castiliono commissari ». / — 5^3 — nel documento del 27 dicembre come già pubblicati qualche giorno prima, non possono confondersi con altri ordini pubblicati il 6 gennaio. A questa data parrebbe piuttosto convenire altro documento che studieremo più avanti, pur della corte di Torino, il quale presentaci patenti di commissione generale per la chiamata dei sudditi all’ armi e per la rivista dei medesimi. Quivi il duca rivolgendosi « dilectis universis et singulis potestatibus , vicariis, iudicibus et castellanis », ingiunge loro di intimare ai sudditi tutti cc quattenus ad arma illico se se parare habeant et ad infrascriptas monstras se preparent ». Di più ordina che queste « monstras, quanto citius fieri poterit indillate fieri faciatis, et recipiatis annotando et describendo nominatim eos qui propterea coram vobis affuerint ». Certo ci manchi la certezza assoluta di corrispondenza fra i due documenti, tanto più che nelle patenti ducali citate non é altro ordine se non quello di preparar le riviste generali dei sudditi, e non siamo per nulla in grado di sapere quali altre disposizioni siano state date dalla corte di Torino: ad ogni modo, se non possiamo coordinare le notizie ad unità sistematica, amiamo presentarle anche slegate, piuttosto che architettare fantastiche combinazioni delle medesime. Forse il documento, che ora ricordammo, si deve avvicinare ad altro ordine ducale che riferiremo, il quale porta la data del 15 febbraio 1507: ci basti per ora il notare come risulti chiara la posizione che il duca prendeva di fronte alla repubblica, sdegnato principalmente per la violazione del territorio e per i danni ivi prodotti. Ma altre tristi conseguenze arrecava ai Genovesi — 564 — la collera del duca. Del gennaio medesimo è un ordine (i) ducale che inibisce ai sudditi del contado di Nizza di somministrar vettovaglie ai Genovesi. Ricor-dansi qui pure le « violencias, impetus, inuasiones, incendia , raptus, deuastationes, aliasque plerasque indebitas nouitates » fatte da essi, che hanno così « posposta.... antiqua benevolentia qua iamdudum apud nos ac pre-decessores nostros singulari fauore commendari solebant ». Tutto ciò essendo troppo grave a sopportare, il duca ordina nel modo più preciso che non si debba dare ai Genovesi, autori di tante scelleratezze, sussidio alcuno in vettovaglie, o in altro modo qualsiasi; anzi comanda a tutti i suoi ufficiali di arrestare i Genovesi « quos super eadem patria nostra (Nizza) reperire continget » di impadronirsi dei loro beni, presane prima debita nota, non molestando quelli però che « diu eodem inhabitarent et domicilia in dominio nostro cum familia fuerit ». Sul commercio dunque ricadevano i maggiori danni. Il documento ci fornisce molti dati importanti. In primo luogo ci mette innanzi i motivi dello sdegno della corte di Torino, i danni cioè che i Genovesi avean fatti nelle terre soggette al duca, il quale, come vedremo, ne chiederà stretto conto e risarcimento alla repubblica, anche quando la città sarà tornata all7 ubbidienza reale. In secondo luogo, mostrandoci che il duca aveva dato ordine ai suoi ufficiali di arrestare i Genovesi che potessero prendere sulle terre nizzarde, ci ricorda altri ordini pur ben severi che vedremo emanati contro i cittadini (i) Doc. XII, gennaio, 1507. - 05 - della repubblica, con danno gravissimo dei loro commerci (i). Dopo quanto abbiamo riferito, si può immaginare quale esito abbiano avuto gli uffici del Veneroso alla corte di Torino. Anzi in una delle sue missioni al duca, egli non potè esser ammesso all’udienza; sicché, re infecta, ritornossi in patria. Non vollero però i Genovesi interrompere le loro relazioni con Savoia; e, per riannodare le trattative rotte così bruscamente, rivolgevansi al vescovo di Mondovi, gran cancelliere ducale, che non pareva loro dichiarato nemico (2). Dolgonsi con lui dell’ udienza negata, tanto più che il loro inviato « non offerebat nisi omnia plena honestatis et reverende », e si lagnano pure delle parole che tanto il gran cancelliere medesimo come altri del Consiglio ducale avevano rivolto al Vene-roso, le quali « aliena visa sunt ab ea convenientia super qua haberi nuntio aliqua possit ». Avvertono perciò che non manderanno più il Veneroso, ma solo inviano ora un messo al gran cancelliere, pregandolo, che, se rimane sempre « in eam opinionem de qua idem Bernardus (1) Pare del resto che la misura di arrestare i Genovesi di passaggio sul territorio ducale e confiscarne i beni, fosse stata presa fin dal principio delle ostilità. Infatti il 12 dicembre 1506 Bartolomeo Usillione partiva da Torino per Avigliana e Susa a « detenir et prendre les Genevoys et leurs marchandisses passant par les pays de mondict seigneur, pour ce que les dicts Genevoys faysoient guerre au seigneur de Monigue » ed aveano occupato « Menthon et Roquebrune, terres et iurisdictions de mondict seigneur » (Liber computorum, 1506-7, fol. 113 v.). A questo fatto o ad altri di simile natura deve accennare appunto la lettera che studiammo, arrivata in Genova il 14 dicembre 1506 [Saige, doc. cccxxxix, p. 7^3* (2) Doc. xiii, 11 gennaio 1507. — Amedeo di Romagnano, protonotario apostolico e abate di s. Solutore, fu elevato nel 1495 alla dignità di gran cancelliere ducale; nel 1497, ebbe il vescovado di Mondovi; mori il 17 marzo 1509 in Torino. Cfr. [Galli] Cariche del Piemonte, I, 43. — 566 — discedens cum vestra tantum Dominatione R.m‘ » ebbe parola, risponda; e allora essi saranno pronti a rimandar chi abbia balia di trattare. Come vedremo più avanti, pare che il Romagnano discorresse di composizione fra le due parti con denaro : nè Genova si mostrava restia a venir su questo terreno; anzi, presa occasione dalle parole del Romagnano, se ne serviva come di un mezzo per riprendere i negoziati. Il gran cancelliere non deve aver trascurato le proposte genovesi, ed i suoi buoni uffici presso il duca paiono aver sortito buoni risultati. Anzi pare che Carlo di Savoia medesimo avesse caro di proseguir le trattative, se mandava a Genova il suo scudiero Usillione, incaricato di manifestare alla repubblica il pensiero del suo signore; e sebbene non ci siano note le parole dell’ inviato savoiardo , pare almeno che fossero tali da permettere di continuare le trattative nella nuova fase in cui le vediamo entrare (i). Questo si arguisce dalla lettera che il Consiglio genovese scriveva al duca il 19 gennaio 1507 (2), in cui, dopo le giustificazioni e proteste, annunzia di voler inviare di nuovo a Torino il Veneroso, appena si sia ristabilito dalla malattia che, come « nouit idem scutifer vester », arrivato a Torino (1) Bartolomeo Usillione partiva da Torino il io gennaio 1507 « en poste avecques lectres de creance » del duca « pour aller et retourner à Gennes vers les seigneurs du Conseil des anciens de Gennes pour la restitucion des dictes terres et satisfacions des dommages, missions et interet supportés par mondict seigneur pour la prise de ses terres, pillieries, insolences et violences ». Liber computorum, 1506-7, fol. 113. Se dunque l’Usillione partiva da Torino ai 10, pare che il duca stesso avesse prevenuto i Genovesi nel riprendere le pratiche ; forse da ambe le parti si cercò contemporaneamente di riannodarle. (2) Doc. XIV, 19 gennaio 1507. — 567 — il 2i gennaio (i), l'aveva incolto di ritorno da una missione in riviera. La malattia del Veneroso però non fu breve, perché il i.° febbraio (2) il Consiglio riscriveva al duca scusandosi di non aver potuto ancora mantenere la promessa fatta di inviare a Torino il Veneroso, non essendosi questi ristabilito ancora, né potendo senza evidente pericolo della vita esporsi al viaggio : mostrava però di sperare che in breve sarebbe partito. È vero che altra persona avrebbe potuto sostituirlo; ma non era sembrato conveniente, perché il Veneroso, avendo già trattata tutta la pratica, più non aveva bisogno di molta istruzione, mentre non era facile che altri potesse in breve essere informato di ogni cosa e trattarne con piena cognizione. Ma fino al i']- febbraio il Veneroso non fu in grado di salire a cavallo; sicché dobbiamo credere in tutto questo tempo rimanessero sospese le pratiche fra i due Governi. Genova però non cessava di stringere più fieramente l’ostinata fortezza, che non voleva arrendersi (3) ; e basta leggere gli ordini continui che mandava al campo (4), per convincersi dell’ agitazione che cominciava a sorgere in città a sì fatto riguardo. Per tutte queste notizie rimandiamo all’ opera tante volte citata del Saige, sia ai documenti suoi, sia alla sua Introduction in cui presenta una breve descrizione di questo assedio, basandosi sulle fonti migliori, che egli più d’ ogni altro, era in grado di consultare. (1) I.iber computorum, fol. 115. (2) Doc. XV, i.° febbraio 1507. (3) Il Senarega (SS. R. I., XXIV, 588) ed il Giustiniani (Annali, II, 624) ci parlano dei popolari minuti « artistae » che erano accorsi contro Monaco, e della mala prova fatta. Cfr. il doc. cccxl, 20 gennaio 1507, edito dal Saige, op. ettp. 74. (4) Saige, op. cit., doc. cccxli, p- 75. — j68 - Come ho già detto, non bisogna però credere che il Saige, sebbene tanto benemerito della storia del Principato, abbia al nostro proposito potuto dir I’ ultima parola : solo allora questa si potrà dire, quando si saranno consultate le preziosissime relazioni dei commissari al campo, di cui é ricco l’Archivio di Stato di Genova ; ma il dotto scrittore ha almeno utilizzato fonti che nessuno prima di lui aveva considerato coll’ occhio del critico, confortato da larga messe di documenti. E ben a ragione Genova era agitatissima. Si era sparsa la voce che il re sarebbe venuto in persona contro la città, e si parlava già dei preparativi che per ciò andava facendo (i) ; nè più potevasi contare sulla simpatia di Giulio li, nè sulle sue rimostranze per distogliere il re da tale impresa (2). Anzi il 7 febbraio Galeazzo di Sallazar, che comandava i Francesi del Castelletto, aveva cominciato le offensive, scendendo dalla sua fortezza e facendo prigioniere le persone accorse alle funzioni nella vicina chiesa di s. Francesco; di più lanciando bombe sulla città. Ma non cessavasi perciò di procedere con ostinazione nell’ assedio di Monaco, sebbene il campo in realtà difettasse di denaro, perchè si era lusingato di vane speranze e talora da fortune effimere. Nel febbraio, per esempio, mentre Giacomo d’ Allégre, comandante dei Francesi alla Turbia, era andato a Nizza con parte delle (1) Cfr. Sanudo, Diarii, t. VI, col. 543, alla data 6 febbraio 1507; col 553, 26 febbraio 1507, in cui parlasi dei xoo mila ducati promessi al re dal Fieschi, se voleva por mano all’ impresa di Genova in favore dei gentiluomini. Cfr. pure Giustiniani, Annali, II, 626. (2) Cfr. Guicciardini (ed. cit.), VII, cap. II, 40 e segg. — 569 — sue genti, i Genovesi, approfittando dell’assenza del capitano, avevano assalito e sopraffatto il presidio (i). Intanto il 17 febbraio il Veneroso era pronto per la partenza, munito di lettere commendatizie (2), e con ampia istruzione intorno agli affari che aveva a trattare colla corte di Torino (3). Già dicemmo più sopra che le trattative erano entrate in una nuova fase, e che s’era pure gettata qualche parola di accordo fra le due parti mediante una somma di denaro da pagarsi al duca; ma su questo terreno continueranno ancora a lungo assai, prima che si possa venire ad accomodamento. Del resto, come nelle altre istruzioni che esaminammo, così in quella del 17 febbraio si riassumono dapprima di volo i fatti che occasionarono la nuova missione (4), (1) Veramente il Saige, Introduction, p. liv, pone il fatto ai primi di marzo: ma da Jean d’Auton , loc. cit., p. 227, si può arguire invece, per la posizione che esso occupa nel testo della cronaca, che questo assalto sia avvenuto nel febbraio. Parrebbe confermarci in quest’ opinione anche un documento genovese [doc. xvi] del 9 febb. 1507, in cui si parla di circa sessanta venturieri presi alla Turbia. Così, del resto, Jean d’Auton (loc. cit.) ci narra il fatto : « Jacques d’Alégre, seigneur de Millau, étant lors à la Tourbie, voulut aller pour quelque affaire à Nice, et prit avec lui partie de ses gens de pied et laissa le surplus pour garder le logis. Mais tantót qu’il eut desemparé le lieu, les Gènevois à grosse puissance, sachant le chef ètre absent, assaillirent la Turbie; et combien que bien fùt par les gens du dit seigneur de Millau défendue, si fut-elle emportée, et les gardes prises et mises à sac. » (2) Doc. XVIII, 17 febbraio 1507. (3) Doc. XVII, 16 febbraio 1507. (4) Nell’ istruzione è detta la quarta ; dai documenti noti ci risulterebbe invece essere solo la terza: vedemmo infatti il Veneroso spedito a Torino la prima volta il 29 novembre 1506, poi di nuovo il 19 dicembre, ne di lui abbiamo più notizia fino all’11 gennaio del 1507. Al 17 gennaio lo sappiamo ammalato; lo era ancora il 1febbraio, e non potè partire che ai 17 del medesimo mese. Certo ci è sfuggita una di queste missioni, e dobbiamo probabilmente credere che nel tempo fra il 17 dicembre e 1’ 11 gennaio abbia il Veneroso fatto due viaggi a Torino. — 57° - avente per iscopo cc la causa di Monaco.... e per giustificare lo affare nostro e excusare ogni querella facta cossi per sua Excellentia conio per il suo mandatario ». Giunto al duca, doveva il Veneroso scusare dapprima il suo ritardo, e quindi venire direttamente alla trattazione delle vertenze fra le due città. Notammo già che il ^ran cancelliere aveva forse fatta balenare al Veneroso vJ qualche speranza di accomodamento possibile, mediante lo sborso di somma di denari; ma ora ciò rileviamo chiaramente dall’ istruzione, in cui è detto che 1’ inviato genovese dovea senza più procedere cc a la conclusione con sua Ex.tia » di quello che prima aveva trattato col Romagnano cc hoc est de li denari che se li ha a dare » non senza però aver avuto prima la formale promessa che il duca cc da li loci soi, e precipue da la Turbia e Nicia (i), non premetterà sia dato alcuno favore ne subsidio a quelli de Monacho, ne siano receptati homini in dicti loci como sono stati per lo passato ». Per troncar la questione col duca, la repubblica era contenta di pagare 6000 scudi, da dividersi fra cc sua Excellentia » ed i cortigiani cc quali sono al gouerno d epsa », con quel criterio che il Veneroso avrebbe stabilito, perché , più d’ ogni altro egli era in grado di intendere cc quello che fa de bisogno ». I 6000 scudi però non dovevano sborsarsi subito e senz altro, al presente, cc cioè auanti la presa di Monacho » ; ma solo se ne sarebbe pagata una terza parte, che la repubblica avrebbe avuto il diritto di pretendere rimborsata, caso mai non si fossero dalla corte savoiarda osservati i patti (i) Cfr. Saige, op. cit., Introduction, p. li, dove parla di Nizza come centro di rifugio dei nobili genovesi. — 571 — promessi ; ad ogni modo ne richiedeva conveniente cautela. La quale però si poteva pretendere solo dal duca, che riceveva i denari « sotto nome de speize facte » ; non dai cortigiani, parendo « che li denari veneno a dir cossi de mangliaria ». Dal canto suo Genova si offriva a dar malleveria pei 4000 scudi che le restavano a pagare, una volta padrona di Monaco. Questa prima parte delle trattative ci dimostra che la questione , ristretta dapprima a Mentone e Roccabruna, s’ era ingrandita man mano per i nuovi motivi di contesa cagionati dai guasti delle armi genovesi nei territori ducali. Vedemmo” dai documenti piemontesi quali erano le lagnanze del duca: possiamo arguire qual fossero le proteste da lui fatte alla repubblica, che allora cercava di ve-nire~ad accomodamento col risarcire i danni fatti nelle terre savoiarde. Ma, oltre i danni, rimaneva sempre il fatto dell’ occupazione di Mentone e Roccabruna, importanti per il duca, non solo per sé stessi, ma anche per « lutilita quali prende de la sua cabella del salle per mezzo de queli loci » ; intorno alla qual quistione già sappiamo che il Grimaldi aveva attirata l’attenzione del duca, avvertendolo essere intendimento dei Genovesi sostituirvi la gabella loro propria alla gabella ducale. Da Nizza portavasi il sale, per lo smercio, a Mentone; e al duca sarebbe stato dannosissimo perdere quel luogo, per la difficoltà di sostituirne altro così conveniente per tutti i riguardi. Rispetto al primo punto, ai diritti cioè che il duca pretendeva sui due castelli, il Veneroso doveva usare parole assai caute per non offendere Sua Eccellenza, in modo da non affermar nulla e nulla negare intorno al preteso diritto ducale, cc a ciò non Atti. Soc. Llg- St. Patri*. Voi. XXIII, fase. 2.c 37 — 572 — prendesse sua Excellentia circa questo alcuna catiua impressione »; assicurarla però che i Genovesi non volevano « manchar alcuna ragione de quella li apartenia auanti che dicti loci venisseno in lo domino » loro, in modo che le ragioni, che il duca vi pretendeva su, « resteno e siano in quello grado e stato che erano auanti la questione de dieta possessione ». Si offrivano però a riparare 1’ offesa recata alle bandiere ducali, che stavano inalberate nei due castelli quando v’ entrarono i soldati della repubblica, ma che non erano bastate a tener in rispetto gli assalitori. « E perche secundo la relatione vostra (del Veneroso) pare se facia caxio che le bandere sue (del duca), le quali se dice erano alsate in dicti loci, quando intramo in epsi, se retornano con uno homo corno alora... era,. .. noi, per quanto se appartiene a lo acto de ritornare de le bandere e métege vno homo, non faciamo caxio alcuno », a patto espresso però che tale atto da parte di Genova non le fosse in niun modo di pregiudizio circa i diritti che pur pretendeva sui due castelli, né facesse al duca alcuna miglior ragione, che prima non avesse. Ma il punto più delicato a trattarsi era quello delle gabelle, per cui erano necessarie la massima finezza e circospezione da parte del Veneroso. Forse il duca, dice l’istruzione che esaminiamo, non darebbe tanta importanza ai due castelli sì vivamente controversi, per paura di perdere il vantaggio che ricava dalla sua gabella del sale di Nizza per mezzo di questi due luoghi, « quando cognoscesse che la comunità nostra, o vero lo offitio de sancto Georgio, se rendesse facile de prendere diete cabelle, o vero se podesseno prendere per li citadini nostri ». — 573 — Ciò dovrebbe esser grato al duca, che allora godrebbe assai più vantaggio di quello abbia avuto fin ora. Non bisognava però destar sospetti nella mente del duca, quindi era d’uopo governarsi « cum arte ». E quest’arte consisteva nel guidare il negozio per modo, che l’inviato genovese non vi apparisse punto né sembrasse esserne l’autore. I cortigiani medesimi devono incominciarla, mossi non già per iniziativa del Veneroso, ma di « qualche persona media » che paia a ciò meglio adatta; e l’istruzione suggerisce all’ inviato anche la persona alla quale potrebbe affidarsi l’incarico. « E quando tale pratica sia mouuta, hauereti ad desimularla e mostrare ve sia noua e tamen grata, inducendo sopra ciò quele parole che importano simile cossa », come per esempio che sarebbe di grande « commodita e utilità » alle parti, e buona caparra di benevolenza ed amore fra i due Stati. Allora solo potrà il Veneroso discendere a particolari ed informarsi delle spese che sarebbero per ciò necessarie, di tutti gli obblighi e condizioni che dovrebbero annettersi al contratto, e così prender tempo per darne avviso alla repubblica. Sul fine poi dell’ istruzione, è limitata al Veneroso l’ampia balia che gli era stata concessa di trattare e conchiudere, ordinandogli di non istabilir nulla senza prima aver avuta risposta dalla città. Queste devono essere state le principali questioni che s’ agitavano fra i due Stati, questioni che però rimasero insolute anche dopo la missione del Veneroso, della quale non conosciamo il risultato nei particolari, sebbene, riguardo al generale, crediamo poter affermare che non ebbe raggiunto il suo scopo. Dopo questo invio del Veneroso, non conosco più documenti che ci par- — 574 - lino dell’ agitarsi delle questioni su riferite , fino a che Genova fu ridotta di nuovo all’ubbedienza di Francia; e ciò probabilmente perché l’incalzarsi degli avvenimenti ne deve aver tolto ogni agio. Intanto l’assedio di Monaco era durato già fino al marzo del 1507; e certo in Genova, sempre turbolenta ed agitata, doveva soffrirsi con disgusto tanto indugio; sicché il capitano medesimo dell’ esercito assediarne, scrivendo all’ « Officium Balie communis Ianue » per rallegrarsi che fossero state confermate nella carica le persone stesse di prima, si scusava della dilazione, e si aveva per risposta, il 12 del mese stesso (1), a non temei e di perder la stima per la lentezza con cui procedeva 1’ impresa, ma lo si pregava a sollecitar quanto più poteva perché a Genova c’ era bisogno di lui e dei suoi soldati. Tre giorni dopo, cioè il 15 marzo, il medesimo Officio scrivendo ai commissari della riviera di ponente (2), li avvisava che s’ era dato ordine al campo per 1’ assalto definitivo. Pregavali perciò di mandar più gente che fosse possibile; perché a questa impresa non solamente dovrebbe « andare ogni homo ato a la ba-taglia, ma ancora armare le done et li puti ; et in questo bizogna che ge uzati la solita prontesa vostra e lo animo romano, lo quale haueti ». S’ era però diffusa già la voce che il governatore di Savona si sareobe mosso con grosse forze per sciogliere 1 assedio ; perciò la lettera ai commissari prosegue esortandoli a tener « tuti aparecchiati a prendere arme contro de ogni pei- (6) Saige , op. cit., doc. cccxliii , p. 79. (2) Saige, op. cit., doc. cccxnv, p. 81. — 575 - sona chi vegnisse a desturbarne li facti nostri », e a procedere contro di loro come a « rebelli et inimici nostri, et faciati talmenti che ogni loco dage soccorso luno laltro. Se hauesse travagio, prendeti per prixoni ogni nobile chi vegnisse et pariter tuti queli trovereti per questa rivera ». Finisce la lettera dando notizia che in Genova era stato preso « in poche ore gaiardemente » il Castellaccio (i). Dopo ordini così precisi, il capitano non poteva più indugiare 1’ assalto generale, tanto più che la batteria della Condamine era stata ristabilita e all’ ovest s’ era abbattuto il muro di Serravalle (2), sicché il 19 marzo i Genovesi credendo abbastanza praticabile questa breccia, tentarono con uno sforzo supremo di occupar la fortezza. Sono belle e vigorose le parole con cui Jean d’Auton, che, come già dicemmo, ci ha lasciato una sì viva descrizione di quest’ assedio, rappresenta i preparativi per 1’ assalto e per la difesa, ricorda i discorsi che in tale occasione si pronunciarono; e fra questi è curiosa sopratutto la parlata messa in bocca a Paolo da Novi, con istrano anacronismo fatto doge, già sin dal tempo del-1’assedio, mentre era semplice commissario al campo (3); curiosa, dico, perchè le parole che allora avrebbe pronunciate il vecchio popolano genovese (4), ci ricordano troppo (x) Cfr. Jean d’Auton, Chroniques, ed. cit., Ili, p. 249 segg., che parla pure delle crudeltà commesse contro i Francesi fatti prigioni. (2) Saige, op. cit., Introduction, p. liv. (3) L’errore è anche penetrato nelle Memorie del Lanciarez, mss. cit., p. 147. (4) Jean d’Auton, loc. cit., p. 231: « A cette fois, se montreront le vouloir vertueux et pouvoir invincible du peuple génevois, qui onc par puissance d’homme vivant ne furent surmontés, ni à servitude soumis. Sus donc, seigneurs ! évertuez vos coeurs, et exploitez vos forces à cet affaire ; car à ce fil pend le prix de — 57^ - il tipo del cavaliere francese, quale ci appare dalle memorie di Fleurange e dall’ istoria di Bajard. Premeva inoltre affrettare l’assalto, perchè già Ives d’Allégre, governatore di Savona, si avviava lungo la riviera per venire a sciogliere T assedio, e sarebbe i tato pericoloso assai per i Genovesi il lasciarsi cogliere fra due fuochi. Il 19 marzo essi mossero quindi definitivamente ad assaltar le mura, mentre i loro vascelli, sbarcando uomini all’ entrata del porto di Monaco, cercavano fare una diversione. Ma nonostante tutti i loro sforzi, descrittici così bene e cosi vivamente da Jean d’Auton, essi furono respinti « rotti e frachassati » (1). La notte stessa della disfatta imbarcarono le artiglierie, la notte seguente abbruciarono le loro trincee, ed il 22 marzo si ritirarono in salvo a Ventimiglia, dopo cento e due giorni di assedio (1506, dicembre 10 — 1507, marzo 22). Ed era ben tempo. Ives d’Allégre con forze imponenti (2) s’ avanzava su Monaco. Alle forze francesi diedero soccorso le truppe savoiarde. I due cronisti genovesi tante volte citati, Bar- votre los, 1’avancement de votre honneur, et le rabais de votre réputation. Si à ce coup ètes vainqueurs, vie prospère acquèterez et immortelle renommée. Si là-chement étes vaincus, la fin de vous sera reprochable à votre nom et honteuse à vos amisi Si fortune vous est adverse, mieux est mourir en bataille, que fuir vaincu! » (1) Libro de la progenie et vita de li illustrissimi signori di Monaco, in Saige, op. cit., II, p. 825. (2) Jean d’Auton (op. cit., p. 227) ci dà un elenco di queste forze: « (Yves d’Alégre) si prit avec lui huit-vingts hommes d’armes des siens, de ceux du marquis de Montferrat, de ceux de Montoison; et de ceux du capitarne Fontrailles, avec deux mille hommes de pied, sous la charge des capitaines Péralte, espagnol, Hièrome Barnabo, Cassains, Estrelin, et quelques autres qui là étoient, et messire Mercure, grec, avec cent Albanois; et aitisi se mit à la route, tirant vers Monigue ». - 577 — tolomeo Senarega (i) ed Agostino Giustiniani (2), ci dicono solo che scesero in aiuto delle genti del governatore di Savona i soldati ducali che occupavano la Turbia: fatto che ci è pure attestato da Pietro Gioffredo (3). Se dovessimo invece credere alle parole di Métivier (4), assai maggiore sarebbe stato il soccorso dato dal duca alla causa francese. Egli infatti scrive che « le due de Savoie se pronongant résolument pour la cause triomphante, joignait une force égale à ce premier corps », eguale cioè alle genti che guidava il d’Allégre; quindi, pare, molti più uomini che non ne contasse il presidio della Turbia, che, come vedremo più avanti da documenti, era difesa solo da « poche cernie ». Non conosco la fonte della notizia che ci dà il Métivier (5) e quindi non posso pronunziare un giudizio sulla medesima. I documenti piemontesi ci mancano , salvo che vogliamo trarre delle conclusioni, forse un po’ arrischiate, dal documento già citato, del mese di gennaio 1507 (6), in cui il duca, rivolgendosi « dilectis universis et singulis potestatibus, vicariis, iudicibus et castellanis locorum in subannexo rotulo mencionatorum », dava loro ordine di far si che tutti i sudditi prendessero le armi e si radunassero per le mostre. A questo documento, in cui però non si parla (1) SS. R. I., XXIV, 590. (2) Annali, II, 628. (3) M. H. P., SS. col. 1210. (4) Monaco et ses princes, I, 198. (5) Il Guicciardini, libro VII, c. 11, p. 43 (ed. cit.,) ha a questo proposito una frase molto generica : « si approssimavano Ivo d’Allegri, e i principali dei gentiluomini con tremila fanti soldati da loro, e con altre genti mandate dal duca di Savoia ». (6) Doc. XIX, gennaio [1507]. — 578 — esplicitamente dei Genovesi, pare si annetta altro del 15 febbraio 1507 (1), e quindi precisamente del tempo in cui, secondo Jean d’Auton (2), Yves d’Allégre preparava pure le sue genti, il quale contiene patenti di commissione per la rivista delle truppe destinate a combattere contro dei Genovesi. Quivi il duca ricorda che già aveva dati ordini precedenti di far le mostre « patrie cismontane », e ciò « ob eos armorum apparatus quos in Ianuenses, tantis in nos et subditos nostros iniuriis, dampnis et opprobris per eos illatis causantibus, facere decreuimus ». Il che volendo ora « executioni demandari ». comanda ai suoi ufficiali che cc ad loca opportuna in sub annexo rotulo personaliter accedendo, monstras subditorum nostrorum ipsorum locorum illico proclamari fierique faciatis et recipiatis... ». Fra questi due documenti piemontesi ultimi citati e quelli che già più addietro abbiamo riportato, riguardanti i preparativi guerreschi del duca, sono spiccate differenze: là erano ordini per chiamare alle armi i sudditi della patria di Nizza e solo per la difesa e sicurezza loro medesima : qui invece pare si tratti di cosa di assai maggiore importanza, giacché si parla dei sudditi dell’ intera patria cisalpina e di quegli cc armorum apparatus » che cc in Ianuenses...... facere decrevimus ». Accennano quindi a qualcosa di più che ad un semplice invio di una guarnigione alla Turbia o a qualsivoglia altro luogo di confine, per difesa di un luogo particolare ; ma non possiamo con fondamento arrischiare alcuna ipotesi, trattenuti dal silenzio dei (1) Doc. XX 15 febbraio [1507]. (2) Jean d’Auton, loc. cit., p. 227. — 5 79 — cronisti genovesi e di Jean d’Auton. Quest’ultimo tace affatto sulla parte avuta dal duca di Savoia alla liberazione di Monaco, mentre i primi, come vedemmo, ricordano solo la discesa dei soldati che erano alla Turbia, in soccorso dei Francesi, senza dirci se in quei momenti fosse o no stata notabilmente rinforzata la guarnigione. (i). Se noi ora riassumiamo questa prima parte del nostro lavoro , potremo concludere che se i Genovesi ebbero dal duca gravi danni per i loro commerci, non si videro neppure opporre da lui tutti quegli ostacoli, che egli avrebbe potuto (2). Malgrado le suppliche incessanti di Luciano Grimaldi, pare che sul principio non fosse alieno dal lasciare che i Genovesi traessero profitto da Mentone e Roccabruna, prendendo forse posizione neutrale. Ben presto però mostrassi nemico alla repubblica, ma dopo che questa aveva invaso il suo territorio, mentre tuttora (1) Cais de Pierlas (op. cit., p. 100), pare inchini a quest’opinione, senza però combattare quella messa avanti dal Métivier, scrivendo : « Le due de Savoie ayant joint une force pareille (a quella di Yves d’Allégre, che poco prima aveva detto ascendere a 3000 uomini) sur les hauteurs de Monaco, les Gènois se virent cernés à leur tour.... ». (2) Métivier (op. cit., I, 195, nota i), dice assai più: « Il serait- à croire que la position choisie par Charles de Savoie, position dominante d’où il pouvait tout aussi bien menager que potéger Monaco , parut suspecte à Lucien, et que l’inaction des troupes du due confirma ses soupgons, car nous voyons Claudine en témoigner son indignation dans ses deux testaments de 1510 et de 1514. Cette princesse trouvant que le due de Savoie n’avait pas suffisamment rempli les obligations que lui imposait sa qualité de suzerain protecteur, fit défense à son fils Lucien et à ses successeurs de soumettre à l’hommage de qui que ce fùt leurs chàteaux, jurisdictions et droits dans Roquebrune et Menton: elle consi-dérait comme rompus, par le défaut de protection3 les liens réciproques desvducs de Savoie et des seigneurs de Monaco ». — 580 — pendevano le trattative, e aveva danneggiati i sudditi ducali. Sebbene nemico però, sebbene chiamasse all’ armi i sudditi contro i Genovesi, ed impedisse che loro fossero fornite vettovaglie, non si interruppero quasi mai le negoziazioni fra i due Stati, le quali entrarono, é vero, in fasi diverse, perché accanto a queste si continuavano le ostilità, ma almeno non ispensero mai ogni speranza di accomodamento. 11 duca del resto aveva di fronte a Genova la posizione più vantaggiosa, ed egli ne seppe approfittare per essere soddisfatto dei danni che aveva ricevuti; e appunto per cagione dei danni arrecati ai sudditi ducali dalle milizie genovesi durante e in occasione dell’ assedio di Monaco, vedremo svolgersi fra Genova e Torino le lunghe trattative che non ebbero fine se non nel maggio del 1509. II. Luigi XII in Italia. Ben a ragione era stalo scritto, come vedemmo, al campo sotto Monaco, che a Genova era bisogno di quelle forze che si travagliavano sotto l’ostinata fortezza, perché andavansi facendo sempre più imminenti i pericoli che minacciavano la sventurata città. Non solo era partito [12 marzo 1507] da Genova Roccalbertino Catalano (1) lasciatovi, alla sua partenza, dal Ravenstein, abbandonando così a loro stessi i rivoltosi, ma ormai era (1) I particolari della partenza da Genova di Roccalbertino ci son descritti nella citata cronaca del Saivago (p. 472), e da Jean d’Auton, ed. cit, III, 246-7. — j8i — risaputo che il re stesso sarebbe venuto all’ impresa di Genova; anzi già si conoscevano i formidabili preparativi che si faceano in Francia ed a Milano, e non era neppur ignoto che molti principi italiani sarebbero stati pronti a concedere appoggio e favore al monarca francese (i). Genova però, sebben priva d’ amici, sebbene avesse lontano i resti del suo esercito ed i suoi capitani, sul cui aiuto contava, non si lasciava impaurire dalle armi di Francia ; e quando giunsero lettere del Cardinal di Finale (2), che offrivano a buone condizioni pace ed amicizia a nome del re, il popolo minuto, contro l’opinione dei « buoni... savi... ricchi... popolari » che « volevano seguire il consiglio del cardinale e compo-nersi col re » (3), rifiutò la mediazione offerta. Ciò produsse tanto sdegno nella parte migliore della città, che poco mancò non si venisse alle armi. Per allontanare questo nuovo pericolo, si pensò dai tribuni di dar unità al partito, rinnovando un’ antica istituzione cc che aveva il prestigio di gloriose tradizioni » (4) ed (1) Se volessimo poi sapere con quale ansia gli Stati italiani, sebbene animati da sentimenti diversi secondo i particolari interessi, vedessero 1’ addensarsi di cosi oscure minaccie, basterebbe leggere i Diarii del Sanudo, che esprimono al vivo in modo speciale i timori, che mal sapeva celare la città della laguna, fortemente impensierita per lo sforzo d’armi a cui Francia si preparava. — Cfr. particolarmente Diarii VII, alla data 16 marzo 1507. (2) Senarega, SS. R. I., XXIV, 591; Giustiniani, Annali, 11,628. (3) Giustiniani, II, 628: Senarega, loc. cit., 591. Il popolo grasso anzi faceva pratiche con Francia per mezzo dell’ antico governatore Filippo di Ravenstein, ma il popolo minuto, sollevatosi a furore, aveva rifiutato ogni accordo, anzi, abbattute le bandiere di Francia che prima levava, alzò quelle dell’imperatore. Cfr. Sanudo, Diarii, VII, 12 aprile 1507, che desume queste notizie da avisi di Zeuoa del 3 aprile. (4) Cipolla, Storia delle signorie italiane, p. 809. — 582 — il io aprile (1) fu creato doge Paolo da Novi, che parve atto ad ispirare a tutti fiducia, già stato tribuno della plebe , e poi, insieme con Silvestro Giustiniani commissario al campo sotto Monaco (2). Una seconda volta il Cardinal di Finale fece proposte di pace, ma « ai tribuni e alle capette si cantava come si canta ai sordi » (3), sicché anche questa volta la città si mostrava risoluta a sfidare le ire di Luigi XII. Il quale, come scriveva 1’ orator veneto in lettere giunte a Venezia il 27 marzo (4), già sollecitava la sua venuta a Lione deciso di passare in Italia ; da Lione poi, seguendo la via di Grénoble (5), Gap, Embrun, Briangon, attraversando il Monginevro (6), scendeva ad Oulx dove era ad attenderlo il duca di Savoia. Jean d’Auton ci parla in due luoghi dell’ incontro fra Carlo di Savoia e Luigi di Francia: in un primo passo però succintamente (1) Cfr. il documento edito da M. G. Canale, Nuova Istoria della Repubblica di Genova, IV, 319, Firenze, Le Monnier, 1864; e la Nota del chiar.mo sig.r M. Sta-glieno, Intorno al doge Paolo da Novi e alla sua famiglia, in Atti della Società Ligure di St. Patria, XIII, 487 segg. ■— La data 10 aprile ci è pur fornita dalla cronaca del Saivago (loc. cit., p. 476], e da un Diario delle cose dal 1506-7, mss. della Civico-Beriana di Genova, nella « Miscellanea di cose riguardanti la stona di Genova » citato dal chiariss. Desimoni in vari luoghi nelle erudite note da lui apposte alla sua edizione di detta cronaca [principalmente a pp. 369 e 476]. (2) Staglieno, op. cit., p. 491. Cfr. Saige, op. cit. doc. cccxl, p 74. (3) Giustiniani, II, 629. (4) Sanudo, Darii, VII, 1507, marzo 27. (5) Jean d’Auton, III, 266, narra che il re « ayant fait ses Pàques à Grénoble, le lendemain, commencement de l’an mil cinq cent et sept, se mit à la voie, et laissa la reine toute adoulée pour son dépaitement ». La Pasqua in quell’anno cadeva il 4 aprile: sicché in questo giorno il re era a Grénoble e ne partiva il 5. Sotto la data 5 aprile anche 1’orator veneto scriveva « come il re celerava il camin suo per Aste, per esser a l’impresa di Zenoa ». Sanudo, Diarit, VII, 12 aprile 1507. (6) Jean d’Auton, III, 269. — 583 - c senza precisare data alcuna, di poi in modo più diffuso e presentando data precisa. Nel primo passo ci dice « a Ourse... lui vint au devant le due de Savoie, bien accompagné de seigneurie de son pays » (1). Del secondo passo riferiremo per ora sol quello che riguarda direttamente la questione presente, e prima di tutto la data, che il cronista ci precisa scrivendo : « arriva (il re) en Piémont un mardi d’après Quasimodo (2), et sans aucun séjour, s’en alla droit en Ast. Au-devant de lui vint Charles due de Savoie, comme dit est, accompagné de seigneurs de son pays, avec grand nombre de gentilshommes et prélats d’Église » (3). Il secondo dei passi riportati, sotto certi rispetti ha delle incertezze che il primo non presenta, giacché l’espressione « Piémont » ci fa star incerti sul luogo dove sia avvenuto l’incontro fra i due principi ; ma collegando 1’ uno coll’ altro, si possono spiegare a vicenda, tanto più che nel secondo passo, parlato dell’ arrivo del re in Piemonte, il cronista aggiunge subito che a luivenne innanzi il duca di Savoia. Ora dal brano riportato per primo sappiamo che l’incontro avvenne ad Oulx, e col secondo possiamo fermare la data « un mardi d’aprés Quasimodo » cioè il martedì 13 aprile 1507. Altra data ci presenta invece Filiberto Pingone (4), il quale (1) Ed. cit., Ili, 270. (2) La domenica Quasimodo, detta pur domenica in Albis, cadeva quell’ anno 1’ 11 aprile perchè la Pasqua, come vedemmo, cadeva ai 4 aprile. Riguardo alla domenica Quasimodo, la prima dopo Pasqua, cfr. Du Cange, Glossarium, alla voce Dominica e più particolarmente alla rubrica : Dominica prima post Pascha. (3) Ed. cit., III, 285. (4) Philiberti Pingonii Augusta Taurinorum, Taurini, apud. Hh. Nicolai Beui-laquae, 1577, p. 71. — S84 — appoggiandosi a memorie raccolte dal padre « ex notis paternis », probabilmente quindi non molto posteriori agli avvenimenti, se non contemporanee, narra l’incontro fra i due principi come avvenuto il 16 aprile: « dux Carolus Taurino egressus obuiam illi [a Luigi XII] fuit xvi. kal. maias »; data però inamissibile, perché risulta da testimonianze irrefutabili che in quel giorno il re era già in Asti (i). Il re si fermò nei domini savoiardi appena il tempo necessario per attraversarli, perché, come vedemmo « sans aucun sèjour s’en alla droit en Ast ». Il duca però non mancò a nessuno dei riguardi e delle attenzioni che dovevansi ad ospite tanto illustre. Aveva dato ordine, fin dall’8 aprile, al suo scudiero Antonio di Bernezzo di preparare in Susa stanze convenienti pel re e pei suoi (2); e fatto in modo che negli Stati ducali i Francesi non difettassero punto di vettovaglia, né patissero necessità di cosa alcuna. Egli medesimo poi, colle più ampie proteste di devozione, offrendo al re sè e la gente sua, presentandogli le chiavi delle sue città, aveva accompagnato il monarca francese fino a Moncalieri, dicendosi pronto a seguirlo infino a Genova. Il re però, ringraziando (1) M. Sanudo, Diarii, VII, riassumendo, sotto la data 12 aprile 1507, una lettera da Milam, dii Secretano di X, parla « dii \on\er dii re a Susa ». Non possiamo però dare a questa attestazione grande importanza storica, perchè chi scriveva la lettera, lontano da Susa, poteva forse aver raccolto una delle solite voci popolari, che , diremmo noi oggi, avevano bisogno di conferma : ad ogni modo dovremmo anticipar troppo 1’ arrivo del re a Susa, e ne saremmo impediti dal-l’attestazione esplicita di Jean d’Auton, che faceva parte del seguito rea'e. Cfr. pure Sanudo, Diarii, VII, alla data 19 aprile, dove, riassumendo lettere date da Asti il 10 e 1’11 aprile dall’orator veneto, scrive che « il re si aspectava li in Aste a dì 12 », mentre, come vedremo, non vi giunse che più tardi. (2) Doc. XXI, 8 aprile 1507. — 585 — il duca delle larghe profferte, lo aveva dispensato dal-1’ accompagnarlo nella spedizione, alla quale è certo che Carlo non prese parte, sebbene molti altri principi italiani vi si trovassero al fianco del re (1), ed egli non tralasciasse occasione per dimostrare la sua devozione a Francia, ed al partito che la favoreggiava (2). Genova intanto si preparava gagliardamente alla difesa, fortificando le alture dalle quali più facilmente si sarebbe potuto impedire il passo al re, raccogliendo nelle sue mura quante forze poteva, confortata alquanto dalla (1) Per queste notizie che qui abbiamo risassunto, cfr. Pingonius, Augusta Taurinorum, p. 71; Jean d’Auton, III, 285, che scrive: « la (nell’incontro dei due principi) lui (al re) offrit (Carlo di Savoia) de sa part Service de sa personne, secours de ses gens et les clefs de ses villes, en le voulant accompagner à son voyage de Génes, s’il lui plaisoit. Des quelles choses le remercia le roy bien fort... ». E a pag. 270: (Carlo) « conduisit le roi jusques à Moncalier, une de ses villes de Piémont ». Pierre Lambert, nelle Remonstrances pour fere au roy (Francesco 1) et a madame sa mère, parla dei servigi prestati da Carlo alla corona di Francia e scrive: (M. H. P., SS. I, 903): « premierement a la reconqueste de Genes, com-bien que le pape, l’empereur et venetiens secretement tenissent parti contrayre, et encoures toutesfoys mon dit seigneur continua toujours à servir le dit seigneur de passaige et vivres, et de gens, et luy mesme vint deuers luy en Ast [inesatto, come vedemmo] et soy offrit laler acompaigner au dit Genes...... ». E Giuseppe Cambiano, Historico discorso (M. H. P., SS. I, 1003-4) ad un di presso ripete: « Re Luigi duodecimo passando con esercito di qua da’ monti per andar contro a Genouesi.... fu dal detto Duca incontrato et riceuuto col maggior honore a lui possibile, facendoli prouedere al suo esercito vettouaglie, e tute le altre comodità che si richiedono... ». (2) Un documento contenuto nel Protocollo II del Vulliet [doc. XXII, 22 aprile (1507)], che porta solo la data del 22 aprile, ma che senza dubbio è del 1507, contiene patenti di salvaguardia accordate a favore del nobile genovese Battista de Marini, esule dalla patria per aver seguito le parti del re di Francia. Pare però che anche il duca fosse rappresentato fra quelli che seguivano il re. Infatti nel Liber computorum 1506-7 [fol. 161 verso] leggiamo: « item liure le ving et ung du dict moys [aprile 1507] a mondietseigneur (il duca) pour donner a monseigneur le maistre Choles le quel allast en Ast vers le roy, ving escus au soleil... ». - 586 — rotta che a Rapallo aveva dato alle genti di Gian Luigi Fieschi. Nè il re, nè i suoi credevano l’impresa di Genova potersi compiere senza difficoltà (i): aveva egli quindi in animo di compierla al più presto senza frapporre indugi. In Asti e nei dintorni si andavano raccogliendo le milizie di Francia, ed Asti era pure il luogo di convegno dei signori italiani che accorrevano a far omaggio al re. Questi vi giungeva finalmente il 16 aprile (2), ricevuto con gran festa ed onore, riverito da « il ducha di Ferara [Alfonso 1 d’Este], il marchexe di Mantoa [Gian Francesco Gonzaga] , il marchexe di Monterà [Guglielmo IX], missier Iuan Iacomo Triulzi, e tuti i principali zentilomeni di Milan » (3), dalla qual città erano pur giunti dodici ambasciatori, di cui quattro a nome del Senato, quattro dottori a nome del Consiglio e quattro a nome della popolazione (4). Da Asti il re, senza visitar prima Milano, come alcuni aspettavansi, pensò direttamente all impiesa di Genova; ed il 22 aprile (5) giungeva ad Alessandria ac colto splendidamente, come ricaviamo da lettera data da (1) Sanudo, Diarìi, VII, 16 aprile 1507. (2) Come dirò più avanti, ho tratta questa data dal Sanudo, che riassume lettere date da Asti dell’ orator veneto, presente all’ arrivo del re. Ora m una relazione dell’ambasciatore fiorentino Francesco Pandolfini, datata da Ast' ’ 5 aprile 1507, si legge: « Siamo a di xv, e questa mattina il Cristianissimo è qui comparso (Négociationi diplomatiques de la France avec la Toscane, edite Dejsardins, II, 233, doc. lx, Paris, Imprimerle Impériale, 186r, in Colleclion documents inèdits sur l’histoire de France. (3) Sanudo, Diarii, VII, 20 aprile 1507. - (4) Sanudo, Diarii, VII, 12 aprile 1507. (5) Sanudo, Diarii, VII, 24 aprile 1507. — 587 — Alessandria il 23, riassunta dal Sanudo (1): « A’ l’intrar in Alexandria soa maestà fo honorato assai, come é solito farssi in li primi introiti di lochi post acquisitionem , perché soa maiestà poi 1’ acquisto di Milan, non era stato li : et fu trato certi palii et festizato. Et il marchexe mantuano, che havea vadagnato il palio, donò a sua maiestà uno bel corsier. Per ih che soa maiestà se trasse una zoia che l’aveva a la bareta, e ge la presentò dicendo : Portate questa per amor del roy ». Il 23 (2) aprile, Luigi XII già partiva alla volta di Bosco [Marengo] armato « di tutte arme, excepto la celada in testa o ver elmo. Et prima fo la guardia, eh’ è 400 ar-zieri, poi 100 zenthilomeni, poi il re con li signori nominati di sopra, Barbon [Carlo duca di Borbone], Ferara, Monferà et Mantoa, poi 100 altri zenthilomeni francesi, pur di la sua guardia, e li ragazi con li almeti, (1) Sanudo, Diarii, VII, 29 aprile 1507. (2) Claudio di Seyssel, quello che poi fu arcivescovo di Torino, seguiva il re nella spedizione di Genova « du nombre des quels (signori che accompagnavano Luigi XII) ie me tiens bien-heureux d’ auoir esté et veu tout le progrez de la victoire » ; ed a proposito di questa spedizione scrive : « Jamais depuis qu’il feu party de sa citè d’Ast, voulut seiourner en aucun lieu plus d’une seule nuict, iusque à ce qu’il feust à la veue de ses ennemis. Cfr. Claude de Seyssel , Histoire de Lovys XII, Roy de France.... edita, con altre opere, da Theodore Godefroy, Paris, Abraham Pacard, 1615 ; p. 441. Jean d’Auton (III, 285) parlando del soggiorno d’Asti, dice che « là séiourna le roi par l’espace de quatre jours »; ed a pag. 291 : « après que le roi eut pris en Ast quatre iours de repos, et mis son armée à chemin, pour tirer à Gènes, partit de la dite ville d’Ast, en armes... et ainsi le vingt et unième jour du mois d'avi il, en l’an mil cinq cent et sept, tira son chemin droit à Féliss.in (sulla via di Alessandia)... Le vingt et deuxième jour du dit mois d’avril, le roi parti de Fé’.issan.... » (p. 292). Secondo 1’ attestazione di Jean d’Auton pare che il re giungesse in Asti il 16, giacché cosi ai 21 erano compiti i quattro giorni di riposo, mentre supponendo fosse arrivato ai 15 , i giorni di riposo (non calcolato dunque quello di arrivo e neppure quello di partenza) sarebbero stati cinque. Atti. Soc, Lig. St. Patri*. Voi. XXIII, fase. J.° 38 — 588 - et cussi vene al Bosco » (i). Da Bosco [Marengo] poi senza alcun indugio si trasferi all5 esercito, il quale, entrato nella valle di Polcevera, si avanzava minaccioso su Genova, e già s’era accampato a Rivarolo cc vicino a San Piero in Arena un terzo di miglio; ed alloggiò Sua Maestà all’incontro di detto borgo, nella badia del Boschetto » (2). Il 26 aprile 1’ esercito aveva riportato, in uno scontro, nuovi vantaggi sui Genovesi, che avevano affidato il comando delle lor genti a Iacopo Corso « uomo qual aveva buona cognizione delle armi », che però non era ubbedito cc dal vulgo e dalla plebe », come fu dai soldati forestieri (3). (ij Sanudo, Diarii, 29 aprile 1507. La stessa data è pur ripetuta nella relazione di Francesco Pandolfini orator fiorentino, data a Rivarolo [ligure] il 27 aprile 1507, Cfr. Desjardins, Négociations etc, doc. lxi, p. 238. (2) Relazione citata del Pandolfini, data a Rivarolo il 27 aprile 1507. (3) Cfr. Giustiniani, Annali, II, 630, che, come il solito, riassume il Senarega loc. cit. Non essendo ora compito nostro il fermarci a lungo su questi fatti, ci è bastato di presentarli riassunti appoggiandoci ad alcune delle fonti più sicure che non lasciassero luogo ad esitazioni o dubbi; trascurammo quindi in parte il vastissimo materiale che avremmo avuto a nostra disposizione. Non tenendo ora conto di altre fonti italiane oltre alle già citate, ci pare che basti al nostro scopo inviare alle splendide descrizioni che di quest’ impresa ci danno le fonti francesi, fra cui ricordo La conqueste de Gennes, che, come s’ avverte nella prefazione che le sta avanti, « peut ètre régardée comme une des premières feuilles volantes de-stinées à annoncer au peuple les nouvelles politiques», ed è datata da Genova il 29 aprile 1507, edita negli Archives curieuses de l’histoire de France depuis Louis XI jusqu’à Louis XVIII, par Cimber et Danjou, I." sèrie, II, 15-18, Paris, Beau vais, 1835; Jean d’Auton, ed. cit., p. 294-346; La tres joyeuse, plaisante... hystoire... du Boti Chevalier sans pour et sans reprouche, le gentil seigneur de Bayart, com-posée par le Loyal Serviteur, in Collection complète des Mémoires rélatifs à l histoire de Frutice, par M. Petitot, XV, chapitre xxvn, 259 segg.; e l’Histoire des choses memorables advenues du reigne de Louis XII et Franfois I." , par Robert DE LA Mark , seigneur de Fleurange..., in Collection etc. par M. Petitot, XVI, chap. VI, 164 segg. — 589 — Finalmente i Francesi si decisero di tentar più da presso le fortificazioni che proteggevano Genova , la quale si era munita rafforzando la rocca del Castellacelo situata sulla cima del monte Peraldo a cavaliere della città, ed innalzando una bastita dove quello, per il colle di Promontorio si degrada verso il capo di Faro (1). Il 27 fu dunque stabilito P assalto della bastita (2) ; e sebbene i Genovesi combattessero arditamente pure la disciplina e il numero dell’esercito francese prevalse, sicché i popolani, inferti pur danni non leggeri agli assalitori (3), alfine battuti di fronte e di fianco furono costretti a ritirarsi. Lo spavento in città fu terribile, perché si vedeva disperato ogni mezzo di difesa : « non si sentivano se non pianti di donne, le fanciulle cercavano di salvarsi nei monasteri delle donne. Gli uomini nelle chiese e nei monasteri piangevano il caso della patria » (4). Così agitata passò la notte dai 27 ai 28 aprile, in cui la città fu risparmiata dal saccheggio per previdenza del re , ed in questo tempo si salvarono colla fuga i capi dei tumulti passati, e tutti quelli che credevano aver a temere dal Governo francese, che di nuovo instauravasi. (1) Canale, Nuova Istoria, ecc., IV, 323. (2) Cfr. Relazione di F. Pandolfini (loc. cit., p. 238) data a Rivarolo il 27 aprile 1507: « Trovando che i nemici avevano fatto un bastione in sul monte, infra il detto borgo (Rivarolo) e San Piero, fecero pensiero di prenderlo ». Così pure in Sanudo, Diarii, « a dì ultimo aprile » (VII, col. 60): « In questa matina in Rialto, per via di Zenoesi, per uno zenoese venuto per stafeta, se intese come a dì 27, Francesi fono a le man con Zenoesi a presso Zenoa, a certo bastion a San Piero in Arena; et combatuto, Zenoesi fono roti... ». (3) Fra gli altri « fu ferito d’ un passatoio leggiermente nella gola monsignor de la Palice, nella prima scaramuccia ed assalto che fecero ». Pandolfini, Reìa\. cit., p. 239. (4) Giustiniani, Annali, II, 631 ■ — 590 — Sorto il giorno 28, quattro oratori furono da Genova mandati al re per trattar della resa, cioè Stefano Giustiniani, Antonio Sauli, Raffaello de Fornari e Battista di Rapallo (1); ma Luigi dichiarò che voleva la città a discrezione. Mentre si agitava questa pratica, i Genovesi tentarono colle armi un ultimo sforzo, e « per altra via mandorono gran numero di fanti verso il Castelazo, per la montagna, contra Francesi. Si dice, numero 9000 franzesi se li feno avanti; et parte pugnando et parte con le artelarie fono morti zercha 800 Zenoesi » (2). Il re medesimo fu spaventato dall’assalto improvviso; ma appena tutto fu quietato, ritornarono gli ambasciatori, che resero finalmente la città a discrezione (3). Allora (i) Sanudo, Diarii, VII, sotto la data « a dì ultimo aprile » 1507; e 4 maggio 1507. Il Senarega (55. R. XXIV, 592) e dietro lui il Giustiniani (Annali, II, 631) non ci ricordano che due oratori, cioè Battista di Rapallo e Stefano Giustiniano. (2; Sanudo, Diarii, VII, 4 maggio 1507. (3) La resa di Genova a discrezione dopo lotta sì breve fu oggetto di stupore non solo, ma anche di paura per alcuni Stati d’Italia. Il Sanudo (Diarii, VII, « a dì ultimo aprii 1507 » ) scrive costernato: « questa nova, venuta a Venecia, fo di gran momento, licet si aspectava acordo, ma non darsi a descritione ». Anche i Francesi si aspettavano più lunga resistenza, tanto che impresa sì prospera parve loro speciale favore del cielo. Claudio di Seyssel (op. cit., p. 46), così riassume le glorie francesi che egli stesso aveva viste : « En deux iours, sans séiourner, vaincu et subjugué la citè de Gennes, qui auparavant jamais n’auoit estè subjuguée par force. Et croy fermement, que ceulx qui liront ceste victoire d’icy à deux cents ans, considerant la grandeur, la difficulté, et la celerité d’icelle, jugeront que ce soit chose fabuleuse, ou la plus heureuse et la plus fortunée qui adueint guieres jamais à prince ». La stessa ammirazione è ripetuta nella citata Conqueste de Gennes (negli Archives curieuses etc. I." sèrie, II, 18), che rappresenta la prima impressione provata dai Francesi. Infine poi, chi volesse conoscere opuscoli editi per l’occasione della conquista di Genova, come dicevano superbamente i Francesi, può ricorrere alle notizie date dal chiariss. Desimoni, in prefaz. alla citata sua edizione della Cronaca del Saivago (p. 373-6) ed al Brunet, articoli Conqueste e Lettres, II. 226, III, 1030, ai quali il medesimo Desimoni invia chi fosse vago di ulteriori notizie. - 59i — il re spedì nella terra monsignor di Chaumont ed il marchese di Mantova, i quali « segurono le porte et strade con fantarie, etiam muniteno il Casteleto [che non si era arreso mai agli assalti genovesi e sempre era stato per Francia] e il Castelazo. Et vidi una letera, prosegue il Sanudo, diceva, erano intrate quel zorno dentro Zenoa lanze 400, et preparate le stantie per il re » (1). Finalmente il 29 aprile Luigi fece la solenne entrata in città « a hore zercha 16, la matina » (2), con ricco corteggio di signori e prelati: « il re era vestito damaschimi cremesim, lavorato d’oro » (3). Procedeva sotto un baldacchino portato da Genovesi, armato di tutte armi (5) e con uno stocco in mano (4). Alla porta della terra « li fo incontra la chieresia con le , et molte done e puti, cridando : Franza! Franza! misericordia ! misericordia ! » (6). Il re alloggiò al palazzo ducale, e tosto diede ordine alla città di deporre le armi. Fu ubbedito ; e nel Castelletto ne furono raccolte per il valore di 50,000 ducati (7). Si pensò quindi alla riforma degli uffici e a ridurli cc alla consuetudine antica, cioè di darli per metà ai nobili e ai popolari ; e così fu conchiuso, massime (1) Sanudo, Diarii, VII, 4 maggio, 1507. (2) Sanudo, Diarii, VII, 4 maggio 1507. (3) Sanudo, Diarii, VII, 4 maggio 1507. (4) Sanudo, Diarii, VII, 4 maggio 1507. (5) Pandolfini, Relacit. in Desjardins, II, 243. (6) Sanudo, Diarii, 4 maggio 1507. Moltissimi particolari sull’entrata di re Luigi XII in Genova si possono leggere nei cronisti genovesi ; ma, per essere quelli assai noti e, del resto, facilmente accessibili ad ognuno, non crediamo conveniente ripeterli in questo nostro brevissimo riassunto. 17) Sanudo, Diarii, VII, 7 maggio 1507. — 592 — che i popolari, quali erano in quel consiglio, non gli fecero resistenza alcuna, con gran maraviglia o più presto risa dei Francesi, quali erano presenti » (i). Intanto il re aveva ricevuto il giuramento di fedeltà e abbruciate le convenzioni già strette con Genova nella prima dedizione, sebbene gran parte ne confermasse di nuovo, pero sotto il titolo di privilegi. « Tassò poi la città a dover pagare trecento mila scuti, dei quali nondimeno ne rimise cento mila » , comandando però « che in presente li fossero pagati quaranta mila scuti per la fabbrica della fortezza, che ordinò che fosse fatta al capo di Faro, e accrebbe alla città la spesa di duecento fanti, e ordinò che la città dovesse sempre tenere tre galere armate » (2). Volle di più mutare l’impronta delle monete « e in luogo del consueto segno della città, qual noi dimandiamo il grifo, ordinò che li fosse stampato il segno regio » (3). Assicuratosi così della città, in cui aveva lasciato governatore Rodolfo di Lannoy, licenziati gli Svizzeri (4), rimandate le artiglierie, il re finalmente lasciò Genova il venerdì 14 maggio (5), e per Gavi, Novi, Tortona, (1) Giustiniani, Annali, II, 632; Sanudo, Diarii, 10 maggio 1507. (2) Giustiniani, Annali, II, 633. Cfr. Senarega, SS. R. 1-, XXIV, 593 ; Sanudo, Diarii, VII, 10 maggio 1507 e 28 maggio 1507. (3) Giustiniani, Annali, II, 634. Cfr. Senarega, XXIV, 594. (4) Sanudo, Diarii, VII, 10 maggio 1507, osserva con gioia esser ciò « signal non voi far altro ». Cfr. Documents historiques inèiits etc. publiés par Champollion Figeac , Paris, Firmin Didot, 184, IV, 386, in Collection de documents inedits sur l’bistoire de France etc che contengono la lettera di congedo agli Svizzeri, datata da Genova, il 3 maggio. (5) Sanudo, Diarii, 20 maggio 1507. — « Le lendemain de l’Ascension sur les trois heures du matin » aggiunge Jean d’Auton, IV, 59. - 593 — Voghera si indirizzava a Pavia, dove giungeva il 19 maggio (1). Splendida accoglienza fu fatta al monarca francese, la cui spedizione si può dire essere stata in certi momenti una marcia trionfale. Non riassumeremo qui le belle descrizioni che ci presentano Jean d’Auton (2) ed il Sanudo (3), perché ci porterebbero troppo lontano dal nostro compito, ed a noi non sarebbe mai possibile riprodurre al lettore il quadro con quella vivezza con cui é tratteggiato da persone che presero parte o videro ciò che descrivono. Ricevuto il re sul ponte del Ticino dai principali signori di Pavia e dai dottori dell’ Università (4), salutato da splendida orazione di Giasone del Maino (5), onorato di archi trionfali e di iscrizioni adulatorie, egli andò a smontare al duomo, donde, dopo pregato alquanto, si ritirò nel castello. Fermossi a Pavia pochi giorni, ricreato da « plusieurs banquets et danses en masques » (6), sicché cc les princes et autres gentilshommes fran^ois qui là étoient passérent ces jours joyeusement » (7). (1) Jean d’Auton, IV, 61, ha il giorno 18 maggio. Il Sanudo Diarii, VII, 83, riassumendo lettere dell’ orator veneto, ha la data da noi accettata. (2) Jean d’Auton, IV, 61 segg. (3) Sanudo, Diarii, VII, 93 , in cui è il « Sumario di uua lettera , data in Pavia, a dì 22 mazo 1507, a horre 2 di notte ». (4) Jean d’Auton, IV, 61. (5) F. Gabotto , in Giason del Maino e gli scandali universitarii nel Quattro-cento, Torino, La Letteratura, 1888, p. 237, ci fornisce molti particolari sulle relazioni fra Luigi XII e Giason del Maino, nel tempo in cui il re fu a Pavia. Alle notizie copiose dateci dal Gabotto, aggiungiamo questa or riferita che riportammo sulla fede del d’Auton. (6) Jean d’Auton , IV, 65. (7) Jean d’Auton, IV, 65. Cfr. il « Sumario » cit. in Sanudo, Diarii, VII, 93. — 594 — Il 23 sera finalmente, lasciata Pavia, dormì alla Certosa; e il 24, lunedi, pranzato a Cassino, luogo di Gian Giacomo Trivulzio, entrò in Milano « a horre zercha 14 » (1). Le più festose e splendide accoglienze incontrò il re (2), le quali minutamente ci son descritte in una lettera che ci conserva il Sanudo (3), nella cronaca di Jean d’Auton (4), che in simili descrizioni ama sfoggiar tutta l’arte e l’abilità sua; e nella Storia di Milano del Prato (5), e nella Cronaca Milanese [dal 1476 al 1515] di Ambrogio da Paullo (6). Archi di trionfo imitanti i modelli classici, iscrizioni lusinghiere ed adulatorie, saluti porti da personaggi simbolici neppur qui furono dimenticati per far onore al re, che splendidi corteggi accolsero ed accompagnarono nella città. E non solo i sudditi di Francia plaudi vano al loro signore, ma altri Stati italiani, quelli medesimi che con timore vedevano il grandeggiare dello straniero, inviarono al re ambascerie straordinarie in segno di congratulazione per la vittoria ottenuta (7). Fra i signori italiani al seguito di Luigi XII, qui troviamo Carlo di Savoia, venuto egli pure a rallegrarsi della vittoria col monarca francese. Non solo (1) Sanudo, Diarii, VII, 83. (2) A. Ceruti, in appendice alla sua edizione della Cronaca Milanese di Ambrogio da Paullo (Misceli di St. Ital., XIII, p. 374) pubblica un documento dell’8 maggio 1507, che contiene le « Ordinazioni delle feste da farsi in Milano per l’ingresso del re di Francia ». (3) Sanudo, Diarii, VII, 89. Cfr. pure Diarii, VII, 83. (4) Jean d’Auton, IV, 65 segg. (5) In Arch. St. Italiano, serie I, voi. III, p. 260 segg. Firenze, 1842. (6) Edita da A. Ceruti nella Misceli, di St. Ital, XIII, pag. 91-360. Cfr. più precisamente a p. 192-204. (7) Cfr. per es. Sanudo, Diarii, VII, 86, e Jean d’Auton, IV, 71, dove ci parlano dell’ ambasceria veneziana. — 595 - però un motivo di convenienza, ma ben altre cause doveano avere spinto il duca a Milano, cause che noi non siamo in grado di esporre minutamente, ma che si travedono da un documento che riferiremo. Noi vedemmo le liete accoglienze che il re avea trovate nelle terre savoiarde, ma non ci spiegammo come mai abbia egli rifiutata la compagnia del duca che s’era offerto di seguirlo infino a Genova. Potrebbe essere che si trattasse d’ un semplice scambio di cortesie; potrebbe però esservi stato qualche motivo più occulto. Luigi di Francia avea già concesso al duca Filiberto di Savoia , fratello ed antecessore di Carlo, una pensione di io,ooo ducati annui sulle rendite del ducato di Milano, pensione che forse non s’era pagata regolarmente mai. Carlo aveva fatto pratiche presso il re per ottenere quanto gli spettava di diritto; infine, dopo lunghe esitazioni ed indugi, il duca era venuto a conoscere per parole dette dal Cardinal d’Amboise, che unico motivo della freddezza del re verso di lui era la questione di questa rendita: il re non gli sarebbe mai stato sinceramente amico fino a che egli cercasse di far valere i suoi diritti : in una parola che Luigi XII era deciso a nulla pagare. Il duca mostrando di credere che meritassero alcun che di meglio i servigi prestati a Francia e quelli che aveva in animo di offrire, non volle tosto acconciarsi a vittima senza profferire lamento. Spedi persone al re che cercassero avere spiegazioni, ma nulla ritrasse se non minaccie: che era presto 1’ esercito di Francia, e che se egli non rinunciava a questa rendita, togliendo cosi dalla mente del re ogni sospetto e dubbio che avesse verso di lui, se ne sarebbe trovato male. — 596 - Certificato il duca che era tale l’animo del suo potente amico, temette che forse sarebbe stato costretto a rinunziare alla pensione assegnatagli, sotto minaccia di gravi mali; e perciò il 4 maggio del 1507 (1) egli, davanti a due testimoni fidati, Amedeo di Romagnano vescovo di Mondovi e Giano di Duin signore della Val d’Isére, cancelliere di Savoia il primo, grande scudiero il secondo, dava incarico al segretario ducale Giovanni Vulliet di redigere istrumento in cui, premesso quanto su riassumemmo, protestava che qualunque carta di rinunzia a detta pensione gli fosse strappata, questa sarebbe stata scritta contro sua volontà e solo per forza e per timore di guerra, giacché egli voleva conservare integri ed immutati i diritti che gli competevano sulla rendita dei 10,000 ducati. Ci mancano i documenti per seguire i progressi di queste trattative, le quali forse non furono causa ultima del viaggio del duca a Milano (2). Si rileva però da certe espressioni del Pingone e del Guichenon , che il duca potè accomodarsi col monarca francese (3)- (1) Doc. XXIII, 4 maggio 1507. (2) Il 2 giugno si sapeva già a Venezia che il duca era giunto a Milano (Sanudo, Diarii, VII, 2 giugno 1507;. Il conte Cais de Pierlas (Documents inédits, etc., p. 101) riferisce che Carlo parti da Torino il 24 maggio e che fu ricevuto al Ticino dai signori di Nantua e di Bussy, inviatigli incontro dal re. Egli pubblica inoltre la nota delle spese per il viaggio ducale, quale la trova nei conti del tesoriere generale di Savoia, Stefano Capris. (3) Il Pingone riassume la nostra questione con molte inesattezze, sebbene si riferisca a documenti. Egli infatti scrive (Augusta Taurinorum, p 71): « Eo anno, mense novembri, idem rex dat Carolo duci bene merito viginti millia librarum turonensium, quae quot annis Taurini ex aerario mediolanensi persolverentur ». E cita in margine la fonte con queste espressioni : « Rescripto dato Mediolani eo anno, prima iunii, sig. Robertet ». II Guichenon (Hist. généalogique de la royale maison de Savoie, II, 622, Lyon, Barbier, 1660) ha per fonte il Pingone, e quindi scrive: « Ce fut en ce temps là (del viaggio a Milano) que Louys XII, fort sa- - 597 — Ad ogni modo non pare fosse mal accolto dal re, al fianco del quale lo troviamo a molte delle feste di cui si è fatta menzione nelle opere che abbiamo più su citate. Fra i signori milanesi, che accolsero a festa nella loro casa il re di Francia, fu Galeazzo Visconti, che il 27 maggio offriva a Luigi XII splendido convito (1). Tre giorni dopo (2), altra festa splendidissima preparavasi tisfait des soins que Charles auoit pris de faire fournir à son armée toutes les choses necessaires qui se trouuoient en ses Estatz, luy donna une pension de vingt mil liures tous les ans sur le duché de Milan ; et permit par edit datté à Blois le 24 de novembre [e ricorda il documento che gli servì di fonte, citandolo in margine colle parole : Titre de l’archive de Turin] que le monnoyes d’or et d’argent que ce prince faisoit battre à Chambery et à Geneve, eussent cours dans tout le royaume de France ». I passi riferiti del Pingone e del Guichenon, ci fanno vedere in primo luogo che i due storici non avevano idee chiare sul rescritto di Milano ; e sebbene il secondo ricordi distintamente e il rescritto medesimo e 1’ editto di Blois, pure falsamente crede che solo a Milano il re concedesse a Carlo la pensione, che già vedemmo oggetto di controversie. Il documento citato dal Pingone colla data del i.° giugno, senza fallo è la conferma della pensione dei io,ooo ducati, che si spettavano al duca, mentre l’editto datato da Blois il 24 novembre (e questa data nulla ha a fare col rescritto di Milano) è un nuovo privilegio concesso a Carlo in ricompensa dei servigi prestati alla Francia in occasione delle sue spedizioni. Pare che il Pingone confonda il documento che cita, cioè il rescritto milanese, con altro documento che lascia travedere, 1’ editto di Blois ; ad ogni modo nella nostra questione è di molto valore il rescritto milanese del 1.° giugno, di cui ci ha serbata memoria. Si potrebbe anche ricordare un’ espressione che leggiamo in un elenco di spese fatte dal duca nel suo viaggio a Milano [Liber computorum, 1506-7, fol. clxiii], da cui si ricava che Carlo di Savoia distribuì 20 scudi d’oro del sole ai dipendenti « du secretaire Robertet pour la expediction de lectres de la pension de mondict seigneur ». Del resto non il solo Carlo di Savoia ebbe occasione di provare la prepotenza di Francia : ben altre prove ne ebbe a fare Luciano Grimaldi. Cfr. Cais de Pierlas, op. cit., p. 105 segg.; Saige, op.cit., Introduction p. LVI - LXII. (1) Prato, loc. cit., p. 262; Jean d’Auton, IV, 84. (2) Ambrogio da Paullo nella sua Cronaca Milanese ci ha pur conservato particolari curiosi di queste feste in onore del monarca francese. Egli pone pure al 30 maggio la festa solennizzata con tanta pompa nella casa del Trivulzio (Misceli. di St. Ital, XIII, p. 199). — 598 “ in casa di Gian Giacomo Trivulzio, di cui Jean d’Auton ci ha conservati molti e curiosi particolari (i). Senza contare i numerosi cavalieri, più di duecento dame dei paesi vicini, tutte ricchissimamente abbigliate (2), erano accorse alla festa, sicché, non bastando il palazzo per contener numero sì grande di invitati, s’era costrutta una galleria di verzura lunga 120 passi, circondata da quattro ordini di logge, ed ornata degli arazzi più suntuosi; alle due estremità poi eransi alzate tribune o palchi per l’orchestra, per il re, per le persone più cospicue, che erano intervenute alla festa. Sull’ora del mezzogiorno vi giunse il re accompagnato da fiorita schiera di signori, fra cui Carlo di Savoia (3), parecchi prelati e cardinali, gli ambasciatori di Venezia, insomma « toute la cour, avec les seigneurs de Lombardie et autres, qui là étoient avec lui ». Al suo arrivo tosto si incominciarono le danze, ma tanta era la folla, che a pena potevansi far largo quelli che avrebber voluto danzare; sì che il re stesso, dimentico un istante della sua dignità, prese 1’ alabarda di uno dei suoi arcieri e girandola attorno su quelli che s’affollavano nella sala, in breve ottenne spazio sufficiente per i danzatori (4). (1) Jean d’Auton, IV, 85. (2) Jean d’Auton , IV, 87 : « Furent en la dite salle plus de douze cents dames, toutes vètues de drap d’or ou de soie, et toutes d’accoutrements neufs et tant riches, qu’elles sembloient ètre reines ou autres princesses ». (3) Jean d’Auton, IV, 88. (4) Jean d’Auton, IV, 89* Anche il da Paullo ci ha conservato memoria di questo episodio (Misceli. di St. Ital, XIII, 201): « Or stando e cosi ragionando con le donne, tanto crescette la moltitudine de la gente per videre la festa, che non era possibile che li soprastanti potesseno reparare alla furia, che volse impedire il ballare; dii che il roy, veduto siffatto desordine, lassato subito il ragionare con le donne, levò in pede et misse mane al stocco, descendendo con furia zoso ' — 599 — Fra quelli che ballarono , Jean d’Auton ricorda pure Carlo duca di Savoia e con lui « les autres princes et seigneurs, et gentilshommes de la maison du roi, qui là turent ». Alcuni presero parte al ballo mascherati : « les aucuns dansérent en masque portant habillements couverts de fleurs-de-lis, sur leurs chapeaux grandes plumes perses et jaunes faites en manière de fleurs-de-lis, les autres en habits de cordeliers, et les autres en di-verses maniéres et étranges habillements » (i). Alla sera poi cc sur le vèpre » furono imbandite le tavole con sontuosità tale, che a noi pare sorpassi le forze di un privato (2). Il duca di Savoia, che aveva preso parte de la baltresca, intrò in questi, dando col stoco or a l’uno or a l’altro, fazendo far largo per forza, et feritte uno gentilhomo in la faccia ». (1) Jean d’Auton, IV, 89-90. Anche il Prato (loc. cit., p. 262) ripete in breve queste ultime notizie: « Tutto il giorno con gran piacere et ordine se ballò, ognuno a suo piacere travestendosi sì francesi come nostrali ». (2) Jean d’Auton, che, come ho detto, ci dà una relazione minuta della festa, e offre particolari importanti per la storia del costume, per poterne fare esatta relazione, si recò a casa Trivulzio già al mattino, e vide (IV, 85-6) « onze grandes cuisines, pleines de broches, garnies de toutes viandes de volaille et de venaison ». Per il servizio necessario erano « huit-vingts maitres d’hótel, lesquels portoient chacun un bàton bleu couvert de fleurs-de-lis d’or. Douze cents serviteurs y avoit, par porter les viandes et servir aux buffets, desquels la plupart étoient en pour-point de velours noir ; le autres étoient en robe de taffetas et d’autre soie » (IV, 86). I convitati erano divisi in più « salles, chambres, cabinets, garde-robes et galeries, ordonnées : les unes pour le roi, les autres pour les princes et ambassades , les autres pour les cardinaux et les autres prélat de l’Église, les autres pour les chambellans et maitres d’hòtel de chez le roi, les autres pour les généraux et trésoriers, les autres pour les gentils-hommes, les autres pour les archerz , les autres pour les Allemands de la Garde, et les autres pour les valets et serviteurs des seigneurs qui là étoient » (IV, 90). E tutto fu servito in vasellame d’argento segnato collo stemma di casa Trivulzio sicché veramente poteva dirsi « un grand triomphe et marveilleuse richesse ». Le dame furono riunite insieme, e ad esse venne destinato il marchese di Mantova; era servita ciascuna da particolare scudiero (IV, 90-1). — 6oo — alle danze, non si trovò però al banchetto della sera, per un curioso malinteso che ci é narrato dal Sanudo (i). Riassumendo egli lettere di Milano, ci dei notizia della festa in casa Trivulzia, a cui intervennero pure gli ambasciatori veneti. Ma avendo alcuno detto al duca di Savoia che gli ambasciatori veneti, nel banchetto 1’ avrebbero voluto precedere, egli si era partito dalla festa. Forse agli inviati veneziani era pure stato riferito, che il duca avrebbe preteso per sé tale onore, o almeno, conoscendo essi l’animo del principe sabaudo, dubitando non nascessero scandali e noie, si erano pure ritirati « si che ni 1’ un ni 1’ altro non restono ». È questo un episodio di lunga contesa fra Savoia e Venezia riguardo alla precedenza, che ciascuno dei due Stati pretendeva per i propri ambasciatori rispetto a quelli dell’ avversario ; ora però non é il caso neppure di riassumerla, bastandoci dire che si scrissero su tale argomento libri e dissertazioni, e che esso fu oggetto di lunghe e complicate trattazioni diplomatiche (2). Non seguiremo il Prato ed il d'Auton in tutte le descrizioni di feste che celebraronsi a Milano, ma faremo (1) Diarii, VII, 95. (2) Riguardo alla questione della precedenza degli ambasciatori, a lungo ventilata fra la repubblica veneta ed il duca di Savoia, cfr. le discussioni che leggiamo in parecchie memorie nell’Arch. di Stato in Torino, Ceremoniale, mazzo 1.°, cioè. 1) doc. segnato col n. 2., 1503 in 1560, col titolo: « Memorie relative alle differenze occorse nella corte di Roma per motivo di precedenza nelle funzioni pubbliche tra li ambasciatori di Savoia e quelli di Venezia e di Milano, massime dopo che il papa Pio IV diede la sala regia alla repubblica di Venezia ». 2) doc. segnato col n. 3, col titolo: « Discorsi, memorie, e riflessi per provare la precedenza che ha sempre avuto la Reai Casa di Savoia sulla repubblica di Venezia». Cfr. A. Manno e V. Promis, Bibliografia storica degli Stati della Monarchia di Savoia, I, 39, Torino, Bocca, 1884 in Biblioteca Storica Italiana. — 6ot — cenno delle principali e di quelle a cui troviamo essere intervenuto il duca di Savoia. Il 3 giugno il Cardinal di Rouen cantò in duomo « la messa all’ aitar grande alla romana; cosa, credo, non mai più facta » (1), e col re vi intervennero « sette cardinali, et il duca sabaudiense, et il marchese di Mantua, et quello de Monferrato, et dui ambasciatori veneciani, et quegli dii re di Spagna, et molti altri signori et baroni et gran numero de vescovi » (2). Siccome poi quel dì correva « la festa del sacratissimo Corpo di Cristo (3) », così fuvvi processione celebrata colla solennità che si conveniva alla circostanza ed alle persone che erano presenti : « cosa certo digna di memoria » conchiude il Prato. Il dì seguente poi si cominciarono splendide giostre, ed innalzata una bastita come quella che era stata espugnata prima di entrar in Genova, si fecero sforzi d’armi per occuparla, mentre altri valorosamente la difendevano (4); « et questo solo si fece per acuire et infiammare i corpi et li animi di ciascuno, quando che venissi il vero bisogno della battaglia » (5). Il 6 di giugno (6) poi giunse in Milano il legato di papa Giulio, il Cardinal di s. Prassede, e fra quelli che gli furono inviati all’ incontro per riceverlo, troviamo pure il duca di Savoia (7). La fortuna di Luigi XII trionfava completamente. Sebbene e papa e Veneziani (1) Prato, loc. cit., p. 263. (2) Prato, loc. cit., p. 263. (3) Prato, loc. cit., p. 263. (4) Prato, loc. cit., p. 263 ; Jean d’Auton, IV, p. 91 segg. (5) Prato, loc. cit., p. 264. (6) Prato, loc. cit., p. 264. (7) Jean d’Auton, IV, p. 105. — 602 — in secreto temessero la troppa potenza francese, pure avevano spedito ambasciatori a rendere omaggio e congratulazioni al vincitore, il quale, chiamato da più seri motivi, partiva da Milano pochi giorni dopo (i) 1 arrivo del legato pontificio, forse preceduto di poco dal duca di Savoia (2). III. Ulteriori trattative fra Genova e Savoia. Se Genova, ritornata all’ ubbedienza di Francia, aveva scontato il suo tentativo di rendersi a libertà, con pene relativamente miti, però non aveva ancor terminate le questioni che agitavansi colla corte di Savoia. Noi vedemmo già le fasi diverse per cui passarono queste trattative, le quali, iniziate dal duca per vantaggio di Luciano Grimaldi, proseguite dalla repubblica allo scopo di ottener l’appoggio di Carlo-II, almeno indirettamente, (1) Jean d’Auton, IV, 118 scrive: « le dixième iour du mois de juin le roi parti de Milan »; invece il Prato registra il giorno seguente: « di undeci de ditto mese (giugno) il re se parti da Milano » (Prato , loc. cit., p. 264). Con errore evidente il da Paullo nota (Misceli. di St. ltal, XIII, 204) che « a dì 2 de zugno 1507, dopo molte ordinationi fatte a Milano per il governo , se parti il y la sua gente et baronia, et andò a Pavia... ». Del resto questo cronista non è sempre molto diligente nelle date: p. e. fa entrare re Luigi in Genova il 28 aprile e suppone che vi fosse giunto nelle vicinanze sin dal 18 del mese stesso. Pietro Vfrri, nella Storia di Milano (III, 151, Milano, 1824) rimanda la partenza del re fino all’ 11 luglio ; ma si tratta forse di semplice svista invece di giugno, come legge il Prato, dal quale il Verri dipende per questo periodo storico di cui ci occupiamo. (2) Cais de Pierlas, op. cit., p. 102, scrive che già il 6 giugno il duca era rientrato nei suoi Stati. Da quanto esponemmo pare questa data debba alquanto posticiparsi. — 603 — per l’impresa di Monaco, vennero poi ad aggirarsi sul modo con cui si potesse venire ad accomodamento fra Genova e Torino, quando la repubblica colle armi s’ era preso ciò che non aveva potuto ottenere per le vie diplomatiche. Su questo terreno si continuarono fino al maggio del 1509, sebbene, oltre agli interessi generali della repubblica, altri interessi particolari fossero lesi, e primi quelli dei mercanti genovesi'a Lione, che vedevansi chiuse le vie per gli Stati savoiardi. Invero Carlo di Savoia era ricorso, per ottener soddisfazione, ad una misura grave assai, dalla quale però allora non si rifuggiva. Già nel 12 dicembre 1506 faceva arrestare a Susa ed Avigliana i mercanti di Genova diretti in Francia e confiscar le loro mercanzie; e nel gennaio del 1507 (1) lo abbiam veduto proibire ai sudditi suoi di prestare alcun aiuto ai Genovesi, che allora campeggiavano Monaco, anzi di arrestare quanti si fossero lasciati cogliere sulle terre savoiarde senza che vi avessero fisso domicilio e da lungo tempo , sicché in nessuna parte della giurisdizione ducale potevano i mercanti della repubblica esser sicuri. Un ordine più severo ancora veniva emanato probabilmente più tardi (2), con cui colpivansi senza distinzione alcuna i Genovesi tutti, che si fossero lasciati cogliere nei domini ducali. Ricorda « commissariis____ quoad hec specialiter deputatis » che « superioribus diebus » i Genovesi, preparato un esercito contro il signore di Monaco, ave-ano ostilmente invaso e fatto irruzione in a nonnulla patrie nostre Nycie loca » travagliando i sudditi ducali (1) Doc. XII, gennaio 1507. (2) Doc. XXIV, data incerta. Atti. Soc. Lig. St. Patri*. Voi. XXIII, fase. 2° 39 — 604 — « incendiis, demolitionibus, rapinis, violenciis, oppressionibus, extorsionibus ». E perché tanta violazione della giustizia non era da tollerarsi senza risentimento, il duca ordina a chi spetta di arrestare « omnes et singulos Ianuenses » che si potranno prendere negli Stati savoiardi, colle loro mercanzie e coi loro beni, tenendo però di questi esatta descrizione. Le condizioni già gravissime del commercio genovese per gli Stati ducali, eransi dunque fatte peggiori, poiché il duca chiudeva agli avversari ogni via di comunicazione colla Francia, e tenevasi certo che a questo modo avrebbe potuto ottenere ampia soddisfazione. Il documento ultimo riassunto non ha data, ma vorremmo crederlo doversi attribuire o agli ultimi tempi dell’assedio o almeno ai primi giorni che corselo dopo lo scioglimento di questo. Non troviamo, a vero dire, espressioni che bastino a fissarne meglio la data, se fac ciamo eccezione per quel « superioribus diebus » che, riferendosi all’inizio delle ostilità genovesi, non le n’por terebbe ad epoca molto remota: del resto nessuna frase è tale da permetterci di asserire se tuttora durasse 1 as sedio o se i Genovesi avessero già desistito dall impresa. Se guardiamo però il complesso del documento, e te niamo conto del modo con cui parlasi degli « incendiis, demolitionibus, rapinis, violenciis, oppressionibus, extoi sionibus », che pare accennino in modo particolare ad un complesso di fatti i quali, come ci farebbero sospettare documenti che studieremo, potrebbero riferirsi principalmente all’irruzione dei Genovesi nella Turbia, siamo indotti a credere di essere ancora al tempo dell’ assedio, però dopo il gennaio, cioè trascorso qualche tempo, — 605 — dacché era stato emanato l’altro ordine pur contro i sudditi della repubblica, ma in apparenza più mite, di cui prima abbiamo parlato. Un documento che già citammo, del 22 aprile (1), ci parla di un nobile genovese, che, per isfuggire le molestie a cui poteva andar incontro , « velut ignotus et de... popularibus (genovesi) falso forte si contingeret existimatus », come diceva essergli già accaduto in Cuneo, otteneva dal duca ampio salvacondotto. Non possiam dire se questo esule, sfuggito dalla patria sua perché seguiva la parte di Francia, fosse stato colpito dall’editto che ci presenta il doc. XXIV, o se avesse avuto molestie per editti ducali anteriori contro i Genovesi, i quali non solo erano arrestati se colti nelle terre del contado di Nizza, come ci mostra il doc. XII, ma venivano anche catturati altrove, per esempio, come vedemmo, a Susa e ad Avigliana. Sicché il salvacondotto del 22 aprile non ci può aiutare per fissar la data del doc. XXIV. Ad ogni modo ci é nota ora la posizione di Savoia di fronte a Genova, quando il re, domata la città, festeggiava la vittoria a Milano. La repubblica, riavutasi appena dai terribili giorni passati, fra gli affari più importanti poneva la riconciliazione col duca, al quale scriveva per sapere cc se nostri liberamenti in el paese suo possiano negotiare », credendo forse o, a meglio dire, mostrando forse di credere che il duca non potesse più trovarsi col nuovo Governo in quelle relazioni con cui trovavasi coll’ antico. La risposta di Savoia fu però ben diversa da quanto a Genova si aspettava ; anzi, dice un documento genovese che fra poco vedremo, « absurda » e « aliena da ogni stillo de scriuere da amico a amici ». (1) Doc. XXII, 22 aprile [1507]. — 606 — Rileviamo queste pratiche da una istruzione data il 2 giugno 1507 (1) agli oratori genovesi destinati al re, Giovanni de Marini e Giambattista de Franchi, il primo documento, a mia notizia, in cui trattisi col re degli affari di Savoia; nel quale, riassunto quanto su dicemmo, data colpa della risposta ducale o al « secretario » o a « qualche ministri de sua Excellentia, per essere quella corte semper in expectatione » di cc presenti o largitione », si incaricano i due inviati di intendere dal re o dal legato (2) [il cardinale d’Amboise] cc corno de cetero habiamo a viuere cum sua Excellentia, essendo noi veri e boni subditi de la prelata maestà del nostro re ». Siccome però in quei giorni potevano incontrare il duca a corte, allora, dubitavano i Genovesi, sarebbe stato facile in questa occasione venire ad un accomodamento, impetrando in primo luogo che negli Stati ducali si facesse cc una generale publicatione » che cc cossi li nostri corno li soi subditi possiano hauere generale commercio utrinque sensa impedimento ne molestia alcuna ». Ma siccome cc forsi poteria essere obiectato » alle proposte degli inviati i cc grandi dani che saperano depingere de Mentone e Rochabruna », si fi) Doc. XXV, 2 giugno 1507. 12) Nel citato documento XXV si ingiunge anzi agli oratori, riguardo agli interessi tutù che loro spettava trattare a corte, che « quando per più commodita de sua maestà paresse a quella qualche audictori o audictore deputare », ricorressero a questi ubbedendo in tutto « quel che sua maestà comanderà n. E appresso. a A noi pare verisimile che sua maestà vi debba assignare o monsignor el legato solo, o lui in compagnia d’altri; cum li quali v adhoperareti trouarue al più presto possibile sia. E fkreti intendere a sua SL* R.“ li grandi oblighi che reputa hauere tuta la cita a quella, per esserse portata tanto humanamenti e af-fectionatamenti in tute le nostre cosse. E ricordareti a quella le grande offerte per quella a noi facte in la partensa sua che, accadendone qualche bisogno, da lui hauessimo ricorso, perchè la troueriamo inclinatissima ad ogni utile e commodo de questa nostra cita ». — 6c>7 — potrebbe cioè rimettere in campo l’antica questione tanto a lungo discussa, si avvertono gli oratori che il duca a in detti lochi non ha altre rasone si non iura feudalia » ; e che riguardo a danni, non basterebbero in vero 25,000 ducati per risarcire quelli che i Genovesi avevano ricevuto da sudditi savoiardi « specialmente de Nicia e Villafranca ». Dei resto, il mutuo commercio essere indispensabile per i due Stati ; e se anche il duca pretendesse qualche risarcimento, non esser questa ragione bastante per proibire « a li subditi de luna parte e de laltra el libero commercio de tuto el paese », giacché Genova sarebbe sempre stata disposta a far « cum li debiti mezi quanto richiederà la iusticia ». Intanto che la repubblica cercava di appianare queste difficoltà, i mercanti genovesi in Lione, sui quali in massima parte cadeva il danno dell’ interdizione ducale, giacché la via più ovvia e solita fra Genova ed il reame di Francia era quella per i domini savoiardi, avevano eletto quattro cittadini (1) coll’ incarico di condurre a fine le trattative col duca, ed ottenere al più presto il libero transito, senza cui si rovinavano i loro commerci. Noi vedremo dai documenti 1’ opera attiva prestata da questi commissari, che trovo ricordati per primo in un’istruzione del 23 giugno 1507, con cui il Consiglio genovese rispondeva a lettere dei due oratori inviati al re (2). Questi, ottenuto, come vedremo, che da Luigi XII si scrivesse al duca affinché « supercedeat (1) Teramo Baliano, Paolo Invrea, Ambrogio Gentile e Giuliano Grimaldi « deputati a mercatoribus ianuensibus Lugduni negotiantibus » (doc. XXX, 8 maggio 1508). (2) Doc. XXVI, 23 giugno 1507. — 6o8 - ab interdicto », ne aveano data notizia al loro Governo con lettere spedite da Asti il 21 giugno e giunte in Genova la sera del 22. Il Consiglio rispondeva che procurassero ad ogni modo di aver quelle lettere regali e che le tenessero presso di sé, giacché i deputati alla negoziazione fra Lione e Savoia avevano eletto un commissario che Genova avea in animo di mandare alla corte ducale, « el quale presto si trouera cum voi, e quando sia bisogno se transferira in corte del duca, preso da voi le instructione necessarie, e per virtù de le diete lettere vedara de condurre 1’ opera a perfectione cossi come speriamo debba seguire se facte che de le diete lettere ne habiate la copia » da consegnarsi al sopradetto commissario, che così possa accomodarsi « al tenore de quelle ». Però la pratica non si proseguì subito, giacché fino al 26 luglio non fu data l’istruzione ai due commissari, Vincenzo Tarigo ed Ambrogio Gentile, destinati alla corte ducale. A dir il vero però il documento del 23 giugno I5°7 parla di un inviato solo che destinavasi a Carlo di Savoia, cioè del Tarigo; ma l'istruzione che ora esamineremo (1) ci fa dubitare non esservi state nel frattempo altre trattative. Qui infatti, come sempre vedemmo farsi nelle istruzioni genovesi, si premette una storia succinta degli avvenimenti, e si ricorda la lettera spedita nei « superiori (1) Doc. XXVII, 26 luglio 1507. L’istruzione è intitolata dal governatore regio, dal Consiglio degli anziani e dall’ « Officium quatuor deputatorum super negociis sabaudiensibus », il che ci mostra che l’invio dei due commissari ha ad un tempo carattere politico e carattere, diremo, commerciale: in altre parole, i due commissari trattavano gli interessi della repubblica in genere e dei mercanti di Lione in ispecie. — 609 — iorni » al duca per esplorarne 1’ animo, e la risposta avuta « aliena da animo beniuolo verso di noi ». Altri provvedimenti allora furono presi e si cercò l’appoggio del re, dal quale si ottennero, dopo non poche difficoltà, le tanto desiderate lettere al duca, « quale ancora qui alligate hareti, e quelle potereti aprire e legere la continentia loro per maiore instructione vostra, e poi, auanti la presentatione , sigilarle ». In questo modo le trattative eran rimaste a lungo sospese, « non sensa grande dammo publico e maiore incomodo del trafìco de tuti li nostri ». Volendosi ora infine por termine a tale stato increscioso di cose, i due commissari aveano ordine di mettersi in cammino verso il duca, e giunti alla corte presentarsi a lui, « trouandoui tuti doa insieme », e, consegnategli le lettere credenziali, fargli intendere 1’ antica amicizia della repubblica verso la sua casa, ed i benefizi che aveano sempre avuto i due popoli per il mutuo commercio. Per questi motivi essere animo della città offrire a S. E. quel che da lei po-tevasi meglio. Introdottisi con questi preamboli, doveano chiedere al duca il permesso di esporgli lo scopo della loro venuta, sia che egli stesso volesse udirli o delegasse altri per accoglierli. Ciò ottenuto, erano incaricati di manifestar a S. E. o a chi per lei, 1’ « admiratione » della repubblica per il libero transito impedito, quando i popoli savoiardi avean sempre goduto e godevano il benefizio cc de traficare a Genoa e in la iurisditione genoese », e i Genovesi avean essi pur sempre avuto lo stesso diritto nei domini ducali, con grande vantaggio dei dazi e pedaggi savoiardi. La domanda degli inviati di Genova esser quindi giustissima per ogni parte; anzi — 6io — riuscire strano assai che non fosse esaudita, « essendo noi subditi de la Maestà christianissima del nostro re non manco conio se fussemo natiui de Francia » ; ed a ragione il re potersene maravigliare « atento la coniunctione intrinseca tra la dieta Maestà e soa Excellentia ». Già però si prevedeva quale sarebbe stata la risposta ai due inviati, che cioè il duca, sotto i rispetti riferiti, avrebbe ben volentieri acconsentito alle domande di Genova, ma che prima voleva esser soddisfatto delle spese incontrate per causa dell’ assedio di Monaco, spese che non si sarebbe mancato di far parere ben grandi, come era l’usanza. Contro questa obbiezione si avvertono i due inviati che le dette spese « in vero, corno sapeti, sono state cosse molto ligiere », e poi non punto causate da Genova che, se si era levata in armi per ricuperar Monaco, non aveva mai fatto segno di inimicizia contro i soldati di Savoia. E quando i soldati della repubblica fecero irruzione alla Turbia per iscacciare i venturieri francesi, « non fu facto uno minimo damno a li habitanti de la dieta Turbia, in la quale, per aduiso nostro, per el duca, per quel che se intende, non fu tenuto si non qualche poche cernie » (i). Da queste parole siamo informati di un altro particolare della lunga contesa, e veniamo a conoscere, come ci mostreranno anche documenti piemontesi, che i danni i quali la corte di Savoia pretendeva essere stati inferti agli abitanti della Turbia, erano uno dei principali motivi (i) Nel Liber computorum di Stefano de Capris, n. 161, anno 1507-8 (fol. 120 v.) è una nota di provviste fatte per la Turbia, « vertentibus differendis et discriminibus inter Ianuenses et dominum Monachi » , le quali ascendono alla spesa di 9 5 scudi d’ oro del sole. — 611 — di questione (i), oltre a quelli già esaminati riguardo a Mentone e Roccabruna, i quali luoghi, del resto, erano stati ripresi dall’ antico signore. I commissari però non dovevano insistere molto su ciò, anzi « scanzare la mentione e pratica de questo articulo, dubitando che, attento le nature e complesione loro, li trouereti diiicili a tirarli in vostra sententia ». Esser quindi meglio, per venire ad una conclusione, che il duca mandi a Genova qualcuno dei suoi per esporre tutti i motivi di risentimento della corte torinese, la quale avrà ogni soddisfazione giusta ed onesta. Frattanto non esser bene che le due parti rimangano prive del beneficio del mutuo commercio e transito, il quale si sarebbe potuto pur concedere mentre si trattavano le pratiche di un accomodamento , tanto più che i Genovesi avevano già avuto danni rilevantissimi dai sudditi ducali di Nizza e Villafranca, contro cui erano stati costretti a concedere rappresaglie , sebbene poi siasi « tenuto modo che mai sono state exeguite ». Questo era l’incarico, diremo così, ufficiale,, imposto ai due inviati, i quali del resto dovevano cercare con denaro di rendersi favorevoli cc quello o quelli de la corte in mano de chi iudichereti esser el consentire o non consentire a la domanda nostra » ; giacché era quella corte « molto inclinata ad apetire el denaro » , e per questa via passavano « grande parte de cosse che in (i) Qpesto passo del documento ora in questione, che dà tanta importanza ai danni che la corte di Savoia pretendeva aver avuti alla Turbia, è uno fra quelli che ci fan dubitare, come notammo più su, che veramente nell’ ordine di arresto emanato dal duca contro tutti i Genovesi che si trovassero negli Stati di Savoia (doc. XXIV), si avesse particolar riguardo a quel fatto. — 6l2 — quella si tractano ». Essi però dovevano far in modo di spendere il meno possibile per guadagnarsi chi loro paresse necessario, cercando di indurlo dalla loro parte « sotto quel manco premio e promessa » che potranno. Importava nondimanco dar avviso di queste pratiche a Genova appena concluse, aspettandone l’approvazione, come pure doveansi chiedere istruzioni in ogni occasione in cui se ne conoscesse il bisogno. I documenti a nostra disposizione non ci permettono di seguire queste pratiche passo per passo, tanto più che eran mosse dalla repubblica non solo, ma anche dai mercanti lionesi e dai loro deputati ; non possiamo quindi asserire con certezza e minutamente quale risultato abbiano avuto gli uffici dei due inviati, salvo che vogliamo riferire alla loro missione le notizie che troviamo in un documento del 27 novembre 1507, in cui però si parla del solo Vincenzo Tarigo, senza accennare ad alcun compagno. Si tratta di un’ istruzione data ai due oratori inviati al re (1), cioè Giovanni di Lerici ed Oberto Spinola, incaricati di ricorrere a nome della città alla clemenza regia, cc essendo oppressi da sì graui e in-tollerandi pagamenti a li quali, corno sapeti, é stato necessario per libera forza consentire ». Anche qui sono accennate le questioni con Savoia e la necessità « a noi e nostri » di « hauere libero transito a passare a Lione in el reame de Franza per el paese de lo ill.ma duca de Sauoia ». Si rammenta pure che, per risolvere tale questione, nei « mesi passati » vennero eletti « quattro ci-tadini de li negocianti a Lione », dei quali era stato (1) Doc. XXVIII, 27 nov. 1507. - 613 - mandato in corte del duca Vincenzo Tarigo, con istruzione. La missione avrebbe dunque avuto carattere strettamente privato e sarebbe da distinguersi dall’ antecedente , del luglio, a cui accennammo, perché quella aveva pur carattere politico, e forse il Tarigo, che d’ordine della repubblica recavasi in luglio alla corte del duca insieme col Gentile, vi ritornava poi da solo, per incarico dei mercanti lionesi. Ma noi siamo sempre davanti al dubbio che qui si esponga solo una parte della cosa, tanto più che non é sempre facile, nella questione dibattuta, distinguere nettamente i due lati e precisare i limiti dei due campi in cui agitavasi, sceverare cioè, giova il ripeterlo, l’interesse della repubblica dallo interesse privato. Ricordasi in seguito ai due oratori che anche a Lione eransi fatte pratiche presso il re « per tentare el detto transito per via de la regia Maestà » : appunto uniformandosi alle lettere scritte per tale causa ed attenendosi all’ istruzione data già al Tarigo, dovevano i due inviati cercare « per ogni via ottenere el detto transito, o saltem per via de suspensione per qualche tempo, dandoui arbitrio che per tale effecto etiam possiate expendere quanto in la dieta instructione si contiene (i). E quando più bisognasse, ne dareti auiso e attendereti nostra commissione ». E poco dopo si ritorna sull’ argomento: « Vi se detto de sopra la importantia e necessità che li nostri habiano (i) Nell’istruzione da noi riassunta, data al Tarigo e al Gentile, non si fa menzione di alcuna somma in particolare, accennandosi solo che Genova è pronta a dare una soddisfazione giusta ed onesta : non si potrebbe quindi asserire che al Tarigo, oltre alla missione politico-commerciale in comune col Gentile, ne sia stata affidata poi altra speciale a nome dei quattro commissari lionesi? — 614 — libero transito per il paese de Sauova, e cossi vi se afferma ». Il duca certo approfittava della posizione favorevole in cui trovavasi, non mostrando premura di venire a conclusione, perchè, quanto più stancava l’avversario, tanto maggior vantaggio si riprometteva. Alte erano le pretese della corte ducale, sebbene 1’ istruzione le dica basate su assai « poca raxone » ; e troppo poco pareva quello che dai Genovesi si voleva offrire in compenso. Di qui la lunghezza delle trattative, che non potevansi accomodare a parole o a promesse, come Genova avrebbe voluto, mentre Savoia pretendeva che non si uscisse da tale condizione di cose senza essere stata risarcita dei danni. Perciò, quando il Tarigo pre-sentossi alla corte ducale, le persone deputate dal duca ad accoglierlo, vollero che proferisse « qualche cosa ». Il genovese rispose « che la communita non li pagaria uno solo denaro, non intendendo hauerli obligo alcuno ». I negozianti invece di Lione, di loro moto privato, « se recatariano de qualche cossa, per hauere la commodita del transito. E se apperse de scuti iooo. Se ne fecero beffe, e risposino che erano truffati ». In tal modo si ruppe ogni trattativa , giacché il Tarigo conobbe che quelli « tendevano molto ad alto ». Eppure « noi siamo certificati el dicto duca per quelli fanti chel tene per la guardia de la Turbia hauere speso da scuti 1500 o ad summum 2000: quali e molto maior summa da soi populi li sono stati recompensati ». I quattro deputati dei mercanti lionesi non vorrebbero neppur ora oltrepassare la somma offerta dal Tarigo, la quale sarebbero disposti a pagare pur di ottenere il transito libero. Sopra queste istruzioni i due inviati alla corte del re dovevano - 6iS - regolarsi nel cercar d’ottenere dalla Maestà reale il libero passaggio per gli Stati ducali, « rinouandoui instantia che faciate ogni possibile opera per la caxione de tanto nostro bisogno »; tanto più che il duca « a facto mettere mano a dano de nostri, e per disordine de quella corte, è da dubitare che procederano tanto auanti, quanto trouerano la occasione ». Di ogni lor pratica e tentativo dovevano aneli’ essi dar avviso a Genova e aspettarne gli ordini per la conclusione. Di qui incominciano le nostre esitazioni ed i nostri dubbi. Non sappiamo 1’ esito delle pratiche dei due legati al re, e ci è pur ignoto quali altre relazioni vi siano state fra Genova e Savoia; ma abbiamo motivo di dubitare che forse le trattative erano entrate in una via assai buona, se, il 31 gennaio del 1508 (1), il duca concedeva al signore di Cholex, suo consigliere e maestro di palazzo, ampia facoltà per trattare in suo nome « cum deputatis et agentibus nomine Ianuensium de et super omnibus et singulis questionibus et differendis inter nos et dictos Ianuenses » : questioni sorte a cagione di danni e di ingiurie da quelli arrecati alla patria ed ai sudditi di Nizza in occasione dell’ assedio e di altri tentativi su Monaco, e di spese che quindi aveano procurato alla corte di Savoia. Dal canto suo poi prometteva « bona fide... et in verbo principis ac sub nostrorum presentium et futurorum quorumcumque bonorum expressa obligacione etypotheca », di osservare quanto l’inviato ducale avrebbe conchiuso. Ma deve aver conchiuso assai poco, giacché la questione fu continuata ancora a lungo con grande danno (1) Doc. XXIX, 31 gennaio 1508. — 6 r 6 — dei Genovesi ai quali premeva finirla a qualunque costo. Infatti nel maggio del 1508 ritornava al duca il Tarigo, che vediamo essere stato sempre il negoziatore di queste lunghe pratiche. Il 9 di questo mese egli già doveva essere in pronto per la partenza, poiché riceveva dalla repubblica lettere commendatizie affinchè potesse « proseguire il suo camino quietamente e senza impedimento alcuno » (0> ed era pur munito di lettere credenziali per il duca di Savoia (2). Nel medesimo giorno il Consiglio genovese affine di procurarsi, diremo noi, appoggi da alto, scriveva ai due oratori presso il re, Giovanni di Lerici ed Oberto Spinola; e il medesimo Tarigo era incaricato di consegnar loro le lettere, annunziando che « li quatro deputati per nostri mercadanti de Lione inviavano « iterum (3) » questo loro rappresentante « per la causa a voi nota ». Sebbene però il Tarigo andasse « cum altri fondamenti che sinaqui non se facto », nondimeno per dar più pronta soluzione alla vertenza, i due oratori potrebbero impetrargli « qualche lettere da la Maesta del re o da altri », e sovvenirlo di « ogni aiuto e consiglio » che giudicheranno « al proposito che la dieta causa meglio se possia resoluere e concludere ». (1) Doc. XXXI, 9 maggio 1508. (2) Doc. XXXII, 9 maggio 1508. (3) Doc. XXXIII, 9 maggio 1508. Questa parola iterum, malgrado certe frasi che esamineremo più sotto in altro documento , ci farebbe sospettare che questo fosse il secondo viaggio del Tarigo alla corte di Savoia fatto a nome dei mercanti lionesi, e che quindi la relazione, che noi già presentammo, dell’ accoglienza da lui avuta nella corte ducale, non si riferisca a quella missione di cui riportammo l’istruzione sotto la data 26 luglio 1507, ma ad altra speciale che ci è lecito supporre, dal doc. XXVI, anteriore a quella avuta col Gentile Ma alcune espressioni che leggiamo nel doc. a pag. 617 ci obbligano a conservare tutti i nostri dubbi. — é 17 — La missione del Tarigo era dunque in realtà più commerciale che politica ; ma i due interessi ci appaiono tanto fusi insieme, che, come già abbiamo avvertito, non sapremmo più ben distinguerne i limiti, che pure ci doveano essere. Ad ogni modo quelli che danno l’istruzione all’ inviato (i), che pure dovea presentarsi sotto 1’ egida del suo Governo, sono: Teramo Baliano, Paolo Invrea, Ambrogio Gentile e Giuliano Grimaldi « deputati a mercatoribus ianuensibus Lugduni negotiantibus », i quali, in breve riassumono la parte che in queste negoziazioni ha già avuto il Tarigo. « Per hauer hauuto voi un altra fiata simile cura in l’altro viagio in el quale mandato fusti a la Excellentia del prefato ill.mo duca nomine publico, e per hauere tractato cum sua Excellentia e cum soi officialy e ministri la causa del transito per el suo paese, a voi è notissimo quel che per resolutione et expeditione de la dieta causa è bisogno de fare ». Siccome però la missione presente non ha scopo politico, si accenna appena di volo alle relazioni politiche fra i due Stati, osservando che se la causa non era fin allora venuta alla conclusione, doveasene dar colpa al « non esser bene intesa ». Il duca invero si mostrava nemico alla repubblica, mentre questa s’era sempre portata qual buona e vera amica : il duca aveva impedito il transito dei Genovesi per il suo dominio, e « nondimanco li populi soi, senza alcuno saluoconducto sono venuti qui [a Genova] e sono semper potuti venire sicuramenti senza alcuno saluoconducto per ogni suo comercio e negociatione ». (i) Doc. XXX, 8 maggio 1508. — 618 — Il motivo poi per cui il duca aveva mostrato di risentirsi tanto, era senza fondamento di vero; perchè, ammesso anche che il duca avesse fatto spese nell’ occasione del- 1’ assedio di Monaco, i « Genoesi non ne hano culpa alcuna. E per quel che habiamo veduto in quella instructione che a voi fu data da la nostra Signoria, vi se pienamenti alegato e declarato che nostri non possiano iuxtamenti esser colpati e che non sono a modo alcuno tenuti ad alcuna satisfactione » (i). Ma ora l’inviato deve discutere interessi più particolari, giacché desiderio di chi lo manda è solo che « sia libero el transito per el paese de la excellentia del prefato duce e libera negotiatione e comercio cum li soi populi ». Il Tarigo, prendendosi a compagno « el spectato Iaches Caxino, el quale per el bono grado chel se dice hauere cum la prefata excellentia del duca e cum la corte sua, e per la muttua beniuolentia sua verso de molti citadini de questa nostra cita, voluntieri se interpone a componere questa difficulta del transito e comercio tra sua Excellentia e nostri », deve presentarsi in corte, e omessa ogni « contentione e disputatione », essendo già questa materia « tanto examinata e tritta », cercale di (i) Nell’istruzione 26 luglio 1507 si afferma che se il duca ha fatto spe « noi non gli abiamo dato occasione alcuna de spender ». Del resto la repubbli mostravasi pronta a dar soddisfazione aggiungendo : « non si mancherà per noi a le cosse iuste et honeste » senza specificare di più. Invece nella relazione a cu’ cennamo, dove parlasi dell’ accoglienza avuta dal 1 arigo alla corte di Savoi , doc. XXVIII, 27 nov. 1507, l’inviato genovese avrebbe risposto a chi era stato incaricato di udirlo quasi le precise parole che riportansi nella presente istruzione. « che la communita non li pagaria uno denaro, non intendendo hauerli obligo alcuno ». Si potrebbero però conciliare le espressioni che leggiamo nei due documenti, osservando che forse Genova, come città e governo, non avrebbe voluto riconoscersi obbligata a nulla concedere al duca, ma avrebbe cercato di far si che 1 mercanti lionesi in qualche modo soddisfacessero alle domande della corte di Torino. — 619 — venire al più presto alla conclusione bramata. 1 « fundamenti » su cui poneva il Consiglio genovese la speranza che i mercanti di Lione riuscissero a buon porto nelle lor trattative, erano probabilmente la disposizione che questi avevano cc de recatarse a una cossa honesta », giacché davano facoltà al Tarigo di promettere « de pagare nomine nostro scuti doa milia de sole, hauendo libera patente del transito e commercio more solito libero senza alcuna condictione ». Ma in caso estremo erano anche disposti a far di più: cc ad extremum siamo contenti possiate promettere et expendere per la expeditione del dicto libero transito e commercio more solito , sicut antea Genuenses fruebantur, sino a la summa de fiorini decemilia de Sauoya ». Prendesse però tempo per pagare il riscatto cc e, se possibile sia, sino a la fera de augusto proximo o de ogni sancti »; e desse avviso di tutto a Genova, appena conchiuse le pratiche, cc a ciò che se possa fare prouisione de fare el detto pagamento » e dare subito cc certa cautella e promissione » che a tempo debito si sarebbero soddisfatti gli obblighi presi, cosicché, tosto concluso, si potesse cc pubblicare e denon-ciare per tuto » il libero transito. Malgrado però sì ardente desiderio da parte dei Genovesi di venire a conclusione, pronti anche a sacrifizi non lievi, le loro profferte non devono aver contentate le aspirazioni della corte savoiarda, la quale pare pretendesse assai maggiore compenso. Ci mancano però del tutto documenti piemontesi che permettano di fissare nettamente non solo le pretese di questa corte, ma ancora tutti i motivi del risentimento che essa dimostrava contro i Genovesi. Da attestazione esplicita di Atti. Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2.° 40 — 620 — Pietro Gioffredo (i) sappiamo però che egli potè aver notizia, se non conoscenza diretta, di documenti che per noi sarebbero tanto importanti, giacché narra essergli cc passata per le mani » in un vecchio libro di repertorio, ossia indice di scritture, una tale intitolazione : « Item quaedam parva papyrus intitulata. S’ensuyt ce que monseigneur le due de Sauoye demande aux Genevois des dommages et despens qu’il ha heu d’eulx, à cause de l’armée qu’ils ont mise en ses pays A * pour faire la guerre à Moniguez ». E poco prima ai questo passo, riassumendo in poche parole le contese fra Savoia e Genova, aveva detto: « il duca di Savoia si pretese, nell’occasione di quest’assedio [di Monaco], grandemente offeso da’ Genovesi, si per la sua giurisdizione.... violata, come per i danni dati con 1 accampamento a molti particolari suoi sudditi, particolarmente d’ Ega e della Turbia », e si era riferito, come a prova, alle carte dell’ archivio « castri Taur[inensis] ». Ma oltre alle scarse indicazioni del Gioffredo, il quale pure è l’unico scrittore, a mia notizia, che abbia accennato alle contese fra i due Stati in occasione dell assedio di Monaco (2), noi non abbiamo documenti che valgano a spiegarci il modo in cui si deve esser diportata la corte savoiarda in queste lotte diplomatiche, e le pretese da lei messe innanzi. Certo però quelli della Turbia, che forse più di tutti aveano patito i danni delle ostilità , doveano sollecitare per ottenere un risarcimento, (1) Storia delle Alpi marittime, in M. H. P., SS., col. 1211. (2) Se altri ne ha accennato, l’ha fatto sulla scorta di P. Gioffredo; e col suo aiuto, senza fallo, ne ha di fuga accennato I. B. Toselli , Précis histonque de Nice depuis sa fondation jusqu’en 1860, 1." partie, p. 102, Nice, Cauvin, 1867. — 621 — e ditatto il duca, fra i motivi per cui chiedeva soddisfazione , noverava sempre, come ci mostrano le carte genovesi, le devastazioni fatte ai suoi sudditi della Turbia. Pubblicheremo un documento dell’Archivio di Stato di Torino (i) in cui si espongono al vice governatore di Nizza, Pietro di Bellatruchiis, i danni gravissimi avuti in beni e case durante la spedizione genovese : danni che il supplicante fa salire sino a iooo scudi « et ultra », per la qual cosa, cc cum intendat dictum dampnum repetere, supplicat dampnum predictum extimari, vocato consule Ianuensium , et extimam remitti duobus expertibus » da eleggersi dal vice governatore. Il quale, esaudendo la supplica, eleggeva due periti per 1’ estimo di questi danni, cioè Stefano Bianchi e Luchino Fighiera (2), che doveano recarsi nei luoghi in essa menzionati e cc vocato prius consule Ianuensium » fare calcolo diligente e del risultato redigere pubblica carta: « in publicum describatis seu describi faciatis, ut, eis [dampnis] visis, dicto supplicanti de iuris remedio prouidere ualeamus ». Sono questi appena gli scarsi indizi a noi noti di un lungo lavorio che dovette compiere la corte di Savoia, affine di sostenere i propri diritti a risarcimento per danni che pretendeva aver avuti, al quale s'opponevano pratiche attivissime da parte dei Genovesi, cui troppo nuoceva 1’ attitudine ostile del duca. Sicché con gioia dovettero quelli certo salutare il maggio del 1509, in cui finalmente i due Stati componevano le differenze, abbenché fossero gravi i patti che il duca poneva come prezzo della pace (3). (1) Doc. XXXIV, 22 gennaio 1509. (2) Doc. cit. (3) Doc. XXXV, 23 maggio 1509. — 6 22 — Sfuggono a noi del tutto le pratiche che precedettero immediatamente questo trattato, solo sappiamo che il duca sceglieva a suo rappresentante e spediva a Genova il consigliere ducale Filippo Provana, dell’ordine Gerosolimitano, precettore della precettoria di Chieri (i). Dalla parte dei Genovesi stipulavano il patto Teramo Baliano, Giorgio Grimaldi, Giovanni da Passano, Agostino de Ferrari, Paolo Invrea, Ambrogio Gentile, Anfreone Centurione di Raffaele, Giuliano Grimaldi di Marco, che son detti « officiales Sabaudie deputati ». Fra questi nomi ci appaiono pur quelli dei quattro « deputati a mercatoribus ianuensibus Lungduni negotiantibus », che un anno prima [8 maggio 1508] avevano data a Vincenzo Tarigo 1 istruzione che esaminammo; gli altri quattro probabilmente erano i rappresentanti più diretti degli interessi del comune, a nome del quale negoziavasi la pace. Le condizioni della quale, a volerle ridurre a sommi capi, giacché per disteso si possono leggere nel documento che il lettore troverà edito in appendice, sono le seguenti. Premesso un cenno delle inimicizie state fra i due Governi con danno dei sudditi d’entrambi, mostrata l’utilità della pace e concordia vicendevole, il rappresentante del duca, a nome del suo signore, e della città di Nizza e degli uomimi della Turbia, rimette le ingiurie, le violenze e i danni, che « commune Ianue siue agentes pro ipso communi, et alii quiuis particulares Ianuenses eorumue subditi vel stipendiarii aut alias pro Genuensibus deputati, maxime (1) Intorno alla precettoria di s. Leonardo di Chieri e al Provana, cfr. Antonio Bosio , Memorie storico-religiose e di belle arti del Duomo e delle altre chiese di Chieri, Torino, Collegio degli Artigianelli, 1880, p. 310 segg., p. 319. — 623 — tempore obsidionis castri Monici, aut alias quomodocumque, intulissent aut inferri fecissent vel permisissent, dicto ill.mo domino duci, universitati et hominibus particularibus Niciensibus et aliis subditis dicti ill.mi domini ducis ». Promette inoltre, sempre ai soliti nomi, di mantener pace e concordia coi Genovesi ed i loro sudditi, concedendo loro libero transito e sicura dimora negli Stati ducali : patti che il duca stesso aveva obbligo di rattifìcare solennemente per mezzo di pubblico strumento, e con lui la città di Nizza, il luogo della Turbia per il loro legittimo sindaco e procuratore, e ciò nel termine di un mese e mezzo. D’ altra parte i rappresentanti del comune genovese rimettono essi pure i danni ricevuti dal duca e da’ sudditi suoi, e di più, sebbene « pretendant pretensa damna non ascendere ad infrascriptam quantitatem et summam », per amor di pace e concordia, promettono, seguite le ratificazioni sudette, pagare al duca 18,000 lire di genovini, di cui 3000 « de numerato in banco vel bancis Ianue », e le altre 15,000 « de scripta banci » fra il termine di un anno, « et ex nunc reponere dictam summam pecuniarum super aliquo idoneo banco seu bancis approbandis per dictum reverendum et magnificum dominum Philippum dictis nominibus ». Se poi il duca volesse esigere quella somma che il comune obbligavasi a pagare al termine di un anno , prima di questo tempo stabilito, fu convenuto che egli potesse riscuoterla a suo piacere , deducendovi però 900 lire, che il Provana, a nome degli interessati che rappresentava, loro rimetteva. L’ 8 giugno il duca di Savoia ratificava solennemente , come era stabilito nei patti, per mezzo di — 624 — pubblico strumento (i) rogato dal segretario ducale Giovanni Vulliet, quanto aveva promesso in Genova il suo inviato ; e nel giorno stesso, per mezzo di altro istrumento (2) rogato pure dal Vulliet, nominava suo procuratore Gregorio dei signori di Buronzo, consigliere ducale e tesoriere dei nobili di camera, dandogli potere di esigere le 17,100 lire di genovini, che gli si doveano sborsare, le quali erano depositate nel banco dei nobili Niccolò e Benedetto Spinola ed Agostino Cattaneo ; il quale banco, come gliene dava facoltà l’atto del 23 maggio, era stato approvato dallo stesso Filippo Provana. Il duca aveva scelto di riscuotere immediatamente, come era in suo arbitrio, tutta la somma dovutagli, rimettendo naturalmente le 900 lire, come richiedeva 1’ accordo convenuto. Il Buronzo aveva pure l’incarico di concedere piena e definitiva quitanza al comune, una volta esatta la somma dovuta ; e quindi avendogli « predicti Nicolaus et Benedictus Spinule et Augustinus Cattaneus bancherii » pagato lire 3000 « et magnificum officium sancti Georgii anni presentis de mdviiii » lire 14,100, che facevano il compimento delle 17,100 lire dovute al duca, egli il 22 giugno (3) ne rilasciava ampia e legale ricevuta al comune di Genova, che cosi restava libero e sciolto dalle gravi questioni, le quali finora avevano inceppati i suoi commerci (4). (1) Doc. XXXVI, 8 giugno 1509. (2) Doc. XXXVII, 8 giugno 1509. (3) Doc. XXXVIII, 22 giugno 1509. ‘4) Però sì lunga questione ebbe uno strascico ancora, che ci è rivelato da un documento dell’Arch. di Stato genovese [Materie Politiche, 18 a, b, c.] del 19 ottobre 1509 in cui trattasi di una causa intentata dai mercanti di Lione contro il comune - 625 — In questo modo finiva con vantaggio di Savoia la lunga contesa che, cominciata nel 1506, s’era andata continuando per lunghi anni. I documenti a noi noti ci han permesso di tracciarne sicuramente le linee generali, sebbene ci siano sfuggiti molti particolari, che forse avremmo potuto meglio lumeggiare, se agio e tempo di Genova, che aveva imposto una nuova tassa sulle mercanzie che da Genova dovevano essere trasportate a Lione, passando per la Savoia, e viceversa sopra quelle che da Lione dovevano per la stessa via esser condotte a Genova. In questo documento, trattandosi della imposizione di tale tassa, si legge: « Pre-stantes viri Theramus de Baliano, Paulus de Invrea, Ambrosius Gentilis et Benedictus de Migro Tadei [quest ultimo nome, come già vedemmo, non appare nei documenti sopra citati, e noi non sapremmo con certezza render conto di questa differenza], officiales iam pridem electi ex numero eorum qui pre ceteris nundinas Lugduni frequentare conseurunt, ut eorum opera atque industria apperiretur transitus per regionem Sabaudie ac per ditionem ili. domini ducis Sabaudie, qui quidem transitus iam diu preclusus atque interdictus fuit mandato ipsius ili. domini ducis pretendentis se et suos a Ianuensibus lesos fuisse eo tempore quo Monachum oppugnabatur, ob eamque causam restaurationem damnorum repetebat ad summam non leuem pecuniarum se extendentem. Et cum ultro et citro sepe scriptum et rescriptum fuerit et plures internuncii utrinque missi, tandem post varia tractamenta per longum temporis interuallum hinc inde agitata, ad postremum nouissime inclinauit prefatus ili. dominus dux, si soluamus sibi scuta sex milia, excluso quocumque alio onere seu solutione, renouaturum se cum Ianuensibus amicitiam, liberumque transitum prebiturum per totam regionem suam, et mutuum commercium inter omnes subditos suos ac Ianuenses introducturum in omnibus et per omnia sicut ante interdictionem hanc nouissimam libere utrique nationi patebat. Super qua re cum multum antea et nunc quoque satis consultatum fuisset, visum est oblatam condictionem acceptare si ad minorem summam pecunie ea conditio trahi non poterit . . . « Scientes igitur suprascripti officiales octo [f quattro deputati lionesi sopranominati e quattro aggiunti « in exeeutionem decreti magni consilii »] ad faciendam eam solutionem non posse se se pecuniam necessariam aliunde ellicere quam per drictum imponendum super rebus ac mercibus quibuscumque per totam regionem Sabaudie transitum facturis tam de introitu quam de exitu . . . instituerunt atque instituunt drictum unum » etc. II resto della contesa non interessa più a noi. Ci basti il notare come il comune volesse riversare il carico sui mercanti di Lione, e da questa nuova tassa rimborsare il denaro speso. — 62 6 — ci fosse stato concesso di più lunghe ricerche negli Archivi genovesi. Poco invece speriamo si possa ritrovare di nuovo negli Archivi di Torino, giacché pur troppo molte delle carte riguardanti Carlo II andarono perdute, e la maggior parte di quelle che sopravanzano ci furono conservate nei preziosissimi protocolli dei segretari ducali, che abbiamo studiati, e che consideriamo come la fonte più copiosa di documenti piemontesi, i quali ci potessero sovvenire in queste indagini. Ed ora, al termine del mio lavoro, se questo potrà riuscire non inutile contributo alla storia piemontese e genovese, specialmente dei torbidi anni 1506-7, mi sia permesso porgere vivissimi ringraziamenti a quegli uomini egregi, pei quali serbo profonda gratitudine, che mi furono larghi di mille favori e gentilezze, fra i quali godo ricordando il sovrintendente degli Archivi liguri, comm. Cornelio Desimoni ; l’avv. Didimo Grillo, ufficiale dei medesimi Archivi; il prof. comm. L. T. Belgrano dell’Università di Genova; il marchese Marcello Staglieno; il barone Emanuele Bollati di St. Pierre, sovraintendente degli Archivi piemontesi; il cav. Pietro Vayra, che con tutta gentilezza e cortesia mi sovvenne nella revisione di documenti di non sempre facile lettura, il barone Domenico Carutti di Cantogno, bibliotecario di S. M. in Torino, il conte Cais de Pierlas; e ancora sempre il mio professore conte Carlo Cipolla, dell’Università di Torino, della bontà e cortesia dei quali ho avuto motivo di approfittare nel corso delle mie ricerche. Torino, 25 marzo 1891. DOCUMENTI ra i molti documenti che ci son venuti alla mano, noi pubblicheremo per intero quelli solo che si riferiscono direttamente alla questione di cui ora trattammo; di quelli invece che a noi interessano solo in qualche loro parte, o per incidenza, presentiamo i brani che vennero utilizzati nel lavoro, contentandoci di aver indicato allo studioso il documento, giacché ci sarebbe parso eccedere troppo i limiti propostici se 1’ avessimo edito intero e completo. Riguardo ai criteri seguiti nell’ edizione, ci basti il notare che, badando con ogni cura a riprodurre più esattamente che per noi si potesse il documento, ci siamo riserbata però piena libertà ortografica, come sarebbe: cominciare con lettera maiuscola i nomi di persona e di luoghi, dare punteggiatura che giovasse al lettore per comprendere il senso del documento medesimo. A raggiungere il quale scopo non abbiamo creduto bene di trascurare tutti quegli aiuti ortografici che, senza alterare menomamente le parole del documento, pure servissero a facilitare il medesimo compito. — 6 3i — I. Istruzione ai commissari genovesi mandati nella riviera orientale per la spedizione su Monaco. Genova, 12 novembre 1506. [Arch. di Stato, Genova. Diversorum communis Ianue, a 1506, filza n. 63] Philippus (1) et Consilium antianorum et Officium Balie et Monaci communis Ianue. Hec sunt que in mandatis damus vobis, Baptiste de Pinu et Iohanni Baptiste de Portufino, commissariis nostris in rippariam orientis profecturis. Commissarii, voi haueti inteso da noi a bocha la caxone, per la qualle hauemo deliberato de mandarue in quella riuera de leuante, confidandose de la bona discretione e bono animo vostro. Crediamo ve sia assai noto quello che sia meser Luciano de Grimaldis, signore anci occupatore de quello nostro loco de Monacho, tenuto e occupato da alquanti agni in qua per li precessori soi e lui, nel quale non hano ninguna saltim iuxta caxone e titulo. E corno per li soi antecessori, e cossi da epso, dal tempo che lo tenesse de lo excesso crudelissimo conmisso contra el fradello (2), come siamo statti tractati lo haueti inteso, prendando tuti li amici de la natione nostra e quelli damnificando, como sono Spagnoli (3), Portugesi, Catalani, Venetiani e molti altri, faciandosi de molti inimici per (1) Sebbene già sin dal mese antecedente il regio governatore fosse partito da Genova, pure da lui intitolavansi sempre gli atti del comune. (2) Cioè Giovanni Grimaldi, assassinato da Luciano nell’ottobre del 1505. (3) Cfr. per es., un documento del 18 febbraio 1506, che è un proclama contro Luciano e gli uomini di Monaco, inibendosi a ogni persona dipendente dal comune genovese, di comprar cosa alcuna di una preda fatta dal signore di Monaco su alcuni « subditi de lo ser.mo et catholico re de Spagna». La stessa inibizione fu fatta proclamare il 4 di marzo nella riviera occidentale [Arch. St. di Genova, Diversorum communis Ianue, a. 1506, filza n. 62]. — 632 — meglior poter far robarie. De li qualli comportamenti a noi e tuta la natione nostra è peruenuto grande danno, non bastendoli scodere lo drito tant[o incurioso, ma prendere quatro per cento ; del che quante incomodità e destrasio ali Genoexi, e masime a quelli de le riuere per nauigare cum barche e picholi vaseli, sia seguito, he assai manifesto. E considerando noi quanto sia ignominiosa cossa a la natione nostra per tuto lo mondo, maxime apresso de principi e signori, sopportare talle tiranno, e a fare intende per tuto che talli soi comportamenti mai non ne piaceteno, in nome de Dio hauemo deliberato de manchare di talli inconuenienti, e leuarselo de su li ochii, e de recuperare le cosse nostre. A la qual cossa siamo tanto più prompte uenuti, quanto hauemo considerato lo fructo che ne sia per resultare se se haueremo leuato questa spina ne li pedi. De che seguirà che ogniuno, maxime quelli delle riuere, porrano attendere a le mercantie sue sensa paura de destraxio e mancho carrego. Porrano etiam li vaseli picoli de ogni altra natione, chi schiuauano lo paese nostro per li soi tristi comportamenti, venire liberamente. Le victualie, per lo trafego vicino de Prouensa e altri loci, seran più abundante ; haueremo questo nostro distrecto tuto integro, che serà una cossa dignissima, e ne resulterà mille beni; e quel loco lo qualle i antiqui nostri per priuilegii e concessione de li imperadori hano facto cum le proprie mano, tornerà a li soi veri domini e fundatori ..... Datum Ianue, die xii nouembris 1506. II. Lettera credenziale per Bernardo Veneroso oratore al duca di Savoia. Genova, 29 novembre 1506. [Arch. Stato, Genova. Litterarum cod. 47] Illustrissimo principi domino Carrolo duci Sabaudie etc. nobis collendissimo. Illustrissime princeps et excellentissime domine. Mittimus ad — 633 — conspectum Excellende vesti e dilectum ciuem et commissarium nostrum Bernardini! Venerosum, qui, nostro nomine, nonnulla Excellende uestre referet. Precamur illam ut eius relatibus fidem indubiam prebeat, prout nobis faceret; cui nos commendamus. Datta Ianue, die xxix nouembris 1506. III. Istruzione a Bernardo Veneroso inviato al duca di Savoia, per ottenerne aiuto nell’impresa di Monaco. Genova, 29 novembre 1506. [Arch. Stato, Genova. Istruzioni e relazioni politiche, filza 3/2707 C.] Philippus et Consilium. Hec sunt que in mandatis damus vobis Bernardo Venerozo comissario nostro ituro ad illustrissimum ducem Sabaudie. Confidandosi de lo affare vostro, bizognando al presente mandare persona a lo ill.mo duca di Sauoya, per quelo che intendereti, ne seti parso acommodatissimo. A questo bizognando edam de prestessa, sì che al più presto sia possibile spachatiue et metetiue a camino. La cagione è questa. Voi auete inteso de la deliberatione facta di andare a ricoperare il loco nostro de Monacho ; videti etiam lo preparatiuo che faciamo. Et stando in questo, è venuto qui uno mandato de lo ill.m0 duca di Sauoya cum lettere directe a mons. lo locumtenente et.....a noi, lo quale ne ha exposto esser mandato da la Ex.tia duca suo a noi a farne intendere corno hauendo intezo lui la deliberatione nostra di volere andare a Monicho, come in Mentone e Rochabruna, li quali doi loci tene al presente m. Luciano de Grimaldis ha ragione di homagio et feudo ; et che, volendo noi andare a Monicho, intende non faciamo nulla nouità a dicti duoi loci. A lo quale hauemo resposto, corno noi et li nostri antecessori hano sempre auuto in grande reuerentia la ill.ma Casa di Sauoya e tuti suoi precessori, et maxime li quondam — 634 — ili.™ padre (i) et fratello (2), et cossi sua Ex."1', et essere in proposito di perseuerare, nè mai hauere hauuto animo di fare cossa che li potesse offendere, nè in parole nè in opere, anzi sempre bona reuerentia et amore. E he vero che, siando stato occupato il nostro loco de Monicho longo tempo la da questi di Grimaldo, 10 quale hauemo auuto iustissimo titulo dali imperatori, et fabricato di propria mano de li nostri maiori et posseduto, hauemo deliberato rehauerlo, sperando, attenta la iusticia nostra, li mali comporti da molte bande de esso m. Luciano, al presente occupatore de esto loco, non solum di non douer hauere impachio alcuno in la cossa nostra, immo tuti li principi et signori da lontano et dapresso fauorevoli, attenta la condictione de esso m. Luciano, et per hauere esso a tuti senza respecto sempre nociuto et facto dani ; et specialiter speramo di hauere fauore da sua Ex.tu per esser iustissimo. Et cossi parendone che la propositione sua bizognasse de qualche ragionamento et conueniente tractamento, la domandamo si hauia balia alcu[na per] potere intrare più auanti et praticare, perochè sperauamo di prendere insiemo qualche bono mezo: respose di non; et lo confortamo a volere hauere tale balia: recuso etiam questo; 11 deximo, poiché cossi era, manderiamo di brieue persona a la Ex.tia del duca, a lo quale fariamo inteso lo bizogno, et cossi presto si partì. Questo discorso hauemo facto a ciò intendiati qualle è interuenuto. Iuncto che sereti a sua ill.ma Signoria et dato le lettere di credenza et facto le nostre ricommandationi, li fareti intendere la reuerentia nostra et animo uerso quella ill.ma Casa, in lo modo et forma che di sopra haueti inteso et hauemo facto a quello suo mandato; et mai essere stata nostra intentione in alchuna [cosa] di nocere a la antiqua deuotione nostra et amicitia, nè vegnire contro a quello che sii honesto. Solum volere noi iustamenti recuperare Monicho, pregando sua ill.ma Signoria si voglia degnare di farne quele commodita che de’ fare uno amico al altro di quelli doi loci; de la quale cossa, ultra che farà seruitio a Dio per extirpare tal herba de lì, fara officio (1) Filippo II (1496-97). (2) Filiberto II (1497-1504). - 635 — de iustissimo principe, et noi li resceremo semper obligatissimi. Et quando sua Ex.“a diga che in Menton et Rochabruna ha raxione, come ha fatto etiam lo homo suo, quam e che intende defenderli, li direti che nostra intentione non est attendere al presente ad altro che alo loco di Monicho; che bene è vero che male porriamo fare tale intrapresa, anzi non la porriamo fare, si non si potessimo valere di questi doi loci in questo bizogno, per esser a quelo vicini cum lo passo , et cossi per la comodità de la marina ; et cossi pregerieti a sua Ex.t!a voglia consentire che si possiamo accomodare et axeuorare de dicti loci fino a tanto che habiamo facto lo facto nostro di Monicho, offeriandoli de farge ogni cautella conueniente che, finito la impresa, se remeterano in quelo stato et modo che erano quando sono peruenute a mano nostra, non intrando in parole nè mentione alchuna de ragione che habiamo in quelli per non darli alcuna ombressa. Et se a caxio non potessi obtenere tal cossa, vogliamo che, ozando ogni debita reuerentia, le protestiate corno ne è prohibito lo intrare in dicti loci ; lo quale intrare possiamo iustamente fare : primo, per essere loci posti nel nostro districto, che ne hano sobiectione et in li quali hauemo raxione, et corno loci che sono intra Corvum et Monachum ; et per altre più ragione dare et autentiche, come si mostrerà a loco et tempo, se farà bizogno. Et per questo vi dagamo in scriptis la forma de la protestatione hauereti a fare, prendando de lo acto che voi fareti quelle chiaresse serano possibili. Et facto questo ve ne por-reti venire. Datum Ianue, die 29 nouembris 1506. Reuisa per tres sapientes : d. Iohannem de Illice , Iacobum de Senarega et d. Iohannem Baptistam Lazagniam. Domine Iacobe, ordinauerunt antiani et Officium Bailie ut vos doctores faciatis formam protestationis faciende per commissarium iturum in Sabaudiam in casu quo necessitas illum cogeret, quemadmodum inter eos et deputatos fuit conuentum; et propterea mitto vobis etiam instructionem quam videatis, et si quid sit addendum , addatis. Commissarius vult cras mane recedere; ut scitis, res viget, Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2.0 41 — 636 — tempus instat. Poteritis facere formam et postea illam mittere reui-dendam collegiis. Ego cras veniam. Datum domi, xxvii hora m. Bartholomeus (1). IV. Istruzione a Lodisio di Bervei provveditore genovese al campo sotto Monaco. Genova, 9 dicembre 1506. [Archivio di Stato, Genova. Istruzioni e relazioni politiche, filza 3/2707 C.] Antiani excelsi communis Ianue. Instructio data Lodisio de Beruei. Hec sunt que committimus et in mandatis damus vobis spectato viro Lodisio de Beruei proueditori nostro in castris aduersus Monachum. E prima vi se dato nostre letere patente dirrizate al capitano e nostri commissarii, a ciò che ciascuno de loro intenda lo officio e cura che uogliamo che habiate in campo. Del quale officio e cura per noi se ne facto expressa mentione cossi in la instructione data a li detti commissarii, come etiamdio in el ricordo per noi facto al detto capitano, a ciò che cum maiori reputatione e fauore pos siate exequire in campo le commissione nostre. El precipuo benefìcio che fare possiate al commune, è in el facto de le mostre, le quale quanto più spesse se farano, tanto più seremo certificati del seruire de ogniuno. El che se dice, perchè tuti quelli che fano el mesterò de le arme cum ogni industria cerchano de inganare, supponendo in le mostre gente da carlino, chi poi non se mostrano cha uno giorno; e in questo non ve fidate de persona in qu[alunche] etiam dignità constituto, perchè tuti tendano a questo iniustissimo guadagno, e de tute le diete mostre e ... (2) tenereti diligente scriptura cum el giouane el quale a questo fine vi se dato coadiutore. (1) Bartolomeo Senarega annalista e cancelliere, (2) Roso. — 6 37 — Quanto importe la artegliaria, voi el sapete, e bene che de quella non habiate cura principale, vogliamo perciò che semper habiate le occhij a la cautella e a la sicurtà di quella, per esser el fundamento de tuta questa impres[s]a. La cura de guardare e conseruare le munitione, si è tuta vostra, e cossi habiamo facto intendere al capitano e comissarii. Chosta, corno sapeti, grandi denari e, non essendo bene guardata, ogniuno se mira a robarla. Il perchè vi stringiamo quanto possiamo che de quelle vi ne prendiate una speciale cura, cum quello amore del quale in voi habiamo fede, tenendo de tuto diligente conputo e scriptura. E giorno che serete in campo, quando non hauesti nota de tutto, sia al primo seruicio che habiate a fare, e de tuto ne farete notula opportuna (i). Come crediamo intendiate, a li quatro nostri comissarii se dato possanza, per bisogni extraordinari, potere spendere sino a ducati 500, intrauenendo voi in le deliberacione ; e cossi vi se afferma. E de quel che se delibererà, ne fareti scriptura come conuiene, hauendo grande aduertencia de sparagnare el denaro quanto possibile sia. E accadendo maior bisogno, se li è detto che aduisano e che subito harano la riposta cum prouisione. E perchè per lofficio deputato in questa impresa vi serà dato la cura de portare cum voi qualche denari, 0 vero in lo aduenire vi serano mandati, quando vi accaderà spendere 0 quelli 0 parte sbordare, el fareti presente li predicti commissarii, 0 almanco doa de loro, in absentia de li altri. E poi scritto vi se dato libre sexe milia, quale por-tarete cum voi, e gionto che serete in campo, vogliamo reducate li soldi de tute le fantarie e capi, e li faciate equali fino a dì ultimo de questo mese. In el che, per quel che diceti hauere calculato, li anderà libre mile septecento o circa, et el resto tenerete in voi secreto da ogniuno. E bene che crediamo auanti el tempo de renouare la paga douere hauere la victoria, nondimanco, quando pur bisognasse reno[uar]la, prenderete el tempo e ne darete auiso, e subito vi faremo la prouisione al compimento de la dieta paga. (1) Dopo « farete » nel documento leggevasi « scriptum » parola che poi venne cancellata; nella linea seguente poi, a sostituzione, leggesi: « notula opportuna ». — 638 — E perchè, corno sapeti, li commissarii hano balia in extraordinariis spendere sino a ducati cinquecento, in el modo che in la sua instructione sì contiene, supplirete accadendo lo euidente bisogno. Ma quando vedesti si parlase de spese che tendesse a loro particularità, simularete non hauere denari, e subito dareti auiso e farete attendere la nostra riposta. Vedeti quel che de sopra vi s’ aricorda : el che vogliamo semper se intenda senza diminutione de lo honore e autorità de li predicti nostri commissarii. Data Ianue, die vini decembris 1506. Come de sopra vi se detto, hauerete cura singolare de fare le mostre e recognoscere tute le compagnie e cossi quelle de li commissarii come le altre, et etiam quelle de le galee, sotto quelli meglior modi che a la prudentia vostra più parerano accommodati. V. Lodisio di Beruei chiede sia pagato col denaro pubblico un prestito di 100 scudi da lui fatto per soddisfare alle paghe mentre era commissario al campo di Monaco (1). Genova, 14 luglio 1507. [Arch. di Stato, Genova. Diversorum communis Ianue, a 1507, filza n. 64]. Mdvii, die xiiii iulii. Magnificum Officium Balie excelsi communis Ianue, in legitimo numero congregatum in palatio sancti Georgii, cum audissent Lodisium de Beruei exponentem, cum esset ipse unus ex commis-sariis in castris aduersus Monacum et pariter scriba impensarum in ea expedicione factarum, se muttuo accepisse ab Antonio de Trebiano, vno ex prefectis peditum, scuta centum auri solis erogata in stipendiis et seu aliis impensis ad eam expeditionem pertinentibus, eaque scuta nunquam reddita fuisse eidem Antonio per inopiam (1) Sebbene si vada contro l’ordine cronologico, qui pubblichiamo questo documento, che serve di complemento e spiegazione al precedente. — 639 — pecunie publice, que tunc in castris erat, atque inde post obsidionem solutam eidem Antonio satisfieri non potuisse; et propterea petente ut mutuum ipsum de pecunia publica solueretur, postquam in publicos usus mutuum translatum fuit, et non esset equum , licet ipse priuato nomine eidem Antonio obligatus sit, cum gereret personam publicam, ut ipse priuatim hoc damnum patiatur; quod etiam nullo modo sufferre posset, postquam, per eam curam, que sibi nomine publico delegata fuit, et captiuitatem passus sit et iac-turam totius ferme facultatis sue. Audito in predictis prenominato Antonio de Trebiano, et lecta ce[du]la mutui superius declarati, re examinata, causam suprascriptam delegauerunt spectatis viris Marco Portunario et sociis, quattuor deputatis ad exigenda debita communis, qui eosdem Lodisium et Antonium audiant, legantque cedulam ipsam : et intellectis omnibus et singulis, quecumque in predictis necessaria iudicauerint, referant prefato magnifico officio quid inuenerint, et an censeant de pecunia publica credito prenominati Antonii esse satisfaciendum. Nicolaus de Brignali cancellarius. VI. La Signoria di Genova annunzia al duca di Savoia che si rimanda a lui l’inviato Bernardo Veneroso. Genova, 15 dicembre 1506. [Archivio di Stato, Genova. Litterarum, cod. 47]. Illustrissimo principi domino Carolo duci Sabaudie et nobis collendissimo. Illustrissime princeps et excel.™ domine. Audiuimus leta fronte, prò nostra in uestram Excellentiam veneratione, magnificum dominum Chatilioni, consiliarium et magistrum hospitii Celsitudinis vestre, ea que nobis retulit. Audiuimus et nostrum commissarium, qui cum eo rediit, utrumque sub literis credentialibus manu ill.n,e D. V. signatis, diuersa tamen pro eadem re referentes. Molesta — 640 — nobis fuit uaria ipsorum relatio, et nos fecit admirari ; et ne in hac ambiguitate maneamus, statini remittere ad Excellentiam uestram decreuimus eundem commissarium, qui se iustificet cum ea de relatione per eum hic facta , nam constantissime afirmat eammet esse que illi data istic tuit. Idem rem nostram iustificabit, et quanto celerius fieri poterititer acipiet et prefatum dominum de Castiliono sequetur. Interea nos Celsitudini vestre commendamus. Datum Ianue, die xv decembris 1506. Philippus et Consilium. Lettera credenziale per l’inviato Bernardo Veneroso. Genova, 17 dicembre 1506. [Archivio di Stato, Genova. Litterarum cod. 47]. Ill.mc princeps et excell.me domine. Remittimus ad Excellentiam uestram spectatum comissarium nostrum Bernardum Venerozum, qui nostro nomine denuo nonnulla referat Sublimitati vestre. Precamur eam relatibus eius fidem adhibere dignetur seu nobis. Datum Ianue, die xvii decembris 1506. Philippus et Consilium etc. VIII. Istruzione data a Bernardo Veneroso, inviato al duca di Savoia. Genova, 17 dicembre 1506. [Arch. di Stato in Genova ; Istruzioni e relazioni politiche, filza 3/2?07 C.] Philippus et Consilium et officium deputatum super causam Monaci. Hec sunt que denuo damus vobis in mandatis, Bernardo Vene-rozo reddituro ad illustrissimum dominum ducem Sabaudie. — 641 — Como voi haueti veduto, mons.re de Chatilion, mandato da noi dal ill.mo duca di Sauoya, ne ha dicto e referto quello che haucti intezo, per parte de sua Ex.tia; la quale cossa he stata contraria di quello che voi ne hauete referto hauere hauuto da soa Ex."a, 0 sia dal suo gran canzelero. Unde grande maraueglia ne parso che, haviando luno e laltro lettere de credenza da soa Ex.tu, sia stata tanta differentia in referire la volunta soa. Però, siando ritornato a caza il dicto mons.re de Chatilion, e noi scripto a quel ill.m0 signore che per charirse de la verità vi manderiamo presto da lui, per questo hauemo deliberato de remandarui : ben se vogliamo credere che possa essere che la vostra relatione sia stata vera, quella altra de mons/' essere stata facta e nasciuta poi la par-tensa soa de là. Ne pare adoncha compareate dauante a soa Ex.*11 al più presto sia possibile e ge intrati in questa forma. Che essendo venuto qui dicto mons.re de Chatilion, e voi in soa compagnia, e ogniuno de voi sotto lettere de credenza, la relatione non ne stata de uno modo (1); luna ad uno modo e laltra a laltro. Quello che voi hauete referto era che soa Ex.tia non paria recuzase le con-ueniente cautelle che, possiandose noi valeire de quelli loci de Mentono e Rochabruna fino al impreza finita de Monacho, se re-meteriano in quel stato e forma e cum quella raxone corno quando fosseno peruenuti ale mane nostre. Epso mons.re non solamente non consentiua a questo, ma etiam che non se potese per alchun modo procedere a quella impreza, corno più ampiamente hauete voi intezo a bocha da questo mons.re in relatione per lui facta. E che per questo sete ritornato lì per intendere se soa Ex.tia persiste in quella opinione, la qualle a voi s’è dieta e quela che voi haueti referto, e quella inteza, statini 0 auizereti presto 0 ve ne verrete voi medesimo a fare la relatione. E non vogliando noi inanellare mai de la reuerentia nostra e deuotione verso quella ill.mt Caza, se po persuadere che noi non % dobiamo mai voleire cossa che sia mancho che honesta. Pregandola che non ne voglie obstare ne noxere a questa nostra iusta impreza, la quale mai pensamo de fare in alchuno suo preiudicio (1) Corretto su « eguale ». — 642 — ne dezohonore; e se de quelli doi loci de Mentono e Rochabruna se varemo a quella impreza, lo faciamo per che altramenti non possemo fare. E quando se dixese che per la nostra gente fosse stato facto qualche dani a quelli de dicti loci, ve dicemo che ne dole summamente, e che se terrà tutti quelli termini a noi possibili che non resteno malcontenti, pregando semper soa Ex."-1 che voglia hauerne per soi ben denoti e mantenirne in la amicicia e veneratione antiqua. E se mai he stato tempo che habiamo obser-uato e reuerito quella ill.ma Caza, serà adeso, quando haremo co-gnosciuto che non solamenti ne habie offezo in questa impreza, ma zouato. Voi vederete quel che vi dirà, e ve sforcerete de intendere quello che occorra in quelle parti e de tuto ne dareti avizo. E se per camino intendeste che Monicho fosse preso da li nostri, ve ne tornerete indereto. A la lettera quale ultimate ne ha scripto soa Ex.,ia da Thurin, de xii del presente, de la quale ve daghemo [cjopia, non respondemo. Voi respondete, chi sete informato de la cossa, quel che ve parrà. Datum Ianue, die xvn decembris 1506. IX. Istruzione ai due commisari al campo sotto Monaco, Teramo di Baliano e Bernardo di Castiglione. Genova, 20 dicembre 1506. [Arch. di Stato, Genova. Istruzioni e relazioni politiche, Alza 3/2?07 C.]. Officium Balie communis Ianue super rebus Monaci deputatum. Hec sunt que committimus vobis prestantibus viris Theramo de Baliano et Bernardo de Castiliono, collegis et commissariis nostris ad'expugnationem loci Monaci nostro nomine profecturis. Siando voi pienamente insctructi corno noi medesmi cossi del desiderio universale che ha tutto questo nostro populo de la expugnatione del loco de Monaco, como etiam de tutte le cose circa ciò facte e tractate insino al di presente, useremo con voi poche - 643 - parole, obmettendo de commemorare quanto importe a lo honore, reputatione e utilità de la terra nostra, che de tale impresa se habie victoria, perchè voi etiam come noi medesmi lo intendeti ; et cossi per contrario di quanta vergogna, mancamento e danno saria, quando altramenti seguisse. Per il che, siando parso non solamente a noi, ma etiam al m.co Senato e ad altri citadini a bon proposito che doi del nostro numero, per maiore auctorità, se transferino personalmenti a quella impresa, e essendo voi non immerito stati eletti e deputati a tale cura, ve confortiamo, stren-gemo et incaricamo grandementi ad andare là con ogni celerità e diligentia, e a mettere tutto lo vostro studio e ingegno che de dieta impresa se habie honore, cossi corno se spera, mediante la divina gratia e virtù vostra. Primum, quando voi sarete iuncti a lo esercito nostro, exhibirete la patente directa al m.co capitaneo e a li spectabili commissarii nostri, chi sono là, [a]d ciò vedano la balìa vostra .... Deinde reuocareti dicti commissarii de la cura e conmission loro, sotto quelli modi e forme che a voi meglio parrà; dandoui però arbitrio de potere quelli tutti o parte exercitare in qualche cose che iudi-cassi essere necessario durante lo presente mese. Post hec, voi curareti de intendere diligentementi corno sono passate e passano le cose de là, et che opinione o speranza se po hauere e ne porze lo capitaneo de tale impresa; instando e sollecitando continuamenti che se proceda con più celerità e cautella sia possibile, ita che la spesa quale se fa, che non è pocha, corno voi saperi, non sia vana. E se per via alcuna vi fosse mouuta pratica cossi da parte di domino Luciano de Grimaldo o da altri per lui, corno da qualcuna altra banda, di dare e consignare el loco e forteze di Monaco mediante qualche premio et promissione de denari, siamo contenti li prestiate liberamenti audientia e intendiate quello vi sara proposto; dandoue in ciò, per virtù de le presente, larga possanza e balìa de poter tractare, promettere, obligare, concludere e fare in tutto e per tutto secundo che a voi parrà, perchè tutto quello promettereti, oblighereti e concludereti sarà da noi acceptato e affirmato perinde como se a tale effecto personalmente interuenissemo. — 644 — Ben ve diciamo, e iterum atque iterum commettiamo e imponiamo expressamenti, che per pratica alcuna, la quale hauessi a le mani, non debiate modo aliquo suspendere nè relentare la expugnatione del loco, per quanto vi fusse dicto o persuaso in contrario, ma, dagando pur le orechie a le pratiche, faciate procedere in la opera de la expugnatione continuamente con ogni virilità e diligentia, adeo che per parole non vegnissemo ad essere delusi e inganati, perchè queste sono de le arte e fallacie che spesso in simile cose se sogliono usare. Ceterum, vi saranno dati dal nostro collega Georgio da Zoagli denari liquali portereti con voi, adciò che iuncti al campo possiate dare la noua paga duno mese a li soldati, e che loro habino causa de fare lo debito suo. Volemo che al m.co capitaneo resti la sua auctorità integra circa la cura de soldati e de le cose pertinente a lo officio suo, et cossi voi quanto a questo non li derroghereti in cossa alcuna, anzi li farete sempre careze e bono animo, che de lopera sua se tegnirà bon conto e ne saremo grati et cognoscenti. Voi haueti veduto lo invexendo che s’è fatto hogi in la terra per questa impresa de Monaco, e sapeti etiam le preparatione che si ordinano de mandarli gente nostrale. Igitur, adciò che le cose procedano con bono ordine e che se schiueno li inconvenienti, ne parso de recordarue che aduertiate de farli dare tale forma, che non se desordine, cognoscendo la complexione loro. Reliquum est che ne tegniate continuamente ben aduisati de tutto quello seguirà hora per hora, cossi del progresso de le cose nostre là, corno de quello sentissi da laltre bande per qualunca via e opera de chi se voglia, non perdonando a spesa de correri o messi, perche è multo necessario in tale imprese essere de punto in punto ben advisati del tutto. Datum Ianue, die xx decembris md sexto. — 645 — X. Patenti di commissione a Claudio de Pallud, conte di Petite Pierre e barone di Varambon, governatore di Nizza, per radunare e ordinare le milizie del contado di Nizza e tenerle pronte alla chiamata all’ armi. Torino, 27 dicembre 1506. [Arch. di Stato, Torino. Protocollo Vulliet, II, voi. ord. 135, fol. 99] Magnifico, benedilecto consanguineo, fidelique consiliario et chambellano nostro Glaudio de Palude comiti Parue Petre, baroni Varambonis et gubernatori Nycie, salutem. Cum superioribus diebus vobis mandauerimus exercitum generalem tocius patrie notre Niciensis seu subditorum in ea parari et convocari, signanter pro ipsius patrie subditorum tuhicione, sentientes impresenciarum eosdem subditos mandatis, iussibus, preceptis, ordinibus et stabilimentis per vos pro-pterea factis parere recusasse, ipsum summo opere egre ferentes, quum quidem premissa congregacio eorum utilitatem et tuhicionem respiciat, vobis, ex nostra certa scientia, per has expresse precipi-mus et mandamus quathenus insequentes formam conmissionis iam vobis hoc ideo per nos vobis facte, dictum generalem exercitum publicare et voce cride publicare, dehinc coaddunare et congregare, paratosque in armis tenere faciatis; monstras eorundem recipiatis, quos vobis videbitur expedire, ad se fortioribus telis armandum compellatis, e cogliendo, etiam coercendo, comunitates et alios quoscumque subditos nostros tam nobiles quam innobiles ad numerum peditum et armatorum per vos unicuique taxatum seu taxandum ad iam dictam formam dicte taxe tradendum, monstrandum et prouidendum. Nos vero penas et mulctas imponendi, mitigandi, declarandi, cogendique et compellendi, iussus, ordines et mandata in premissis necessarios et opportuna faciendi, ac omnia alia in premissis et circa ea gerendi et exercendi, vobis plenam potestatem impartimur presentibus, dantes hoc ideo in mandatis prefatis co-munitatibus subditisque et officiariis nostris mediatis et immediatis dicte patrie, cuiuscumque gradus et conditionis existant, quod pre-dictis iussibus et ordinibus vestris pareant, obediant, exequantur et — 646 — assistant, cum et sine penis, veluti nobis si presentes et personaliter adessemus. Vos quoque sequantur, associent et fortem facient sub pena indignationis nostre et confiscationis corporum et bonorum pro quolibet contrafaciente committenda. Quod sic fieri volumus quibuscumque franchisiis et libertatibus dicte patrie, quas ex dicta nostra certa scientia in hac parte suspendimus, attento quod pre-missa preservationem illius concernunt, oppositionibusque, excusationibus et exceptionibus ac aliis omnibus contrariantibus non obstantibus. Datum Thaurini, die xxvii mensis decembris 1506. In calce: Litere ad faciendum tenere paratos homines patrie Nycie ad arma. XI. Patenti di commissione a Claudio de Pallud conte di Petite Pierre, barone di Varambon, governatore di Nizza, per la levata di 200 uomini per ciascuna delle sue vicarie. (data incerta; pare posteriore al documento n. X). [Arch. di Stato, Torino. Protocollo Vulliet, II, voi. ord. 135, f. 36] Quedam litere pro tenendis armigeris in loco Nycie promptis, ad rationem ducentorum pro quolibet vicariatu. Carolus dux Sabaudie etc. Magnifico, benedilecto consanguineo fideli consiliario et cambellano nostro Claudio de Pallude comiti Parue Petre, baroni Varambonis, gubernatori et locumtenenti nostro Nycie, salutem. Intellectis pridem nonnullis violenciis et operibus factis per Ianuenses, inimico impetu et obscenis manuum conatibus in certa loca, nonnullos quoque subditos nostros premencionate patrie nostre Nycie intemptatis, vobis subito mandauimus monstras eorumdem subditorum nostrorum fieri, et dehinc, increbrescentibus buiusmodi motibus, generalem exercitum in dicta patria parari, pro cuius effectu intelleximus vos penitus elaborasse, et demum, pro maiori suffragio et subleuamine eorundem subditorum nostrorum - 647 — eundem generalem exercitum ad certum valde exiguum numerum pro nunc reduxisse, videlicet octingentorum. Et hoc ad rationem ducentorum pro rata hominibus et comunitatibus cuiuslibet vica-riatuum inframencionatorum spectante. Qui quidem numerus hoc ideo impresentiarum videtur conuenire ad necessariam dicte patrie nostre defensionem. Ad quam igitur nolentes eosdem subditos nostros quomodolibet deesse, eo quod eorum debitum simul cum utillitate concernat, vobis ex nostra [certa scentia] expresse committimus et mandamus, quathenus omnes et singulos homines et communitates locorum in rotulo subannexo mencionatorum, ac vicariatibus, distric-tibus et mandamentis ibidem mencionatis submissos, hiis visis, cogatis et compellatis seu cogi et compelli faciatis penarum impo-sicione, personarum detentione, arrestatione, incarceratone, bono-rumque suorum leuatione, subastacione, incantatione ac modis omnibus aliis quibus fieri poterit fortioribus, prout in denariis nostris fiscalibus fieri solet, ad premencionatum numerum octocentum peditum, ad rationem scilicet ducentum pro singulo vicariatu, et alias iuxta taxam et ordinationem vestram vobis prouidendi et expediendi, seu peccunias pro solutione aliorum ad hoc propterea et ad effectum dicte defensionis stabiliendorum necessarias, si maluerint, tradendo et expediendo in manibus receptoris nostri dicte patrie, qui easdem , ut conueniet, habebit dispensare iuxta dispositionem nostram et legitimum propterea computum nobis reddere, et ad hoc omnes opportunas prouisiones prebeatis. Qui nos omnia et singula inde opportuna peragendi vobis plenam presentibus impartimur potestatem, et ab omnibus et singulis officiariis, fidelibus, ac subditis nostris, pre-mencionatis, vobis vestrisque iussibus et mandatis circa hec fienda, parere volentes et intendentes cum et sine penis veluti nobis, quibuscumque oppositionibus, excusationibus, exceptionibus, literis et mandatis, franchisiis et libertatibus dicte patrie, quas pro nunc ex eadem nostra certa scientia suspendimus, ac aliis in contrarium allegandis non obstantibus. Datum etc. — 648 — XII. Si inibisce ai sudditi del contado di Nizza di somministrare vettovaglie, o in qualsiasi modo prestar aiuto ai Genovesi, anzi si dà ordine di arrestare quelli che si potessero prendere sul territorio ducale. Gennaio, 1507. [Arch. di Stato, Torino. Protocollo Vulliet, II, voi. 135, fol. 101] Inibitiones in patrie Nycie , ne quis habeat tradere aliqua victualia Ianuensibus particulariter vel divisim. Karolus dux Sabaudie, etc. Dilectis uniuersis et singulis potestatibus, vicariis, iudicibus et castellanis locorum in subannexo rotulo mencionatorum ae ceteris universis etc. Egre ferentes nec immerito violentos impetus , inuasiones , incendia, raptus , devastationes, aliasque (1) plerasque indebitas nouitates inimico impetu superioribus diebus per Ianuenses in et super patria nostra Niciensi ac subditis nostris in ea intemptatis sine ulla usque legitima ratione; itaque postposita sit per eos antiqua beniuolentia qua iamdudum apud nos et patriam nostram singulari fauore commendari solebant. Premencio-natas iniurias nequaquam perpeti volentes, vobis et vestrum cuilibet in solidum, quantum unicuique spectabit et suo suberit officio, expresse committimus et mandamus, sub pena centum marcharum argenti pro quolibet, quathenus uniuersis et singulis subditis nostris dictorum locorum et cuiuslibet ipsorum, singula singulis referendo, nostri parte locis et membris talia fieri solitis proibeatis sub pena pari premisse et ulterius indignationis nostre pro quolibet quibus sic prohibemus ne aliqua victualia qualiacumque sint, seu videlicet in grano, auena, vino, carnibus, aut alia quavis specie existentia, prefatis Ianuensibus particulariter vel diuisim vendere aut a patria nostra ad aliquod eorum commodum extrahere alioue transferre, et minus aliud presidium, auxilium et fauorem prestare seu subuenire, domibus receptare audeant vel presumant. Et minus vos faciatis, paciamini vel permittatis quin immo omnes et singulos de dicto (1) Nell’originale « et aliasque ». - 649 — populo Ianuensi quos super eadem patria nostra reperire continget, exceptis quibus iam diu eandem inhabitarent, et domicilia in dominio nostro cum familia fuerit, personaliter capiatis una cum bonis suis quibuscumque, sub debita tamen inuentarii descriptione, ac captos et capta detineatis, non relaxando donec aliud a nobis habueritis in mandatis. Aduersus autem transgressores premencionate prohibitionis nostre iuris debito procedatis, agatis et faciatis, ita quod in contrarium premissis nichil fieri contingat. Nos enim premissa omnia et singula sic peragendi, gerendi et exercendi vobis et vestrum cuilibet plenam presentibus impartimur potestatem. Et ab omnibus et singulis subditis nostris predictis mediatis et immediatis vobis vestrisque iussibus et mandatis, circa hoc fiendis, pareri volumus et intendimus cum et sine penis veluti nobis. Quibuscumque etc. Mensis ianuarii 1507. XIII. Lettera al vescovo monregalese Amedeo di Romagnano, gran cancelliere di Savoia, che aveva fatto sperare un mezzo di accomodar le differenze vertenti fra Genova e Torino. Genova, 11 gennaio 1507. [Arch. di Stato, Genova. Litterarum cod. 47] Philippus et Consilium. — Reverendissimo in Christo patri, domino A[madeo] episcopo Montisregalis, magno Sabaudie cancellario dignissimo. Rev.me in Christo pater honor.me. Rediit ad nos Bernardus Venerosus, commissarius noster, quem ad conspectum ducalis Ex.tie ultimo loco misseramus, qui retulit a sua Ex.tia audientiam habere non potuisse. Mirati sumus et dolemus denegatam illi fuisse audientiam, nam non offerebat nisi omnia plena honestatis et reue-rentie. Et quia nobis retulit multa que illi dixerunt D. vestra r.ma et aliqui de Consilio, que, nostro iudicio, aliena visa sunt ab ea convenientia super qua haberi nuntio aliqua possit, presertim si consideramus ea que in scriptis habuisse dixit; propter quod destitemus — 65° — eidem amplius remittere, et solummodo decreuimus hunc tabellarium ad prefatam D. V. R. destinare, ut si persistet in eam opinionem, de qua idem Bernardus discedens cum Vestra tantum D. R.™ sermonem habuisse, rescribat. Nam si in ea sententia remanet, nos nunquam discedemus ab honesto et mittemus hominem cum balia componendi rem, qui sine ulla dillatione rem concludat; poterit D. Vestra R. suam responsionem mittere quam expectamus. Nos interea nunc et omni tempore illi plurimum debebimus pro sua in nos mente, de qua, et si alias notitiam habuerimus, placuit tamen ab eodem Bernardo uberius intelligisse. Quod reliquum est nos illi commendamus. Datum Ianue, die xi ianuarii 1507. XIV. Il Consiglio genovese dà notizia al duca di Savoia della missione dello scudiero ducale Usilione a Genova ; annunziagli inoltre che presto gli spedirà S. E. 1 inviato Bernardo Veneroso, impedito allora da malattia. Genova, 19 gennaio 1507. [Arch. di Stato, Genova. Litterarum cod. 47]. Ill.m0 principi domino Carolo duci Sabaudie etc. nobis collen-dissimo. Ill.me princeps et ex.me domine. Accepimus literas vestras, audi-uimusque spectatum Vsilionem scutiferum vestrum, que sub ipsis literis, que credentiales fuerunt, nobis referre voluit, et in bonum animum nostrum nostrasque iustificationes illi narrauimus, precatique illum sumus ut ea omnia Ex.'ie vestre dilligenter referre velit, quod se facturum promisit, precantes eam velit meminisse antiqui amoris et nostre venerationis erga ill.mam Sabaudie Domum, que semper Ianuenses amauit, et quam nos semper obseruauimus et obseruamus. Nam, ut eidem scutifero diximus, nunquam nostre mentis fuit in aliquo ledere animum Ex.,ie vestre, neque de suo aliquid capere. Ceterum decreuimus denuo mittere ad ptefatam — 651 — Excellentiam vestram dillectum nostrum Bernardum Venerosum ; sed cum nuper redierit ex nostra ripparia, in quem locum paulo ante missimus pro rebus nostris publicis, et is paululum nunc egrotatur, ut nouit idem scutifer vester, cum primum poterit ad vestram Excellentiam veniet. Quod reliquum est, nos et nostra omnia offerimus in omnem amplitudinem suam paratissimos. Datum Ianue, die xvnn ianuarii [mdvii]. Philippus et Consilium. XV. La Signoria di Genova si scusa col duca di Savoia dell’ indugio frapposto a spedirgli di nuovo l’inviato. Genova, i febbraio 1507. [Arch. di Stato, Genova. Litterarum cod. 52] Ill.m0 principi domino Carolo duci Sabaudie etc. nobis collendissimo. Ill.me princeps et ex.me domine, spectatus scutifer vester Vsilionus debuit retulisse Ex.tie vestre reverentiam nostram, quam erga illam gerimus, nostram bonam mentem; nam ut nos illis omnia ex animo diximus, ita et ipse omnia relaturum pollicitus est. Scripsimus tunc nos missuros denuo Bernardum Venerosum, cum primum conua-lesceret ex ea infirmitate qua tunc infirmabatur, nota vestro scutifero, et posset equitare; que huiusmodi fuit, ut sine vite sue magno incommodo, vel potius periculo, exponere se itinere non posset ; expectauimusque bonam valitudinem suam, que hactenus secuta non est. Speramus tamen intra breues dies illum sanum futurum et cum primum poterit, veniet. Misissemus alium, sed cum ipse omnia intelligat et per suas manus omnia tractata sint, duximus melius esse aliquantulum morari, et omnia per eius manus gubernari, quam ab nouo homine et omnium ignaro, qui instructione multa egeret rem agi. Erit itaque ad vos Bernardus de Breuei. Quod reliquum est, offerimus nos in omnem amplitudinem suam paratissimos. Data Ianue, die prima februarii 150V110 (sic: 1507). Philippus et Consilium. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2° 42 — 652 — XVI. I commissari genovesi al campo dan notizia di certi venturieri presi alla Turbia. Dal campo genovese sotto Monaco, 9 febbraio 1507* [Archivio di Stato, Genova. Diversorum communis Ianue, 1507, filza n. 64] Magnifici domini. Questa matina vi hauemo scripto a compimento. Questa he solum per dime che essendo stati per mettere in galea li ventureri haueuamo preizo a la Turbia, molti de li capi e altri soldati che li haueuano, se sono misi sur la trauersia, e non hano voluto consentire che se li mettano dicendo molte raxone. Noi per mancho malie e a ciò non feceseno rixe nel campo, hauemo prezo questa via de voluntà depsi capi, cioè de retenire qui dexe de dicti ventureri, qual ne parenno de più valuta, e quelli meterli in qualche loco sotto custodia, e lo resto mandare lì da le Magnificencie vostre, qualle de questi se acautelanno per forma, che non ne habiano più a vegnire per contra in questa impreza, e cossi li hauemo promiso e etiam che poterano vegnire li seguramenti. E cossi hauemo retenuto qui dicti dexe, quali tegniremo a Mentone aut Ventiniiglia sotto bona et tuta custodia, e non se partirano per fino non habiamo auizo de le Magnificencie vostre de la receputa e consignatione de quelli vi mandemo. Lo resto de epsi ventureri, chi sono lui ve li mandemo cum Baptista Magnono, qual si ha prezo la cura di condurli dauanti da le Magnificencie vostre; per tal cagione li hauemo facto letere patente per tuta [la] riuera. Le Signorie vostre, receputi li harano, ne poterano prendere tute le cautele possibile e subito darne auizo de la consignatione di questi, acio, hauuto dicto auizo, vi possiamo mandare dicti dexe qui retenuti. Non altio. Ale Signorie vostre si ricommandiamo. Altro non hauemo di nouo. Ex castris, die vim februarii 1507. S. vestrarum Commissarii in exercitu contra Monacum. A tergo: Magnificis et prestantissimis dominis Lazaro de Franchis et sociis olim officialibus Balie colendissimis. Ianue. — 653 — XVII. Istruzione a Bernardo Veneroso inviato alla corte di Savoia. Genova, 16 febbraio 1507. [Arch. di Stato, Genova. Istruzioni e relazioni politiche, filza 7/270? C.] * Philippus de Cleues Rauasteni dominus, regius admiratus et ianuensis gubernator, Consilium antianorum et Officium Balie communis Ianue. Bernardo, noi ve remandiamo questa quarta volta a lo ill.m0 duca di Savoia, per la causa di Monacho a voi nota e per iustificare lo affare nostro e excusare ogni querella facta, cossi per sua Ex.tia, corno per il suo mandatario. A voi non è tropo necessario instructione, perchè, corno experimentato e pratico di queste cosse, sopirete secundo il bisogno in tuto. E perochè cossi per nostre letere corno per lo scudero, quando partì de qui, hauemo facto notitia a sua Ex.tia corno doueuati ritornare là, fareti intendere a quella la indispositione de la marotia vostra hauer cauzato questa longessa ; ma, come è stato possibile, ve seti misso a cauallo. Ideo, iuncto li con lo nome di Dio, siamo contenti procedati ala conclusione con sua Ex.tia di quello hauete tractato cum el cancellerò : hoc est de li denari che se li ha a dare, in quanto da quella habiate promissa che da li loci soi, e precipue da la Turbia e Nicia, non premetterà sia dato alcuno fauore nè subsidio a quelli de Monacho, nè siano receptati homini in dicti loci, como sono stati per lo passato, ad instantia di dargli, e hano dato, al dicto loco fauore e subsidio. E siamo contenti permettiati di pagare sino in summa de scuti vi mila, li quali despensereti in sua Ex.tia e li cortexani, quali sono alo governo depsa, corno vi parrà. E circa questa diuisione, voi presente intendereti meglio quello che fa de bisogno, che non faciamo noi che senio qui. Verum non vogliamo che de li dicti denari al presente, cioè auanti la presa di Monacho, si desborse più del tercio, cossi a la ratta di quello hauerà a restare in lo duca conio in li cortexani. De lo quale tercio, che se exburserà, etiam vogliamo - 6*4 — hauer promissa che ne sera restituiti casu che non fusseno obseruate le promissione sopra diete; e la cauptione a noi sati-sferà se Antonio Becho ordeneri de fare che Dominico Spinula quondam Odoni per epso se oblige per tale promissa. Noi siamo undique auisati che li cortexani de facili, per tochare dinari, prometterano molte cosse e poche ne attenderiano. E perochè porria accadere che, per quelo che specta a li cortixani ipsi re-cuseriano de tale cautione, parendo che li denari veneno a dir cossi de mangliaria, nè se vorriano in questo dimostrate, la seguiti per parte loro se porria obmettere; ma quela de lo duca, perueniendo li denari in sua Ex.tia sotto nome de speize facte per lui, ne pare per parte nostra honesta e cossi procurereti de hauerla. De li mi mila che debeno peruenire in lo duca, che sono li dui tercii, restando corno se dicto de supra di acordio, statim auisatine, e noi vi daremo recapto ala cautione. Quexto apartene a li loci de Mentone e Rochabruna, de li quali hauemo preso la possessione, e dicto Duca dice hauere iurisdictione. Le parole nostre circa dieta iurisdictione siano caute e di natura che non consentiate nè negate circa dieta iurisdictione, a ciò non prendesse sua Ex.tia circa questo alcuna catiua impressione. Vero siamo contenti li affirmace che noi non vogliamo a lui manchar alcuna ragione de quella li apertenia auanti che dicti loci venisseno in lo dominio nostro, nè sia facto aut generato alcuno preiudicio ad ogni ragione di soa Ex.';a in dicti loci, le quali resteno e siano in quello grado e stato che erano auanti la aquisitione de dieta possessione. E perchè, secundo la relatione vostra, pare se facia caxio che le bandere sue, le quali se dice erano alsate in dicti loci quando intramo in epsi, se r[etor]nano cum uno homo corno alora... (i) era, corno ne haueti voi dicto, noi, per quanto se apartene a lo acto de ritornare de le bandere e metege uno homo, non faciamo caxio alcuno, pura che simile acto non preiudicasse alcunamenti a noi, nè a sua Ex.tia facesse megliore ragione corno hauia de prima. E pei tanto, cancellato questa parte, porreti circa el facto de diete insegne e homo exebirui corno a voi parra. Noi crediamo che la Ex.t,a del (i) Roso. - 655 - duca facia principal caxio de dicti doi loci, temendo non li sia Iellata la commodità de lutilità quale prende de la sua cabella del salle per mezzo de queli loci, quando cognoscesse che la comunità nostra, o vero lo Officio de s.t0 Giorgio, se rendesse facile de prendere dicte cabelle, o vero se podesseno prendere per li citadini nostri, saria a sua Ex.tia cossa grata, la quale assai più goderia de utilità in diete cabelle che non ha facto fino aqui; e tamen, per parte nostra, questa essendo cossa de qualche dificultà per esser membro de lo Officio de sancto Gergio, corno sapeti, bisogna gubernarui cum arte. E a noi pare che faciate introducere da qualche persona media che li cortexani mouano simile praticha più presto che parà sia mouuta per alcuna via vostra; e Sebastiano de li Franceschi, nostro citadino, pratico de questa cabella, a noi pare bono, lo quale crediamo debiate trouare in quela corte, e quando non fusse li, porreti scrivere a Cunio, doue almancho se debe ritrouare , che vegna li. Et quando tale pratica sia mouuta, hauereti ad desimularla e mostrare ve sia noua e tamen grata, inducendo sopra ciò quele parole che importano simile cossa. Dicemo che sequendo porra dare grande commodità e utilità a le parte, e grande fremessa de procedere il solito amore e bonovicìnare ; e tunc porreti bonamenti intendere le particularità a le quale bisognerà cum destressa descendere, corno è de li denari che se desborsano a lo duca per lo senso e cossi a li cortexani per le solite regalie, item al signor de Tenta (i) per lo passo de soi paexi, e altre condictione de obligi che sarrano da prendere; e presertim circa la vendia de dieta salle, crediamo sia facto institutione non debia excedere certo precio; e recerchereti in questa particularità quanto sia facile o difficile fare la nouità, e cossi de alcuni peda[gi] quanto soleno respondere, che sono assignati ad esse cabelle; e cossi, informato de tuta questa materia, direti che de tuto ne darete aduiso. In este ordinamo che ve sia pagato ad ogni vostra requesta scudi due mila, corno vederete per lettere. (i) Riguardo alla gabella del sale di Nizza e alle opposizioni del signore di Tenda, affinchè il sale non passasse per i suoi domini, cfr. il Liber computorum di Stefano de Capris, a 1505-1506, fol. 254 retro e segg. [Arch. di Stato in Torino, sezione IIIJ. — 656 — Bernardo, hauemo già facta la presente vostra instructione per la quale, corno vedeti, hauerati balia de vegnire a la conclusione e executione de le cosse sopradicte. Considerato meglio in tuto, non vogliamo concludiate cossa alcuna se prima non ne date auiso de tuto quello hauerete possuto fare, e habiate da noi riposta. Perchè, veduto tuto quello che porreti fare, datine presto auiso a ciò presto vi possiamo rispondere de quelo haueti a fare. Datura Ianue, die xvi februarii 1507. XVIII. Lettere commendatizie per l’inviato genovese Bernardo Veneroso. Genova, 17 febbraio 1507. [Arch. di Stato, Genova. Litterarum cod. 52] Cura mittamus ad illustrissimum ducem Sabaudie eximium virum Bernardum Venerosum, pro nonnullis rebus rem publicam nostram tangentibus, ideo serenissimos reges, illustrissimos principes, magnificos et excelsas communitates, potestates, rectores et officiales quotcumque quibus presentes reddite fuerint, precamus, nos Philippus de Cleues Rauasteni dominus, regius admiratus et ianuensis gubernator et Consilium antianorum communis lanue, subditis iniungentes ut ipsi Bernardo, siue eat, siue moretur, siue reuertatur, prouideant, si opus fuerit, de ducibus viarum et de societate, commendatumque in omnibus suscipiant, eaque humanitatis officia prestent que amicus amico prestare consueuit, habituri nostri loco singularis gratie quicquid humanitatis et beniuolentie illi fuerit allatum; subditorum vero promptum obsequium commendabimus. Datum Ianue, die xvii februarii 1507. - 657 — XIX. Il duca di Savoia dà ordine ai suoi ufficiali di far preparare i sudditi alle armi. Torino, gennaio [1507]. [Arch. di Stato, Torino. Protocollo del Vulliet, II, fol. 102, voi. ord. 135] Commissio ad preparare faciendum quoscumque subditos nostros ad arma. Carolus dux Sabaudie etc. Dilectis uniuersis et singulis potestatibus, vicariis, iudicibus et castellanis locorum in subannexo rotulo menciona-torum, ac ceteris officiariis nostris mediatis et immediatis etc., salutem. Bonis moti respectibus, vobis et vestrum cuilibet in solidum quantum unicuique spectabit et suo suberit officio, per has, ex nostra certa scientia, expresse committimus et mandamus, sub pena centum librarum fortium pro quolibet, quatenus uniuersis et singulis subditis nostris sub destrictibus et mandamentis officiorum vestrorum degentibus, his visis, intimetis et notifficetis et iniungatis, quibus sic intimamus et iniungimus, sub pena ... (sic) pro quolibet, quatenus ad arma illico se se parare habeant et ad infrascriptas monstras se preparent. Quas quidem monstras quanto citius fieri poterit indillate fieri faciatis et recipiatis, annotando et describendo no minati m eos qui propterea coram vobis affuerint. Quam quidem descriptionem et numerationem in debitis et opportunis rotulis annotatam ad nos, ut celerius fieri poterit, mittatis vel afferratis. Quoniam nos premencionatas monstras faciendi, recipiendi, quos expedire ad se fortioribus telis armandi, cogendi, com-pelendi, penas et mulctas imponendi, mitigandi, declarandi, ac omnia alia in premissis et circa ea necessaria faciendi, gerendi et appunctandi, vobis et vestrum cuilibet, ut supra, plenam presentibus impartimur potestatem. Et ab omnibus et singulis subditis nostris predictis, mediatis et immediatis, vobis ac vestris iussibus et mandatis circa pre-missa fiendis, pareri volumus et intendimus, cum et sine penis, veluti nobis, quibuscumque oppositionibus, excusationibus, exceptionibus, franchisiis et libertatibus quas, quo ad hec, dicta nostra certa scientia suspendimus, ac aliis in contrarium allegandis non obstantibus. Datum Thaurini, die ... (1) mensis ianuarii. (1) Manca. - 658 - XX. Ordine del duca di Savoia per la rivista delle truppe destinate a combattere i Genovesi. Torino? 15 febbraio [1507]. [Arch. di Stato, Torino. Protocollo Vulliet, II, fol. 106; voi. ordin. 135] Commissio ad recipiendum monstras et numerum armigerorum in locis in quodam rotulo descriptis et illos conducendum ad loca. Karolus etc. Dilectis etc. Mandauimus precedentibus nostris monstras subditorum nostrorum patrie cismontane fieri, ob eos armorum apparatus quos in Ianuenses, tantis in nos et subditos nostros iniuriis, dampnis et opprobrijs per eos illatis causantibus, facere decreuimus. Quod plane executioni demandari volentes, etsi iam factum exititerit, vobis, de cuius fidelitate circa hec confidimus, ex nostra certa scientia, expresse committimus et mandamus quatenus ad loca opportuna in sub annexo rotulo mencionata personaliter accedendo, monstras subditorum nostrorum ipsorum locorum illico prociamari fierique faciatis et recipiatis; numerum eorum qui comparebunt in rotulis describi faciatis, et quos expedierit ad se fortioribus telis armando virilliter constringatis, magis aptos et idoneos eligatis et specialiter ordinetis, universos autem promptos et paratos tenere faciatis, iter illuc arrepturos , acturos et facturos quo et pro ut a nobis habuerint in mandatis, quo tunc solutiones necessarias mandabimus. Quod quidem de proximo fieri continget. Pro pleniori igitur omnium effectu, elaboretis, ordines hoc ideo necessarios imponatis et agatis, ut nichil propterea desit quominus ipsi subditi nostri prompti ut supra et parati sint ad omne mandatum nostrum. Nos enim plenam circa hec et alia omnia et singula hoc ideo necessaria faciendi per vos, mulctas imponendi, mitigandi, declarandi, arguendi et compellendi vobis presentibus impartimur potestatem, dantes propterea in mandatis sindicis, hominibus et communitatibus dictorum locorum, et cuilibet ipsorum tam in particulari quam in uniuerso, sub pena - 659 — indignationis nostre, quibus iussibus et mandatis vestris circa hec fiendis pareant, obediant et assistant cum et sine penis veluti nobis. Quod sic fieri volumus, quibuscumque excusationibus, exceptionibus, tranchisiis, et libertatibus et conuentionibus, quas pro nunc suspendimus, et aliis in contrarium allegandis non obstantibus. Datum xv februarii. XXI. Il duca di Savoia fa preparare in Susa e nei luoghi vicini le stanze per il re Cristianissimo. Torino, 8 aprile 1507. [Arch. di Stato, Torino. Protocollo Vulliet, II, f. 67, voi. ord. 135] Commissio ad paranda hospicia pro aduentu regis in loco Secuxie et aliorum circonvicinorum. Karolus dux Sabaudie etc. Benedilecto, fideli scutifero nostro Anthonio de Berneciis, tnarescallo hospiciorum curie nostre, salutem. Cum christianissimus Francorum rex nobis honorans in hanc patriam cum maximo suorum numero nunc descendat, et cupiamus hospicia propterea necessaria sue Maiestati et aulicis suis, ut conuenit) parata esse cum victualibus ad hoc congruentibus, vobis per has expresse committimus et mandamus quatenus ad loca Secuxie et alia accedendo opportuna, hospicia et victualia potissime auenarum (1) pro transitu dicte regie Maiestatis et suorum pre-dictorum nostrorumque curialium et domesticorum debite preparari, assignari et expediri faciatis, nemine excepto vel exempto, quoniam sic omnino fieri volumus, mandantes hoc ideo bailliuo, iudici et procuratori fiscali vallis Secuxie, Auilliane, Bozoleni, Iaueni, Sancti (1) Le parole « potissime auenarum » sono aggiunte in nota ed hanno la conferma in questa forma: « ut supra. Vulliet ». - 66o — Ambrosii, Sancti Iorii et Rippolarum, sindicisque, hominibus et comunitatibus eorundem locorum, ac ceteris vniversis officiariis et subditis nostris mediatis et immediatis ad quos spectauerit, sub pena centum marcharum argenti pro quolibet et ipsorum priuatione officiorum et franchisiarum, ut vobis in et super his iussibus quoque uestris pareant, obediant et assistant veluti nobis. Nos enim in premissis et circa etiam penas et mulctas imponendi, declarandi, compellendi, arrestandi, detinendi ac alia necessaria gerendi et exercendi, vobis particulariter et in solidum plenam potestatem et vices nostrae impartimur per presentes, quibuscumque oppositionibus, exceptionibus, literis, franchisiis et aliis in contrarium facientibus, non obstantibus. Datum Thaurini, die octaua mensis aprilis millesimo quingentesimo septimo. Per dominum presentibus : d. r. Amedeo ex marchionibus Ro-magnani, episcopo Montisregalis, Sabaudiae cancellario ; Ludovico comite Montismaioris Sabaudie mareseallo; Anthonio de Gingino domino Dyuone, preside; Iano de Duyno domino Vallysysare, Angelino de Prouanis preside patrimoniali; Augustino de Azelio, Francisco de Prouanis, Defendente Pectenati aduocato, Stephano Capris thesaurario generali. Reddantur litere portitori. Vulliet. - 661 - XXII. Patenti di salvaguardia a favore del nobile Battista De Marini genovese, esule dalla patria per aver seguito le parti del re di Francia. Torino, 22 aprile [1507] [Arch. di Stato, Torino. Protocollo Vulliet, II, voi. ord. 135, fol. 109]. Saluaguardia et saluusconductus ad opus nobilis Baptiste de Marinis ianuensis. Karolus dux Sabaudie etc. Dilectis uniuersis et singulis officiariis et subditis nostris etc. salutem. Nuper ad nos venit Baptista de Marinis humiliter supplicans quod, cum ipse sit ex nobilibus ianuen-sibus qui, fideles serenissimo Francorum regi, per populares dicte duitatis a propriis domibus eiecti expulsique fuerunt, in patriam nostram pro refugio se se recipere constituerit, quatenus sub protectione nostra recipere et eidem saluumconductum concedere dignaremur, ne presertim, quemadmodum sibi accidisse dicebat in oppido nostro Cunei, capiatur et molestetur, velut ignotus et de dictis popularibus falso forte si contingeret existimatus. Cuius supplicationi, ut infra, beniuole annuentes, etsi tamen non conueniat, quandoquidem quosque obedientes et fideles subditos regios, cuius-modi se asserit, propriorum loco caripendere fauereque et tueri cupimus ; nichilominus ut tutior esse valeat, visis literis testimonialibus subannexis, vobis et vestrum cuilibet in solidum per has ex nostra certa scientia expresse inhibemus ne eundem supplicantem patriam nostram inhabitantem, euntem quam redeuntem, seiornantem et negociantem, velut tamen ex nobilibus predictis, ullomode, hoc ideo in persona siue bonis et citra iudicialem cognitionem, molestare, arrestare, detinere aut alias inquietare habeatis. Verum sic eundem ire, stare, transire et negociari, durante beneplacito nostro, impune paciamini et perinictatis ne quauis perturbatione, quod sic fieri volumus. Quibuscumque etc. Datum Thaurini, die xxn aprillis. — 662 — XXIII. Protesta del duca di Savoia, che qualsivoglia cessione, la quale fosse costretto di fare al re di Francia, della pensione annua e perpetua di 10,000 ducati assegnatagli sovra i redditi del ducato di Milano, dovesse intendersi forzosa ed estorta per timore di minaccie di guerra. Torino, 4 maggio 1507. [Arch. di Stato, Torino. Trattati diversi, mazzo 6.°, documento n. i; e Protocollo Vulliet, VII, voi. 140, fol. 1 ( 1)]- Au M nom de nostre Seigneur (2), amen. Comme auist soit que tres-hault, tres-puissant, tres-exceUent prince et nostre tres-redoubté seigneur, monseigneur le due de Sauoye, Charles deuxieme de ce nom moderne, ayant en perpetuelle assignacion dix mil ducatz de rente annuelle sur le reuenu du duche de Milan iadys assignez par le trescrestien roy de France, Loys douxieme de ce nom moderne, au feu de bonne memoyre monseigneur le due Philibert dernier decedè pour luy et les siens, ait plusieurs Fois enuoye pardeuers le dict seigneur et son Conseil pour leur remonstrer et faire ( ) apparoir du tort que le dict seigneur tenoit de luy, a cause des empeches et destourbies, qui luy estoyent faitz en la perception (a) An (b) fere appareoir (c) faiz. (1) Le due copie del documento citate, derivanti l’una dell’altra, non presentano quasi varianti degne di riguardo ; nell’ edizione però che presentiamo ci attenemmo alla lezione, diremo officiale, offertaci nell’ originale contenuto fra i « trattati diversi » ; in calce segnammo però le varianti dateci dal protocollo. Il protocollo citato del Vulliet in un indice che lo precede, cosi presenta riassunto il documento nostro: « Protesta del duca Carlo di Savoia circa la pensione perpetua al medesimo dovuta dal re di Francia sovra il ducato di Milano nella somma di 10 mila ducati annui, e cessione della stessa pensione a favore del suo fratello Filippo di Savoia, eletto di Geneva ». Questa seconda parte manca completamente nel documento, ed è errore dovuto al compilatore dell’indice moderno, e che manca nel-l’antico che pure precede il protocollo, il quale suona cosi : « Protestacio super pensione perpetua duci debita per regem Francie super ducatu Mediolani ». <2) Il protocollo Vulliet premette: « Prothocolle de lacte qui sensuyt ». - 663 — et jouyssance de ladicte rente, non obstant toutes quelles re-monstrances, poursuytes et sollicitations, mondietseigneur nait jamais tant sceu W faire que dobtenir la despeche, liberation et fruition de son dict reuenu annuel, ains ayent esté reboutez ses gens et solliciteurs grant piece sant auoir esté souffisamment aouyz a desclairer le droit de mondict seigneur, mais, pour occasion de ce et de la diete poursuyte, ses autres afferez sen soyent plus mal portez au grant preiudice di celluy. Finablement, appres plusieurs poursuytes ait esté aduerty mondietseigneur par les lengaiges ditz et proferez par tres-reuerand pere en Dieu, monseigneur le Cardinal d’Amboise legat en France, principal aupres la personne du dietseigneur et ayant O) charge de ses afferez, que la diete rente estoit cause que le dietseigneur auoit du W regret a mondietseigneur , et que a l’occasion dicelle et cependant quii en seroit question, il ne seroit de bonne uoulenté enuers luy, et que aussi le dietseigneur nauoit pas desliberé den (d) rien paier. Toutes ces choses entendant icelluy mondict seigneur, cornine celluy qui ne pouuoit croire la voulenté du dietseigneur estre telle, pour les seruices qui luy a faitz W et uouleroit faire, ait renuoye par deuers luy presentement, pour luy parler de ce affaire, du quel toutesfois na esté possible té) obtenir prouision nulle ny autre expedition, fors de plusieurs estranges propos tenuz et continuez par le dict monseigneur le legat, en disant que le roy auoit son armée preste et que se mondietseigneur ne prenoit party en ce affere et quii quictast ladicte rente de dix mil ducatz a mondietseigneur pour luy oster toute souspe<;on et fantasie quii auoit contre luy, il sen trouueroit mal, et oultre ce en ait heu plusieurs lectres et semblablez aduertissementz mondict seigneur tant de Cholex son maistre d’ hostel et ambessadeur ordinaire en court que autres ses amys. Parlesquelz et pour les choses W susdictes, entendant et considerant l’extremitè de guerre, danger et inconuenient qui est apparant pour les menasses que iournellement multiplient contre luy sii ne remect la diete rente au roy ; ensemble les grans maulx qui en pourroyent sourdre a ses estat, pays et subyeetz : pour ce est il que auiourdhuy, quatriesme (a) sceu tant (b) ayant la charge (c) auoit regret (d) en (e) faiz (f) uouldroit (g) possible sur ce obtenir (h) causes — 664 — iour de may, l’an de grace courant mil cinq cens et sept prins a la natiuite nostre Seigneur, l’indicion diziesme, constituè personnel-lement entre les mains de moy notaire et secretaire soubzsigne et des tesmoings soulz nommez, le susdict mon tresredoubté seigneui, monseigneur le due de Sauoye moderne Charles deuxieme de ce nom, le quel de son propre mouuement et de sa certaine science, par son serement fait sur les saintz euangelles W entre les mains de moy diete notaire, dict et propose les choses dessuz narreiz ( ) estre veritablez, en protestant sollempnellement que pour quelconques acte exploict ny contract quii face, soit de remission, cession, quic-tance ou autre quel qui soit en faueur ne au ^ proffit du dict seigneur roy, ce n’est ny ne sera point de son bon gre ne franche uoulenté, mais est par force et par constraincte des choses dessuz declaireez, et pour doubte et craincte d auoir la guerre, attendu ce que dessuz. Protestant en oultre que pour chose quii en dye ne face, il n’entend point faire de transport de la diete rente de dix mil ducatz audict seigneur, ny autre acte qui en aucune maniere luy puisse porter dompmaige ne preiudice ^ par 1 ad-uenir ; mais entend den demeurer tousiours en son entier et aux mesmes droiz, tictrez et actions qùil a et luy competent en la diete rente de dix mil ducatz annuelz, a la quelle ne ueult aucunement deroguer, sen demectre ny desporter, ains la retenir et garder corame sienne propre, en reuocquant et anullant decy et dessa de sa certame science susdictes tous actes et exploiz quii pourroit faire au contraire, et les tient pour reuocquez et de nulle valleur. Et ce auecques toutes et chacunes les clausules et sollempnitez en tei cas requises et necessaires. Des quellez choses mon dict tres-redoubté CO seigneur a conmandé et enjoinct a moy notaire et secretaire susdict faire et recepuoir instrument publique. Fait a Thurin, au (s) chasteau du dict lieu, assauoir en la rere- chambre du maisonnement « dessus (1) qui est en la tour de couste de l’auditoire. (a, les euangilles (b) narriez (e) cu prouffit de (d) ny (e) deroguer aucunement (f) mon dict tres-redoub seigneur (|) au Caste. (h) du meysonnemen. (1) Nel Protocollo il seguito del documento si legge a fol. 3. - 665 — Presents reuerend pere en Dieu messire Amé de Romagnan euesque de Mondeuix, chancellier de Sauoye, et noble et puissant Janus de Duing seigneur de la Vauldisare, grant escuier de Sauoye, tesraoins W a ce requis et appellez. E moy (i) Jehan Vulliet de Chambery notaire publique par auctoritè imperiale et secretaire de mondict tres-redoubte seigneur, qui me suis trouue auecques les tesmoings surnommez, es choses dessus escriptez a ce y appellé et requis, en ay receu ce instrument publique lequel j’ay escript et soubzscript de main et y ay mis mon segnet du quel j’ay accoustume vser en tei cas, pour plus grant foy et tesmoignace des choses susescriptez. Vulliet. XXIV. Patenti colle quali viene ingiunta la cattura dei Genovesi negli Stati ducali e la confisca dei loro beni. Data e luogo incerti. [Arch. di Stato, Torino. Protocollo Vulliet, II, voi. ord. 135, fol. 171] Littere ad detinendum quoscumque Ianuenses, cum eorum mer-canciis et famulis et factoribus, qui potuerint apprehendi, cum debita inuentarii descriptione.. Karolus dux Sabaudie etc. Dilectis comissariis nostris quo ad hec specialiter deputatis, salutem. Cum superioribus diebus Ianuenses, parato exercitu, contra dominum Monachi in nonnulla patrie nostre Nicie loca, inimico et bellicoso impetu, inuadere irruereque presum-pserint, perpetratis ibidem plerisque incendiis, demolitionibus, rapinis, violenciis, oppressionibus, extorsionibus, nouitatibus facti, operibus (d) tesmoings (1) Il Protocollo citato tralascia quest’ultimo brano: « Jehan - susescriptez » e dopo « moy « legge « notaire et secretaire » seguiti pur dalla firma « Vulliet ». — 666 — et excessibus in subditos nostros, patriamque predictam, quamquam tamen nulla legitima ratione potuerint, ob quod contemptum sic per eos totius equitatis, rationis et amicitie ratione , opprobriis, dampnis et iniuriis lacessiti et irritati; eadem inquieto ferentes animo, vobis et vestrum cuilibet in solidum per has expresse committimus et mandamus, sub pena centum librarum fortium pro quolibet, quatenus omnes et singulos Ianuenses premencionatos, quos in et super patria et dicione nostris apprehendere poteritis , hiis visis, una cum mercantiis, ancilis, mulionibus, factoribus, seruito-ribus ac rebus et bonis uniuersis, qualescumque et qualiacumque sint, hiis visis, personaliter capiatis et captos firmis carceribus mancipatos tute detineatis, eademque bona sub debita inuentarn descriptione teneatis, regatis, et preter quam necis nemini relaxandi aut expediendi donec aliud a nobis habeatis in mandatis. Quoniam nos ad captionem dictarum personarum et bonorum predictorum procedendi, detinendi, arrestandi, regendi, preseruandi, ac omnia alia in premissis et circa ea necessaria faciendi, gerendi et exercen i vobis et vestrum cuilibet in solidum plenam presentibus impartimur potestatem, et ab omnibus ac singulis officiariis, fidelibus et subditis nostris mediatis et immediatis, vobis, vestrisque jussibus, mandatis circa hec fiendis pareri volumus et intendimus, cum et sine penis, veluti nobis. — 667 — XXV. Istruzione a due ambasciatori inviati dalla repubblica al re di Francia, nella quale accennasi pure alla questione fra Genova e Savoia. Genova, 2 giugno 1507. [Arch. di Stato, Genova. Istruzioni e relazioni politiche, filza 5/2707 C] Radulphus de Lannoy bailiuus Ambianensis, dominus etc. regius ianuensis gubernator et Consilium antianorum ac Officium Balie excelsi comunis Ianue. Hec sunt que committimus et in mandatis damus vobis spectatis et prestantibus viris dominis Iohanni de Marinis iuris utriusque doctori et Iohanni Baptiste de Francis, oratoribus nostris ad regem christianissimum, dominum nostrum, per nos destinatis, et primo quoque tempore in Dei nomine profecturis.....(1). Quando per più commodità de sua Maestà paresse a quella, qualche audictori 0 audictore deputare, a quelli ricorrereti, e in tutto seguireti quel che sua Maestà comanderà. A noi pare verisimile che sua Maestà vi debba assignare o monsignore el legato solo, 0 lui in compagnia d’ altri, cum li quali vi adhoperareti trouarue al più presto possibile fia. E fareti intendere a sua S.ria Reu.ma li grandi oblighi che reputa hauere tuta la cità a quella, per esserse portata tanto humanamenti e affectionatamenti in tute le nostre cosse. E ricordareti a quella le grande offerte per quella a noi facte in la partensa sua, che, accadendone qualche bisogno, da lui hauessimo ricorso, perchè la troueriamo inclinatissima ad ogni utile e commodo de questa nostra cità..... Hareti alligata la copia de una lettera per noi ultimamente scripta a lo ill.m0 duca de Sauoya, e la copia de la resposta per sua Ex.,ia (1) Da prima la repubblica ricorda ai suoi inviati, che potrà riceverli il re o persona da lui delegata. Poi segue : « Quando » ecc. Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXlll fase. 2.° 45 - 668 - a noi data, per le quale intendereti corno se siamo mouuti iustifi-camenti a uolere intendere se nostri liberamenti in el paese suo possiano negotiare. Intendereti ancora quanto sia stata absurda la dieta riposta e aliena da ogni stillo de scriuere da amico a amici. Ben crediamo che sia colpa o del secretario, o pur de qualche ministri de sua Ex.'“, per essere quella corte semper in expectatione e ostinata che gli sia facto o presenti o largitione. Il perchè serà cura uostra de intendere de la Maestà del re o da mons/ el legato, corno de cetero habiamo a vivere cum sua Ex.tia, essendo noi veri e boni subditi de la prefata Maestà del nostro re. E poteria essere che trouaresti in corte el prefato duca, e tanto saria facile la resolutione, ricordandoue de impetrare una generale publicatione in tuti li soi paesi, che cossi li nostri corno li soi subdiri possiano hauere generale commercio utrinque senza impedimento nè molestia alcuna. E perchè forsi poteria essere obiectato, per le speranze di sopra dette, da soi ministri grandi dani, che saperano depingere de Mentone e Rochabruna, sapiate che sua Ex.tia in detti lochi non ha altre raxone si non iura feudalia. E quando la andasse da dani a dani, ueramenti ducati xxv mila non pagarian li dani hauuti da soi subditi, specialmente de Nicia e Villafranca, per li quali siamo stati necessitati concedere molte reprehensalie, quale ancor uegliano, e mai se n’è hauuto satisfactione alcuna. Vi concludiamo che poi chel mutuo commercio è grandemente a proposito de tute doa le parte, che quando pur sua Ex.tia pretendesse domandare qualche cossa, che per questo non sia interdicto a li subditi de luna parte e de laltra el libero commercio de tuto el paese. E poi quando sua Ex.tu, come è detto, pretendesse qualche cossa contro de noi, se farà sempre cum li debiti mezi quanto richiederà la iusticia..... Data Ianue, die secunda iunii 1507. — 669 - XXVI. Si dà notizia ai due inviati genovesi alla corte di Francia, che presto Vincenzo Tarigo sarà spedito al duca di Savoia. Genova, 23 giugno 1507. [Arch. di Stato, Genova. Diversorum comm. Ianue, a. 1507, filza n. 64] Radulphus, Consilium et Officium etc. Spectatis et prestantibus uiris dominis Iohanni Pio de Marinis et Iohanni Baptiste de Francis, oratoribus nostris apud regem christianissimum, nobis carissimis. Spectati et prestantes oratores nostri nobis carissimi. Iunse hiere cera Iohanni Batista Tarchieta, coi quale receuute habiamo le vostre scripte auanti heri in Aste, e oltra le petitione cum le responsione sotto quelle a voi date. Vi faremo brieue riposta tocando solamenti li articuli neccessarii cossi de le letere come de le diete responsione..... Circa 1’ articulo de Sauoya s’è inteso ancora per uoi s’è impetrato letere per le quale la Maestà de re scriuerà a la Ex.tia del duca che supercedeat ab interdicto, aciochè in questo mezo venir se possia a compositione: quale letere ad ogni modo procurereti de hauere tenendole in voi, perchè per quelli a che toca la negociatione de Lione e de Sauoya è stato facto ellectione de Vincentio Tarigo, commissario per noi destinato a la prefata Ex.tia del duca, el quale presto si trouerà cum voi, e, quando sia bisogno, se transferirà in corte del duca, preso da voi le instructione necessarie , e per virtù de le diete letere vederà de condurre l’opera a perfectione, cossi come speriamo debba seguire, se facte che de le diete lettere ne habiate la copia per dare al detto Vincentio, perchè meglio al tenore de quelle se possia accomodare..... Data Ianue, die xxm iunii 1507. — 670 — XXVII. \ Istruzione a Vincenzo Tarigo e Ambrogio Gentile, inviati alla corte del duca di Savoia. Genova, 26 luglio 1507. [Arch. di Stato, Genova. Istruzioni e relazioni politiche, n. s., 2707 CJ Radulphus de Lannoy bailiuus Ambianensis, regius ianuensis gubernator, Consilium antianorum et Officium quatuor deputatorum super negociis Sabaudiensibus. Hec sunt que committimus et in mandatis damus vobis prestan-tibus viris Vincendo Tarigo et Ambrosio Gentili, commissariis nostris ad illustrissimum Sabaudie ducem nostro nomine profecturis. Cognoscendo la necessità grande che hano li nostri negocianti a Lione e in li altri loci del reame de Francia de hauere libero transito c[on] le persone e merce loro per el paese del prefato ill.ra0 duca, ne parse li superiori iorni scriuere a sua Ex.m le lettere, la copia de le quale qui alliga[ta] hareti, per explorare lo animo suo e potere essere ce[rti] del detto transito, prima che se prendesse per tito[lo] alcuno a modo usato de passare. E per detta sua Ex.,ia ne fo da[ta] riposta, el tenore de la qua[lej vedereti ancora per la alligata copia. Quale riposta parendo a noi aliena da animo beniuolo verso di noi, e cognoscendo per quella sua Ex.t,a non volere inclinare a le voglie nostre, ne parse dare special cura a li spectati oratori nostri, m. Io. de Marinis e compagno, destinati al ìe christianissimo nostro signore, che si sforciaseno pro viribus per mezo de la prefata Maestà impetrar el detto transito e anche el mutuo conmercio tra li nostri e li subditi del prefato duca, come vedereti per la copia de lo articulo circa questa materia, in la instructione a [loro] data contento ; quale articulo n’ è parso ancora a voi darlo per instructione de quel che harete tractare; sotto el quale articulo vedereti ancora la riposta data per li deputati de la prefata Maestà de re, tuto alieno da quel che expectauamo. Vero, meglo poi informati da detti nostri oratori, s’è impetrato per loro lettere da la dicta Maesta de re scripte al prefato duca, quale ancora qui — 671 — alligate hareti, e quelle potereti aprire e legere la continentia loro pei maiore instructione vostra, e poi, auanti la presentatione, sigillile. E cossi questo tractato sino adeso è restato suspeso, non sensa grande damno publico e maiore incomodo del trafico de tuti li nostri. Il perchè, desiderando ultimare questa facenda tanto necessaria, ve habiamo constituiti nostri commissarii al prefato ill.m° duca destinati, sperando che, mediante lo ingegno e industria vostra, dobbiate explicare questa dificultà e inclinare el prefato duca a consentire a la publicatione del solito transito libero ad ogniuno. Si che al nome de Dio al più presto vi metereti a camino verso la soa Ex.tia e iuncti che sareti in corte, trouandoue tuti doa insieme, ui presentereti al suo conspecto e, date le nostre lettere credentiale che qui hareti alligate, fareti intendere a sua Ex.tia che la antiqua e continuata amicicia de questa conmunità cum la ill.ma Casa de Sauoia, e le gratificatione mutue per diuersi tempi seguite, e li beneficii de li populi de sua Ex.tia e nostri per el mutuo conmercio da ciascuna de le parte receuuti. Per li quali tuti respecti direti hauere commissione da noi de offerire a sua Ex.tia afectuosamenti tuto quel che possiamo e vagliamo, in gloria e amplitudine de sua Ex.tia, sotto quelle più accomodate parole che iudichereti. E, detto questo, fareti intendere a soa Ex.t!a hauere conmissione da noi parlare de alcune cosse utile per le parti, e da quella vedereti de intendere se lui medesma se elegierà audirue 0 vero a altri auditori costituirne. El che inteso, 0 a soa Ex?ia 0 ad altri exponereti che non è che non se sia preso qualche admiratione, e hauendo noi richiesto a soa Ex.tia che la volesse publicare el libero transito e conmercio per el suo paese, che in questo la se sia renduta dificile, considerando el grande beneficio che continuamene è seguito e segue a soi populi de traficare a Genoa e in la iurisditione genoese, e quel medesmo de li nostri in el paese de soa Ex.'ia. Quali nostri, se vorrano ben calcular la intrata de li datii e pedagii loro, cogno-scerano quanto sia la reuenuta che per li nostri resentono. E per questo iudichiamo noi che quel chi se domanda sia utilissimo per ciascuna de le parte, e cossi confortereti a consentirlo cum quella più eficatia che potereti, introducendo, quando altramenti se facesse, quanto seria absurdo che, essendo noi subditi de la Maestà — 672 — christianissima del nostro re non manco corno se fussemo natiui de Francia, che a noi fusse interdicto el detto transito, e crederiamo, quando la Maestà soa ne hauesse noticia, gli pariria molto stranio, atento la coniunctione intrinseca tra la dieta Maestà e soa Ex.sia, e in questo facto le narratione accomodate : siamo certi vi serà riposto e messo a campo che soa Ex.tia, per li respecti per voi ricordati, saria contenta consentire a la nostra domanda, ma che prima vole esser satisfacta de le spese facte, e quiui vi sarà proposito grandi denari spesi in la impresa de Monaco, sicondo loro costuma. E in vero, corno sapeti, sono state cosse molto ligiere, e noi non gli habiamo dato occasione alcuna de spender, perchè, benché se sia cercato recuperar Monaco, mai s’ è facto signo de inimicicia contra li subditi de soa Ex.,ia; e a voi è notto, quando quelli del campo introrno ne la Turbia per cacciare li venturieri, non fu facto uno minimo damno a li habitanti de la dieta Turbia, in la quale, per [ajduiso vostro, per el duca, per quel che se intende, non fu tenuto si non qualche poche cernie. Vero è che iudicamo esser al proposito scanzare la mentione e pratica de questo articulo, dubitando che, attento le nature e complesione loro, li trouereti dificili a tirarli in vostra sententia; e potereti fare una conclusione, che quando soa Ex.“a non pur pretendesse che noi gli hauemo qualche obligatione, che, mandando qui alcuno de soi, se intenderà tuto quel de che soa Ex.,ia si lamenta e non si mancherà per noi a le cosse iuste e honeste. Ma a ciò che in questo mezo nè luna parte nè laltra perda el beneficio del mutuo conmercio e transito, confortereti soa Ex.tia a sospender per qualche tempo quel che si pretende, dentro dal quale se poterà commodamenti intender le rasione de le parte, e fare utrinque el debito; e in questo haueti ad insistere quanto più potereti, facendo intender a li vostri auditori li grandi damni a nostri facti, cossi da Nisardi corno da loro subditi de Villafranca, assendenti a grande summa de denari, contra li quali benché se sia concesso represaglie, nondimanco, desiderando continuar la mutua amicicia, s’ è tenuto modo che mai sono state exequite. Questo è quel che a noi occorre in generale poterui ricordare in el soprascripto tractato. Ma voi presenti meglio potereti suplire e respondere ad interrogata. Vero per esser quella corte molto - 673 — inclinata ad apetire el denaro, e passando per questa via grande parte de cosse, che in quella si tractano, cum quella destressa, che a voi parirà, vedereti de condurre, sotto quel manco premio e promessa che potereti, quello o quelli de la corte in mano de chi iudichereti esser el consentire o non consentire a la domanda vostra. E quando cum loro hareti preso ultima conclusione, subito subito a noi dareti aduiso, a ciò che, acceptando el partito, vi se possia incontinenti far la prouisione di quel che hareti concluso. E perchè in questa instructione è inpossibile tuto poter dire, per questo in el rescriuere vostro, occorrendoui qualche cossa che da noi vi parà meglio intendere, ne dareti subito aduiso e si sforcieremo satisfarui. E perchè poteria esser che a tractare e concluder quel che di sopra se dice forsi non gli potresti tuti doa interuenire, o vero continuare fino a la resolutione, per questo siamo contenti che l’uno de voi in 1’ ascentia de 1’ altro possia in predictis in tuto suplire. Data Ianue, die xxvi iulii 1507. XXVIII. Istruzione a Giovanni di Lerici ed Oberto Spinola, oratori genovesi al re di Francia, riguardo alla questione col duca di Savoia. Genova, 27 novembre 1507. [Arch. di Stato, Genova. Istruzioni e relazioni politiche, filza 3/2707 C] Radulphus de Lannoy balyuus Ambianensis, regius ianuensis gubernator, Consilium antianorum et Officium Balie communis Ianue. * Hec sunt que committimus et in mandatis damus vobis spectatis et prestantibus viris dominis Iohanni de Illice iuris utriusque doctori et Oberto Spinule, oratoribus nostris ad christianissimum regem dominum nostrum, primo quoque tempore nostro nomine profecturis. - é74 — . . . (i) Sapeti quanto a noi e nostri sia necessario hauere libero transito a passare a Lione in el reame de Franza per el paese de lo IH."10 duca de Sauoya, sopra la quale causa mesi passati fu constituito quatro citadini de li negocianti a Lione per li quali fu mandato in corte del detto duca Vincenzo Taricho cum instructione, la copia de la quale alligata vi daremo, e nulla a potuto fare. E poi li fu scripto a Lione de tale materia per tentare el detto transito per via de la regia Maestà e hareti etiam qui alligata la copia de diete lettere; sopra el fundamento de la quale instructione e lettere, cercareti per ogni via obtenere el detto transito, o saltem per via de suspensione per qualche tempo, dandoui arbitrio che per tale effecto etiam possiate expendere quanto in la dicta instructione si contiene. E quando più bisognasse, ne dareti auiso e attendereti nostra commissione..... Vi s è detto de sopra la importantia e necessità che li nostri habiano libero transito per el paese de Sauoya, e cossi vi se afferma. E per la instructione e lettere date a Vincentio Tarigo, la copia de le quale, come vi s’ è detto, haueti qui alligata, inten-dereti cum quanta poca rasone quelli de la corte del duca pretendano hauere da noi grossa ricompensa. E non di manco in el trac-tamento facto per el detto Vincentio, li deputati a sua audentia lo costrinxeno a proferire qualche cossa. E al tandem li rispose che la communità non li pagaria uno solo denaro, non intendendo hauerli obligo alcuno; e non di manco che li nostri negocianti a Lione se recatariano de qualche cossa ; per hauere la commodità del transito, e se apperse de scuti iooo. Se ne feceno beffe e risposino che erano truffati ; e cossi fu tagliato la pratica, cognoscendo el dicto Vincentio che tendeuano molto ad alto. Noi siamo certificati el dicto duca, per quelli fanti chel tene per la guardia de la Turbia, hauere speso da scuti 1500 0 ad summum 2000, quali e molto maior surama da soi populi sono stati recompensati. Si che, quando per qualche via se potesse componere lo obtenire del detto transito, li quatro deputati seriano in sentencia consentire (ij L istruzione espone dapprima il bisogno di ricorrere alla clemenza regia, essendo i Genovesi « oppressi da si gravi e intollerandi pagamenti, a li quali, corno sapeti, è stato necessario per libera forza consentire ». E continua : « Sapeti » ecc. - 675 — sino a la dieta surama. Ma cossi possendo fare o vero altro partito, ne dareti prima auiso per le regie poste, e subito vi se ordinerà quel che hauereti a concludere. Rinouandoui instantia che faciate ogni possibile opera per la exe-cutione de tanto nostro bisogno, auisandoui che già el prefato duca a facto mettere mano a dano de nostri, e per disordine de quella corte è da dubitare che procederano tanto auanti quanto troue- rano la occasione..... Data Ianue, die xxvii nouembris 1507. XXIX. Il duca Carlo conferisce pieni poteri al signor di Cholex per trattare e comporre le differenze fra Genova e Savoia. Ciaroberi, 31 gennaio 1508. [Arch. di Stato, Torino. Protocollo Vulliet, III, voi. ord. 136, fol. 32] Karolus dux Sabaudie, Chablasii et Auguste, sacri romani imperii princeps vicariusque perpetuus, marchio in Ytalia, princeps Pedemontis, comes Gebennesii, Baugiaci et Rotondimontis, baro Uuaudi, Gay et Foucignaci, Nycieque, Vercellarum et Breyssie etc. dominus. Uniuersis facimus manifestum quod nos de prudencia, fidelitate, experienda benedilecti fidelis consiliarii et magistri hospicii nostri.....(sic) domini de Cholex plene confisi, ex nostra certa scientia, eundem velut nobis fidum, serie presentium , ad infrascripta specialiter elegimus, procuratoremque nostrum specialem quo ad infrascripta facimus, constituimus et deputamus; eidem propterea conferentes plenum posse amplamque facultatem et auctoritatem , pro et nomine nostro, appunctuandi, concordandi, concludendi et componendi cum deputatis et agentibus nomine Ianuenscium (sic), de et super omnibus et singulis questionibus et differendis inter nos et dictos Ianuenses vergentibus, occasione damp-norum et iniuriarum per eosdem nobis patrieque et subditis nostris Nycie illatarum, pendentibus obsidionibus et aliis bellicis conatibus — 676 — in castrum Monachi intemptatis, occasioneque missionum et expensarum per nos hoc ideo diuersimode factarum et supportatarum. Promictentes propterea, bona fide nostra et in verbo principis ac sub nostrorum presentium et futurorum quorumcumque bonorum expressa obligacione et ypotheca, omnia et singula per eundem consiliarium nostrum in premissis et circa gerenda, concludenda et appunctuanda, perpetuo habere rata et grata et nunquam contra facere, dicere, opponere vel venire. In quorum fidem presentes manu nostra signatas et per secretarium nostrum subscriptas, sigillo nostro assueto muniri fecimus, in premissorum testimonio concedentes. Datas Chamberiaci, die ultima mensis ianuarii, millesimo quingentesimo octauo. Charles. Per dominum, presentibus dominis : Ludovico barone Myolam, comite Montismaioris, marescallo Sabaudie, Anthonio de Gingino domino Dyuone, preside, Iano de Duyno domino Vallis Yssare, magno scutiffero, r. Iohanne de Foresta priore Nantuaci, magno helemosinario, Francisco domino Maximaci, Claudio domino de Monjouent. Vulliet. XXX. Istruzione a Vincenzo Tarigo, inviato alia corte ducale, a nome dei quattro deputati dei mercanti genovesi a Lione. Genova, 9 maggio 1508. [Arch. di Stato, Genova. Istruzioni e relazioni politiche, filza 7/2707 C] Theramus de Baliano, Paulus de Inurea, Ambrosius Gentilis, et Iulianus de Grimaldis, deputati a mercatoribus ianuensibus Lugduni negotiantibus, et confirmati etc. Hec sunt que committimus et in mandatis damus vobis viro prestanti Vincentio Tarigo, nuncio et mandatario nostro ad illustrissimum et excellentissimum dominum ducem Sabaudie nostro et dictorum mercatorum nomine profecturo. - 677 — Pet hauer hauuto voi un altra fiata simile cura in l’altro viagio, in el quale mandato fusti a la Ex."a del prefato ill.mo duca nomine publico, e per hauere tractato cum sua Ex.tia e cum soi officialy e ministri la causa del transito per el suo paese, a voi è notissimo quel che per resolutione et expeditione de la dieta causa è bisogno de fare. La qual causa sinaqui ha hauuto de le difficultà per non esser bene intesa, come crediamo. Perchè intiero la Ex.t,a del dicto duca non ha alcuna causa de lamentarsi de la Segnoria nostra nè de Genuesi, perchè la dieta nostra Segnoria s’è semper portata ab antiquo sino a questo tempo cum soi predecessori et cum sua Ex.,ia da veri e boni amici. E li populi soi sono qui tractati non corno amici, ma corno parenti. E [b]enchè a nostri sia stato interdicto el transito per el suo paese, nondimanco li populi soi, senza alcuno saluoconducto, sono uenuti qui e sono semper potuti uenire sicuramenti senza alcuno saluoconducto per ogni suo comercio e negociatione. E a loro non è stato dato impedimento nè molestia alcuna, cognoscendo che la Ex.tia del duca per sinistra informatione haueua interdicto el transito in el dicto suo paese. E bene che sia stato obiectato che in la oppugnatione de Monaco se sia dato occasione a la Ex.tia del dicto duca de fare qualche spese, nondimanco nostri, se spese alcune s’è facto, non ne hano culpa alcuna. E per quel che habiamo veduto in quella instructione che a voi fu data da la nostra Segnoria, vi s’ è pienamente alegato e declarato che nostri non possiano iuxtamenti esser colpati e che non sono a modo alcuno tenuti ad alcuna satisfactione. Ma sopra questo articulo a noi non sta altro dirue, lasciando questa cura a la prefata nostra Segnoria, a chi tale cossa incombe, chi difenderà in ogni loco e in ogni tempo le sue rasone cum manifeste iustificatione. Per quel chi toca a noi, quali desideriamo che sia libero el transito per el paese de la Ex.tia del prefato duca e libera negotiatione e comercio cum li soi populi, vi dichiamo che al più presto possibile sia, vi transferiate a la presentia del prefato duca tirando cum voi in camino el spedato Iaches Caxino, el quale, per el bono grado chel se dice hauere (i) cum la prefata Ex.tia del duca e cum la corte sua, e (i) Corretto su « ha ». — 67S — per la muttua beniuolentia sua verso de molti citadini de questa nostra cità, voluntieri se interpone a componere questa difficultà del transito e comercio tra sua Ex.tia e nostri. Sì che gionto che sareti in corte, essendo già questa materia tanto examinata e tritta, conio sapeti, pare a noi che habiate a mettere da canto ogni contentione e disputatione, quale più non fano a proposito, a nostro iudicio, e cerchereti venire a la conclusione : ciò è che noi, a nome de nostri mercadanti, per hauere libero transito, more solito, per el paese de la Ex.,ia del prefato duca, e per hauere libero comercio cum li populi de sua Ex.tia e cossi loro cum noi, siamo contenti recatarse a una cossa honesta. E se contentiamo per virtù de la presente promettiate de pagare nomine nostro scuti doa milia de sole, hauendo libera patente del transito e commercio, more solito, libero, senza alcuna condictione, cossi come la prudentia vostra bene saperà indicare. E bene che crediamo debiate resoluere cum tale presente et expedire penitus la dicta causa, nondimanco ad extremum siamo contenti possiate promettere et expendere per la expeditione del dicto libero transito e commercio, more solito sicut antea Genuenses fruebantur, sino a la summa de fiorini decemilia de Sauoya. E cossi concludendo, per mezo de alcuni signori de quella corte, quale più a questa opera acommodato vi parerà, prehendereti qualche tempo a fare il pagamento, e, se possibile sia , sino a la fera de augusto proximo o de ogni sancti. E subito subito ne dareti auiso, a ciò che se possa fare prouisione de fare el detto pagamento, et ex nunc certa cautella e promissione chel serà facto al tempo che promectereti, a ciò che ex tunc che hareti concluso, el dicto libero transito e commercio se possia publicare e denunciare per tuto, e che utrique populi cossi Sabau-dienses come Ianuenses possiano gaudere de la commodità e beneficio del dicto transito e comercio. Data Ianue, die vm may 1508 (1). (1) Sulla copertina del documento : « mdviii, die martis, vini may. Expedictio Vincentii Tarigi commissarii ad illustrissimum dominum ducem Sabaudie cum omnibus literis et instructione ad eam causam accomodatis ». Le « litere » cui accennasi son quelle che ora vedremo. — é79 - XXXI. Lettera commendatizia in favore di Vincenzo Tarigo. Genova, 9 maggio 1508. [Arch. di Stato, Genova. Istruzioni e relazioni politiche, filza 7/270? C] Radulphus de Lannoy ballyuus Ambianensis, regius ianuensis gubernator, et Consilium antianorum communis Ianue. Hauendo destinato el prestante Vincendo Tarigo, nostro citadino e commissario portatore de queste a la Ex.tia de lo ill.m0 duca de Sauoya, per tractare cum dieta sua Ex.tia alcune cosse importante cossi a dieta sua Ex.tia come a noy e a sui populi , e desiderando chel possi proseghuire el suo camino quietam enti e senza impedimento alcuno; per questo preghiamo ogni ac singuli illustri e magnifici signori amici nostri o confederati, 0 qualunche loro officiali e subditi, a quali queste nostre lettere serano presentate, che per tuto vogliano receuere el detto Vincentio cum la sua compagnia, e a loro [sic] fare bona ciera, e verso de loro e ciascuno de loro usare ogni officio de humanità come è solito fare tra amici e amici, dandoli guida e ogni commodità possibile. In el che farano a noi cossa gratissima, e ne trouerano semper parati a fare el simile verso de loro, e a rendere el merito accumulata mensura. Data Ianue, die vini may 1508. Scripte fuerunt postea litere ipse in latino sermone et in eo sermone eidem Vincentio date. — 68o — XXXII. Lettere credenziali per Vincenzo Tarigo al duca di Savoia. Genova, 9 maggio 1508. [Arch. di Stato, Genova. Istruzioni e relazioni politiche, filza 7/2707 C] Ill.me et ex.me princeps. — Mercatores nostri Lugduni negociantes mittunt ad Excellentiam vestram virum prestantem Vincentium Tarigum eorum mandatarium et nuncium, presentium exibitorem, ad tractandum ac concludendum aliqua, que per ipsum Vincentium Ex.tie vestre exponentur. Ideo referendis per eum Ex.m vestra fidem indubiam adhibere potest, tamquam nobis ipsis. Nam quecumque tractabuntur per eum et concludemur, ita rata erunt, valida, atque ita obseruabuntur sicut si a nobis ipsis proficiscerentur. Rogantes dictam vestram Excellentiam ut illum benigne audire, et pro muttua utilitate populorum vestrorum et nostrorum bene et cito expedire velit. In cuius amplitudinem et gloriam et nos et nostra omnia prompto animo semper deferimus. Data Ianue, die vim maii 1508. Ex.tie uestre obsequentissimi Radulphus et Consilium. XXXIII. Lettera ai due oratori genovesi presso il re di Francia, raccomandando loro di impetrar commendatizie per Vincenzo Tarigo. Genova, 9 maggio 1508. [Arch. di Stato, Genova. Istruzioni e relazioni politiche, filza 7/2707 C] Radulphus. Consilium. Spectatis, prestantibus viris dominis Iohanni de Illice et Oberto Spinule oratoribus nostris apud regem etc. Spectati et prestantes viri nobis [nobis] (sic) carissimi. El portatore de queste ne sia lo egregio Vincentio Tarigo, quale manda iterum a la Ex.tia del duca de Sauoya da li quatro deputati - 68i — si pei nostri mercadanti de Lione per la causa a voi nota. E ben chel vada cum altri fundamenti che sinaqui non s’è facto , nondimanco per più facilitare la resolutione de dieta causa e la sua expeditione, quando paresse a proposito hauere qualche lettere da la Maesta del re o da altri, vogliamo e per virtù de la presente vi comettiamo diate opera impetrarle, e cossi al detto Vincentio dai e ogni aiuto e conseglio, che iudicareti essere al proposito, che la dieta causa meglio se possia resoluere e concludere. Data Ianue, die vini maii 1508. XXXIV. Il vice governatore di Nizza delega Stefano Bianchi e Luchino Fighiera, per prendere informazione sui danni causati dalle truppe genovesi nel territorio della Turbia. All’atto di delegazione è annessa la supplica, che era stata presentata al vice governatore dal danneggiato Audino Ricordi, perchè si venisse alla verifica di detti danni. Nizza, 22 gennaio 1S09. [Arch. di Stato, Torino. Monaco e la Turbia, mazzo 9, doc. n. n] Petrus de Bellatruchiis olim de Poipone, dominus au Chaney et condominus d Aunis, consiliarius ill.mi principis domini nostri domini Caroli domini Sabaudie etc. ducis, et pro eo civitatis Nicie patrieque prouincie eidem adiacentis locumtenens [et] viceguber-nator, dilectis Stephano Blanqui de Pallia et Luquino Figuerie de Ysia salutem. Visa supplicatione presentibns subanexa et eius con-tinencia actenta, volentes indempnitati supplicantium opportune prolùdere, super sui parte supplicantis, vobis igitur harum serie, ducali qua fungimur auctoritate expresse precepiendo mandamus, et sub pena centum librarum fortium, quatenus, habitis presentibus, ad loca propterea vos transferentes opportuna in ipsa supplicatione mentionata , vocato prius consule Ianuensium, dampna, causante guerra inibi mentouata, ipsius supplicantis impensa palpetis, diligenter inspiciatis, visisque et palpatis, iuxta Deum et vestras consciencias illa extimetis et apprecietis, indeque a dorso presentium, siue alias vbi vobis melius visum fuerit , in publicum describatis — 682 — seu describi faciatis, ut, eis visis, dicto supplicanti de iuris remedio prouidere ualeamus. Vobis propterea super premissis plenatiam impartimur potestatem per presentes, oppositionibus, exeptionibus et excusationibus friuolis non obstantibus quibuscumque. Datum Nicie, sub sigillo ducali quo utimur, per spectabilem legum doctorem ducalem consiliarum dominum Ioannem Saluatoris vice-iudicem in hac patria maiorem, millesimo quingentesimo nono, die xxii ianuarii (i). De Mentone. Iesus Vobis magnifico domino gubernatori presentis ciuitatis Nicie etc. supplicando exponitur parte honorabilis viri Audini Ricordi, castel lani castri loci de Turbia, sicuti superioribus annis, vigente guerra inter comune Ianue seu districtuales dicti comunis ex una et dominum Monachi, tandem armigeri dicti communis quam plurima dampna in possessionibus dicti supplicantis intulerunt, in proprietatibus et domibus eiusdem inferius designatis; et primo in quadam possessione ipsius supplicantis cita in territorio Turbie, loco dicto « al Tenaur », confrontante cum quadam possessione Mathei Lo Corso de Monaco et in itinere quo itur Rochabruna, deuastando oliuerios et alios arbores domesticos. Item et in quadam alia sua possessione cita in dicto territorio, loco dicto « la Font e testimoni », incidendo varios et diuersos carroberios et alias arbores domesticas. Item in quadam alia possessione cita in iam dicto ter ritorio, loco dicto « la Valiero sotta Perdigon », incidendo et de populando oliuerios et carroberios. Item in quadam faysia scita (sic) in eodem territorio, loco dicto « la Fayso dei Bestang », similiter (i) A tergo si legge: _ , . . Anno quo retro et die vicesima quarta mensis februarii, retulit michi su scrip o, Franciscus Oete, nuncius et preco publicus ciuitatis TSlicie, se in exeeutionem retro scriptarum literarum, per eum cum quibus decuit honore et reuerentia receptarum, die hesterna, que fuit vicesima tercia huius, intimasse nobili Honorato de Grima is, consule Ianuensium de quibus in ipsis litteris, ut die martis proxime interessetin locis de quibus in literis, visuro et audituro fieri extimationem bonorum de qui us et pro quibus per ipsas literas mandatur. Datum et relatum Nicie, anno et die premissis. De Mentone. — 683 — incidendo oliuerios. Item in alio quodam terreno, loco dicto « lo Tenant sobra », incidendo oliuerios. Item in quadam alia possessione cita in dicto territorio, loco dicto « Fossignano », incidendo oliuerios et carroberios. Item in quadam vinea cita ubi supra, loco dicto « lo Carnier », incidendo vites, ficus et citronerios. Item in quoddam campo cito ubi supra, loco dicto « lo Fayset », depopulando arbores domesticas. Item in quadam possessione, loco dicto « la Val », incidendo oliuerios et arbores ficus. Item in quadam possessione, loco dicto « Griuio », incidendo oliuerios et arbores nucum. Item in quadam possessione vocata «las Terrassos», arbores oliuarum. Item in possessione cita ubi supra, loco dicto « en Caboal », incidendo oliuerios et carroberios. Item et dirruperunt tres domos existentes in dicto loco. Item in possessionibus commitatus ipsius loci tunc per ipsum arrendatis, constante instrumento publice sumpto. Sic ipsum supplicantem dampnificando in scutis mille et ultra. Quare, cum intendat dictum dampnum repetere, supplicat dampnum predictum extimari, vocato consule Ianuensium , et extimam remitti duobus expertibus eligendis per Dominationem vestram (i). XXXV. Trattato di pace fra Carlo di Savoia e la repubblica genovese. Genova, 23 maggio 1509. [Arch, di Stato, Genova. Diversorum comm. Ianue, a. 1509, filza n. 67. Arch. di Stato, Torino. Trattati diversi, mazzo 6, doc. n. 3] (2). In nomine Domini, amen. Cum uerum sit, prò ut per infrascriptas partes asseritur, quod illustrissimus et excellentissimus dominus (1) A tergo: « Prouision sobre las terras, possessions et hostals de dam faitz al temp de la guerra de Monegues del quondam Audin Ricort ». (2) Il doc. fu edito imperfettamente dal Gioffredo Storia delle Alpi Marittime, col. 1214-1218. Non crediamo perciò inutile ripeterne l’edizione, servendoci delle due copie del trattato, che esistono a Genova ed a Torino, fatte appunto nella circostanza della conclusione della pace e consegnate quindi alle parti contraenti. Altre copie del trattato esistono ancora, come vedremo più avanti. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIII, fase. 2.0 44 — 684 — dominus Carolus dux Sabaudie processerit ad reprehensalias M, arrestationes et damnificationes subditorum excelsi communis Ianue, et ad inimiciciam cum dicta communitate et Genuensibus, pretextu quarundam iniuriarum et damnorum, ut asserit, illatarum et illatorum Niciensibus et subditis sue illustrissime Dominationis, et cum antea fuerit amicicia et beniuolentia inter dictum illustrissimum dominum ducem et excelsum commune Ianue, et pro subditis utriusque dominii multum faciat quod ipsi illustrissimus dominus dux et excelsum commune, hominesque et subditi utriusque ipsorum bene et amicabiliter in paceque et in amore viuant et perseuerent, et huiusmodi pax, reintegratio et amicicia per prefatum illustrissimum dominum ducem et excelsum commune W pro utriusque bono et subditorum vtilitate desiderata fuerit et desyderetur. Hinc est quod prefatus illustrissimus dominus dux volens ad effectum predicta perducere, missit W reuerendum et magnificum sue Dominationis consiliarium , dominum fratrem Philippum Pio-uanum W, preceptorem preceptorie Cherii ordinis Hierosolimitani, ad hanc ciuitatem cum quodam instrumento procuratorio pro ineunda, apunctanda et componenda concordia, et demum ^ pro imponendo perpetuo fine et silentio pretensis iniuriis, inimicicns, damnis et aliis que possent peti per dictum illustrissimum dominum ducem et eius subditos etc. Hinc est quod prefatus reuerendus et magnificus dominus Philippus, orator et procurator ac procuratorio nomine dicti ill.“ et ex.nu (s) domini ducis, ac etiam nomine et vice uniuersitatis et hominum Nicie et Turbie subditorum dicti domini ducis, et pro quibus domino duce et uniuersitatibus ac hominibus, ut infra dicetur, de rato promittit sub W etc. reuerendus ® etc. ex una seu pluribus partibus, et spectabiles ac magnifici domini Theramus Balianus, Georgius de Grimaldis, Iohannes de Passano, Augustinus de Ferrariis, Paulus de Inurea, Ambrosius Gentilis, Anfreonus Cen-turionus quondam 0) Rafìaelis, et Iulianus de Grimaldis Marci (a) Gioffredo: represalias (di alcune varianti di minima importanza non tenemmo conto), (b) Gioff. communem (c) Gioff. misit (d) Gioff. Provanam (e) Copia genovese : nunc (f) Gioff. hinc e. etiam q. p. (g) Giof. dicti ex.ml et ill.ml (h) Gioff. sub omm. (i) Gioff. reu.dus partibus, omm. (j) Cop. genov. condam. (k) Cop. genov. martii. - 68s ~ officiales Sabaudie deputati W et habentes baliam ad infrascripta , sponte et ex eorum certa scientia, nulloque iuris vel facti errore ducti, seu modo aliquo circonuenti, et omni meliori modo, iure ac via, quibus (b) et ualidius potuerunt, deuenerunt et deuenisse confessi fuerunt ad infrascriptam pacem , concordiam, amiciciam , remissionem, transactionem, pacta et alia de quibus infra, sollen-nibus hinc inde stipulationibus interuenientibus. Videlicet, quia dignis moti respectibus, et de plenitudine potestatis dicti domini ducis, et pro ineunda dicta concordia cum excelso commune Ianue et Genuensibus quibuscumque eorumque subditis, et mediantibus pecuniis infrascriptis, dictus reuerendus et magnificus dominus Philippus, dictis nominibus, saluis infrascriptis promissionibus et solutionibus faciendis per dictos dominos Theramum , Georgium et socios pro excelso commune Ianue, aut alios pro dicto commune, imprimis remittit quascumque violentias, iniurias, oppressiones et damna que et quas commune Ianue, sive agentes pro ipso communi, et alii quiuis particulares Ianuenses, eorumue subditi vel stipendiarii aut alias pro Genuensibus deputati, maxime tempore obsidionis castri Monici aut alias quomodocunque, intulissent aut inferri fecissent vel permississent, dicto ill.m0 domino duci, uniuer-sitati et hominibus particularibus Niciensibus et Turbie et aliis subditis dicti ili.™ domini ducis, et saluis pecuniis infra soluendis, quitat, liberat, et absoluit per acceptilationem (d) aquiliana stipulacene precedente, dictos dominos Theramum et socios , dictis nominibus, et per eos excelsum commune Ianue et Genuenses quoscumque, eorumque subditos et me notarium et cancellarium infrascriptum stipulantem et recipientem nomine et vice dicti communis Ianue et omnium Genuensium subditorumque W suorum et aliorum, quorum interest vel interesse poterit in futurum, ab omnibus et singulis iniuriis, volentiis, oppressionibus, damnis et interesse quomodocumque illatis dictis ill.m0 domino duci, Niciensibus, uniuersitati Turbie aut aliis quibusuis , affirmant, comprobant et ratifficant predictum instrumentum et omnia in eo contenta, ac pro se heredibusque et successoribus suis, ac pro dictis subditis ipsius Excellende promittit michi notario infra-scripto stipulanti et recipienti nomine et vice excelsi comunis Ianue, ac omnium quorum interest, intererit in futurum, predictum instrumentum, pacem et concordiam, remissionem, transactionem et omnia et singula in predicto instrumento contenta, sub fide boni et recti principis, obseruaturum et per eius subditos et ministros obseruari facturum, et in omnibus et per omnia, prout in dicto instrumento continetur ; et pro maiori efficacia presentis ratifficationis et promissionis iurauit ad sancta Dei euangelia, corporaliter tactis scripturis, tam preallegatum instrumentum quam omnia et singula in eo contenta, et presentem ratificationem et approbationem perpetuo habere ratum, rata, grata et firma, ratamque, gratam et firmam, et illi nullo unquam tempore contrauenire de iure vel de facto , etiam si alias de iure posset. Que omnia promisit obseruare sub obligatione omnium bonorum suorum presentium et futurorum, sub pena dupli, cum restitutione fe omnium et quoruncumque damnorum, interesse et expensarum litis et extra, quod et que comune Ianue vel eius subditos in futurum pati contingeret propter (a) Prot. ratificaturas. (b) Prot. solempnitatibus (c) Prot. lacius (d) Prot. comuni (c) Prot. quoscunquc (f) Prot. approbacionem (g) Prot. restttncione. — 6j2 — non seruatam dictam promissionem : qua pena et quibus damnis solutis vel non solutis, rata semper et firma remaneant promissa. Renunciaudo prelibatus ill.mus dominus dux in premissis omnibus exceptioni doli, mali in factum, actioni, conditioni W indebiti sine causa , ob causam, vel ex iniusta causa, reique non sic vel aliter geste, ac omni ahi iuris et legum auxilio quo adveniens contra pre-missa se tuheri posset, signanter iuridicenti generalem renuncia-tionem non valere nisi speciali precedente. De quibus premissis rogatum fuit per me notarium et secretarium predictum publicum instrumentum, dictamine sapientis, si opus fuerit, corrigendum (b). Actum Tbaurini, in camera cubiculari prenominati ill.“' domini nostri ducis, die octaua iunii, anno Domini millesimo quingentesimo nono, indictione duodecima. Presentibus ibidem magnifico, spectabilibus et generosis dominis Angelino de Prouanis Pinerolii preside, Glaudio domino Balleysonis et Auanchiaci, Iaffredo Paserii aduocato fiscali, Stephano de Capris Sabaudie thesaurario generali, testibus ad premissa astantibus vocatis, et rogatis. Ego vero Iohannes Vulliet de Chamberiaco , publicus imperiali auctoritate notarius ac ducalis Sabaudie Celsitudinis secretarius, qui premissis ratifficationi, iuramento, renunciationi et aliis premissis, dum sic agerentur cum supra ultimo nominatis vocatus interfui, ideo sic me subscripsi et subsignavi solito meo in premissorum fidem. De quibus hoc publicum instrumentum, quod manu fideli michi scribi et grossari feci, rogatus recepi die, anno et inditione quibus supra. Vulliet (i). Bartholomeus Ogerius iuris utriusque doctor, canonicus tau-rinensis vicariusque et locumtenens generalis reuerendissimi in Christo patris et domini domini Iohannis Ludouici Ruuere, Dei et apostolice W sedis gratia episcopi taurinensis. (a) Prot. condicioni (b) Prot. aggiunge in postilla : facti tamen substautia in aliquo non mutata (c) Frot. apostolice (ij Dopo la firma « Vulliet » e prima dell’attestazione che segue, il Prot. aggiunge: « Duplum certifficationis legalitatis notarii supra eo facte ». — 69j — Quoniam plerumqne etiam de veridicis dubitari contingit, tum proptei locorum distantiam M, tum propter diuersarum nationum moreset ritus; idcirco uniuersis et singulis presentes literas nostras inspecturis notum facimus et in verbo veritatis attestamur et profitemur sicuti nobilis vir Iohannes Vulliet de Chamberiaco, qui suprascriptum ratifficationis W instrumentum recepit, subscripsit et eius solito manuali signo signauit, tempore receptionis eiusdem , et longe antea fuit, erat et presentialiter est notarius publicus, auctenticus, legalis et fidedignus ac ducalis Sabaudie Celsitudinis secretarius, bonarumque vocis, conuersationis et fame. Quodque signum manuale appositum est verum et illud quo in subscriptionibus instrumentorum, actorum publicorum et literarum usus fuit et dietim utitur. Ad quem pro instrumentis et aliis scripturis ef actis publicis per eum recipiendis, conficiendis et subsignandis habitus fuit et presentialiter habetur plenus et frequentatus recursus, nec non instrumentis, scripturis et actis per eum receptis, subscriptis et subsignatis adhibita fuit et presentialiter adhibetur in iudicio et extra plena et indubitata fides, que hactenus non extitit in contrarium refricata, adeo quod non expedit quempiam in premissis dubitare, sed fidem credulam adhibere. Has nostras episcopali sigillo taurinensi munitas, in fidem premissorum concedentes. Actas et datas in episcopali palacio taurinensi, die undecima mensis iunii, millesimo quingentesimo nono, indictione duodecima (i). [L. S.] Perrachia. (a) Prot. distandam. (b) Prot. actestamur (e) Prot. Ratificationis. (i) A tergo del doc. in pergamena (Monaco e Turbia, mazzo 9, doc. 12) leggesi di mano antica : « Ianue, 8 iunii 1509. Instrumentum ratifficationis, pacificationis, federis inter dominum ducem Sabaudie et Ianuenses, cancellatum». Infatti, come abbiam detto, il documento riferito, meno la dichiarazione vescovile in favore del Vulliet, è cancellato (sembra) di mano antica. — 69 4 — XXXVII. Il Duca di Savoia fa procura a Gregorio di Buronzio perchè possa esigere dai Genovesi la somma dovutagli per la pace conchiusa. Torino, 8 giugno 1509. [Arch. di Stato, Torino. Protocollo VII del Vulliet ; fol. 20, voi. ord. 140]. Procuratorium factum per illustrissimum dominum nostrum super infrascriptis ad causam obsidionis facte per Ianuenses in castro Monachi. In nomine Domini nostri Iesu Christi, amen. Anno a natiuitate eiusdem Domini sumpto currente millesimo quingentesimo nono, indicione duodecima, die vero octaua mensis iunii. Actum in casti0 ciuitatis Thauriny, videlicet in camera cubiculari infranominati il lustrissimy domini nostri ducis, presentibus ibidem magnifficis, spectabilibus et generosis dominis Angelino de Prouanis presidente Pineroìii, Claudio domino Bale}sonis et Auanchiaci, Iaffredo Paseiii aduocato fiscali, Stephano de Capris financiarum Sabaudie thesau rario generali, testibus ad infrascripta astantibus, vocatis et roDatis. Uniuersis sit manifestum quod cum hiis proximis diebus fuetit per reuerendum et magnificum fratrem dominum Philippum de Prouanis preceptorem seu commendatarium preceptorie sancti Leonaidi, opidi Cherii, ordinis et militis Iherosolimitani, ducalemque consiliarium, et tamquam procuratorem et procuratorio nomine ilL et excell. dominy domini nostri Caroli Sabaudie etc. ducis, at vice et nomine hominum et uniuersitatis ciuitatis Nycie et loci Turbie subditorum memorati ili.™? domini nostri domini Sabaudie etc. ducis, ex una, et inclitam ciuitatem seu commune excelsum ciuitatis Ianue, siue agentes pro eis partibus, ex altera, deuentum ad pacem, concordiam, remissionem, transactionem et compositionem supei nonnullis intei ipsas partes existentes differendis, pretextu invasionum, oppi es sionum et depopulacionum de quibus et pro ut lacius constat — 695 — instrumento fieri rogato per egregium Nicolaum de Bregnali notarium et dicti comunis Ianue secretarium seu cancellarium , sub die uigesima ter eia nuper fluxi mensis may, cuius quidem instrumenti vigore tenetur dictum commune opusque et uniuersitas Ianuensis, seu spectabiles domini Theramvs de Balliano, Georgius de Grimaldis et alii eorum consocii, deputati nomine et vice dicti communis Ianue, seu pro eo et seu de bancho nobilium Nycolay et Benedicti Spinolle et Augustiny Cataney, libras decem septem millia et centum ianuinorum in dicto bancho, ut debet, depositas, et ipsi prelibato ill.rao domino domino nostro Sabaudie duci, vigore dicti instrumenti, ut premictitur, inserti, debitas et persoluendas. Hinc fuit et est quod prelibatus ill.mus dominus dominus noster Sabaudie dux, ''• olens dictam peccuniarum summam consequi, ex eius certa scientia ommque meliori modo, via, iure et forma quibus potuit et potest, fecit, constituit, creauit et solempniter ordinauit, ac tenore presentis instrumenti facit, creat et constituit et ordinat, eius verum legatum et indubitatum procuratorem suum et negociorum suorum infra-scriptorum gestorem, videlicet spectabile[m] Gregorium de Buroncio ex dominis dicti loci, ducalem consiliarium et thesaurarium nobilium camere ducalis eius , huiusmodi in se sponte suscipiens , ad specialiter et expresse, nomine et vice ipsius prelibati ill.my domini domini nostri Sabaudie etc. ducis, petendum, requirendum, consequendum et recuperandum ac recipiendum dictas decem septem milia et centum libras ianuynorum, ut supra, depositas et debitas a prefato insigni comuni Ianue, seu prefatis dominis Theramo Balliano, Georgio de Grimaldis et aliis deputatis, nec non de exactis et recuperatis quictacionem, liberacionem et absolucionem debitam faciendum , et de ipsis quictacione, receptione instrumentum publicum rogandum, in vallidam eius formam et cum renunciacionibus opportunis, et generaliter denuo omnia alia et singula, ita tamen quod generalitas specialitati non deroget nec e contra, in premissis et circha dicendum, faciendum, exigendum, recuperandum, quic-tandum et excercendum nomine eiusdem ill.my dominy domny nostri constituentis, que in premissis et circha necessaria eorum et opportuna, etiam si talia forent que mandatum exigerent magis speciale seu generale quam presens sit expressum. Dans et concedens prefatus — 696 — ill.mus dominus dominus noster dux antedicto procuratori in pre-missis et circha premissa liberum et speciale mandatum, cum plena liberaque speciali et generali administracione omnia et singula in premissis et circha premissa gerendi, faciendi, exercendi pro ut et quemadmodum ipse ill.mus dominus dominus noster dux constituens faceret et facere possit, si presens et personaliter interesset. Et insuper promisit prelibatus ill.mus dominus dominus noster dux constituens michi notario et secretario subscripto, uti publice persone et officio publico fungenti stipulantique et recipienti nomine et vice quorum de premissis interest et interesse poterit quomodolibet in futurum, habere, tenere et inuiolabiliter observare ratum, gratum et firmum omne id et quicquid per prefatum suum procuratorem, ut premictitur, constitutum, actum, dictum, gestum, receptum et recuperatum, exactum, quictatum, liberatum et quomodolibet siue gestum, et non contra facere, dicere, apponere vel venire aliqua ratione vel causa, de iure seu de facto, in iudicio siue extra, sub expressa obligacione et yppoteca omnium et singulorum bonorum suorum mobilium et immobilium, presentium et futurorum, ac sub orani et qualibet tam iuris quam facti renunciacione ad hec necessaria pariter et cauthela. De quibus premissis rogatum fuit per me notarium et secretarium presentem publicum instrumentum , sapientis dictamine, si expedierit, corrigendum, substantia non mutata. 697 — XXXVIII. Gregorio di Buronzo, a nome del duca di Savoia, lascia quitanza alla repubblica genovese della somma che questa era obbligata a sborsargli. Genova, 22 giugno 1509. [Arch. di Stato, Genova. Diversorum comm. Ianue, a. 1507, filza n. 67]. In nomine Domini, amen. Cum sit quod hoc anno, die xxm man proximi preteriti, inter reverendum et magnificum dominnm Philippum Prouanum oratorem et procuratorem ill.mi domini ducis Sabaudie , nomine dicti domini ducis, et spectatos viros dominum Theramum Balianum, Georgium de Grimaldis et socios, officiales Sabaudie super huiusmodi deputatos pro excelso comune Ianue, fuerit inita pax deventumque ad quandam transactionem, compositionem et pacta et alia, pretextu quorum dicti spectabiles domini Theramus, Georgius et socii pro excelso comune Ianue promisserunt prò se, dictis nominibus, aut alios pro se, siue pro excelso comune Ianue, solvere dicto ill.mo domino duci, siue eius legitimo procuratori aut mandatario , libras decem et octo milia Ianue, et prout latius apparet de predictis et aliis in instrumento super inde confecto rogato manu egregii Nicolai de Brignali notarii, secretarii ac cancellarii dicti excelsi comunis Ianue, anno presenti, die et mense superius declaratis, in executionem pre-sentis instrumenti et pactorum ac transactionem et aliorum, de quibus supradicti spectati domini Theramus, Georgius et socii, dictis nominibus, dederunt et seu scribi fecerunt dicto ill.m0 domino duci Sabaudie in banco nobilium Nicolai et Benedicti Spinulorum et Augustini Catanei predictas libras decem et octo milia, scilicet tria milia de numerato et reliquas quindecim milia de scripta eiusdem banci termino anni unius. Cum sic esset conuentum inter dictas partes ex forma dicti instrumenti, et que solutio siue depositum sic ut supra facta et factum fuerunt per dictum reuerendum et magnificum dominum Philippum oratorem et procuratorem, ut supra, — 69 8 - approbata et approbatum. Et nuper in obseruatione dicti contractus dictus ill.mus dominus dux per aliud publicum instrumentum ratifi-cauerit dictam compositionem, transactionem et pacta, ut apparet alio instrumento rogato manu egregii Iohannis Vulliet notarii et secretarii dicti ill.m! dominus ducis. Et cum etiam sit quod dictus iljmns domino dux paulo ante misserit magnificum dominum Gregorium de Buroncio ex dominis dicti loci, ducalem consiliarium et thesaurarium sue Celsitudinis, procuratorem ad recuperandum et recipiendum dictas pecunias a dicto excelso comuni Ianue, vel dictis agentibus pro eo, ut de dicta balia ipsi magnifico domino Gregorio attributa apparet publico instrumento rogato manu dicti egregii Iohannis Vulliet, hoc anno, die vni iunii. Et cum etiam sit quod predicti Nicolaus et Benedictus Spinule et Augustinus Cat-taneus bancherii solverint dicto magnifico domino Gregorio, dicto procuratorio nomine, libras tria milia Ianue, et magnificum Officium sancti Georgii anni presentis de mdviiii soluerit etiam eidem magnifico domino Gregorio, dicto procuratorio nomine dicti ill.m! domini ducis Sabaudie, libras quatuordecim milia centum, que faciunt complementum librarum decem septem milium centum, redactis dictis libris quindecim milibus de termino anni ad numeratum, iuxta formam dicti instrumenti et seu contractus dictorum pactorum initi cum dicto reverendo et magnifico domino Philippo Provano, dicto procuratorio nomine, ratificati et approbati per dictum illustrissimum dominum ducem ut supra, ut de dictis solutionibus etiam apparet in bancis xiiii, in quibus dicte solutiones facte ut supra fuerunt. Hinc est quod dictus mag.cus dominus Gregorius de Buroncio dicti ill.mi domini ducis procurator, ut supra, cum amplissima potestate et balia, ut apparet dicto instrumento procure viso et lecto per me cancellarium infrascriptum, volens facere ea ad que tenetur et obligatas est erga dictum excelsum comune Ianue et agentes pro ipso comuni, attentis solutionibus sibi integre factis ut supra, sponte et ex ipsius, dicto nomine, certa scientia, nulloque iuris aut facti errore ductus vel modo aliquo circumventus, sed omni meliori modo, via, iure et forma quibus melius et validius fieri potuit et potest, confitetur habuisse et recepisse a predictis superius nominatis, nomine dictorum — 699 — dominorum Therami et sociorum, officialium Sabaudie, et prefati excelsi comunis Ianue et agentium pro dicto communi, ac habuit et recepit, m presentia mei notarii et testium infrascriptorum, dictas libras decem et septem milia centum Ianue, ad complementum et pt o totali et integra satisfactione dictarum pecuniarum promissarum per dictos spectabiles dominos Theramum et socios, dictis nominibus sive per dictum excelsum comune Ianue, et demum pro integra satisfactione et adimplemento omnium contentorum in predicto instrumento pacis, compositionis, transactionis et pactorum, rogato manu dicti egregii Nicolai de Brignali cancellarii, de quo supra fit mentio. Quare, attenta satisfactione et solutione et integro adimplemento pio parte dictorum dominorum Therami et sociorum, dictis nominibus et seu communis predicti, volens facere ea ad que dicto nomine tenetur, ut supra, et obligatus est, quitat, liberat et absoluit dictos spectabiles dominos Theramum et socios, dictis nominibus, presentes et accipientes, et per eos predictum excelsum comune Ianue ac Ianuenses et alios quorum interest, intererit vel interesse poterit quo-modolibet in futurum, et me notarium et cancellarium infrascriptum stipulantem et recipientem nomine et vice dictorum dominorum Therami et sociorum ac predicti excelsi comunis Ianue et Ianuensium ac aliorum quorum interest, intererit vel interesse poterit quomo-dolibet in futurum, ut supra, a dictis libris decem et septem milibus centum per eum dicto nomine receptis, ut supra, pro adimplemento et observatione dicti contractus, et demum ab omni eo et toto quod et quantum peti posset per dictum illustrissimum dominum ducem Sabaudie et per dictos homines et uniuersitates Nicie et Turbie et alios subditos dicti illustrissimi domini ducis, occasione contentorum in dicto contractu et seu instrumento per acceptilationem, aquiliana stipulatione premissa et solemnibus verbis introductis. Faciens etc. Promittens ac iurans dicto nomine et sub fide veri principis quod dicte confessioni, quitacioni, remissioni et aliis de quibus supra, dicti ill.mus dominus dux, homines et uniuersitates ac subditi, ut supra, dicti domini ducis non contrauenient de iure vel de facto, etiam si de iure possent. Arri Soc. Lig. St. Patria, Voi. XXIII, fase. a.° — 700 — Renuncians dicto nomine exceptioni rei sic non esse vel non fuisse etc., et demum omni legum auxilio, que predictis, ad contraveniendum dicte renunciationi, quitacioni et aliis de quibus supra{ possent dicto domino duci et aliis predictis favere. Promittens et iurans eis non uti etc. Que omnia et singula dictus mag.CU! dominus Gregorius, dicto nomine proprio , observare promissit et eis non contravenire per se ipsum , dominum ducem , homines, uniuersitates et subditos predictos, etiamsi de iure posset. Sub pena dupli etc. Ratis etc. Et prò predictis omnibus et singulis implendis et observandis, obligavit, dicto nomine, et ipothecavit omnia bona dicti ili.™1 domini ducis presentia et futura. Ad dictamen sapientis, substantia non mutata. Actum Ianue, in palatio prefati excelsi comunis, in aula superiori ipsius palatii, anno dominice nativitatis millesimo quingentesimo nono, indicione undecima secundum morem ianuensem, die vero veneris, vigesima secunda iunii, hora circiter vigesima prima; pre-sentibus magnifico domino Iohanne de Pyns domino de Montebruno, locumtenente nunc in Ianua ili™ domini gubernatoris, Iacobo de Monfalcone viceduce, Francisco Albertacii de Vamonensi, Valentino ex dominis Buruncii et Andrea Cicero ac Ambrosio de Camilla, ambobus Ianue civibus, testibus ad premissa vocatis et rogatis. LETTERA INEDITA DEL BEATO CARLO SPINOLA AD ALBERICO .1. CYBO-MALASPINA PRINCIPE DI MASSA PEL SOCIO GIOVANNI SFORZA 10-*, l io settembre del 1622 fu martirizzato al Giappone, dove era andato a predicare la tede, il p. Carlo d’Ottavio Spinola della Compagnia di Gesù; martirio veramente tremendo, perché venne arso a fuoco lento. Tra le monete che fece battere uno de' suoi congiunti, Filippo di Massimiliano Spinola, conte di Tassarolo, la «doppia» e la « doppia da due », coniate entrambe il 1640, nel rovescio portano l’effigie di lui, legato ad un palo, in mezzo alle fiamme, colla leggenda: P* Carolvs * Spin *m * Soc * Jesv(i). Fino dal 1628 un altro suo congiunto, il p. Fabio Ambrogio di Paolo Emilio Spinola, aneli’esso della Compagnia di Gesù, ne aveva composto la vita (2), che (1) Olivieri Agostino, Monete e medaglie degli Spinola di Tassarolo, Ronco, Roccaforte, Arquata e Vergagni, che serbatisi nella R. Università ed in altre collezioni di Genova, descritte ed illustrale; Genova, coi tipi del R. I. Sordo-Muti, 1860, pp. 103 e seg. e tav. vi, n. i e 2. (2) Vita del P. Carlo Spinola della Compagnia di Gesù, morto per la Fede nel Giappone, del P. Fabio Ambrosio Spinola, dell’ istessa Compagnia; in Roma, appresso Francesco Corbelletti, mdcxxviii; in-8.° di pp. 223. — 704 — aradotta in latino dal p. Ermanno Hugo (i) e in francese dal p. Roberto Michiel (2), e compendiata dal canonico Agostino Calcagnino (3), ha veduto più volte la luce (4) e che resta la migliore delle tante biografie che si hanno a stampa del martire genovese (5), il quale il 7 luglio del 1867 dal pontefice Pio IX venne scritto tra beati. (1) Vita P. Caroli Spinoine Societ, fesa, prò Christiana Religione in Iaponia mortui: italice scripta a P. Fabio Ambrosio Spinola, latine reddita a P. Hermanno Hugone, utroque Societ. Jesu sacerdote; Antverpiae, ex officina Plantiniana Bal-thasaris Moreti, 1630; in-8.° di pp. 186, col disegno della carcere in cui fu rinchiuso lo Spinola. (2) La vie du P. Charles Spinola de la Compagnie de Jesus, mori pour la Foi Chretienne au Japon, mise en Francois par le P. Robert Michiel de la Compagnie de Jesus; a Valentiennes, chez Jean Bougher, 1661 ; in-8.° di pp. 266, col disegno della carcere in cui fu rinchiuso lo Spinola. (3) Vita et martirio / del venerabile padre / Carlo Spinola / della Compagnia di Giesù I già scritta dal P. / Fabio Ambrosio Spinola / della stessa Compagnia, / E ridotta in compendio da Agostino Calcagnino; a pp. 112-132 dell’opera: Le sacre palme / genovesi / cioè / vite de’ santi martiri genovesi / Desiderio Vescovo / di Langres I et I Vrsicino medico / protomartire della città di Ravenna / con vna breve relatione / di XVIII. Fanciulli Giustiniani de’ Signori di Scio / Del P. Carlo Spinola della Compagnia di Giesù, e del j P. Ferdinando Isola de PP. Minori Osservanti Riformati: / I quali con la loro morte in diversi tempi, e luoghi han / mostrato la loro costanza nella S. Fede / descritte da Agostino Calcagnino I Canonico Penitentiero della Metropolitana di/ Genova. / In Genova, m. dc.lv, / nella Stamperia di Benedetto Guasco / con licenza de’ Superiori; in-4.0 di pp. 12 nn. - 138-2 n. n. con 1 tav. rappresentante S. Desiderivs episcopvs et mar tir, incisa in rame da Joseph Testana. (4) A pp. 63-66 del tomo VI degli Analecta Bollandiana, si legge un diligentissimo catalogo degli scritti riguardanti il beato Carlo Spinola e delle varie edizioni che ne furono fatte. Nove ne indica della Vita che ne scrisse il P. Fabio Ambrogio Spinola. A queste è però da aggiungere la seguente: Vita J del padre/ Carlo Spinola / della Compagnia / di Giesù Morto per la Santa Fede / nel Giappone. I Scritta dal P. Fabio Ambrosio Spinola / dell’istessa Campagnia. / In Bologna, mdcxlvii. / per 1’ erede di Vittorio Benacci / con licenza de’ superiori, in 24.0 di pp. 8 nn. - 205 - 1 n. n. (5) Eccone l’elenco, che tolgo degli Analecta Bollandiana-, tom. VI, pp. 64-65. 1. La vie du Pere Charles Spinola de la Compagnie de Jesus, par le P. Pierre — 705 — Delle lettere famigliari del Nostro un buon numero se ne trova alle stampe (i). La più parte vennero inserite dal p. Fabio Ambrogio Spinola nella Vita che ne detto ; parecchie ve ne aggiunse poi il p. Boero, nella ristampa che ne fece a Roma il 1869 (2); altre furono pubblicate da Daniello Bartoli (3), dal Trigault (4), d Orleans de la ménte Compagnie; Paris, Etienne Michallet, 1681; in-12.0 di pp. 223. 2. R. P. Cornely, 5. I. Leben des seligen Màrtyrers Karl Spinola aus der Gesellscbaft Jesti. Nebst hirzen Nachrichten ueber das Leben und den glorreichen Tod der ubrigen am 7 Juli 1867 selig gesprochenen Màrtyrer von Japon; Mainz, Kir-chheim, 1868; in-12.0 di pp. vii-240. 3. Le bien heureux Charles Spinola de la Compagnie de Jesus et ses compagnons morts pour la Foi le 10 septembre 1622. Notice liistorique et biographique, par le P. Eugène Seguin de la Compagnie de Jésus; Tournai, H. Casterman, 1868; in-12.0 di pp. 264. 4- Jl beato Carlo Spinola e i suoi compagni morti per la Fede ai 20 settembre 1622. Notista storico-biograjìca scritta in francese dal P. Eugenio Seguin e tradotta dal canonico Antonio Campanella; Genova, G. Caorsi, 1868; in-16.0 di pp. XII - 120. 5. Vie du B. Charles Spinola de la Compagnie de Jésus et nolice sur les aulres martyrs du Japon, béatijìés le juillet 186;, par Joseph Broeckaert S. Bruxelles, H. Goemaere, 1868; in-12.0 di pp. 263, con 1 tav. 6. Leven van den geluli{aligen Carolus Spinola, vati het Geielschap van Je^u, en Schets dar andere Martellaren van Japon \aligverkaard den 7 juli 1867 door Joseph Broeokaert S.J. Uit het Jransch vertaald; Brussel, H. Goemaere, Uitgever en drukker van Zjne Heiligheid den Paus, 1868; in-12.0 di pp. viti — 294. 7. Het leven van den deluhifiligen martelaar Carolus Spinola vari de Societeit van Jesus verhaald door A. Duffels S. J, Met twee piateti; ’s Hertogenbosch., G. Mosmans, 1868; in-12.0 di pp. 326. (1) E da vedersene il catalogo a pp. 67-72 del tomo VI degli Analecta Bol-laudiana cit. {2) Vita del B. Carlo Spinola, martire della Compagnia di Gesù, scritta dal P. Anbrogio Spinola della medesima Compagnia. Novissima editione corretta ed accresciuta; Roma, coi tipi della Civiltà Cattolica, 1869; in-i6.° di pp. 248 con 1 tav. (3) Bartoli D., Opere; Firenze, 1832; toni. XXII, pp. 59-64, 184, 191 e 194. (4) Trigault N., De christianis apud Japonios triumphis sive de gravissima ibiden contra Christi Jidem persecutione exorta anno MDCXII. usque ad annum MDCXXII; Monachii, 1623; PP- 509-511. — 706 — dal Morejon (i), dall’Accademia Reale delle scienze, di Bruxelles (2) e da’ Bollandisti (3). Questa che pubblico è non solo inedita, ma affatto sconosciuta; e l’ho copiata con ogni diligenza dall’originale, che, tutto di mano del beato Carlo, si conserva nel R. Archivio di Stato in Massa (4). È indirizzata al Principe Alberico I, il più illustre de’ Cybo che hanno signoreggiato a Massa e Carrara. Essendo nato a Genova e di famiglia tra le principali di quella potente Repubblica, era imparentato cogli Spinola ed in frequente carteggio con essi (5); legami che si fecero anche più stretti (1) Moreson , Relazione della gloriosa morie de nove religiosi della Compagnia -ti Giesù e di altri nel Giappone; in Lettere annue del Giappone degli anni MDCXXV, MDCXXVI, MDCXXVII; Roma, 1632; pp. 80-140. (2) Mlmoires de l’Académie Royale des sciences, tom, VII, p. 706. (3) Literae a beato marthyre Carolo Spinola e Societate Jesu ad R. P. Mutium Vitelleschi, praepositum generalem, die 28 septembris anni 1621 e carcere Omurensi datae; in Analecta Rollandiana cit., VI, 52-82. (4) R. Archivio di Stato in Massa. Carteggio originale del principe Alberico I Cybo-Malaspina, ad ann. (5) Delle numerose lettere scritte da Alberico agli Spinola e dagli Spinola ad Alberico ne andrebbe fatta una scelta e pubblicata. Riuscirebbe di lettura utile e curiosa. Eccone alcune per saggio. Alla S." Faustina Spinola. — Di mano di S. E. Molto 111.' S.ra mia, Sigra cara, mandai a V. S. Tacque le quali desidero di’ arrivassero in tempo et le dieno quella sodisfatione di salute che vorrei per la mia istessa. Cosi fosse piaciuto a Dio che ella havesse favorito questi paesi et questa sua casa, ch’avrebbe V. S. havuto i rimedij più vicini, et se da una parte le lusse stato più scomodo, dall’altra n’haverebbe sentito servigio maggiore e dato a me infinitissima contentezza. Però io nacqui per essere poco fortunato; il che non farà mai che io non lo sia molto in havere V. S. per S.ra, a chi servirò in eterno con tutte le forze mie; et cosi la supplico a comandarmi sempre, perchè le dimostrerò in ogni tempo la devota et affetionata servitù mia. Io resto travagliatissimo per veder si lunga et incerta la total liberatione di quella città, la quale quando io aspettavo in questi giorni, mi par che sia più dubbia che mai, intendendo che in Bisagno seguitano più che mai diversi casi, — 707 — nel 1605 allorché il suo nipote Carlo I Cybo, che poi gli successe nel comando, tolse in moglie Brigida figlia di Giannettino Spinola, che gli portò in dote cento ventimila ducati. da quali la bontà divina, insieme con tutta la casa sua, la guardi con ogni possibile sicurezza. Di nuovo di qua non ho che dirle; rimettendomi all’ istorio-grafo Flaminio. So bene che certo et per vita mia mi desidero costi, nelle solite conversationi, carezze et cortesie, delle quali non mi scorderò per il tempo di miei giorni. I miei (i) di Lombardia andorno a Venetia, son ritornati et stanno benissimo, et questo altro mese anderà (2) a Urbino et Fiorenza, et dipoi sarà qua a riposarsi per un poco, ch’intendo che n’ha qualche bisogno con tutta la gioventù sua. Io poi invecchio a furia, che me ne dispiace molto, sé bene il vivere mi giova, et lo desidero in particolare per mostrare a V. S. con effetti la memoria che tengo di suoi favori. Basta che con ogni diversità di pelo, di tempo e di fortuna sarò sempre il medesimo servitore di lei e di sua casa; a’ quali augurando tutte le felicità del mondo, non passerò in altro che in baciarle le mani, insieme colla Sig.r* Maria et altri suoi figli. Di Massa, 6 giugno 1580. Di V. S. molto III.* Aff.mo Servitore Il Principe di Massa. Al S.or Nicolò Spinola. 111. S.r Ho ricevute lettere di V. S. delli 17, gustando molto d’intendere del suo buon essere; ma della salute della città non so più che dirmi, da che io ho visto lettere scritte di là che in Besagno il male va continuando e in Carignano succedino delli casi, et nel mio quartiero del Campo, nel borgo di S.l° Antonio, verso S.to Mò (3), succedino anco molti casi, di che io ne sento infinito dispiacere, sì per l’interesso publico, come per il mio, da che io speravo pure mangiare qualche melone in su la loggetta di V. S., il che quando non possi essere, facciamo almeno che possiamo bevere del vino nero. I marmi di V. S. saranno ben presto in marina, come mi tien scritto il Carlone; e da che io do marmi a V. S. ella doverebe pure darne a me ancora, da che costi vi sono cave molto migliore di queste mie che son qua. Io con i miei stiamo bene, essendomi ritirato in Castello dove ho molte stanze, bone e belle e fresche e (1) Parla del figlio Alderano marchese di Carrara e della moglie di lui, marchesa d' Este (2) Alderano. (3) Borgo di s. Antonio di Pre. — San Tornò, cioè verso la chiesa di s. Tommaso, fuori l’omonima porta della città. — 708 — La lettera presente sparge nuova luce sulla vita del martire genovese. Degli scritti suoi, oltre le lettere, i biografi di lui, a cominciare da' propri concittadini e contemporanei Fabio Ambrogio Spinola, Raffaele con bellissima vista, augurandoci spesso V. S. con la sig." Camilla e tutta la casa Spinola per poterne fare una scielta gentile e poterci poi godere insieme, da chè la poca brigata fa la vita beata, come si suol dire. E con pregare V. S. a dar ricapito al inclusa al sig. Tiberio Mandosio a Chiavari, faccio qui fine. Che N. S. la conservi felicissima. Di Massa, alli 21 di giugno 1580. Al comando di V. S. et suo parente Il Principe di Massa. Al S.°r Nicolò Spinola. — Di mano di S. E. Molto m.co S." Io partei con mal tempo, onde non passai Camogli ben visto da coloro. L’altro giorno mi fermai a Chiavari, sodisfatto dalle belle parolette di quel Capitano, ma non già delli effetti: Dipoi, per il vento contrario, mi convenne smontare a Moneglia, dove stetti con mio gusto, ristorando l’altro alloggiamento cattivo; e di là passai per terra alla Spezia ne la quale per immodestia d’alcuni officiali di Sanità hebbi che fare ad essere accettato, che 1’ haverei havuto per meglio, che fermarmi otto giorni continui in una pessima casa di villa, piena di vento, di paglia, et di fumé, nè bastai a partirmi prima per il tempo contrario et per la Magra impraticabile. Viddi in quei giorni il S.01 D. Pietro dei Medici et Fabritio Colonna, giucai e vinzi 200 scuti, et poi me ne venni a Lavenza, dove sono et starò otto giorni, per assicurar questi impauriti vicini, i quali senza urgente bisogno, havevano di già bandito questo Stato, che essendo, per la Dio gratia, sano, presto doveranno ricredersene et cavarci di questi intrichi. Ho voluto dare a V. S. conto della mia peregrinatione, perchè sappi sempre nova di me come di suo amorosissimo parente et amico, et per darle occasione di scrivermi et darmi nova dei successi della città nostra, alla quale Dio conceda la salute che si desidera da tutti noi. Et con questo me le raccomando. Che N. S. la conservi. Di Lavenza. 6 y.bre 1579. Di V. S. al comando Il Principe di Massa. Hora ho ricevuto le due sue di 28 et 29 del passato, che m’ hanno consolato assai della buona speranza che mi dà per i buoni ordini che si sono posti per la salute della città, che la bontà divina habbi in protetione tale, che ponga fine a quello et ad ogni altro male che habbi 0 possa havere mai. — 709 — Soprani (i) e Michele Giustiniani (2), a venire ai più recenti, uno soltanto ne ricordano che ha per titolo : Insigne devotionis opusculum ad onorem novem mensium quibus eadem Beatissima Vngo Dei mater Christi Jesum in suo utero gestavit. Ecco ora che dalla bocca stessa di lui impariamo, che scrisse anche una « relatione » sulle crudeli persecuzioni delle quali furono fatti segno i cristiani nel Giappone al cominciare del secondo decennio del secolo XVII; lavoro che il 12 novembre del 1618 afferma d’ avere spedito a Roma da ben « tre anni », e che, per sua stessa testimonianza, fu subito dato « alla stampa ». E ignoto affatto ai bibliografi delle cose genovesi e ne anderebbe fatta ricerca. Massa di Lunigiana, 12 maggio 1891. (1) Soprani Raffaello, Li Scrittori della Liguria e particolarmente della maritima; in Genova, mdclxvi; p. 69. (2) Giustiniani Michele , Li Scrittori Liguri descritti; in Roma mdclxvii , pp. 159-160. - III.”10 et Eccell.”'0 Sig.re Pax Ch.ri Fra le lettere che d’Europa gionsero questo anno al Giapone, ve ne fù una di V. Ecc.a di 26 di Decembre di 615, per il P.re Mantis che nel tempo di Papa Gregorio xiij di f. m. andò à Roma per Imbasciatore del Rè di Bungo suo zio a baciare i Piedi di sua S.ta, il quale essendo passato a miglore vita sei anno sono, il P.re Visitatore di questa Provili.3 ha ordinato a me come paesano, ben che indegno, di V. Ecc.a che gli risponda. Mi sono stupito non puoco della fresca memoria che V. Ecc.a ha conservato tanti anni in luogo cosi rimoto da queste ultime parti orientali d’ uno giovane torastiero, di paesi e costumi si diversi, che trattò solo puochi giorni in Genova, inditio certo della sua generosità, et nobiltà d’ animo, et della stima che ha di questa minima Compag.® di Giesù, per il che la ringratio in nome del nostro P.re superiore quanto più posso di tanta amorevolezza et cortesia. Il P.re Ito Mantio non gli mancando buoni partiti nel secolo conformi alla sua nobiltà, seppe scegliere la miglore et più sicura parte facendosi religioso nella nostra Compag.a et dopo alcuni anni essendo stato ordinato sacerdote, s’impiegò tutto nell’ aggiuto delli suoi naturali, et per essere molto osservante delle regole, e dotato di molta modestia, et humiltà congionta con la nobiltà, era da tutti riverito, et amato insieme, et erano le sue prediche di grande frutto; ma con le continue fatiche accompagnate dalla religiosa mortificatione, venne ad infiachire pianpiano, et havendolo i superiori fatto venire à questa città per dargli rimedio, finalmente il Sig.re che lo - 712 - vedeva già maturo gli volle dare il premio delle fatiche spese nel suo s.t0 serviggio, mostrandoci molto edificati con la patienza mostrata nella sua lunga malatia. Non posso lasciare con questa buona occasione di dare a V. Ecc.a brevemente ragguaglio di questi paesi. La persecutione che quattro anni fa cominciò contra li Christiani il Rè universale di queste isole (che morì due anni sono) destruendo tutte le chiese, et buttando tutti li predicatori dell’Evangelio fuora del Giapone, eccetto alcuni che vi restammo nascosti con evidente pericolo della vita, va continuando il Prencime suo figlo, che gli soccesse nel Regno et gli altri Regi particulari per dargli in ciò gusto, et i più constanti martyrizano varij modi, et pure nel presente anno (per tralasciare gli altri dei quali V. Ecc.a havrà già notitia per la relatione che 10 ne mandai a Roma tre anni fa, et si diede alla stampa) furno bruciati vivi cinque, et da trenta parte crocifissi, et parte gli fu taglata la testa, di modo che in puochi anni questa novella Chiesa ha dato buono numero di gloriosi Martyri, col quale abondante frutto raccolto dalle nostre continue fatiche, et sudori li diamo per beni impiegati, et andiamo per diverse parti animando quei restano in piedi, et procurando di ridurre i fiacchi che per timore sono caduti, ne lasciamo di predicare alli gentili con il debbito risguardo, delli quali pure in un anno ne habbiamo battezati più di duemila, sin a tanto che sia servito il Sig.re di farci partecipi di simile corona, et con essa ci paghi le fatiche sopportate nel s.t0 serviggio, overo ci conceda la p.a libertà per potere convertire tutti questi gentili. Io sono figlo d’ Ottavio Spinola che mori molti anni sono essendo io già religioso, nella Corte dell Imperatore Ridolfo di f. m., et partì (i) di Genova per queste parti alli 5 di Gennaro di 596 nelle galere del Viceré di Napoli il conte di Miranda, et mi reputo felice d’ essermi toccata la sorte di rimanere in questo tempo nel Giapone, nel quale mi può toccare qualche buona sorte di spargere 11 sangue per predicare la nostra s.ta fede. (1) Cioè partii. — 713 — Con questo fo fine chiedendo al S.re dia a V. Ecc.a molto abon-dante gratia, et il colmo della vera felicità. Di Nangasachi 12. di novembre di 1618. D. V. S. IH.™», et Eccell.ma Servo affettionatiss.0 in Chr0. + Carlo Spinola i.a Via. Il Prencipe di Massa. (A tergo ) Ainil.m0 et Ecc.m0 Sig.re, il Sig.re Alb.co Cybo Prencipe del Sacro Imperio, et di Massa. i.a Via. Dal Giapone. Genova. (E di mano d’Alberico) 12 Nov.e 1618. Da Nangasachi del Chiappone. Il Padre Carlo Spinola. Dupplicato della p.a lettera, ricevuta a 12 di nov." 1620. DUE DOCUMENTI RIGUARDANTI LE RELAZIONI DI GENOVA COL PORTOGALLO TRASCRITTI E PUBBLICATI DAL SOCIO PROSPERO PERAGALLO Atti Soc. Lig. St. Patria, Voi. XXIII, fase. 2.° I. Ratifica del trattato di pace stipulato il 25 ottobre 1370 dalla Signoria di Genova col re Fernando di Portogallo. I37I> *3 gennaio. [Archivio della « Torre do Tombo » in Lisbona, gaveta 18, mago 4.0, n. 23.] n nomine Domini, amen. Magnificus et potens dominus dominus Dominicus de Campofregoso, Dei gratia Ianuensium dux et populi defensor, in presentii, voluntate et consensu sui consilii duodecim ancianorum, et ipsum consilium et consiliarii dicti consilii in pre-sentia, auctoritate et decreto prefacti domini ducis, et quorum consiliariorum interfuit legitimus et sufficiens numerus, et quorum qui interfuerunt nomina sunt hec: Nicolaus Oberti notarius, prior, Fredericus de Pagana, Nicolaus Cicogna, Vesconte Malagamba de Arenzano, Nicolinus de Bavalo faber, Antonius Dragus, Obertus de Natino de Sexto, Amighetus de Viviano formaiarius, Leonardus de Rosio et Brancha de Framura peliparius, absolventes de infrascriptis ad balotollas albas et nigras, et fuerunt omnes balotolle invente albe numero undecim, et obtentum fuit ut infra, et in omnibus — ’jiS — observata forma regularum communis Ianue, nomine et vice communis Ianue, habentes notitiam et plenam scientiam de quodam instrumento pacis facte et firmate inter illustrissimum principem et dominum dominum Fernandum Dei gratia Portugalie et Algarbie regem, ex una ,■ et nobiles et discretos viros Ioannem Pezagnum et Nicolaum de Goarcho, cives, ambaxiatores, et sindicos communis Ianue, ex altera parte, scripto manu Valaschi Ioannis tabellionis generalis anno a nativitate Domini millesimo trecentesimo septuagesimo, indictione octava, die vigesima quinta mensis octobris, et sigillo prefacti domini regis in cera rubea et cordula serica ver-milia pendenti munito ; et cuius quidem instrumenti tenor talis est : In nomine sancte et individue Trinitatis, patris et filii et spiritus sancti, et ad laudem, gloriam et honorem omnipotentis Dei, beate Marie semper virginis, beatorum Ioannis batiste et evangeliste, beatorum apostolorum Petri et Pauli, beatorum Vincentii et Laurentii patronorum civitatum Ulixbone et Ianue, et beati Georgii vexiiiferi communis Ianue, et totius curie celestis, amen; et ad bonum statum et pacificum, exaltationem et gloriam illustrissimi et potentissimi domini domini Fernandi Dei gratia regis Portugalie et Algarbii, et magnifici domini ducis et communis et civitatis ianuensis, et omnium civium ipsius, et totius Christianitatis, amen. Cum per illustrissimum predictum dominum regem, officiales et subditos suos capte et arrestate fuissent quedam cocha sive carracha, quam patronizabat Gabriel Ricius, et quedam alia navis, que dicitur polayna, quam patronizabat Angelus de Marinis, cum eorum mercibus, argento, sarciis et aliis diversis arnisiis et rebus, et quedam alia vasa cum certis mercibus ; et dicta occasione dictus magnificus dominus dux Ianuensium et commune Ianue transmisserunt ad dictum illustrissimum dominum regem nobiles et discretos viros dominos Ioannem Pezagnum et Nicolaum de Goarcho cives ianuenses, ambaxiatores, sindicos et nuncios speciales cum litteris credentie, et etiam vigore publici instrumenti sindicatus et procurationis eorum scripti manu Antonii Panizarii notarii et communis Ianue cancellarii, anno a nativitate Domini millesimo trecentesimo septuagesimo, die vigesima quinta iunii, cuius tenor talis est: — 719 — In nomine Domini, amen. Illustris et excelsus dominus dominus Gabriel Adurnus, Dei gratia dux Ianuensium et populi defensor, ac imperialis vicarius, et suum reverendum consilium duodecim ancia-norura, videlicet predictus magnificus dominus dux in presentia, consilio et voluntate dicti sui consilii ancianorum, et dictum consilium in presentia, auctoritate et decreto dicti domini ducis, in quo interfuit sufficiens et legitimus numeras ipsorum, et quorum qui interfuerunt de consilio nomina sunt hec : Angelus de Varisio faber, prior, Manuel de Iuliano, Simon Vignosus, Ioannes Octavianus, Gifredus de Benama, Oliverius Oliverii notarius, Antonius de Ventura lanerius, Iacobus de Cambiaxio de Pulcifera et Antonius de Nuce bambaxiarius, omni iure, via, modo et forma quibus melius potuerunt, fecerunt et constituerunt eorum et communis Ianue ambaxiatores, sindicos et nuncios speciales, nobiles et discretos viros dominos Ioannem Pezagnum et Nicolaum de Goarcho, ad eundum et se conferendum ad presentiam serenissimi principis et domini domini regis Portugalie, et eidem recomendandum prefactos magnificum dominum duceni et suum consilium, et omnes cives et districtuales Ianue in universo et singulari; et ad petendum et requirendum ab ipso domino rege emendam et restitutionem rerum, mercium et bonorum ablatorum Ianuensibus et districtualibus pre-facti domini ducis et communis Ianue per ipsum dominum regem, seu officiales et subditos ipsius, tam in mari quam in terra, et specialiter coche patronizate per Gabrielem Ricium, et alterius coche Angeli de Marinis, et alterius navigii patronizati per Fran-ciscum Gonssales de Sibilia, quod tunc navigabat ad partes Barbarie, cuius navigii dimidia erat Conradi Burgari ianuensis, et bona in eo onerata omnia erant ianuensium mercatorum, et etiam quorumcumque aliorum navigiorum arrestatorum Ianuensium et districtua-lium, et rerum et mercium que erant onerate et imposite in dictis cochis et navigiis, et qualibet earumdem; et ad quitandum, liberandum et absolvendum prefactum illustrissimum dominum regem, officiales et subditos ipsius, de receptis et recuperatis tantum predictorum bonorum et rerum ablatarum et damnorum illatorum, et instrumenta perinde quitationis, confessionis et liberationis de receptis tantum faciendum, cum cautellis et solemnitatibus oppor- — 720 — tunis et necessariis; et habita restitutione predictorum, vel inde compositione et satisfatene facta; confirmandum cum dicto domino rege pacem * quam sepe dicti magnificus dominus dux et consilium et commune Ianue habent cum illa corona; et ad cau-tellam ad pacem de novo firmandum et componendum, sub illis pactis, modis et formis et conditionibus de quibus dictis ambaxia-toribus videbitur convenire; et demum ad omnia alia et singula faciendum que in predictis et circa predicta, occasione predictorum, fuerint necessaria et opportuna; dantes et concedentes dictis am-baxatoribus et sindicis in predictis et circa predicta plenum, largum, liberum et generale mandatum, cum plena, larga, libera et generali administratione; promittentes mihi notario et cancellario infrascripto, tamquam publice persone officio publico stipulanti et recipienti nomine et vice omnium et singulorum quorum interest, intererit vel interesse poterit in futurum, perpetuo habere et tenere ratum, gratum et firmum omne id et totum, quidquid et quantum per dictos ambaxatores et sindicos factum fuerit, gestum, seu etiam quomodolibet procuratum, sub ypotheca et obligatione bonorum dicti communis habitorum et habendorum. Actum Ianue, in palacio novo ducali, in terracia ubi consilia celebrantur, anno Domini millesimo trecentesimo septuagesimo, indictione septima secundum cursum ianuensem, die vigesima quinta iunii, post vesperas ; presentibus testibus Rafaele de Casanova et Ricobono de Bozollo, notariis et cancellariis suprascripti magnifici domini ducis, ad hec vocatis et rogatis. Et in testimonium premissorum prefacti magnificus dominus dux et consilium mandaverunt ad cautellam presens instrumentum sindicatus sigillo communis Ianue appensione muniri. Antonius Panizarius, notarius imperiali auctoritate et communis Ianue cancellarius, rogatus scripsi. Idcirco prefactus dominus rex illustris pro se, gentes et di-strictuales suos presentes et futuros ex una parte, et dicti sin-dici, ambaxatores et procuratores dicti domini ducis et communis Ianue, civium et districtualium Ianue presentium et futurorum, subiectorum et obedientium tantum, et non rebellium, foresta-torum, bannitorum - et non obedientium ex altera, ad infra- — J21 — scriptam pacem, quitationem, confessiones, transactiones et pacta perpetuo, Deo previo, duraturas, pervenerunt de predictis et infra-scriptis, et occasione eorum, ut infra ; renunciantes exceptioni presentium pacis, quitationis, confessionis, transationis et pactorum ut supra et infra non factorum et non initorum, sic ut supra et intra non geste, doli mali, et quia metus causa infactum, actioni, conditioni sine causa vel ex iniusta causa, et omni alii exceptioni et iuri, per quod contra predicta et infrascripta possunt veniri ; videlicet quia illustris dominus rex prefactus intendens magnificum dominum ducem ianuensem, commune Ianue, cives et districtuales predictos, tam presentes quam futuros, habere, tractare et tenere amorose et care, tamquam fideles, benevolos et devotos suos, promisit eisdem sindicis dare, restituere, solvere et satisfacere eisdem sindicis, nomine predicto, dictas carracham, navem, argentum, merces, arnisia, alia vasa, et mercimonia omnia accepta et capta per ipsum dominum regem et gentes suas, libere et ad voluntatem eorum, per modum infrascriptum et per tempora infrascripta. Primo quia, ut ipsi sindici confitentur habuisse, et eisdem, vel dictis patronis de voluntate eorum, dictus dominus rex dedit et restituit, vel per litteras ipsius mandavit restitui, dictis Gabrieli et Angelo ipsam carracham, navem et cocham polaynam, cum suis furnimentis .prout erant quando capte fuerunt. Item confitentur habuisse pro se et aliis de eorum voluntate., videlicet Rafaelem de Ponzolla et Chilicum de Auria, quantitates pannorum infrascriptorum et rerum, videlicet: de Bovais pecias decem et octo; item de Verui pecias octuaginta novem; item pannorum de Cotri pecias centum sexa-ginta et novem ; item pannorum de Brugis pecias centum et septem ; item pannorum de Odonarda pecias duodecim ; item pannorum Valendarum integras et non integras, in summa pecias centum quadraginta et unam ; item de Ialono pecias triginta et septem ; item pannorum Bouai pecias decem, computatis staperronis ; item de Camuis pecias quinquaginta et novem ; item pannorum de Loves pecias septem ; item pannorum de Ipre parvorum pecias decem ; item de Frexono pecias tredecim ; item saye Irlande parvas pecias triginta quatuor, et magnas sive duplex pecias quinque; item lini tonellum unum et pipas duas; item tellarum de Spina — 722 — pecias viginti, ane duo millia centum sexaginta et novem; item de Noyrono tellarum pecias quatuor ; item Roce balas decem ; item quinquinos et lecicias numero centum viginti tres ; item pannorum de tafetà vergatorum, et cendadinorum vergatorum et non vergatorum pecias viginti septem, salvo semper iure recti car-culi. Item idem dominus rex promisit eisdem sindicis dare et solvere, et de voluntate eorum, Rafaeli de Ponzolla et Chilico de Auria, et cuilibet eorum in solidum semel tantum, libras centum decem et octo millium sexcentas quadraginta quatuor et soldos tredecim de Ulixbona, pro valore et extimatione marcharum argenti mille trecentarum nonaginta et duo, unciarum quatuor et quarte unius de Ulixbona, ad rationem de libris octuaginta quinque et quatuor soldos pro quolibet marcho, de quibus et pro quibus dicti sindici habuerunt et habent omni die laborativo libras quinque millia de Ulixbona, ut ipse dominus rex mandavit a cecha sua eisdem solvi usque ad complementum quantitatis predicte, sive dictis Rafaeli et Chilico. Item pro duodecim taciis argenti et colhariis duobus Ga-brielis Ricii, libras prout ascendent; salvo semper iure recti carculi. Item promisit eisdem, videlicet predictis Rafaeli et Chilico, restituere, dare et solvere de ulibxonensi [moneta?] libras infrascriptas, pro extimatione et valore pannorum infrascriptorum, de quibus ipse partes sunt concordes, ad rationem pretiorum infrascriptorum, videlicet: pro peciis sexcentis viginti quinque pannorum de Bouai, pro libris centum sexaginta pro qualibet pecia; item pro peciis de Virui quatuorcentum quadraginta sexta, pro libris trecentisima pro pecia ; item pro peciis centum et septem de Tornai, pro libris ducentis octuaginta pro pecia ; item pro peciis de Malignes triginta et sex, pro libris quingentis pro pecia; item dei Iugis pro peciis triginta, pro libris trecentis octuaginta pro pecia; item pro peciis centum nonaginta sex de Valencinis, pro libris centum viginti quinque pro pecia; item pro pannorum de Tornai, pro peciis centum quadraginta novem, pro libris centum nonaginta pro pecia; item pro pannis de Cainune, pro peciis triginta duo, pro libris centum sexaginta pro pecia ; item pro pannis de Ialono, pro peciis triginta una, pro libris ducentis quadraginta pro pecia; item pro Ipre magne, pro peciis tredecim, pro libris sexcentis et decem pro pecia; item pro pannis — 723 — de Odonarda, pro pecia una, pro libris ducentum quadraginta; item pro pannis de Loves, pro peciis quadraginta novem, pro libris ducentis quadraginta; item pro pannis de Guarence, pro pecia una vergati, pro libris quatuorcentis ; item pro says Irlandis parvis, peciis sexcentis et undecim, et magnis quadraginta quinque, que faciunt unam duas, summa pecie septemcentas unam, pro libris quadraginta pro pecia parva; item pro telis de Noyrono pro peciis sex pro libris centum pro pecia: item pro telis de Spina, pro peciis quinque, ane sexcentum tredecim, pro libris centum et duodecim pro pecia; item pro velutis, pro peciis quatuor duplicibus, que sunt octo, pro libris ducentis quinquaginta pro qualibet pecia simplici ; item pro pannis sete, cendadinis, taffetà et bodachinis et auri, pro peciis decem et septem et dimidia, pro libris ducentis pro qualibet pecia, una pecia cum altera computata; item pro rami cantaria nonagintaquinque, robe duo et dimidium ad cantarium ulix-bonensem, pro libris centum et octo pro quolibet cantario; item pro bernis mille trecentis et viginti, in quibus erant aliqui magni, ad rationem de soldis viginti, uno cum alio computato; item pro picis barrilibus centum decem et octo, in quibus erant triginta magne, ad rationem de libris quatuordecim et soldis decem pro quolibet barrili; item pro conis sive maiestatibus libras mille, vel ipsas maiestates; que omnia erant in dicta carracha et polayna; et hoc salvo semper iure recti carculi. Item idem dominus rex promisit et convenit eisdem sindicis dare et solvere predictis, vel alteri eorum, semel tantum, pro pannis infrascriptis et rebus de quibus erant in differentia ad rationem pretiorum supradictorum pannorum, de quibus supra fit mentio, pecias infrascriptas, videlicet : pro pannis de Bouay pecie viginti quatuor; item de Coutroai pecie undecim; item de Ingis pecie triginta quatuor; item de Verui pecie quatuor; item de Odonarda pecias duas; item de Camune pecie decem; item de Ialono pecie quatuor; item de Loves pecia una ; item pannorum Ipre magne pecie quatuor ; item de Malignes pecie una et dimidia; item de Borcella roseas paonacias de grana pecia una, libras mille ; item Irlande parve pecie quinquaginta quinque; item bernis ducentis triginta quinque; item picis barrilia triginta. Item pro peciis undecim de tapetis, libras trecentas. Item — 724 — pro tellarum framengarutn ane triginta sex, libras centum. Item vasorum de Valencia, iarras decem et novem, libras octocentas. Item pro rami centum octo de Frandria, libras septemcentas sexaginta; salvo semper iure recti carculi. Item pro falchonis tribus et asturo uno, et cum suis avariis, secundum iuramentum duorum Framen-gorum in Ulisbona iurandorum, vel aliorum qui scient de hoc, et in arbitrio infrascriptorum Ioannis, Iohannis Antonii, Alfonsi et Martini. Item pro arnixiis, armis et utensilibus dictorum Gabrielis et Angeli patronorum et aliorum mercatorum dictarum coche et carrache, marmaiiorum et aliorum officialium ipsarum et cuiuslibet earum, sive pro resta eorum, in arbitrio Ioannis, Ioannis Antonii, Martini, Alfonsi et Martini Taveera, sive maioris partis eorum, quibus per presens instrumentum mandatur quod illud arbitrentur brevius quod poterunt et citius in rectis conscientiis eorum, habitis informatione de predictis, iuramento et aliis que habere poterunt, de quibus ipsi asserebant habere debere valorem fiorenorum auri tria millia qua-tuorcentas quadraginta sex vel circa; quas quantitates infrascriptas dare debet et promisit idem dominus rex dictis sindicis, vel predictis Rafaeli et Chilicho, vel alteri eorum ut supra, de voluntate ipsorum sindicorutn, usque ad integram solutionem ipsorum per tempora infrascripta, videlicet, omni mense futuro libras quinquaginta millia ulixbonenses. Item promisit et convenit eisdem, vel predictis ut supra, restituere eisdem, dictis nominibus, iarras ducentas viginti quinque olei de Sybilia, et lache capsias quatuor, et medietatem unius vasselli Conradi de Burgaro, quod patronizabat Franciscus Gonzalli de Sybilia, super quo erant dicte res Ioannis Grilli et Antonii de Pina et sociorum, sive pro extimatione ipsorum vasselli et rerum, libras tredecim millia. Item pro pondo uno Iacche Philipi de Grimaldis carco supra uno vaxello Castellanorum naulizato per Placentinos, capsiam unam lache robe octo libre quatuordecim, sive pro extimatione ipsorum, libras duo millia. Item pro telarum de Spina ballis tribus, pecie quadraginta novem, valent tria millia quadringenta triginta duo, et pro pecia una Valentina Ioannis de Rodonascho pro velis, captis in rio Sibilie super quadam cocha 'de Framengis patronizata per Arnaldum Coshastum, sive pro extimatione earum, libras quinque millia ducentas quinqua- — 725 — ginta; et pro argento dicti Ioannis, marche triginta novem, uncia una et dimidia argenti de Frandria, libras duo millia sexcentas; et pro ferro Ioannis Beimonde et sociorum, quantaria centum viginti quinque in virgis centum quinquaginta tribus, libras duo millia quingentas in dicta cocha; salvo semper iure recti carculi. Item similiter idem dominus rex promisit restituere eisdem, vel predictis ut supra, vel mercatoribus infrascriptis, tres quartas partes cuiusdam navilii nuper accepti in rio Sibilie per dominum armirantum dicti domini regis, quod erat Ioannis Larcarii, et raubam et merces Ianuensium que erant in dicto navilio et in duobus aliis naviliis Castellanorum, que merces et rauba sunt Iuliani de Romeo, Ra-faslis Imperialis, Lucl'iini et Ioannis de Mari, Benedicti Conte, Nicolai Dentuti, Manfredi de Marinis et aliorum Ianuensium; et omnia alia navilia que usque hodie capta invenirentur, et bona, merces et res quorumcumque Ianuensium, et quecumque alia que in futurum, quod absit, capi seu arrestari contigerit per pre-dictum dominum regem vel gentes suas, seu mandato eorum, vel valorem eorum, dummodo non sint cives et habitatores terrarum quas modo detinet domnus Enricus (i); item dummodo non sint ad suum soldum seu stipendium; item dummodo non dent auxilium, consilium vel favorem eidein domno Enrico, videlicet in portando eidem arma seu alia in favorem guerre modo vigentis inter eos; et ultra ex causis predictis et pro infrascriptis deinceps ullo tempore non capere, nec arrestare, nec detinere per se nec gentes suas, nec officiales suos, in here vel personis, vel aliquo modo, in aliqua parte mundi, aliquos Ianuenses seu districtuales dicti domini ducis et communis Ianue, nec impedienti consentire, nec dare auxilium, consilium vel favorem eisdem, nec dantes et facientes receptare in aliqua parte sui regni et districtus, immo de talibus facere ius et rationem dictis Ianuensibus. Acto quod si casus acciderit quod dictus dominus rex daret de quolibet marcho argenti civibus suis vel aliis personis ultra de libris octuaginta et quinque et soldis quatuor pro quolibet marcho argenti, quod pro racta et ad eamdem (i) Enrico II il magnifico, re di Castiglia, coi quale Ferdinando era in guerra, contendendogli il dritto al regno. — 7 26 — rationem augmenti quod fieret dicta solutio, pro eo quod restaret fieri debeat pro illo pluri et toties quoties mutaretur: et e converso, si minus dictus dominus rex daret, quia melioraret suam monetam, quod ei liceat quod tunc et dicto casu solutio de eo quod restaret fieri debeat dictis ambaxatoribus, sive aliis pro eis, in auro duplice de liga, ad rationem de libris sexcentis quinquaginta pro quolibet marcilo , prout modo valet. Item promisit et convenit eisdem sindicis dictis nominibus, nomine communis predicti, de cetero tenere bonam pacem et bonum concordium cum Ianuensibus dicti domini ducis et communis Ianue, eidem subditis et obedientibus ut supra, et eos receptare, tenere, salvare et custodire in here et personis in toto districtu suo quod habet vel de cetero eum habere contingeret, salvos et securos, et ipsos non offendere nec aggirare, sed manutenere toto suo posse, nec impositionem seu exactionem eisdem facere nec fieri permittere: et ultra approbat, ratificat et confirmat gratias, privilegia, promissiones et concessiones et consuetudines eo modo in quantum per eum fuit eisdem concessum. Versa vice, dicti sindici, ambaxatores, et procuratores predicti, acceptantes predicta ut supra, ex nunc prout ex tunc habitis et receptis, predictis ut supra satisfactis, et non aliter, antea, ultra vel in pluri, quitaverunt, liberaverunt et absolverunt ipsum dominum regem, officiales, gentes et subditos suos de predictis ut supra receptis et recipiendis ut supra, per acceptilationem et aquilianam stipulationem solemniter subsecutas : facientes eidem inde finem, quitationem, liberationem, liberam absolutionem et pactum de ulterius non petendo in forma predicta et in casu pre-dicto, et non aliter, nec ante vel in pluri ut supra; et promiserunt eidem domino regi quod de supradictis receptis et recipiendis, ipsis receptis ut supra, per dictum dominum ducem, commune Ianue, mercatores ianuenses quorum erant, nec aliquas alias personas, corpus, collegium et universitatem, nulla in perpetuum fiet lis vel questio in iudicio vel extra, de iure vel de facto; et ultra, ex causis predictis, promiserunt eidem domino regi ipsum dominum ducem et commune Ianue, ex causa presentis pacis et compositionis, salvare et custodire res ipsius domini regis in districtu Ianue et ubique, gentes et mercatores suos suo posse, et eos tractare in — 727 — omnibus et per omnia non aggravare, prout ipse dominus rex promisit facere Ianuensibus, ut supra, in regno suo et districtu presenti et futuro; et quod non dabunt auxilium, consilium vel lavorem dicto domino Enrico cum personis, armis, remis, galeis seu aliis quibuscumque navigiis ad soldum, nec alio modo contra guerram presentem (i), nec aliter in favorem dicti domini Enrici contra ipsum dominum regem, ita quod in predictis equalitas sit et fiat unicuique eorum. Item acto quod dicti sindici teneantur et debeant facere et curare ita et taliter quod dominus dux et commune Ianue legitime et solemniter approbabunt et confirmabunt presens instrumentum, et omnia et singula ut supra et infra promissa et conventa; et quod interim dicti Ioannes et Nicolaus, et quilibet eorum in solidum, sint perpetuo obligati quousque ita fiet. Acto etiam in presenti instrumento, in principio, medio et fine ipsius, quod si aliqua dictarum partium, quod absit, contrafa-ceret predictis vel alicui predictorum, vel ut supra non observaret in aliquo, quod presens instrumentum et omnia supradicta et infrascripta ipso facto et ipso iure sint cassa, irrita et nullius valoris, quantum in favorem et pro favore partis observantis et in suo arbitrio, et non quoad partem non observantem, imo ipse non observans remaneat obligatus, sicut est et esse debet ut supra. Que omnia et singula suprascripta et infrascripta ipse partes dictis nominibus sibi ad invicem, una alteri et e converso, promiserunt et convenerunt attendere, complere et observare, et non contrafacere vel venire de iure vel de facto, etiam si de iure venire possent, sub pena marcharum decem millium argenti boni et puri ad mar-chum ulixbonensem , solemniter taxata, stipulata et promissa pro damno et interesse partis observantis, exigenda a parte non obser-vante totiens quotiens in aliquo contrafieret, vel ut supra non observaret; et que pena possit peti et exigi cum effectu et per (i) In occasione di questa guerra, siamo informati che D. Fernando « deitou ao mar huma esquadra de trinta ndos grossas, e vinte e oito galés todas por-tuguezas, com mais quatro galès de Genova, que tomou el rey a soldo a bum mercador Rainel Grimaldo, os quaes . . . haviào... de correr o mar de Se-vilha » — Cf. Monarchia Lusitana, par. Vili, liv. xxn, cap. xv, p. 108. — 728 — pactum a parte non observante per partem observantem, sicut instrumentum veri mutui. Qua pena commissa vel non soluta vel non exacta, firma nihilominus remaneant omnia et singula supradicta. Et proinde et ad sic observandum ipse partes, et que-libet earum inter se et ad invicem, et una alteri, obligaverunt et ypothecaverunt omnia bona eorum, videlicet dictus dominus rex sua et regni sui, et dicti sindici dicti domini ducis et communis Ianue presentia et futura. Acto etiam et expressim dicto quod pro predictis et omissione predictorum quelibet partium predictarum possint et valeant convenire in qualibet parte mundi, et sub quocumque iudice et magistratu ecclesiastico et seculari, ac si presens contractus ibi foret celebratus; renunciantes legi « si convenerit », digesti de iurisdictione omnium iudicum, et omni alii iuri. Iurantes etiam ad cautellam tam dictus dominus rex in animam suam, quam dicti sindici dictis nominibus in animabus dicti domini ducis et communis Ianue et suorum, in manibus reverendi in Christo patris et domini Martini episcopi infrascripti, per sancta Dei evangelia corporaliter tacta, strictius predicta omnia et singula attendere, complere et observare, et non contrafacere vel venire de iure vel de facto. De quibus omnibus tam dictus dominus rex, quam dicti sindici et ambaxatores, mandaverunt confici duo publica instrumenta unius et eiusdem tenoris; videlicet unum per me Ianotum Beffi-gnanum notarium et communis Ianue cancellarium, et aliud per Valascum Ioannis tabellionem et notarium publicum generalem in toto regno dicti domini regis. Acta fuerunt hec in villa San-taranensi dicti domini regis, in viridario domini comitis infrascripti, anno a nativitate Domini millesimo trecentesimo septuagesimo, indictione octava secundum cursum Ianue, die vicesima quinta mensis octobris, hora quasi completorii: presentibus testibus venerabile patre domno Martino, Dei et apostolice sedis gratia episcopo Eborensi (1), magnifico domno Ioanne comite de Barcel- (1) Martino Gii di Brito, l’inizio del cui vescovato è forse.da porre nel 1368, in cui mori il suo'predecessore Giovanni Gomes de Chaves. Cessò di vivere nel 1374. — Cf. P. Francisco da Fonseca, Evora gloriosa, Roma, 1728, pp. 283, 284. — 729 — l*s C1) j domino magistro Ioanne de Legibus, Alvaro Gunsalvi correctore, Ioanne Stephani, Stephano Philippi et pluribus aliis ad hec vocatis specialiter et rogatis. Habentes etiam notitiam omnium et singulorum contentorum in dicto instrumento dicte pacis, sponte et ex certa scientia, et non per errorem, ratificaverunt, approbaverunt et confirmaverunt, et ratificant, approbant et confirmant pacem predictam, et dictum instrumentum dicte pacis , et omnia et singula contenta in ipso. Promittentes dicto nomine mihi Rafaeli de Guascho notario et cancellario infrascripto, tamquam publice persone officio publico stipulanti et recipienti nomine et vice prefacti domini regis et subditorum suorum, nec non omnium et singulorum quorum interest, intererit vel interesse poterit, predictam ratificationem, approbationem et confirmationem, et omnia et singula supradicta, ratam et firmam , et rata et firma habere perpetuo et tenere, et ut supra attendere , complere et observare, et contra predicta vel aliquod predictorum non facere vel venire aliqua ratione, occasione vel causa que dici vel excogitari posset, sub ypotheca et obligatione bonorum dicti communis presentium et futurorum. Et de predictis prefacti dominus dux et consilium iusserunt per me dictum notarium et cancellarium infrascriptum confici debere presens publicum instrumentum, quod, ad cautellam et corroborationem omnium premissorum, sigillorum reverendi in Christo patris et domini domini archiepiscopi ianuensis (2), prefactorum domini ducis, et consilii ac communis Ianue mandaverunt appensione muniri. Actum Ianue, in palacio ducali communis Ianue, in aula nova dicti palacii, anno Dominice nativitatis millesimo trecentesimo septuagesimo primo, indictione octava secundum cursum Ianue, die quintadecima ianuarii, circa tertiam : presentibus testibus ad hec vocatis et rogatis Cristoforo Palavicino, Novello Lercario, Am- (1) Questo conte di Barcellos era D. Joào Affonso de Menezes, al quale il re infeudò la borgata di Ourem , con decreto del 5 gennaio 1370 datato da Santarem. — Cf. Monarchia Lusitana, par. Vili, liv. xxii, cap. xvm, p. 124. (2) Andrea Della Torre, domenicano, il quale tenne la sede dal 1368 al 1377. — 730 - brosio de Nigro, Bartholomeo de Vernacia notario, et Georgio de Clavaro notario et cancellario prefacti domini ducis et communis Ianue, et Conrado Mazurro notario, omnibus civibus Ianue. Segue un attestato di Pietro di Bargagli, notaio « imperiali auctoritate », che estrasse copia del suddetto instrumento, e per ordine del rev.m0 Andrea [Della Torre], arcivescovo di Genova, lo munì del sigillo arcivescovile. « Actum Ianue, ia archiepiscopali palacio de sancto Laurentio, in camera dicti domini archiepiscopi, anno a nativitate Domini millesimo trecentesimo septuagesimo primo, indictione octava secundum Ianue cursum, die trigesima mensis ianuarii, circa completorium : presentibus testibus discretis viris Constantino Portonario quondam Raphaelis, Bartholomeo de Castiliono et Oberto Folieta de Sexto notariis, civibus ianuensibus, ad premissa vocatis et rogatis. » Felixius de Garibaldo quondam Leonardi, imperiali auctoritate notarius et prefacti domini archiepiscopi scriba, predictis omnibus et singulis, dum sic agerentur per dictum dominum archiepiscopum, una cum prenominatis testibus presens fui signoque meo solito signavi, et in testimonium premissorum rogatus scripsi ». 731 — II. Reclamo della Signoria di Genova al re Emanuele di Portogallo, in favore di Nicolò De Camilla. 1510, 4 dicembre. [Arch. cit., gaveta 15, mago 21, n. 15.J Serenissime et excellentissime rex. Davanti a noi è comparso li parenti di Nicolao de Camilla nostro citadino, e ne hanno facto grande querela che navigando dicto Nicolao mercantilmente per la costa di Barberia con una nave biscaina patronizata per Ochioia Peres de Oriondo, con alcune sue mercantie de assai grande valore, è stato preso da barchie osia caravelle de Portoghesi subditi de vostra maiestà, con tute le sue mercantie, sotto salvoconducto de quel medesimo che l’a preso, come a noi è riferito ; e lui ancora è stato inprexionato. De la qual cosa assai se siamo maravigliati, considerato la antiqua e bona pace e amicicia che la natione nostra Genuese ha sempre havuto con vostra maiestà e soi serenissimi predecessori, quale pace per noi e nostri semper è stata ben guardata e conservata. E a questo tempo se debbe molto meglio guardare e conservare, per la bona fraternità, benivolentia e alliansa vigente inter el christianissimo re de Franza nostro segnor e vostra sacra maiestà. Al quale nostro re e segnore siamo certi che tale presa del dicto Nicolao, suo bono e fidele subiecto, sia stata molesta. E noi ancora non possiamo facilmente credere che la vostra regia maiestà, se havesse inteso el caso del dicto Nicolao e lo dicto salvoconducto, mai haveria comportato, per rasone de dieta pace e amicicia e per la sua summa iusticia, che dicto Nicolao a questo modo fusse male tractato. Per le quale cause preghiamo con instantia dieta vostra sacra maiestà che, per respecto de dieta pace e amicicia e salvoconducto, e perchè così richiede la iusticia, piaccia a vostra bona gratia comandare che el dicto Nicolao nostro citadino sia liberato e remesso a la sua vera libertà. E a lui sia restituito tutti li soi beni e mercadantie, presi contra la forma de - 732 - dicta pace e salvoconducto e contra ogni iusticia. E che el sia satisfacto de soi dani e interessi. La qual cosa meritiamo tanto più che a noi sia concessa, quanto che tutti li subditi della sacra maiestà vostra in tutti li nostri paesi e signorie sono tractati, no come amici, ma come propri fratelli, per la reverentia che portiamo a dieta vostra sacra maiestà. Quale concedendone questa nostra iusta petitione, lo haremo del certo gratissimo. Ma quando el nostro citadino non fusse restituito lui e tutti soi beni, ne bisogneria pensare qualche forma a la restauratione del suo grande dano, con la auctorità del prefato christianissimo re nostro segnore, la mente del quale è che li soi subditi, e li Genuesi in particolare, siano per tutto tractati da boni amici e non siano d’alcuno iniusta-mente offesi. In questo mezo a dieta vostra sacra maiestà offeriamo tutto quel che possiamo, e a quella se recommandiamo. Data Ianue, die quarta decembris, millesimo quingentesimo decimo. Serenissime maiestatis vestre cultores observantissimi Franciscus de Rochachouarda regius Ianuensium gubernator etc. (i) et consilium antianorum communitatis Ianue. Nicolaus (2). (1) Francesco di Rochechouard, signore di Champdenier, governatore di Genova pel re Luigi XII dall’ottobre 1508 al giugno 1512. (2) Nicolò di Brignale, cancelliere del comune. INDICE DEL VOLUME VENTESIMOTERZO DEGLI ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA (settimo della, seconda serie) Giacomo Bracelli e V Umanesimo dei Liguri al suo tempo, pel socio Carlo Braggio..........Pag. 5 Appendice: Bartolomeo Faxjo e le sue opere minori . . » 207 Documenti ...............» 259 La congiura del Fiesco e la corte di Toscana, documenti inediti pubblicati da Luigi Staff etti......» 299 Due Diari inediti dell’ assedio di Genova nel 1800, pubblicali da Giuseppe Roberti.........» 371 Diario scritto da Giacobbe Christiansson Gìàberg (testo svedese colla versione italiana a fronte).....» 391 Diario anonimo..............*> 4^3 Carlo di Savoia e i torbidi genovesi del i$o6-oy per Giuseppe Cai ligaris.............» 523 Documenti...............8 626 Lettera inedita del B. Carlo Spinola ad Alberigo 1 Cybo- Malasp'ma, principe di Massa, pel socio Giov. Sforma. » 701 Due documenti riguardanti le relazioni di Genova col Portogallo, trascritti e pubblicati dal socio Prospero Pera gallo ...............8 7r5